Solo il 6% di terapie intensive occupate: il Ssn (per ora) regge

Icontagi salgono e salgono molto, questo è innegabile, al momento però la curva dei ricoveri ospedalieri e, in particolare, di quelli in terapia intensiva non è paragonabile con quanto successe tra marzo ed aprile. La causa o le cause non sono del tutto chiare, ma il dato è sotto gli occhi di tutti: all’inizio di aprile, secondo i dati giornalieri comunicati dal ministero della Salute, c’erano quasi 30mila ricoverati con sintomi Covid e ben oltre 4.000 persone in terapia intensiva; ieri pomeriggio i ricoverati con sintomi erano 4.336 e i pazienti in condizioni critiche “solo” 390.

Questo non vuol dire che si possa far finta di nulla, ma che attualmente il Sistema sanitario nazionale non è sotto pressione: la ragione alla base del lockdown di questa primavera fu di abbassare la curva dei contagi in modo idraulico, per così dire, per permettere al Ssn di prepararsi alla “convivenza col virus” senza dover scegliere chi intubare e chi no, come accaduto troppe volte all’inizio dell’epidemia. Nonostante i molti ritardi che tutti hanno potuto constatare in queste settimane – anche a causa di un paio di decenni di tagli alla sanità, specie su strutture e personale – la situazione per ora è sotto controllo: come vedete nella tabella qui accanto, che abbiamo tratto da dati della struttura commissariale, i posti di terapia intensiva del Servizio sanitario nazionale disponibili alle 21 di giovedì 8 ottobre erano 6.458, cioè il 25% in più dei 5.179 di fine febbraio 2020 (sono appena partiti, in ritardo, i bandi per aumentarli ancora di altri tremila circa).

Al momento i pazienti Covid in quei letti sono 390, cioè il 6% del totale: se aumentassero al ritmo medio di 30 persone al giorno fino a fine gennaio, il 1° febbraio avremmo in terapia intensiva 3.770 pazienti, meno del picco raggiunto in un solo mese ad aprile (e avendo in quel momento a disposizione oltre 9mila letti). Nota bene: il ritmo di aumento giornaliero dei letti “Covid” nelle terapie intensive, un fenomeno che esiste ed è iniziato a fine luglio, negli ultimi 30 giorni è di 7,1 pazienti in più al giorno, nell’ultima settimana (finora la peggiore) di 12,4 pazienti al giorno, non certo trenta.

Se guardiamo alla situazione nelle singole regioni, vanno invece segnalati alcuni casi di rapporto pazienti/letti abnormi rispetto alla media nazionale del 6%: guida la classifica la Campania, che ieri faceva registrare 63 malati in terapia intensiva (lo stesso dato di venerdì), cioè il 14,7% dei 427 posti disponibili; segue assai vicina la Sardegna col 14,3% dei letti occupati (25 su 175), poi la Liguria (12,4%, 26 su 209 posti) e l’Umbria (11,4%, 8 su 70). Va segnalato il caso del Veneto, che non solo continua a fare più tamponi degli altri in percentuale alla popolazione, ma è l’unica regione ad aver mantenuto tutti i posti di terapia intensiva creati durante la prima ondata di contagi: 825 letti ovvero 331 in più di quanti ne aveva a febbraio 2020.

Questi numeri, giova ripeterlo, non sono la prova di nulla, servono solo a inquadrare la fase in cui ci troviamo: i contagi sono moltissimi, ma le terapie intensive per ora reggono senza particolari problemi (anche i numeri della mortalità non sono neanche lontani parenti di quelli della scorsa primavera). Più nebulosa, ma comunque abbastanza tranquilla, la situazione dei posti letto Covid ordinari: il problema, in quel caso, è se le Regioni – specie quelle che hanno passato indenni la prima ondata – si sono mosse individuando strutture apposite, in modo da evitare il blocco delle normali attività degli ospedali, che potrebbe costarci molte vite nei mesi e negli anni a venire.

