Meryl Streep in crociera con Steven Soderbergh

Dopo Panama Papers Meryl Streep ha recitato diretta da Steven Soderbergh in Let Them All Talk, una commedia realizzata per HBO e ambientata tra New York e l’Inghilterra che racconta le vicende di una celebre scrittrice (Streep) che per cercare di dimenticare i suoi problemi decide di partire per una crociera con due amiche (Candice Bergen e Dianne Wiest). Al suo seguito anche suo nipote (Lucas Hedges) che finirà con l’innamorarsi perdutamente di un’agente letteraria (Gemma Chan, già interprete di Captain Marvel).

Claudia Gerini è la protagonista insieme ad Alessio Vassallo di Mancino naturale, un film di Salvatore Allocca prodotto da Emma Film, Fenix Entertainment e Rai Cinema di cui sono iniziate le riprese a Latina. L’attrice romana interpreta una vedova quarantenne dalla forte personalità, Isabella, che investe tutte le sue speranze e i suoi sogni nell’avvenire calcistico del suo talentuoso figlio 12enne, Jean, a cui però non interessa diventare una star dello sport. Mentre si alternano euforie e delusioni, rimpianti e segreti rimossi la donna per il bene del ragazzo sarà costretta ad affrontare il suo passato e a regolare i conti sospesi. Marco Tullio Giordana gira da un paio di settimane Yara, una storia incentrata sul drammatico caso della piccola Yara Gambirasio brutalmente uccisa dieci anni fa da Massimo Bossetti, in seguito condannato in via definitiva all’ergastolo. Interpretato da Isabella Ragonese nel ruolo del Pubblico Ministero e da Alessio Boni, il film è sceneggiato da Graziano Diana e prodotto da Pietro Valsecchi per Taodue e Netflix.

Dopo aver diretto i primi quattro film interpretati da Checco Zalone, il regista Gennaro Nunziante è tornato sul set per dirigere i due comici pugliesi Pio e Amedeo in Belli ciao, una commedia prodotta da Freemantle Media Italia ambientata a Foggia e dintorni.

Con un “Time” così non si perde tempo. Un Oscar lo aspetta – Time

Lo vedremo alla Festa di Roma, salutato dal direttore Antonio Monda come “il” film della quindicesima edizione (dal 15 al 25 ottobre, ma con il boom di contagi si farà, e come?), e dal 23 ottobre su Amazon Prime Video, e purtroppo dopo il digiuno veneziano tocca dare un’altra cattiva notizia al Gianfranco Rosi di Notturno: Covid permettendo, se gli Oscar si terranno come programmato il 25 aprile del 2021, la statuetta al miglior documentario possiamo già assegnarla a Time, esordio al lungometraggio dell’ottima Garrett Bradley.

Tenendo fede – con finale à rebours da far impallidire Tenet – al titolo che s’è scelto, la regista americana inquadra una storia d’amore lunga due decadi: l’indomita, fiera e appassionata Fox Rich, madre di sei figli, imprenditrice e abolizionista, lotta per far rilasciare il marito Rob G. Rich, che sconta una pena di sessant’anni per una rapina in banca commessa da entrambi all’inizio degli anni Novanta in un momento di disperazione. Gli ultimi ventuno anni Fox li ha trascorsi a presentare ricorsi, fare telefonate, tenere lezioni e comizi, difendere altre famiglie distrutte dall’incarcerazione di un congiunto con un obiettivo primario: tirare fuori il suo sweetheart – si misero insieme giovanissimi – dal penitenziario statale della Louisiana, sinistramente ribattezzato Angola e, nel mentre, stigmatizzare un sistema giudiziario che condanna i più deboli e dunque i neri, che rappresentano appena il 13,4% della popolazione statunitense ma più della metà dei detenuti con pene uguali o superiori a 50 anni. “Possiamo parlarne dal punto di vista politico e statistico”, però osserva condivisibilmente la regista “non arriverebbe a tutti, sicché ho cercato di approcciare la questione dall’angolazione dell’amore, ché si riconosca anche la tentata distruzione dell’unità della famiglia nera”. Al MAXXI di Roma, in collaborazione con l’American Academy che le ha garantito una residenza, abbiamo visto il suo America, a Time, per cui è stata laureata miglior documentarista al Sundance 2020, Bradley è arrivata facendo ricerche per lo short Alone ed entrando in contatto con Rich: ne sarebbe venuto un altro cortometraggio, tredici minuti sulla dissoluzione coatta delle coppie per via carceraria, sennonché la donna le ha portato la sterminata raccolta di nastri miniDV che documentava per quattro lustri la separazione del marito, tra compleanni, vacanze, traguardi dei figli e la consapevolezza che “la famiglia è tutto e tutto è famiglia”. In un bianco e nero che uniforma elegantemente ed empaticamente l’archivio di Fox e le riprese di Garrett, Time ci prende per gli occhi e il cuore, ci accarezza con le musiche sinfoniche, ci porta avanti e indietro nel tempo fino a dischiudere la libertà. Come dice la produttrice Lauren Domino, “dobbiamo ricordare che l’amore non provvede solo fede e speranza, ma promuove il cambiamento”. Cantava Bob Dylan, “The Times They Are A-Changin’”: chi ha tempo non perda Time.

