L’impresa eccezionale è essere normale, cantava Lucio Dalla, e Ricky Memphis è ancorato alla sua normalità con un atteggiamento neorealista, piuttosto che figlio delle commedie in cui spesso viene coinvolto: a cinquanta anni e poco oltre appare un uomo stupito dei suoi traguardi; quasi crede di aver vinto alla lotteria, di essere ancora il ragazzo che trent’anni fa si sedeva sul muretto sotto casa, circondato da amici, a discutere “solo di tre argomenti: calcio, donne e un po’ di politica”.
Eppure, nonostante un numero di film importante – è in sala con Divorzio a Las Vegas, Andrea Delogu protagonista e all’esordio sul grande schermo “ed è bravissima” – non ha un ufficio stampa, non ama andare in televisione (“ho l’ansia”), alle domande risponde in maniera breve e secca (“Se vado oltre, se mi inerpico nei concetti, sbaglio di sicuro”).
Quando parla è più vicino alla romanità indolente e borbottona di Aldo Fabrizi che a quella ridanciana e mitomane dei personaggi interpretati da Alberto Sordi. Si stupisce di se stesso. E teme se stesso.
Sogni da ragazzo?
Diventare attore.
Da sempre?
Sì, per questo ho creato la figura del ‘poeta metropolitano’ perché non sapevo come cominciare: non avevo alcun aggancio, non conoscevo nessuno, e non capivo nulla.
Però…
Ero convinto che bastasse stare in mezzo agli ambienti artistici, all’underground romano, per ottenere una chance. E su questo ho avuto ragione.
La sua chance.
Grazie a un gruppo di amici e alla loro band: suonavano nei locali, una volta mi hanno portato con loro. Da lì è iniziato tutto, con la prima ospitata al Maurizio Costanzo Show.
Lei in tv.
I miei amici seduti nelle prime file; dal palco li guardavo e dentro di me sorridevo perché eravamo ancora tutti insieme. Da lì mi ha notato Ricky Tognazzi e mi ha coinvolto nel film Ultrà.
Primo giorno di set .
Lo ricordo come un sogno, iniziato con una macchina che mi viene a prendere all’alba, e dentro trovo Claudio Amendola; a un certo punto mi sono estraniato da me stesso, volevo guardarmi anche da fuori.
E poi?
Ho iniziato a recitare e non sentivo l’ansia, era tutto come un gioco; (sorride) l’ansia è arrivata con il secondo film quando dovevo confermare ciò che avevo trattato con incoscienza.
Ultrà
causò polemiche, con Amendola costretto a non andare più in curva. Lei?
E chi me conosceva? Claudio era famoso, io no: i problemi si concentrarono su di lui.
Lei da giovane.
Cresciuto in un ambiente particolare, di ragazzi che cercavano di capire, di andare oltre il pensiero comune: leggevamo tra le righe, e i più grandi erano politicizzati. Io sognavo sempre il cinema.
Cosa credeva di trovare?
Immaginavo una realtà faraonica, hollywoodiana, invece ho scoperto una quotidianità artigianale, ma nel senso più positivo. Un mondo sommerso composto da un numero incredibile di maestranze pronte a inventare l’impossibile con il fil di ferro.
La magia.
Grazie al cinema ho incontrato un’umanità che altrimenti non avrei mai sfiorato.
Tipo?
Già togliere il culo dal muretto sotto casa, e scoprire persone che parlavano in maniera diversa, vestivano in maniera diversa e ragionavano in maniera diversa; trovarmi in luoghi a me sconosciuti dove, fino a poco tempo prima, avrebbero chiamato la polizia per uno come me.
Perfetto.
Al di là del clamore, che non me ne frega niente, tutto questo mi ha aperto la mente.
Il set ha spesso lunghi tempi morti.
E che, non lo so? Ma uno ne è consapevole e si organizza, anche se non mi sono mai trovato in situazioni eccessive, pure perché non mi sono mai messo completamente alla prova.
Cioè?
Avrei dovuto rischiare maggiormente, magari ruoli minori, anche meno pagati, ma più interessanti a livello professionale.
E come mai?
All’inizio ho rinunciato per timore di un fallimento, o di non venir preso sul serio, poi ho aggiunto l’aspetto economico; è come se avessi indossato le pantofole.
Lei rideva e ride poco: indole o ruolo?
Sono proprio così; non sono un ridanciano, poi ci sono le occasioni in cui mi lascio andare.
Da giovane, meno.
Ero in paranoia e timido: andare in televisione, e non era facile; (ci pensa) in realtà non lo è ancora: quando ho un’ospitata in un programma, il giorno prima sono assalito dall’ansia, come se dovessi scendere in guerra. Infatti evito il più possibile.
Sfugge.
Al massimo reggo le interviste al telefono.
All’inizio della carriera, chi le piaceva?
Fantastichini; per uno stage dovevo scegliere un modello attoriale e riproporlo: puntai su di lui.
Poi ci ha lavorato.
Persona di una simpatia rara, di una forza e di una dolcezza spiazzanti; probabilmente quando s’incazzava poteva diventare pericoloso, ma non l’ho mai visto in quella situazione. Sembrava un poeta maledetto.
Torniamo a Costanzo.
Gli devo tutto, se poi vedeva qualcosa di positivo, ti esaltava, altrimenti bastavano tre parole ed eri finito. Con me è stato unico, mi ha spinto senza raccomandarmi con nessuno, in maniera indiretta: è bastata la sua stima e simpatia.
Volonté sosteneva: ‘Il mestiere dell’attore serve a combattere le tenebre dell’ignoranza’.