Il Lazio, ad esempio, ha 884 ricoverati con sintomi nei suoi ospedali (per capirci, la Lombardia ne ha 408) e ha sostanzialmente esaurito i posti Covid che aveva previsto a regime (850) in estate: a fine settembre la Regione ha quindi deciso di aumentare i posti del 30% (1.124). Insomma, nessun problema per ora, ma resta l’incognita sull’evoluzione dei contagi e, non secondario, se al numero dei posti letto assegnato alla cura del coronavirus corrisponde un adeguato numero di medici e infermieri (specie se ripartiranno i contagi anche in ospedale).

 

Limiti a movida e feste private Il piano anti-Covid del governo

La linea è tracciata. Il governo deve scrivere le regole e domani dovrà farle passare con le Regioni. Che avranno certamente da ridire sulla chiusura dei bar e delle rivendite di alcolici alle 24 e sul divieto di consumare davanti ai locali fin dalle 21. Il nuovo decreto del presidente del Consiglio (Dpcm), atteso non prima di martedì, dovrebbe contenere anche limiti per le feste private e gli invitati ai ricevimenti per battesimi e matrimoni, nonché per gli sport amatoriali di contatto, come il calcetto, ma a quanto pare non eliminerà i mille spettatori ammessi alle partite di calcio di Serie A. Sarà ulteriormente incoraggiato lo smartworking.

Ieri il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha discusso del provvedimento a Palazzo Chigi con il ministro della Salute Roberto Speranza, il ministro per gli Affari regionali Francesco Boccia, il sottosegretario alla Presidenza, Riccardo Fraccaro e i capidelegazione. La riunione è durata oltre 3 ore, la posizione è sostanzialmente unanime, chiudere qualcosa ma non troppo, secondo le linee guida che fissano una prima allerta gialla ora che Rt (il tasso di riproduzione del virus: quante persone in media vengono contagiate da ciascun positivo) è tornato sopra 1 a livello nazionale e in gran parte delle regioni. L’ultimo monitoraggio, fino al 4 ottobre, lo fissa a 1,06 e probabilmente sta aumentando ancora, almeno a giudicare dai contagi registrati che sono più che raddoppiati in meno di una settimana secondo i bollettini quotidiani, dai 2.499 di venerdì 2 ai 5.372 di venerdì 9. Se e quando Rt dovesse salire oltre 1,25 l’allerta diventerà rossa e scatteranno ulteriori restrizioni, ove superasse 1,5 rischiamo il lockdown totale che nessuno, al governo come nel Paese, vuole neppure sentire nominare.

Avanti dunque con attenzione, i numeri preoccupano ma il governo e i suoi consulenti li ritengono ancora sotto controllo. Ieri il ministero della Salute e l’Istituto superiore di Sanità hanno registrato altri 5.724 contagi, circa trecento in più rispetto a venerdì. Sono 1.140 in Lombardia e 644 in Campania, le regioni più colpite dalla seconda ondata. Progressivamente aumentano i tamponi, nuovo record: 133.019 in ventiquattr’ore. Anche il rapporto positivi/tamponi continua a salire: ieri era a 4,3 per cento ed è un altro record, però negativo, perché significa che il tracciamento dei contatti dei positivi tiene il passo della diffusione del virus. I morti sono stati 29, uno in più di venerdì, il totale ufficiale fa 36.140. Ma non si muore più come a marzo e ad aprile, nel nostro come negli altri Paesi dell’Ue alle prese con aumenti dei contagi ben più consistenti e però, come ha scritto Domani, rilevati con un maggior numero di tamponi: così Francia (267 nuovi casi ogni 100 mila abitanti negli ultimi 14 giorni contro i nostri 62, secondo le rilevazione del Centro europeo per la prevenzione delle malattie, Ecdc, ma poco meno di 2 tamponi al giorno ogni 1.000 persone mentre noi non arriviamo a 1), Spagna (308 casi ogni 100 mila e oltre 2 tamponi ogni mille) e Regno Unito (228 casi ogni 100 mila e oltre 3,5 tamponi ogni mille), mentre la Germania fa sempre meglio di tutti (44 casi ogni 100 mila, poco meno di 2 test ogni mille). Quel che rassicura, come spieghiamo nella pagina accanto, è che in terapia intensiva ci sono 390 persone in tutta Italia: a metà marzo, quando i contagi rilevati erano sui 5 mila al giorno come ieri e oggi, ce n’erano circa 2.500. Oggi il virus viene intercettato prima e i medici hanno imparato molte cose su come curarlo.