Il Mosè nero d’America

Non so dire se Il danzatore dell’acqua di Ta-Nehisi Coates (Einaudi) vada considerato un grande romanzo dal punto di vista letterario, per quanto avvincente sia la sua trama, ma poco importa. Perché leggendolo, ciò che più conta, ho avuto la netta impressione di misurarmi con un’opera classica, di quelle che restano a fondamento di una nuova, imprescindibile visione del mondo. Per intenderci, un romanzo filosofico – il paragone non paia eccessivo – come lo fu il Candide di Voltaire, patriarca dell’illuminismo.

Restiamo intimiditi dall’ambizione dell’autore, probabilmente l’intellettuale afroamericano più autorevole del nostro tempo, che dopo la magistrale prova di autocoscienza su cosa significhi avere un corpo dalla pelle scura negli Usa, scritta in forma di lettera al figlio adolescente (Tra me e il mondo), qui si spinge ben oltre. Non solo intraprende una ricognizione storica d’impianto biblico, che si misura cioè col trascendente, la natura soprannaturale del Bene e del Male. Ma si permette di forzare i canoni della verosimiglianza temporale concependo un protagonista, Hiram Walker, diciannovenne schiavo in Virginia alla metà dell’Ottocento, nel quale però riconosciamo subito lui stesso, Ta-Nehisi Coates, uomo contemporaneo che si immerge nei gorghi della schiavitù e si protende nella funzione messianica della redenzione.

Può sembrare assurdo ma è così. Ci obbliga a misurarci con categorie non solo sociologiche ma esistenziali sopravvissute all’abolizione della schiavitù: la Qualità, ovvero il potere bianco; la Feccia, ovvero i segugi dallo stesso colore pallido detentori della forza bruta che regge il sistema; e il Servizio, eufemismo che definisce gli esseri umani nati in cattività e destinati a essere comprati e venduti come merci inanimate.

Esisteva già una vasta letteratura sullo strazio dei figli strappati alle madri, sulla sottomissione sessuale delle nere ai bianchi, sull’organizzazione del lavoro nelle piantagioni e su ogni altra forma di angheria all’origine della piramide sociale americana. La stessa Einaudi, solo pochi mesi fa, aveva tradotto un altro romanzo piuttosto macabro con queste tinte (Le confessioni di Frannie Langton di Sara Collins). L’andata e ritorno nella schiavitù di Hiram alias Ta-Nehisi, il ragazzo meticcio figlio del proprietario della fattoria di Lockless che l’ha messo al mondo con Rose, meravigliosa danzatrice nera, non dipende solo dai suoi superpoteri ma da legami e ricordi che gli è impossibile recidere. Lui che ha avuto modo di evadere, di arruolarsi nella Sotterranea – organizzazione abolizionista in cui militano insieme bianchi e neri – e di vivere libero a Filadelfia, sceglierà di tornare nell’Impero Meridionale di cui la Virginia era la sede ancestrale.

