Nella guerra fredda dei tubi l’Ue si inchina al volere Usa

Intorno al gas si è scatenata una nuova guerra fredda, con l’Europa come campo di battaglia. Nel 2018 il 40% di tutto il gas importato veniva da Mosca, ma gli Stati Uniti vogliono indebolire questo predominio. Washington aspira ad esportare il proprio gas naturale liquefatto (Gnl) spingendo i partner europei a costruire un numero sempre crescente di terminali.

La Commissione europea, nel tentativo di ottenere un accordo di libero scambio con gli Usa, appoggia questo piano. Nel luglio 2018, dopo l’incontro tra l’ex presidente Jean-Claude Juncker e Donald Trump, le importazioni di Gnl statunitense nell’Ue sono schizzate a 17,2 miliardi di metri cubi nel 2019 dai soli 3,3 miliardi del 2018: +521% in un anno. Per “ospitare” il gas Usa, sono stati pianificati nuovi terminali in Croazia, Polonia, Lituania, Germania e Grecia anche se oggi l’Europa consuma solo il 20% del gas liquido disponibile. La cancelliera Angela Merkel si trova tra due fuochi e per non scontentare gli Usa – e portare avanti il gasdotto Nord Stream 2 che porterà il gas russo in Germania – ha promesso d’investire un miliardo per due terminal nuovi di Gnl. Gli Stati Uniti sostengono poi i nuovi gasdotti che devono competere con le esportazioni di gas russo, come quello meridionale, il Tap, che deve portare il gas dall’Azerbaijian all’Europa, e EastMed, che deve importare gas da Israele e Cipro. L’Italia ha un ruolo cruciale, in quanto entrambe le strade terminano nella penisola.

L’altro teatro bollente è nel Mediterraneo orientale. Negli ultimi dieci anni Israele e Cipro hanno trovato grandi riserve di gas offshore nelle loro Zone economiche esclusive (Zee). La Grecia si è aggiunta e a gennaio ha firmato l’accordo EastMed. Atene pensava che il gas avrebbe portato il sostegno internazionale nel riconoscimento dei suoi diritti nel Mediterraneo e Nicosia sperava che i profitti del gas avrebbero aiutato a negoziare da una posizione migliore con la Turchia per la riunificazione dell’isola, occupata dai militari turchi dal 1974. Ankara ha reagito in modo violento, rivendicando dei diritti nelle aree che Grecia, Cipro e Ue riconoscono come zone protette. In agosto le tensioni sono aumentate. Ankara ha inviato la nave di ricerca Oruc Reis nella Zee greca e quella di perforazione Yavuz nella Zee di Cipro. Un affronto per Atene che dagli anni ‘70 si sente minacciata dalla Turchia e così ha dispiegato navi da guerra contro la Oruc Reis scortata dalla marina turca. A quel punto è scesa in campo la Francia, che ha inviato la portaerei Charles de Gaulle. Il presidente Macron ha chiesto ai paesi Ue di stabilire “linee rosse” per le provocazioni turche. Parigi ha reagito pure in Libia, per fermare l’attivismo turco. La Francia è stata la prima a intervenire nel 2011 per rovesciare Muammar Gheddafi, dopo che il suo regime aveva rinnegato un accordo di esplorazione del gas con Parigi nel bacino del Nalut.

In questo scenario si sono aggiunti gli Usa. A settembre il segretario di Stato Mike Pompeo si è recato ad Atene e a Nicosia. Gli Stati Uniti sostengono East-Med e considerano la Grecia la porta d’accesso strategica per far entrare il gas liquido americano in Ue, evitando che la Mosca abbia il controllo totale del mercato del gas nei Balcani. Non è chiaro però se il gas sia la vera posta in gioco, visto che finora non è stato trovato nessun gas nelle zone contese, mentre ci sono dubbi sulla fattibilità finanziaria di EastMed. “I prezzi rimarranno bassi a lungo. Ciò rende difficile sviluppare e vendere il gas EastMed. È impossibile competere con le riserve di gas russo a basso costo”, dice Charles Ellinas, del Global Energy Center Atlantic Council. Bruxelles potrebbe fare da arbitro nel Mediterraneo, invece abbassa la testa e firma assegni. Il vicedirettore generale della DG Energia, Klaus-Dieter Borchardt ammette a Investigate-Europe, che Eastmed è inutile: “È sovradimensionato. Sarebbe meglio usare gli impianti regionali di Gnl piuttosto che portarlo in un lungo gasdotto verso la Grecia”. Ma se i governi lo vorranno, ammette “dovremo finanziarlo”.

Il grande imbroglio del gas: il fossile venduto come “verde”

Il più ambizioso è il progetto di Oygarden, in Norvegia: fino a 5 milioni di tonnellate di CO2 all’anno saranno infilate in un pozzo profondo 2.500 metri, vicino a Bergen e lì rinchiusi, nel profondo del mare, si spera per sempre. Lo Stato norvegese ha promesso 1,6 miliardi alle società Equinor, Shell, Total e a un’industria di cemento, che costruiranno il mega sito di stoccaggio del carbonio (Ccs).

Un po’ più a sud, in Germania, sulla foce dell’Elba, ci sarà un terminal di gas liquido. Porterà gas liquefatto e raffreddato dagli Stati Uniti o dal Qatar. Un sogno per il responsabile del distretto: “La Germania si renderà neutrale dal punto di vista climatico, il gas naturale è più pulito del petrolio”. Meno contenti sono gli abitanti del posto che vedranno presto costruire un carro armato alto come un grattacielo per accogliere le petroliere del gas liquido.