Voto di sbaglio

Nella classifica dei contagi primeggiano la solita Lombardia, ormai fuori concorso, e le Regioni che hanno appena plebiscitato i loro presidenti: Campania, Veneto e Liguria. I contagi, ovviamente, non sono colpa dei cosiddetti “governatori”: ma De Luca, Zaia e Toti hanno stravinto le regionali proprio perché visti come i salvatori delle rispettive regioni dal Covid. Zaia in un certo senso lo è stato, avendo avuto la fortuna e l’umiltà di affiancarsi Crisanti, con cui poi ha litigato (e da allora il Veneto se la passa maluccio). Toti invece ha mal gestito la prima ondata. Ma, siccome Lombardia e Piemonte han fatto peggio, è passato per uno bravo. E si è pure preso il merito del nuovo ponte, i cui fondi statali sono finiti non spesi o regalati a chi non ne aveva diritto con una distribuzione a dir poco clientelare. Poi, anche grazie alla scandalosa propaganda a suo favore del Giornalone Unico, è riuscito a nascondere la seconda ondata fino alle elezioni. La Campania è stata risparmiata dalla prima ondata per puro culo, non certo per merito di De Luca, il satrapo tutto chiacchiere e distintivo che non ha risolto nessuno degli annosi problemi della sanità campana, anzi li ha aggravati. Ma li ha mascherati dietro la solita raffica di comizietti e siparietti demagogici: molto più comodo evocare lanciafiamme o minacciare lockdown che creare posti letto o assumere medici e infermieri. Intanto un suo fedelissimo, il sindaco di Eboli Massimo Cariello, appena rieletto col record dei voti (80%), ha avuto il tempo di formare la giunta poi è finito in manette per corruzione e abuso: le intercettazioni lo immortalano mentre pilota due concorsi per far assumere una dozzina di amici. Il gip lo descrive come “completamente immerso in una logica privatistica di gestione del potere, tutta votata alla salvaguardia degli interessi propri o delle persone a lui vicine”. Infatti l’hanno votato 4 concittadini su 5. Che presto torneranno alle urne in base alla legge Severino.

In democrazia, è vero, gli elettori hanno sempre ragione. Ma bisogna intendersi. Chi vince ha il diritto-dovere di governare, sempreché non lo arrestino. E chi perde deve chiedersi il perché: ma non sempre la risposta è che ha vinto il migliore. In Liguria, in Campania e a Eboli, pochi giorni dopo le elezioni, è già evidente che han vinto i più bugiardi, o i più demagogici, o i più clientelari, mentre chi li contrastava senza bugie né voti di scambio, ma solo col voto di opinione (Sansa in Liguria, i 5Stelle in Campania) non aveva speranze. Risposta terribile: significa che continueranno a vincere i peggiori finché non troveranno qualcuno ancor peggio di loro. O elettori più informati e meno ricattabili di oggi.

Quel coraggio di immaginare, e di spaccare tutto, delle “ragazze Z”