“Il treno per Sion è arrivato”, “E io vorrei salirci a bordo”: sono le parole d’ordine dei liberatori che sfidano con le loro incursioni la Feccia e accompagnano al Nord i fuggiaschi. Non a caso in questo Esodo rivestono un ruolo decisivo le donne; tanto che perfino Mosè qui verrà impersonato da una figura femminile.

Senza di esse non si darebbe la provvidenziale Conduzione, ovvero la connessione di sentimenti e di memorie che rendono possibile danzare sull’acqua, scavalcando magicamente ostacoli all’apparenza insormontabili. Mosè (che si fa chiamare Harriet per coprire la sua vera natura) ricorda al giovane Hiram l’origine della Conduzione redentrice di cui anch’egli è dotato: sarà danzatore dell’acqua come taluni suoi antenati che si buttavano fra le onde dell’oceano da bordo delle navi negriere.

Chi ha visitato l’isola-prigione di Gorée, di fronte alla capitale del Senegal, Dakar – piccola Auschwitz fra le tante dell’enorme Olocausto africano – ha toccato con mano quanto pesi ancor oggi la rimozione di quella memoria.

Lascio a chi si addentrerà nel romanzo di Ta-Nehisi Coates il piacere di seguirne i continui colpi di scena, le dinamiche inaspettate dei salvatori e dei traditori, la mediocrità parassitaria dei proprietari. Fin troppo banale sarebbe dire che questo libro ci accompagna nel grande non detto della società americana, scossa dal movimento di protesta di “Black lives matter” e dalla tenace, perdurante reazione suprematista.

Credo che Ta-Nehisi Coates riesca a imporci ben più di questa descrizione. Ogni pagina chiama al sovvertimento dei nostri punti di vista iniziali. A poco servono i sensi di colpa e anche le pur legittime istanze di risarcimento per l’ingiustizia storica di cui sono vittime gli afroamericani; se non impariamo a guardare il mondo capovolto con gli occhi di questa moltitudine che reca in sé tuttora il marchio della schiavitù patita.

Aspiriamo ciascuno a una nostra propria redenzione, afferma Hiram. Ma prima, gli spiega Bland che l’ha reclutato nella Sotterranea, viene la liberazione, la fuga dall’Egitto. Per questo Harriet è Mosè, e non Gesù.

Missili e sottomarini alla festa di Kim

Decine di migliaia di soldati in marcia, fucili, bombe e i nuovi missili intercontinentali. Sarà la parata militare nordcoreana più grande di tutti i tempi quella in programma per questa sera, in onore del leader supremo Kim Jong-un. Il dittatore celebra il 75° anniversario della fondazione del Partito dei Lavoratori, l’unico in vita dall’instaurazione della dittatura.

Un’esibizione muscolare diretta all’Occidente, ma soprattutto a Donald Trump, impegnato nella sfida delle presidenziali americane, da sempre il principale nemico di Pyongyang. Il rapporto diplomatico tra i due Paesi si è interrotto ad Hanoi lo scorso febbraio senza un accordo. Da quella data, la Corea del Nord ha continuato a testare una serie di nuovi missili balistici a corto raggio. Un nuovo arsenale missilistico dovrebbe essere presentato proprio oggi, nonostante le severe sanzioni economiche imposte dalla comunità internazionale. Già a marzo, secondo il giornale online Daily NK, Pyongyang avrebbe ordinato ai suoi militari di mobilitare 32mila soldati. Al momento quello nordcoreano è l’esercito più numeroso al mondo, con oltre 7 milioni e mezzo di soldati. “Potremmo vedere missili balistici intercontinentali o missili balistici per sottomarini ”, spiega il caporedattore di Daily NK. La partecipazione sarà probabilmente la più alta mai vista. L’aeroporto di Pyongyang, infatti, come si può osservare dalle immagini satellitari messe online dal sito dei dissidenti 38north, conta due nuove strade e 10 nuovi edifici. Tra gli altri, è prevista anche la presenza di 600 ricercatori della Kim Il-sung University, ateneo nel quale si starebbero sviluppando nuovi armamenti. Anche quest’anno, il leader rivolgerà un messaggio al mondo. Lo Stato ha chiuso i suoi confini esterni a gennaio per evitare il diffondersi della pandemia. La Corea del Nord afferma di non aver avuto casi di Covid-19, ma continuano a persistere rigide restrizioni. E l’economia anche per questo si trova in grave difficoltà.