Poi ci sono i tubi del North-Stream 2 tra la Russia e la Germania; i gasdotti in costruzione in Romania per portare gas fossile dal Mar Nero e ridurre la dipendenza dalla Russia; il nuovo mega progetto East-Med, 1.870 km di tubi da Israele verso la Grecia e l’Europa, per i quali è quasi scoppiata una guerra quest’estate tra Grecia e Turchia. E naturalmente il Tap, ormai quasi finito, 3.500 km di tubi per portare 10 miliardi di metri cubi di gas dall’Azerbaijan in Europa (dalla Russia ne importiamo nell’Ue 200 miliardi all’anno).

Secondo i dati del Global Energy Monitor e dell’associazione industriale “Gas Infrastructure Europe”, che Investigate-Europe ha potuto elaborare, stiamo per spendere 104 miliardi di euro in nuovi progetti di gas fossile, per costruire 12.842 km di nuovi tubi, un aumento del 54% di impianti di gas liquido e del 22% di centrali a gas fossile classiche, con una spesa di 29 miliardi di euro. Ma perché tutto questo spreco di denaro pubblico per un’energia fossile, che libera nell’atmosfera il metano, 86 volte più nocivo del CO2? E poi, perché costruire nuovi impianti se, come ci dice Eurostat, l’Europa consuma solo la metà del gas che potrebbe già importare e addirittura il 20% del gas liquido a disposizione? Persino la Commissione europea, dal 2018 scrive che il consumo di gas naturale diminuirà del 21% entro il 2030 e addirittura del 85% nel 2050.

Che senso ha investire in nuovi impianti che hanno una durata di vita di almeno 20-25 anni, quando gli scienziati del clima ci dicono che dobbiamo smettere di estrarre energie fossili per evitare di riscaldare il pianeta di oltre 1,5 gradi? Mentre i nostri governi continuano a parlare di emergenza climatica, il gas viene presentato come l’energia del futuro che ci porterà verso un’economia a zero emissioni. La Commissione nel suo Green Deal ha scritto “abbiamo bisogno del gas” e il “gas può essere decarbonizzato”.

Lo scorso 12 febbraio l’Europarlamento ha approvato la nuova lista di Progetti di interesse comune (Pci) in mezzo alle polemiche. Tra i 149 progetti prioritari scelti per ricevere finanziamenti europei, ce n’erano ben 32 di gas naturale. Uno scandalo per le Ong del clima. Inevitabile per la Commissione europea che per due anni aveva negoziato quel pacchetto con gli Stati membri: se cadevano alcuni progetti, si ricominicava da zero. La commissaria all’Energia Kadri Simson promise allora agli eurodeputati che “la prossima lista non avrà progetti di gas naturale”.

Ora però il vice capo della Dg Energia, Klaus-Dieter Borchardt, ammette, in un’intervista a Investigate-Europe, che non sarà così: saranno forse costretti a inserire nuovi progetti di gas nella lista prevista per il 2021, perché “abbiamo degli impegni legali con le compagnie”. Borchardt spiega come la “Commissione europea sia nelle mani degli operatori del gas che decidono quali progetti finanziare”.

Quando nel 2009 si volle creare un mercato unico dell’energia per renderlo col tempo indipendente dalla Russia, i governi si affidarono alle grandi società dei gasdotti – l’italiana Snam, la spagnola Enagas, la francese Grtgas, la tedesca Thyssengas, l’olandese Gasunie – che posseggono tutti i dati sensibili sulla salute dei “tubi” e sulla sicurezza della fornitura. Venne creata EntsoG, una lobby presente a Bruxelles in un elegante palazzo del quartiere europeo, regolarmente iscritta nel registro delle lobby, il cui compito è, secondo il regolamento TEN-E, fornire scenari sulla domanda di gas in Europa e, in base a questi, proporre una lista di nuove infrastrutture.

Così da dieci anni va avanti a Bruxelles un conflitto d’interessi sancito per legge. Global Witness ha pubblicato in giugno un rapporto su EntsoG, calcolando che i suoi membri hanno ricevuto dal 2013 al 2019, il 75% dei fondi per gas naturale, circa 4 miliardi di euro. Spesso per progetti inutili. Lo ha ammesso lo stesso Borchardt: “East-Med per esempio è sovradimensionato. Posso capire che ci sia molto gas nel Mediterraneo, ma avrebbe più senso utilizzare gli impianti regionali di gas liquido, piuttosto che portare il gas naturale in un lungo gasdotto da Israele verso la Grecia”.

Anche Midcat, voluto da Francia e Spagna, si è rivelato un progetto inutile: doveva trasportare gas fossile dall’Africa in Francia, è rimasto nelle liste PCI per 6 anni, ricevendo 1,3 miliardi di fondi Ue, prima di venir ritirato l’anno scorso. I regolatori dei due Paesi hanno scritto: “MidCat non contribuisce in alcun modo alla sicurezza dell’approvvigionamento in Francia, i gasdotti esistenti tra Francia e Spagna non sono sovraccarichi”. Oggi restano 80 chilometri di tubi a un’ora di auto da Barcellona, abbandonati nella natura.