Con il femminismo per giovani donne Giulia Blasi si era già cimentata in Manuale per ragazze rivoluzionarie. Ora va ancora più in profondità in questa sorta di manuale di pratica femminista. Non è un libro di teoria, anche se si serve di teorie come il femminismo intersezionale, è pensato per un pubblico molto ampio, di donne e anche di uomini. Blasi è brava a divulgare e a coinvolgere e anche se passa in rassegna molti concetti e figure del femminismo tradizionale – il gender, la proprietà del corpo delle donne, il “mito della principessa” o della “principessa che mena” – lo fa con un tocco dirompente. È la cifra del libro che un padre tifoso della libertà delle donne, come chi scrive, vorrebbe che la figlia leggesse (scusate la scivolata personale). Un libro che rimette in ordine temi canonici –“sante o puttane”, “amiche/nemiche” – altri più attuali, tipo “come chattare con le ragazze”, fino a territori meno esplorati, soprattutto dagli uomini. “La mascolinità tossica” è un capitolo che andrebbe letto e diffuso nelle scuole e nei luoghi di lavoro (comprese le redazioni), per dimostrare l’aleatorietà del mito dei “bravi ragazzi”. Molto attiva sul web, Blasi riesce a scrivere in una lingua che coglie le vibrazioni del momento, coniugando l’immaginario televisivo (Sanremo) con quello dei social. Lei che appartiene alla Generazione X (i nati fino al 1980) si capisce che si sente soprattutto una Millennials (nati dopo il 1980) e dialoga direttamente con la Generazione Z (le post-Millennials, le e i giovani di oggi). Le ragazze Z, del resto, sono le uniche che possono passare dalla “teoria femminista alla pratica femminista”, in grado di costruire leadership reticolari e di avere “il coraggio di immaginare”. E sono quelle che possono adottare un altro dei suggerimenti del libro: “Sbrocchiamo, ragazze. Incazziamoci, alziamo la voce, anche per quelle che non hanno voce”. Le donne, in fondo, sono state anche troppo zitte, no? Rivoluzione Z, insomma.

Achille, feroce e vulnerabile (nel tallone e pure un po’ nel cuore)

“Quando sei arrivato” gli raccontò Chirone, “eri nato da poco, non facevi altro che piangere. Io non avevo di che nutrirti, e allora ti ho dato da mangiare la parte più morbida degli animali, il midollo del leone. Ora è dentro di te, sei diventato tu il leone”. Chirone allevò Achille per sette anni, lo fece crescere pieno di determinazione, lo accudì con la stessa attenzione che avrebbero avuto Teti e Peleo. Gli insegnò a non aver paura del rumore del silenzio né di quello della battaglia, a curare il corpo coi medicamenti e lo spirito con le parole, ad apprezzare le arti e la natura e a ricordarsi che al leone, che ben conosce il coraggio, non mancano fragilità.

Parte dall’infanzia la narrazione che Giovanni Nucci, direttore editoriale di Italosvevo ed esperto nella riscrittura di miti greci e romani per i piccoli, intesse sulla formazione del pelide Achille, riuscendo a pieno nell’intento di stimolare curiosità nei giovani, specie quelli che a scuola si stanno avvicinando a Omero.

Seguendo il percorso che porterà Achille a divenire il condottiero a capo dei Mirmidoni, invincibile e feroce ma anche vulnerabile (nel tallone e pure un po’ nel cuore), troveranno, grazie al meccanismo dell’immedesimazione, le chiavi per capire meglio se stessi, il valore degli affetti, la gioia di vivere anche quando ci sono le spine.

Senza guida nel “Futuro” di Beatrice

“È per una porta sola, appena socchiusa per un momento, che deve insinuarsi il futuro” (André Gide). È invece un Colosseo, o un arco di Costantino, il Futuro della mostra allestita a Vicenza da Luca Beatrice (già curatore del bulimico Padiglione Italia alla Biennale 2009) e Walter Guadagnini. Non diremo qui né della grafica del titolo (memore di prototipi parigini), né delle generiche didascalie delle sale, né della conversazione tra i curatori in catalogo, ricca di luoghi comuni e accompagnata da pensieri di Aldo Grasso sul futuro della tv (più illuminante, in mostra, la Candle Tv di Nam June Paik, 1990).

Porte aperte, dunque. A parte l’Arte Povera (forse il nostro movimento più duraturo), c’è di tutto: un po’ di futurismo, perché ci vuole un prologo (e le Officine a Porta Romana di Boccioni sono sempre belle); un po’ di concettuale (da Fontana a Paolini), perché il futuro è “Spazio e tempo”; un po’ di op-art e pop-art mescolate, perché negli Anni 60 la scienza e i consumi andavano di pari passo (Varisco e Rotella, Castellani e Rauschenberg); un po’ di arte politica (ma cosa dirà un Luciano Ori a chi nulla sappia del Gruppo 70? A che serve un collage di Ugo La Pietra su Linz senza dire che il suo gruppo osteggiava i Warhol o i Robert Indiana esposti pochi passi più in là?). Foto dell’Autostrada del Sole in costruzione ripropongono nostalgie degli anni del boom: era su quell’epoca, la meglio presidiata dalle collezioni di Intesa San Paolo, che la mostra voleva incentrarsi.

