Non so dire se Il danzatore dell’acqua di Ta-Nehisi Coates (Einaudi) vada considerato un grande romanzo dal punto di vista letterario, per quanto avvincente sia la sua trama, ma poco importa. Perché leggendolo, ciò che più conta, ho avuto la netta impressione di misurarmi con un’opera classica, di quelle che restano a fondamento di una nuova, imprescindibile visione del mondo. Per intenderci, un romanzo filosofico – il paragone non paia eccessivo – come lo fu il Candide di Voltaire, patriarca dell’illuminismo.
Restiamo intimiditi dall’ambizione dell’autore, probabilmente l’intellettuale afroamericano più autorevole del nostro tempo, che dopo la magistrale prova di autocoscienza su cosa significhi avere un corpo dalla pelle scura negli Usa, scritta in forma di lettera al figlio adolescente (Tra me e il mondo), qui si spinge ben oltre. Non solo intraprende una ricognizione storica d’impianto biblico, che si misura cioè col trascendente, la natura soprannaturale del Bene e del Male. Ma si permette di forzare i canoni della verosimiglianza temporale concependo un protagonista, Hiram Walker, diciannovenne schiavo in Virginia alla metà dell’Ottocento, nel quale però riconosciamo subito lui stesso, Ta-Nehisi Coates, uomo contemporaneo che si immerge nei gorghi della schiavitù e si protende nella funzione messianica della redenzione.
Può sembrare assurdo ma è così. Ci obbliga a misurarci con categorie non solo sociologiche ma esistenziali sopravvissute all’abolizione della schiavitù: la Qualità, ovvero il potere bianco; la Feccia, ovvero i segugi dallo stesso colore pallido detentori della forza bruta che regge il sistema; e il Servizio, eufemismo che definisce gli esseri umani nati in cattività e destinati a essere comprati e venduti come merci inanimate.
Esisteva già una vasta letteratura sullo strazio dei figli strappati alle madri, sulla sottomissione sessuale delle nere ai bianchi, sull’organizzazione del lavoro nelle piantagioni e su ogni altra forma di angheria all’origine della piramide sociale americana. La stessa Einaudi, solo pochi mesi fa, aveva tradotto un altro romanzo piuttosto macabro con queste tinte (Le confessioni di Frannie Langton di Sara Collins). L’andata e ritorno nella schiavitù di Hiram alias Ta-Nehisi, il ragazzo meticcio figlio del proprietario della fattoria di Lockless che l’ha messo al mondo con Rose, meravigliosa danzatrice nera, non dipende solo dai suoi superpoteri ma da legami e ricordi che gli è impossibile recidere. Lui che ha avuto modo di evadere, di arruolarsi nella Sotterranea – organizzazione abolizionista in cui militano insieme bianchi e neri – e di vivere libero a Filadelfia, sceglierà di tornare nell’Impero Meridionale di cui la Virginia era la sede ancestrale.
“Il treno per Sion è arrivato”, “E io vorrei salirci a bordo”: sono le parole d’ordine dei liberatori che sfidano con le loro incursioni la Feccia e accompagnano al Nord i fuggiaschi. Non a caso in questo Esodo rivestono un ruolo decisivo le donne; tanto che perfino Mosè qui verrà impersonato da una figura femminile.
Senza di esse non si darebbe la provvidenziale Conduzione, ovvero la connessione di sentimenti e di memorie che rendono possibile danzare sull’acqua, scavalcando magicamente ostacoli all’apparenza insormontabili. Mosè (che si fa chiamare Harriet per coprire la sua vera natura) ricorda al giovane Hiram l’origine della Conduzione redentrice di cui anch’egli è dotato: sarà danzatore dell’acqua come taluni suoi antenati che si buttavano fra le onde dell’oceano da bordo delle navi negriere.
Chi ha visitato l’isola-prigione di Gorée, di fronte alla capitale del Senegal, Dakar – piccola Auschwitz fra le tante dell’enorme Olocausto africano – ha toccato con mano quanto pesi ancor oggi la rimozione di quella memoria.
Lascio a chi si addentrerà nel romanzo di Ta-Nehisi Coates il piacere di seguirne i continui colpi di scena, le dinamiche inaspettate dei salvatori e dei traditori, la mediocrità parassitaria dei proprietari. Fin troppo banale sarebbe dire che questo libro ci accompagna nel grande non detto della società americana, scossa dal movimento di protesta di “Black lives matter” e dalla tenace, perdurante reazione suprematista.
Credo che Ta-Nehisi Coates riesca a imporci ben più di questa descrizione. Ogni pagina chiama al sovvertimento dei nostri punti di vista iniziali. A poco servono i sensi di colpa e anche le pur legittime istanze di risarcimento per l’ingiustizia storica di cui sono vittime gli afroamericani; se non impariamo a guardare il mondo capovolto con gli occhi di questa moltitudine che reca in sé tuttora il marchio della schiavitù patita.
Aspiriamo ciascuno a una nostra propria redenzione, afferma Hiram. Ma prima, gli spiega Bland che l’ha reclutato nella Sotterranea, viene la liberazione, la fuga dall’Egitto. Per questo Harriet è Mosè, e non Gesù.