Frida Kieninger, di Food & Water Europe, partecipa da anni come osservatrice alle riunioni per i progetti prioritari del gas. La sua analisi è inquietante: “Il processo per arrivare a nuovi progetti è opaco, i governi e le parti interessate s’incontrano in ‘gruppi regionali’ coi promotori dei progetti, spesso seduti accanto ai rappresentanti del ministero. In alcuni incontri sembrava che un paese fosse rappresentato solo da una società del gas. Non ci sono verbali, non ci sono liste di partecipanti. Ed EntsoG si siede sempre sul podio accanto alla Commissione, rispondendo alla maggior parte delle domande e accompagnando tutte le fasi del processo”.

Ma non è tutto. EntsoG, forte del suo monopolio sui dati, negli ultimi dieci anni ha sempre previsto una domanda di gas molto superiore alla realtà del mercato. Così è anche per l’ultimo scenario, fino al 2050. Gli operatori del gas prevedono una diminuzione della domanda massimo del 41% nei prossimi trent’anni (contro l’85% della Commissione). E soprattutto promettono che quasi tutto il gas fossile diventerà verde, le emissioni nocive verranno catturate sotto terra, con il CCS, per produrre idrogeno, ma non forniscono dettagli su dove sarà “pulito” il gas (in Russia, in Azerbaijan?), quali sono i costi per queste operazioni e quanta la perdita di metano nell’atmosfera. Ci ha detto il dg di EntsoG, Jan Ingwersen: “I gasodotti ci saranno, e non è un costo marginale. Quindi, meglio usarli. Per il periodo di transizione, nei nostri scenari, troverete molti progetti di transizione con l’idrogeno”.

L’idrogeno è il nuovo obiettivo della lobby del gas a Bruxelles e la Commissione sta cadendo nella trappola. Consigliata dalla lobby industriale Hydrogen Europe, a cui l’esecutivo Ue ha chiesto di scrivere un draft della strategia per l’idrogeno, a luglio è stata inaugurata la “Clean Hydrogen Alliance”, una piattaforma di industrie che dovrà suggerire alla Ue quali infrastrutture costruire nei prossimi anni. La segreteria la assicura Hydrogen Europe e tra i membri ci sono solo industrie dell’oil&gas, nessuna Ong (eccetto la norvegese Bellona, favorevole al Ccs) e nessuna compagnia di energia rinnovabile, quando l’idrogeno verde dovrebbe venire solo dal surplus delle rinnovabili. L’idrogeno è il nuovo eldorado della lobby del gas: l’obiettivo è attingere ai soldi del Recovery Fund.

Roditori. Quando il topo spicca il gran volo dal balcone (e il mio viso è la rampa di lancio)

Ieri ho incontrato un topo, o meglio, non l’ho proprio incontrato, è lui che ha incontrato me. Appoggiata alla balaustra del mio terrazzo osservavo il giardino di sotto, quando all’improvviso, inseguito dal mio cane, un topo terrorizzato ha pensato bene di saltarmi in faccia. Sono rimasta per un attimo impietrita, ci ho messo un po’ a realizzare quello che stava accadendo.

Vi assicuro che non è piacevolissimo avere un topo che ti zompa in faccia, soprattutto quando vieni usata come rampa di lancio! L’animale ha appoggiato le sue zampette topesche sul mio viso e si è lanciato in uno svolazzo acrobatico nel giardino sottostante. Dopo il balzo si è fermato, si è voltato e mi ha guardata dritto negli occhi. Non capita spesso di essere osservati intensamente da un topo, solitamente i topi hanno un’altra vita, altri interessi, guardano altre tope. Perché si è messo a guardare proprio me? Allora ho capito, quel topo io lo conoscevo. Due anni fa lo avevo incontrato a via del Babbuino, tra un marciapiede e le ruote di una macchina in divieto di sosta.

Intorno alla bestia si era formato un capannello di persone urlanti e di tutte le provenienze: “ ’Na zoccola, a big mouse, pantegana, sorcio peloso, rattus norvegicus!”. Eh sì, era proprio lui. Evidentemente stufo del mondo di sotto, deluso dalla grande città e dalla cattiveria dei turisti, aveva deciso di raggiungermi fuori porta. È la vecchia storia del topo di città e del topo di campagna. “Però caro topo non è carino che mi salti in faccia usandomi come rampa di lancio!”, gli ho detto. Aveva uno sguardo timido, quasi spaventato, sembrava mi dicesse che era stato solo un gesto d’affetto, che in fondo mi voleva bene e per un momento si era sentito a casa. Beh, è stato un incontro tutto sommato originale. “Mi scusi dottor De Rattis, ma sto bene o è grave?” – “Tutto a posto”, mi ha risposto il dottore squittendo. Che strani incontri che faccio in questo periodo!

 

Best seller italiani dell’800: se li ricorda solo Gorbaciov

Il nome di Raffaello Giovagnoli (Roma,1838-1915), scrittore, giornalista, garibaldino della campagna del 1867 e deputato del Regno, oggi è sconosciuto agli italiani. Soltanto qualche storico e critico della letteratura ricorda che ebbe l’attenzione persino di Antonio Gramsci e che Spartaco, il suo racconto storico, uscito in appendice al giornale Fanfulla nel 1873-’74, fu tradotto e pubblicato con grande successo in mezzo mondo ancora nella seconda metà del Novecento, in particolare nella Cina comunista e nell’Unione Sovietica. Non solo: secondo una dichiarazione attribuita a Michail Gorbacëv, alla fine degli anni Ottanta ogni famiglia sovietica aveva in casa una copia del romanzo di Giovagnoli. Oggi, però, ex Urss forse a parte, lo Spartaco dello scrittore romano può essere considerato a pieno titolo un best seller dimenticato dell’Ottocento. Ovvero obliato, adesso, come altri libri in auge prima e dopo l’Unità d’Italia: La Pia de’ Tolomei di Bartolomeo Sestini, La battaglia di Benevento di Francesco Domenico Guerrazzi, l’Arnaldo da Brescia di Giovanni Battista Niccolini, L’ebreo di Verona del gesuita reazionario Antonio Bresciani, la famigerata Storia d’Italia di don Giovanni Bosco, I misteri del chiostro napoletano di Enrichetta Caracciolo e, per certi versi, la Storia di una capinera di Giovanni Verga, che tuttavia ebbe fama ulteriore, seppure con minore diffusione, nella prima parte del Novecento.