Ma si va oltre: dal 1980 in poi l’Italia arretra, il focus cade sull’arte internazionale mainstream (da Christo a Hirst ai gatti radioattivi di Sandy Skoglund), e il Futuro si sfrangia in caduchi schematismi decennali (il “successo”, il “postumano”, “l’ambiente”). Buona la parte fotografica: dal coraggioso Bacio saffico di Libera Mazzoleni (1977) alla distopia post-urbana di Giacomo Costa (Ground 1, 2013), dal barcone mimetico della Hope di Liu Bolin (Cina, 2015) al fantascientifico Spaceport di Michael Najjar (2012).

Nessuno però spiega al candido spettatore, per dire, cosa c’è dietro all’unica immagine del Cremaster di Barney, o le ragioni (estranee all’ambiente) per cui Francesco Jodice fotografa una palude e la chiama Venezia. L’eredità dei precursori. Un po’ spaesati, senza guida e distanziati, i visitatori respirano dinanzi al video in cui Nancy Burson mostra il volto di Trump che si cangia in quello di Putin e viceversa: quel futuro l’hanno già visto due anni fa sulla copertina di Time.

Si può uccidere per un tatuaggio giapponese: giallo anni 50 a Tokyo

Giallo tattoo d’antan. In Giappone, i tatuaggi sono stati al centro di una diatriba secolare. Elevati ad arte nobile, nel Novecento però vennero messi fuorilegge e i maestri tatuatori s’ingegnarono a camuffare le loro botteghe di Tokyo con insegne varie e false. Tra questi anche il bravissimo Hori’yasu, una specie di Raffaello del dipinto su carne – con aghi al posto del pennello ovviamente – e specializzato in paurosi affreschi dorsali ispirati dai racconti popolari nipponici. Come quello dello stregone Orochimaru raffigurato in catene e con un enorme serpente addosso. Questo capolavoro, il maestro, lo incide su una delle sue due figlie gemelle, la sublime Kinue. Ed è attorno a questo tatuaggio, che copre il corpo di Kinue, che Takagi Akimitsu (1920-1995) costruì nel 1951 Il mistero della donna tatuata.

Quasi settanta anni dopo, il mystery viene pubblicato in Italia da Einaudi con la traduzione della studiosa Antonietta Pastore. È la prima volta in assoluto per Akimitsu nel nostro Paese. Il romanzo si apre appunto con la descrizione della bellezza dell’irezumi, dove il tatuaggio è finanche “incarnazione della libido”. Kinue è l’amante di un boss dell’edilizia che però cornifica a ritmo continuo. Il suo tatuaggio ipnotizza e ammalia i suoi spasimanti. Tra questi un ricercatore di medicina legale di nome Matsushita Kenzo. Il fratello del giovane è ispettore capo della Polizia criminale. Una mattina Kenzo viene “convocato” da Kinue ma a casa della donna trova solo i resti del suo cadavere, senza il torso tatuato. Lui e il fratello indagano, in una Tokyo devastata e affamata dalla Seconda Guerra mondiale. Tra gli indiziati c’è il professore Hayakawa, scienziato che colleziona pelle umana tatuata.

Gli amori difficili di Nick Hornby al tempo di Brexit

Il canovaccio del nuovo romanzo dell’autore di Alta Fedeltà e About A Boy è una relazione – sulla carta – a scadenza imminente, vuoi per la differenza di età (lei 42, lui 22), vuoi per i pregiudizi tra una donna bianca e un ragazzo nero. In sottofondo c’è l’arrivo della Brexit, con una sapiente analisi sociologica tra le diverse estrazioni sociali.