Guarigione fast&furious. Trump vede già la Florida

Ad avere un presidente ‘sopra le righe’, gli americani ci sono abituati, da quando Donald Trump è alla Casa Bianca. Ma non l’avevano mai visto così effervescente come da quando è stato dimesso dall’ospedale militare Walter Reed, dove l’hanno curato per il Covid-19. Lui proclama di sentirsi benissimo, annuncia comizi a partire da lunedì in Florida e in Pennsylvania e rilascia raffiche d’interviste alla Fox News – l’ultima nella notte italiana, con uno dei suoi giornalisti preferiti, Carlson Tucker. La sua portavoce Kayleigh McEnany – positiva al virus anch’essa, ma asintomatica – non ha dubbi che il presidente non sia più contagioso, anche se manca l’ufficializzazione di un tampone negativo a 10 giorni da quello positivo. Se fosse ancora contagioso, “Trump non comparirà in pubblico”. E, in ogni caso, i piani per comizi nel fine settimana slittano. Il medico della Casa Bianca, Sean Conley, ritiene che il presidente possa riprendere l’attività e dice: “Trump sta rispondendo estremamente bene” alle cure. Negli Stati Uniti, l’epidemia non rallenta: la Johns Hopkins University contava, alle 12:00 sulla East Coast, 7.612.00 contagi e quasi 213 mila decessi.

Sulla salute del magnate, la Casa Bianca non è mai stata trasparente e non lo è neppure ora. C’è chi pensa che i farmaci sperimentali datigli possano condizionare il suo stato psico-fisico. E la speaker della Camera Nancy Pelosi, sua ‘grande nemica’, vuole istituire una commissione che valuti se ci sono i presupposti per ricorrere al 25° emendamento della Costituzione Usa, quello che prevede la rimozione di un presidente che non sia in grado di esercitare le proprie funzioni. “La forma fisica di Trump e la sua capacità di esercitare l’incarico devono essere valutate dalla scienza e dai fatti”. La speaker lo attacca per la gestione della pandemia: “Ha agito tardi, ha negato e distorto la realtà, non ha la capacità e la leadership necessarie, non ha un piano per i test e per tracciare i contagi”. Lui fa dell’ironia: “Nancy vuole creare le condizioni per rimpiazzare quell’addormentato di Joe (Biden) con Kamala Harris”. L’iniziativa della Pelosi non andrà lontano: la Camera potrebbe anche istituire la commissione, ma il Senato, dove i repubblicani sono maggioranza, la boccerà. E, comunque, nulla avverrà prima dell’Election day. La mossa però serve a instillare dubbi nell’opinione pubblica: gli americani stanno già votando. Secondo fonti di stampa, 6,6 milioni di elettori, dieci volte di più che nel 2016, hanno ormai imbucato la loro scheda. Nella media dei sondaggi, il vantaggio di Biden su Trump s’avvicina ai 10 punti, 9,7 secondo il sito RealClearPolitics, 51,6 contro 41,9%, fra i 5 e i 7 punti negli Stati in bilico. Il presidente fa spallucce: “Fake news, andiamo bene”. Durante l’intervista alla Fox News, Trump è stato ‘visitato’ da Marc Siegel, il medico che dice che Biden “si dopa” prima dei dibattiti e che è “quasi impossibile” per un ‘under 70’ morire di Covid – una sorta di Zichichi d’America –.

L’attivismo, quasi la frenesia, del presidente di ritorno dall’ospedale, è confermato dalle notizie che filtrano da una Casa Bianca semi-deserta perché i contagi fioccano e i dipendenti non essenziali ‘tele-lavorano’. Il leader dei repubblicani in Senato, Mitch McConnell, molto vicino a Trump, non vi mette piede dal 6 agosto perché, contrariamente a quanto avviene sul Campidoglio, lì non si porta la mascherina e non si pratica il distanziamento sociale. La campagna è pure scossa dagli echi di un piano, sventato dall’Fbi, per rapire Gretchen Whitmer, governatrice democratica del Michigan ‘pro lockdown’, oggetto a maggio degli attacchi di Trump, contestata dagli ‘anti-lockdown’: 13 gli arrestati, militanti del movimento dei Boogaloo, scheggia della galassia dell’estrema destra. La Whitmer dice: “Ogni volta che Trump mi colpisce, cresce contro di me una retorica online violenta”.