L’ultimo numero della rivista Nuova Corrente è dedicato ai Best seller dimenticati. L’Ottocento italiano: questo è il titolo del periodico semestrale edito da Interlinea e diretta dal critico letterario Stefano Verdino. Un filo rosso percorre quei libri del mondo di ieri. Un “collante risorgimentale e passionale assai vario”, e a volte su opposte parti della barricata, spiega Verdino. Il direttore di Nuova Corrente coniuga tra romanzi, drammi e poemi popolari “la valorizzazione identitaria dantesca”, con la Pia dei Tolomei, “l’attualizzazione politica della vicenda storica (secondo Guerrazzi, Niccolini e Giovagnoli), memorie e narrativa anticlericale (con Caracciolo e Verga) oltre a romanzi e scritti di contropiede clericale (da Bresciani a don Bosco)”.

Nei saggi degli studiosi che hanno riscoperto i testi si traccia “un quadro illuminante della circolazione libraria nell’Ottocento italiano”, tra l’analfabetismo della maggioranza della popolazione, la mancanza di un diritto d’autore (almeno fino alla legge Scialoja del 1865), le censure dei governi preunitari, la concorrenza degli editori stranieri che stampavano opere in italiano. Senza scordare uno spregiudicato e talvolta becero “marketing” editoriale, non troppo diverso da quello odierno di taluni editori, che induceva gli stampatori a operazioni davvero incredibili.

Per vendere il Robinson Crusoe di Daniel Defoe, per esempio, il tipografo napoletano Francesco Masi non esitò nel 1827 a dargli il sottotitolo assurdo di “Storia galante”. Masi, in ogni caso, non aveva fatto altro che dare alle stampe, senza cambiare una virgola, la medesima edizione veneziana di Domenico Occhi del 1731, che recava infatti in copertina la dicitura “Storia galante”. E nel 1888, nota la studiosa Maria Iolanda Palazzolo, l’editore romano Edoardo Perrino “per rendere appetibile una sua edizione della Vita Nova” di Dante, “ne cambia il titolo in Gli amori di Dante raccontati da lui medesimo”.

Eppure nell’Ottocento, a fronte di un mercato ovviamente di piccole dimensioni visto che erano pochi gli istruiti in Italia, (un romanzo vendeva in media mille copie, un po’ come ora…), si ebbero casi editoriali rilevanti. La tragedia Arnaldo da Brescia, uscita clandestinamente a Marsiglia nel 1843 e perseguitata dalla censura papalina e dei governi assolutisti, venne subito ristampata in tedesco e in inglese. E le memorie anticlericali della nobildonna napoletana Enrichetta Caracciolo, che era stato costretta a farsi suora, uscite nel 1864, vendettero circa 20 mila copie, come rammenta Silvia Tatti, e furono quindi tradotte dalla Germania agli Stati Uniti.

Il romanzone storico La battaglia di Benevento del Guerrazzi, poi, del 1827, osserva Dirk Vanden Berghe nel suo saggio, nonostante le difficoltà del lessico usato, si conquistò un pubblico di lettori popolari, che magari non capivano certe parole, ma si entusiasmavano per il senso della vicenda e per i personaggi. Pure la Storia di una capinera, opera certamente minore di Giovanni Verga, ottenne un bel successo. Alla fine del 1800 avrebbe venduto 20 mila copie, contro le cinquemila di un capolavoro assoluto della letteratura come I Malavoglia.

Il marketing dei titoli “taroccati” Prima del copyright, i mercanti dei libri falsificavano titoli celebri. Per vendere il “Robinson Crusoe” di Daniel Defoe, per esempio, il tipografo napoletano Francesco Masi nel 1827 gli diede il sottotitolo di “Storia galante”. L’editore romano Edoardo Perrino, nel 1888, trasforma la “Vita Nova” di Dante ne “Gli amori di Dante raccontati da lui medesimo”. I “Best seller dimenticati. L’Ottocento italiano”, sono il tema dell’ultimo numero della rivista “Nuova Corrente”

Best seller dimenticati. L’800 italiano – A cura di Stefano Verdino, Pagine: 144, Prezzo: 20,90, Editore: Interlinea

Storie (sur)reali “Il giornale chiude per sempre” “Anzi no, si torna in stampa” (cose che capitano)

È nato per essere un libro triste, Una storia al contrario: una giovane giornalista (che racconta in prima persona) è coinvolta nella nuova vita di un giornale famoso che era stato chiuso per sbaglio da un editore in fase di cambiamento (il partito-editore) ed è stato riaperto per un ritorno di fiducia e speranza (è raro ma queste cose succedono); il vivace “ritorno al futuro” soffia sul fuoco della naturale passione della protagonista per quello strano, bellissimo e infido lavoro (il giornalismo) per cui si era laureata.