Lucy è insegnante di lettere in una scuola media e Joseph è un venditore dietro il bancone in una macelleria, ma sogna di fare il Dj. Lucy ha due figli dell’età di Fifa e X-Box e chiede a Joseph se per arrotondare è disposto a farle da babysitter. Lui accetta, complice la malcelata attrazione, e ottiene l’approvazione e la complicità dei ragazzini. Lucy è separata da un uomo diventato alcolizzato, eppure è ancora capace di umana pietas; succede una sera in cui i due ex coniugi si ritrovano in un momento di lucidità: “Fino alle 5 stavo bene. Ma le 5 di pomeriggio nel weekend sono un momento difficile, quando sei da solo”. “Lo so cosa vuoi dire”, replica l’ex moglie. “Sì, mi sento sempre strana quando i ragazzi passano il sabato con te”.

La cosa più sorprendente del romanzo è il dialogo costante dei figli di Lucy: in una famiglia di separati si scopre che sono i figli i veri tesorieri del legame dei genitori. Una volta iniziata la nuova liaison Lucy capisce ben presto che la strada è in salita: “Il matrimonio era una cosa viva, che respira, mentre la relazione con Joseph esisteva solo quando erano insieme, nella stessa stanza”. Ecco nascere l’illusione: “Era felice, viveva in una bolla (dopo aver fatto l’amore). Le bolle rendevano la vita sopportabile (bolle neonato, bolle luna-di-miele, bolle vacanze strepitose, bolle successo-professionale e persino le bolle-serie-tv)”.

Tutti i personaggi nell’orbita dei due protagonisti sono uno spaccato della working class, raccontati anche attraverso le pulsioni politiche durante la propaganda del referendum pro o contro la Brexit. Le prove da superare per i due protagonisti sono innumerevoli, ciascuna per ogni luogo comune: etnia, età, sesso, ceto sociale… Eppure l’ostinazione di Lucy ricorda il Sonetto 35 di Shakespeare: “Non c’è molto che si possa fare per il mondo interiore; ed è quella la parte più importante”.

Significativo il confronto con le amiche, desiderose di rompere la routine del matrimonio con “uno attraente” o con “gli appuntamenti online”: “Forse è quello che vuoi ma non è quello che ti serve. Ti servono libri, musica, forse Dio”. Per Lucy la giovane età di Joseph è bilanciata da un forte senso di responsabilità e sarà questo a spingerla ad affidargli la guida della relazione, sino a convincersi che bisogna vivere il presente.

In un dialogo innescato da Lucy sulle paure dell’inevitabile decadenza dell’attrazione e del corpo, Joseph si rivela più saggio di Vasco Rossi e del suo elogio della cellulite. Una volta appreso del risultato pro Brexit in una cena tra intellettuali amici di Lucy, l’autore attacca l’intellighenzia British con sarcasmo: “Avevano avuto torto e loro non erano abituati ad avere torto. La conversazione tra commensali? Come un divano che calcola la forma del tuo sedere e si adatta, solo che un pranzo calcola la forma della tua testa”.

Quattro passi nel soprannaturale con Jude: che brivido “The Third Day”

Il mistero di un’isola fuori dal tempo dove la ragione cede il passo alla superstizione, fra magie pagane e riti proto-cristiani. Tramite un sentiero che scompare nell’alta marea vi approdano in momenti distinti e separati gli ignari Sam (Jude Law) e Helen (Naomi Harris), entrambi alla ricerca di risposte a un dolore del passato. Quanto accadrà loro in questo mondo parallelo è materia dell’inquietante e straordinaria The Third Day, la serie britannica Sky/Hbo in onda su Sky Atlantic e in streaming su Now Tv dal 19 ottobre ogni lunedì, che ribalta il formato seriale finora concepito.

Accanto ai sei episodi che ne compongono le due parti (tre per Summer + tre per Winter) i creatori Dennis Kelly e Felix Barrett hanno concepito Autumn, una sorta di spin-off andato in diretta streaming sulla pagina Facebook di Hbo la notte del 3 ottobre e tuttora visibile. Una vera e propria maratona di 12 ore, mista fra il live performance e il montato, in cui un notevolissimo Jude Law s’immola da novello Cristo in un’incredibile via crucis, tra l’incubo paranoide e la psichedelìa.