(Sorride) Vabbè, ma è Volonté, non poteva dire una stronzata; comunque non serve solo allo spettatore, ma all’attore stesso; (sorride ancora) visti i film in cui recito, di tenebre ne combatto poche.
Insomma…
Questo lavoro mi ha regalato la cultura, ma resto un ignorantone.
Invece la strada cosa le ha insegnato?
Il rispetto di ciò che ho ottenuto, e di quelli che lavorano intorno a me; il rispetto per il lavoro e la lealtà.
Sul set da chi ha imparato?
Inizialmente mi ha aiutato Amendola, poi Giancarlo Giannini: vedere la sua umiltà, la sua professionalità, mi ha segnato; con Giancarlo ho passato nottate intere a parlare, poi lui è un grande oratore, e io assorbivo quanto più potevo.
E con Amendola?
Il primo scambio con lui fu una sentenza: “Rispetta sempre quelli che ti stanno intorno perché sono lì per te”. Tutto quello che realizzano va a vantaggio tuo”. Mi colpì.
Come mai?
Allora ero un po’ coatto, e per me Claudio era un mito, uno che c’era riuscito; poi ammiravo il suo essere ‘di bosco e di riviera’.
Tradotto?
Uno in grado di nuotare in ogni acqua: se sta con un principe, è più principe dell’altro, se sta con un bandito, è più bandito dell’altro. Con lui sono uscito tantissimo: ci siamo divertiti.
Ancora amici?
Sì, ma ci vediamo giusto allo stadio, per la Roma.
Anche lei orfano di Totti?
(Silenzio) Un dolore che non credevo di poter provare, negli anni precedenti ho rimosso il suo addio, poi quando è arrivato quel maledetto giorno… (altro silenzio) Ancora oggi se vedo le immagini della sua ultima partita, piango come un ragazzino.
A cosa è sopravvissuto?
Boh. La domanda è bella ma sono spiazzato; (dopo un po’) sono un uomo fortunato e sicuramente sarò sfuggito a tante situazioni brutte; (ci pensa ancora) forse a me stesso, ma ancora non è detto.
Si reputa faticoso?
Porca miseria! Vivere con me è una tragedia, essere me stesso è un’altra tragedia.
Sempre, tradotto.
Sono paranoico, ansioso, cagadubbi, pigro, ma profondamente pigro, zero spirito di sacrificio. E penso sempre negativo.
Come fa con il lavoro?
È una lotta continua.
La memoria?
Quella è buonissima, le stagioni in Distretto di polizia sono state una scuola meravigliosa: dovevo studiare dieci pagine al giorno per dieci mesi l’anno, quindi ho imparato a lavorare con la memoria fotografica. Pure oggi leggo una volta e vado, poi dimentico tutto.
Dopo la morte del suo personaggio, i fan sono insorti.
Ancora mi fermano e chiedono: ‘Torna?’. Eppure la serie non c’è più.
La confondono mai con un collega?
Ogni tanto qualche folle o tossico mi chiama Mastandrea, ma non è una questione di somiglianza, solo di cervello fracico.
Non si offende.
Macché! Valerio è un attore e persona straordinaria; poi lui è alto e snello, io basso e grasso, già quello dovrebbe dare un’indicazione oggettiva.
La fama all’inizio della carriera.
A volte faticosa: avevo l’ansia di comportarmi bene, evitavo le parolacce, poi ho lasciato perdere, ho capito che se voi campa’ te devi comporta’ come sei. Accada quel che accada.
Timore di perdere il successo?
Eccome, soprattutto la notte, quando sono sdraiato e penso a tutte le stronzate che ho combinato e continuo a perpetrare; è quella lucidità terribile che mi chiarisce come dovrei stare più attento rispetto al lavoro.
Nello specifico…
Rischio sempre di uscire dal giro, non mi curo della carriera, non seguo certe logiche…
Non ha un ufficio stampa.
Non lo vojo, perché serve se vuoi uscire sui giornali, andare in televisione, e situazioni simili, mentre a me non va.
Come mai questa intervista?
Perché sono a casa, e poi posso dire alla produzione che ho fatto qualcosa. Magari posso barattare questa chiacchierata con qualche “no” ai passaggi in tv.
Bugie?
Solo quando serve a salvarmi la vita, o il quieto vivere, non quelle da mitomane.
Un attore o regista che l’ha intimidita.
Sorrentino, ma non lui come persona, piuttosto come mito, come ambiente, e soprattutto come set: è talmente enorme, talmente differente dagli altri, così calcolato e professionale, da portarti mentalmente da un’altra patte.
E Sorrentino?
È bello vederlo, come costruisce il suo quadro, la sua attenzione; dedica più tempo a come un attore muove un dito o la mano rispetto alla battuta stessa.
Il suo supereroe.
Superman: è l’unico imbattibile, gli altri hanno punti deboli.
Personaggio letterario di riferimento.
Da ragazzo tutti mi consigliavano di leggere Bukowski, e in effetti mi ha folgorato, poi con il passare degli anni l’ho relativizzato.
Primi soldi guadagnati.
Molti li ho spesi in alberghi, erano il mio sogno sin da bambino. Una fissazione. Così ho iniziato a girare le suite più belle di Roma, e non solo; (ride) uno dei miei alberghi preferiti era accanto a casa mia, eppure affittavo la stanza e ci portavo amici e donne. Soprattutto donne. Poi acquistavo stivali texani, in pelle di serpente.
Soldi vissuti?
No, buttati.
Chi è lei?
Spero soprattutto di essere un buon padre.
I suoi figli come vivono la sua fama?
Non gli interessa proprio.