Ed eccoci nel cuore di una narrazione (Una storia al contrario di Francesca De Sanctis, Giulio Perrone Editore) che dovrebbe essere il frammento di un racconto personale, intenso, ansioso, ma trasporta anche il peso e la sorpresa di pesanti eventi pubblici.

Vi accorgete subito che il libro non è solo la storia di Francesca, che condivide con i lettori l’allegria, l’apprensione, la tristezza di un viaggio dal meglio al quasi niente; è anche, e di più, un drammatico pezzo di storia del giornalismo italiano. Ho appena scritto questa frase su un libro (credo contenga molte scene belle, tese, efficaci, sulla fine dell’informazione e del mestiere di fare notizia) e mi accorgo di avere letto pagine giovani, scritte di corsa, su una vita che dovrebbe essere a testa in giù (vedi il titolo) e invece sono testimonianza rassicurante di una narratrice che è imbattibile protagonista della vita. Intorno a lei è in corso una battaglia senza speranza (a causa della visione ottusa di chi ha il potere) fra un’impresa che insegue l’ossessione di chiudere (e ci prova molte volte) e la lunga marcia di giornalisti appassionati e capaci.

Francesca ci fa vedere due cose che si trovano poco nei trattati di giornalismo.

Una è la forza e la dignità di un gruppo molto stretto di lavoratori del giornale, che rifiuta di sciogliersi e insiste nel pretendere un serio destino comune. E qui l’autrice mi dedica due brevi narrazioni (ero il direttore di quel giornale, dal primo governo Prodi-Veltroni al ritorno di Berlusconi), che rendono impropria questa mia recensione; ma, così tanto tempo dopo, le ho lette come un segno di amicizia che mi è caro. L’altro è la famiglia di Francesca che la De Sanctis, con mano felice, ci fa intravedere con tutto il suo affetto, senza celebrazioni, solo perché i lettori si rendano conto dell’universo contenuto nella parola “lavoro”.

C’è anche una malattia. E persino sulla malattia Francesca ha una mano svelta e leggera. Niente paura. Anzi c’è molta paura, a cui però non si contrappone la mitica speranza, ma il saper camminare, nonostante tutto, sull’asse d’equilibrio di una ragionevolezza misteriosamente colorata, come la farfalla, da un tono lieve che percorre il libro e lo rende amico del lettore.

 

Una storia al contrario – Francesca De Sanctis, Pagine: 167, Prezzo: 16,15, Editore: Perrone

Israele e Covid. Turismo, casse vuote: i pellegrini non arrivano

Mai come nel 2020 i turisti, specie quelli religiosi, hanno disertato Israele. Questa è una delle rare volte negli ultimi 1.600 anni in cui la Terra Santa è stata praticamente priva di pellegrini cristiani. Questa branca del turismo in Israele, che sembrava così stabile, sta silenziosamente collassando. In effetti, questo è particolarmente evidente perché nel 2019 ci sono stati numeri record di turisti religiosi che hanno affollato Israele e i siti dell’Autorità Palestinese. Oggi la Chiesa della Natività a Betlemme è vuota. La Chiesa del Santo Sepolcro nella Città Vecchia di Gerusalemme, che in genere vede file di centinaia di turisti in attesa di entrare, è desolata. Cafarnao e altri famosi siti biblici intorno al lago di Tiberiade sono quasi abbandonati.

L’ultima volta che il numero di pellegrini in visita in Terra Santa è diminuito in modo significativo è stato circa 150 anni fa, durante la guerra franco-prussiana, che ha scatenato uno sconvolgimento in Europa. Ora è abbastanza chiaro che i fedeli saranno fisicamente assenti dai siti e dalle attrazioni turistiche di Israele e dell’Autorità Palestinese per almeno un anno. Quella che all’inizio sembrava una situazione temporanea sta peggiorando ogni giorno mentre la pandemia continua a farsi sentire a livello locale e mondiale.

Il mercato del turismo cristiano pellegrino è sempre stato considerato il più stabile qui. Questi turisti sono arrivati anche nei periodi più difficili e violenti, quando altri non oserebbero visitare Israele. In passato hanno ignorato guerre ed epidemie, sconvolgimenti governativi e crisi economiche. Niente ha impedito ai fedeli di venire a pregare nella terra di Gesù. Nel 2019, quando Israele ha ospitato un totale record di 4,2 milioni di turisti, di cui un milione erano pellegrini cristiani, una percentuale del 25% che era rimasta stabile nel decennio precedente. Un milione di pellegrini porta circa 1,5 miliardi di dollari allo Stato e alle imprese turistiche, in base alla valutazione che ogni visitatore spende circa 1.500 dollari durante un viaggio che dura una settimana. Ecco, quest’anno tutto questo reddito è semplicemente svanito nel nulla.

 

Crescere talenti. Le migliori scuole-calcio? Ajax, Benfica, Real. E in Italia… il Crotone

Che il Covid stia tenendo in scacco il calcio italiano e che il problema sia diventato oggi il corretto uso delle “bolle” sanitarie dopo il manifestarsi di uno o più contagi è sotto gli occhi di tutti. Speriamo in bene, naturalmente.

Dopodiché, ammesso e non concesso che l’emergenza sanitaria diventi presto un lontano ricordo, la domanda è: ma in Figc e al Settore Tecnico di Coverciano hanno una vaga idea delle miserevoli condizioni in cui versa il nostro movimento? Hanno mai provato a dare un’occhiata agli studi compiuti dal Cies, l’osservatorio del calcio mondiale con sede a Neuchatel in Svizzera? Beh, forse sarebbe il caso che lo facessero.