Se la parte televisiva esibisce i canoni del thriller psicologico mescolato al mistery/drama/supernatural genre – siamo in atmosfere che ricordano Black Mirror, Lost, Westworld sullo sfondo di orrorifici boschi lynchiani – quella “postata” su Fb ha il sapore del teatro sperimentale, di un’avanguardia 2.0 atta a immergere lo spettatore in una esperienza senza precedenti. D’altra parte il co-autore Barrett è noto in Regno Unito per la sua pionieristica compagnia teatrale Punchdrunk di sperimentazione performativa.

Terrore, tensione, dolore famigliare, resistenza assoluta, simbolismo estremo, claustrofobia e straniamento da lenti grandangolari spinte, musica che mantiene sottofondi sinistri: benvenuti sull’isola di Osea, dove il nostro dark side troverà la sua dimora ideale.

A lezione da Sade, mediocre filosofo

Culi deliziosi, nessun pelo fuori posto: con gran gusto e intelligenza Fabio Condemi firma un impeccabile allestimento (e traduzione e adattamento) della Filosofia nel boudoir del Marchese de Sade (1740-1814), opera in forma di “dialoghi destinati all’educazione delle giovani fanciulle”.

Siamo nel 1795, in piena Rivoluzione francese, e il pedagogo Sade impartisce lezioni di politica e polluzioni: il salotto (boudoir) si fa aula scolastica e i libertini maestri, con tanto di lucidi e lavagne. L’allieva è l’adolescente Eugénie, iniziata ai piaceri della carne e, soprattutto, ai principi metafisici che sostanziano il mondo, desiderio e crudeltà, dalla mastrubazione al delitto. “Sade scrive in maniera fredda e lucidissima, come se stesse studiando i comportamenti di un gruppo di insetti – spiega il regista –. Per questo nel testo si crea un gioco di ironia continua e folle con grandi effetti tragicomici”. In sala, però, peccato, ridono in pochi: sarà che lo humour nero da noi non va di moda e che le invettive contro la religione suonano sempre blasfeme. Eppure, è proprio la satira di Cristo la più divertente: un “lazzarone, truffatore”, che ha ispirato un “insipido romanzo” (il Vangelo).

Per Sade le “puttane sono le uniche filosofe”, e infatti lui è un mediocre pensatore: non all’altezza dell’“opposto” Rousseau col suo buon selvaggio (qui forse nel giardinetto a fondo palco; ciuffi d’erba selvatica che crescono sopra la tomba del Marchese), né tantomeno dell’affine Hobbes col suo uomo-lupo. Sade non ha spessore teoretico, non è in grado di tematizzare rigorosamente il male che muove, a suo dire, il mondo. D’altronde è assente da ogni manuale di storia della filosofia, non certo per bigottismo o censura: quella sadiana semmai è una antropologia (“negativa”, tipica dei monoteismi e dei totalitarismi di destra); una religione settaria; una sociologia; una psicologia (meglio di Freud e Anthony Burgess). Manicheo, riduzionista, materialista, aristocratico (“Scuola gratuita? Uno sfacelo”), Sade ha però almeno la radicalità e l’onestà intellettuale di augurarsi l’estinzione del genere umano, portando alle estreme conseguenze le sue teorie così facilone e bidimensionali.

Algido ed erotico – anche grazie alla drammaturgia dell’immagine firmata da Fabio Cherstich –, lo spettacolo vanta un cast squisito, non solo esteticamente – Carolina Ellero, Marco Fasciana, Candida Nieri, Gabriele Portoghese, Elena Rivoltini –, che dà grande prova di sé nell’orgia-reading finale (se si muovessero ancora meno sarebbe perfetto). Solo così Sade sta in piedi, intellettualizzato e raggelato, pur nell’eccedenza di inserti pensosi (il prologo di Leopardi: boh) e lungaggini performativo-musicali. Per fortuna le erezioni ed eiaculazioni varie tirano su gli animi dello spettatore mezzo addormentato.

Inspiegabile resta, invece, il richiamo a Simone de Bouvoir e al suo saggio Dobbiamo bruciare Sade?. Era il 1955, suvvia, un secolo fa. Forse è ora si sbeffeggiare Sade, smettendola di guardare il dito – per l’onanismo e altri sollazzi – e non la luna: lei sì che ha una visione del mondo.