In data 20 aprile 2020 il Cies ha reso noti i risultati di uno studio compiuto sulla bontà delle scuole calcio in tutto il mondo stilando una classifica dei Paesi che nel 2019 hanno allevato ed esportato più giocatori oltre confine. Ebbene, detto che a stravincere è il Brasile con 1600 calciatori mandati a giocare ovunque (il 74,6 % in campionati di prima divisione), limitandoci al confronto con i 4 Paesi che compongono, con l’Italia, la top five del calcio europeo troviamo la Francia 2ª con 1027 giocatori, l’Inghilterra 4ª con 565, la Spagna 5ª con 559 e la Germania 7ª con 480. Per trovare l’Italia, il Paese che fino a vent’anni fa era una culla di talenti e dove i Cabrini e gli Schillaci, i Totti e i Del Piero, i Maldini e i Bergomi, i Baggio e gli Zola, i Nesta e i Gattuso spuntavano come funghi (e con loro una miriade di buoni e ottimi giocatori), occorre scendere al 18° posto alle spalle anche di Serbia (6ª), Colombia (8ª), Nigeria (10ª), Ghana (14°), Ucraina (16ª) e persino Senegal (17°). L’Italia ha esportato la miseria di 230 giocatori e cioè 1/5 della Francia, 2/5 dell’Inghilterra e meno della metà di Spagna e Germania. Per la cronaca: le tre nazioni presenti sul podio, Brasile, Francia e Argentina, distribuiscono da sole quasi un quarto dei giocatori (il 22,5%); la Nigeria è il più importante esportatore africano (399 giocatori), il Giappone asiatico (161).

Il Cies ha poi circoscritto la sua analisi ai 5 “top campionati” europei, e cioè Premier League, Liga, Bundesliga, Serie A e Ligue 1 dov’è concentrata la crème de la crème del calcio mondiale, per stilare la classifica dei club che più hanno contribuito ad allevare e “produrre” i calciatori presenti oggi nei 5 più prestigiosi tornei. Ebbene: detto che il podio dei migliori vivai è formato da Ajax (22 giocatori), Benfica (21) e Salisburgo (20), con i vivai di Real Madrid e Barcellona ben piazzati al 4° posto (17 prodotti) e al 13° (11), e annotato che anche club sudamericani come il Boca (15°), il River Plate (16°) e l’Estudiantes (20°) sono presenti con 9, 8 e 7 calciatori cresciuti in casa, per trovare i primi club italiani dobbiamo scendere al 33° posto dove troviamo ex aequo, tenetevi forte, Crotone e Salernitana con 6 giocatori. Ancora, scendendo e scendendo, a sventolare il tricolore troviamo Delfino Pescara e Avellino con 5 giocatori e poi Brescia e Spezia con 4.

Vi chiederete: e Juventus, Inter, Milan, Roma, Lazio, Napoli, Atalanta? Non pervenuti. In compenso troverete Pro Vercelli, Piacenza, Virtus Lanciano, Trapani e altri piccoli club a quota 2, Lumezzane, Pizzighettone, Gozzano, Gubbio e altri ancora a quota 1. Insomma: se i docenti dell’università di Coverciano sono all’ascolto, battano un colpo. È urgente. Grazie.

 

Sulle orme di Falcone “Addio Gabriele”. La speranza antimafia si spegne a 29 anni

La corsa di Gabriele è finita. Una corsa vera. Nella vita, per la vita, contro la vita. Da quando nel 2016, a 25 anni, gli era stato diagnosticato un tumore quasi impossibile da curare. Gabriele apparteneva alla generazione dei ragazzi palermitani nati negli anni delle stragi.

Cresciuto nel mito dei due giudici, nel clima di rivolta di una città bombardata e insanguinata, non smetteva di chiedersi perché tutto fosse accaduto proprio nella sua città. E voleva scrivere per Palermo un destino diverso. Studiando, partecipando, discutendo, non voltando mai la testa dall’altra parte. Per questo dopo il diploma si era iscritto a Giurisprudenza, all’orizzonte il sogno di diventare anche lui, Gabriele Minì, giudice come i suoi due eroi. Aveva fatto la tesi con il professor Vincenzo Militello, figura coerente di giurista antimafioso. Poi si era guardato intorno per capire quale potesse essere la sua strada. Primo traguardo vincere il concorso di avvocato, prendere il titolo del padre, che della vita e dei misteri palermitani aveva cercato di spiegargli tutto. Quando seppe che all’Università degli Studi di Milano era nato un dottorato in Studi sulla criminalità organizzata presentò la sua candidatura, venendo selezionato.

Alto, dinoccolato, sorridente, una simpatica via di mezzo tra Gigi Proietti e D’Artagnan, rabdomante di cultura nella Milano cosmopolita, custodì gelosamente il cordone ombelicale che lo teneva stretto alla sua terra, alla famiglia, agli amici. Che non sostituì ma a cui aggiunse quelli che si fece rapidamente nel dottorato. Gentile, garbato, appariva perfino spagnolesco, salvo scoprire che era semplicemente molto educato e rispettoso. A nessuno parlò del suo male. Non agli amici, per non creare in loro imbarazzi di sorta. Non ai docenti, perché i giudizi non fossero viziati dalla compassione. Sapete quelli che si fingono malanni per spuntare agli esami un di più di comprensione, magari esibendo falsi certificati medici? Ecco, l’esatto contrario. Gabriele si sarebbe buttato nel fuoco piuttosto. Non si volle negare nulla nella sua scorribanda per la vita, perché fosse la più bella possibile.

Conquistò i compagni e le compagne, da seduttore nato, spesso involontario. E chissà se contava qualcosa quella divertente erre moscia. Ne invitò diversi nella sua ospitalissima casa palermitana. Si appassionò ai nuovi libri, alle conferenze, ai seminari. Seguiva i docenti del dottorato anche in altre università, voleva vedere e sentire. E ovunque ci teneva a portare e confrontare i suoi ideali di giovane antimafioso. Spiegò più volte che il suo sogno era fare il magistrato, e devo dire che in quest’epoca un magistrato come lui sarebbe stato oro. Prese anche una borsa alla Fondazione Falcone e questo fu per lui un punto d’onore: vincerla nella sua città, legata a quel nome… Si gettò su una tesi di dottorato sulla mafia dei Nebrodi, le truffe all’Unione Europea.

Poche settimane fa la mamma, la signora Gabriella, mi mandò un messaggio: voleva parlarmi del figlio. Aveva deciso di rompere il patto del silenzio e raccontarmi quel che stava accadendo. Dopo un’ultima estate a sfidare il destino, Gabriele non ce la faceva più a uscire di casa. Il tumore lo stava schiacciando. Poche parole incredule con alcuni docenti, la corsa per aiutarlo a prendere in ogni caso il titolo. La sua corsa è finita prima.

Se dovessi raccontare il dolore dei suoi compagni non ci riuscirei, avendo a che fare con il cosmo più che con la morte. Ho solo provato la consolazione di vedere che una comunità scientifica sa essere (a volte) prima di tutto una comunità umana. Perché ho parlato di lui in questa rubrica? Per le indimenticabili parole della madre: spero che chi ha incontrato la sua storia (palermitana, italiana) ne esca un po’ diverso. E noi abbiamo tutti bisogno di essere un po’ diversi.

 

Covid, restiamo umani. Pazienti dimenticati, visite negate. “Mai usciti dalla prima ondata”

 

Morire di quarantena: 87 anni, negativo, se ne va senza la moglie

Cara Selvaggia, sono assistente sociale in un piccolo comune, vicino Verona. Seguo gli anziani e vorrei mostrarle un’altra faccia dell’emergenza Covid, raccontando una vicenda davvero triste, che mi ha toccato molto dal punto di vista professionale e soprattutto umano. Una coppia di anziani, lui 80 anni, lei 87. Insieme da una vita, niente figli, niente nipoti, niente parenti prossimi. Si sono arrangiati finché hanno potuto, poi li ho affiancati per consentire loro una vita dignitosa nella propria casa. Fino a quando bussa la bestia nera, il Covid. Loro due terrorizzati, barricati in casa. Certo non lasciati soli, ma comunque soli. Con l’isolamento arriva anche la demenza senile di lui, prepotente, velocissima. Spaventosa per lei, che non sa più a un certo punto come gestire il marito, che ogni tre per due si mette in testa di fare cose assurde e lei non riesce a dissuaderlo; lui si mette in pericolo e cade spesso. Di notte non si dorme. Arriva settembre e lei è esausta, nonostante gli aiuti domiciliari. Serve un periodo di sollievo in una struttura protetta (in questo caso è una casa di riposo), per consentire a lei di recuperare le forze e a lui di essere curato. Arriva il giorno del ricovero (dopo il tampone negativo): li accompagna la nostra ragazza di Servizio civile. L’accoglienza è traumatica, prendono lui e lo portano subito nella sua stanza. Non li fanno nemmeno salutare. Lei torna a casa, spaesata, inizia subito a telefonare in struttura per sapere come sta il marito, se ha mangiato, se ha dormito. Non hanno cellulari e gli operatori non glielo passano al telefono. A lui fanno un altro tampone appena arrivato, anche questo negativo: ma deve stare in isolamento, ancora, per 15 giorni. A tratti è lucido, ma in generale non sa bene dove si trova. Non può vedere nessuno. Lei insiste (e anche io) perché glielo facciano vedere anche per 5 minuti, da dietro un vetro, per mostrargli che sua moglie c’è ancora, non l’ha abbandonato. Impossibile, prima visita consentita dopo 3 settimane (15 giorni più il tempo dell’esito del 3º tampone). Ecco, lui non ci è mai arrivato a rivederla: dopo 13 giorni di “prigionia” si è semplicemente lasciato andare. Senza avere nessuna patologia tale da causare un decesso. Lo comunicano a lei quella notte alle 2, era sola. E disperata. È stato protetto eccellentemente dal Covid, ma è stato ucciso dalla mancanza di umanità. Forse stiamo perdendo di vista qualcosa. Grazie per l’attenzione.

Silvia

 

“No-mask irresponsabili, e io che speravo dopo il lockdown…”

Ciao Selvaggia, sono un’infermiera e durante la prima ondata di pandemia ho lavorato nel reparto Covid della mia clinica (un istituto del gruppo ospedaliero San Donato). Io, infermiera di cardiochirurgia da anni, di colpo sono stata catapultata in una realtà nuova! Ho pianto tanto: vedevo ammalarsi colleghi medici, infermieri e operatori socio sanitari, senza sapere se ce l’avrebbero fatta. Ho pianto con gli anestesisti quando abbiamo dovuto scegliere chi attaccare al respiratore (che erano sempre molto pochi) e chi accompagnare verso la fine. Ho pianto con i pazienti, che mi guardavano negli occhi chiedendomi se ce l’avrebbero fatta! Ho pianto da sola perché avevo sempre paura di infettare mio marito, ho pianto per i mesi trascorsi lontana da genitori e affetti. Quando la situazione è migliorata ho davvero sperato che fossimo tutti consapevoli della gravità della pandemia, e che si riuscisse (per una volta) a seguire le regole! Ma ora per colpa dei negazionisti, dei “no mask” e di tutti quelli che se ne fregano, non posso più fare il mio lavoro, il lavoro che amo. Nella mia clinica (100 posti letto circa) ci sono 6 pazienti positivi, ed io sono obbligata in casa per via di un branco di irresponsabili! E per fortuna sono una di quelle che non ha mai pensato che “andrà tutto bene”. Almeno, sono rimasta sorpresa a metà.

L.

 

“Io, malato di cancro, un numero nella fredda macchina sanitaria”

Cara Selvaggia, col Covid l’Italia si è dimenticata di chi i problemi di salute li affronta ogni giorno. Io, tumore a 22 anni, infarto e problemi cardiorespiratori (provocati dalle radioterapie), ora ho 35 anni. Mi sono costruito una famiglia, un lavoro impegnativo, affetti, desideri, gioie, dolori, piccoli successi e molti insuccessi. Nonostante tutto. Ho vissuto. In questo periodo, accedere in ospedale per le mie piccole emergenze o per i controlli di routine è divenuto un’impresa. La macchina sanitaria avanza in modo sbrigativo perché c’è il Covid: da paziente cronico mi sento sempre più un numero, un codice di un esame, un “ci rivediamo al prossimo controllo” e via. Non va. Persone senza mascherina ti tossiscono accanto, ti arrivano addosso; ragazzini ti guardano con atteggiamento di sfida senza indossare la mascherina. Questo, è tanto altro. Ho sempre desiderato vivere, oltre i miei problemi. Oggi voglio solo sopravvivere per i miei figli.

M.

 

Queste tre lettere indicano con chiarezza che al di là dei numeri, delle statistiche, della situazione ad oggi (poco) più rassicurante che in altri Paesi europei, nulla è finito. E che forse non si può parlare di seconda ondata. La verità è che sia da un punto di vista psicologico che sanitario, non siamo mai usciti dalla prima.

Selvaggia Lucarelli

CattoliciIl partitino dei vescovi, la “dottrina” Ruini e il premier che dà buca ai dc di Rotondi

Giusto una settimana fa, a Roma, è stato fondato il nuovo partito cattolico “Insieme”, con la solenne benedizione del cardinale Giovanni Battista Re, vecchia gloria andreottian-lettiana del wojtylismo nonché gaudente porportato che ispirò l’eminenza mondana della Grande Bellezza di Paolo Sorrentino.

A dare conto di questa novità è stato soprattutto il quotidiano dei vescovi italiani, Avvenire, che per mesi ha alimentato un intenso dibattito per riportare i cattolici a un impegno diretto in politica, come reazione al populismo double face (M5S e Lega) uscito dalle urne del 2018. A dare l’input a “Insieme” è stato l’economista Stefano Zamagni, attualmente presidente della Pontificia accademia delle scienze sociali. Il nuovo partito ha le stesse coordinate dell’ultima enciclica bergogliana, Fratelli tutti, cioè lontano dal populismo ma anche dal liberismo, e soprattutto riprende la concezione democristiana della leadership collegiale, allergica ai capi e ai padroni. Vaste programme, si direbbe, ma che deve però fare i conti con la realtà.

“Insieme” – oltre a riciclare pezzi vari di Udc e la fu Margherita e persino l’ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio – appare infatti come il classico topolino partorito dalla montagna. Accade quando arriva il momento topico di passare dalla teoria alla praxis. Solo che questa volta le aspettative erano e restano alte, considerato l’impegno della Cei nella fase di preparazione. Non solo. “Insieme” paga senza dubbio anche la diversa visione strategica dei gesuiti vicini a Bergoglio. Padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà cattolica, aveva ipotizzato nel febbraio 2019 un percorso decisamente più largo: un Sinodo dei vescovi italiani su fede, politica e democrazia, in ogni caso mai convocato dal pontefice argentino.

Accanto alla nascita di “Insieme” c’è poi da registrare l’ennesimo sussulto di don Camillo Ruini, l’ideologo clericale della dottrina politica post-dc nella Seconda Repubblica: una presenza bipartisan negli allora due poli che di fatto divenne una vicinanza costante al centrodestra berlusconiano, fino all’epilogo degli scandali sessuali dell’ex Cavaliere. Oggi l’ex presidente della Cei insiste sulla normalizzazione moderata della destra fascioleghista e chiude ogni spazio a un partito unico dei credenti. Una storia già vista. Semmai il punto vero della questione cattolica in tempi di Terza Repubblica ha due incognite che resteranno senza soluzione almeno per un altro anno. La prima riguarda la legge elettorale: un sistema proporzionale ovviamente favorirebbe la frammentazione (“Insieme” punta ad andare oltre il bipolarismo), al contrario di un maggioritario. Infine il premier Giuseppe Conte, il grande convitato di pietra di questo dibattito. Quale sarà la casa politica del suo neo-umanesimo?

Conte è corteggiatissimo da tutti i centristi (o quasi) e lui spesso li incontra con favore. Ma ieri ha frenato: annunciato con un video-intervento alla convention di Gianfranco Rotondi a Saint Vincent ha mandato solo una lettera ribadendo “il ruolo e l’impegno dei cattolici italiani in politica”. Troppo poco per fantasticare nel breve periodo sul “partito di Conte”.