Caso Navalny, “Europa unita per le sanzioni alla Russia”

L’Europa è pronta a prendere una decisione politica condivisa contro Mosca per il caso di Alexei Navalny, l’attivista russo avvelenato e curato a Berlino. I ministri degli Esteri dei 27 Paesi ne parleranno al Consiglio dell’Unione europea che si terrà a Bruxelles il 12 ottobre. Lo ha rivelato un alto funzionario dell’Ue a condizione di anonimato, citato dall’agenzia russa Interfax. “C’è una proposta da Francia e Germania. È già stata discussa nel gruppo di lavoro del Consiglio Ue. I ministri prenderanno una decisione politica su questo tema. Ma non ci sarà ancora un elenco (di persone e organizzazioni soggette a sanzioni) deciso in questo incontro”, ha detto la fonte, secondo cui il futuro elenco potrebbe includere persone fisiche e giuridiche piuttosto che la Russia.

La risposta di Mosca non si è fatta attendere e subito il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, in conferenza stampa ci ha tenuto a precisare che non sarebbe stato il presidente Vladimir Putin a non voler collaborare con la Germania in un’inchiesta per venire a capo dell’avvelenamento dell’oppositore, ma che al contrario sarebbe stata la Germania a respingere le richieste della Russia di indagare insieme sul caso.

“La nostra posizione è aperta e onesta. Chiedono che si svolga un’indagine, ma ancora la Germania non ci fornisce i fatti, dicendo che questo non è un caso bilaterale ma un affare internazionale”, ha detto Lavrov. Il ministro ha poi descritto il comportamento dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac) che ha confermato la presenza dell’agente Novichok nel sangue di Navalny e della Germania come “la solita vecchia storia”. “Purtroppo la Germania ha trascurato i suoi obblighi derivanti dal diritto internazionale”, ha concluso Lavrov.

Jihad anonima sequestri. Ostaggi fantasmi del Sahara

A Bamako, capitale del Mali, la notizia della liberazione dei 4 ostaggi era nell’aria da qualche giorno. E, secondo quanto si evince da alcuni documenti, padre Maccalli, Nicola Chiacchio, la cooperante francese Sophie Pétronin e Soumaïla Cissé, leader del partito Union pour la République et la Démocratie

(Urd) sono già stati liberati martedì 6 ottobre. Il portavoce del governo ha ufficializzato il rilascio solo ieri. “Per un protocollo di sicurezza”, ha detto Ousmane Issoufi Maïga, capo della Cellula di crisi con l’incarico di coordinare gli sforzi per la liberazione di Cissé. I primi contatti con i terroristi per la liberazione degli ostaggi sono cominciati quando era ancora presidente Ibrahim Boubacar Keïta: emissari hanno contattato Iyad ag Ghali e Amadou Koufa. Il primo è una vecchia figura indipendentista tuareg, divenuto capo jihadista e fondatore di Ansar Dine (ausiliari della religione, ndr); Koufa è un predicatore radicale d’etnia fulani, e capo del “Fronte per la liberazione di Macina”, entrambi fanno anche parte del raggruppamento terrorista fondato nel marzo 2017 da cinque sigle di miliziani “Gruppo di sostegno dell’Islam e dei musulmani”. Iyad ag Ghali è venuto alla ribalta durante il rapimento di Rossella Urru, nel luglio 2012. Fu lui che la consegnò agli italiani dietro il pagamento di congruo riscatto, almeno secondo la testimonianza di Serge Daniel, nostro stringer in Mali, che stava intervistando Iyad quando arrivarono i soldi. La Farnesina negò qualunque pagamento.

Padre Pierluigi Maccalli della Società delle missioni africane (Sma), è stato rapito in Niger la sera del 17 settembre 2018, al confine con il Burkina Faso. Mentre Nicola Chiacchio, del quale si hanno poche notizie, è stato preso in ostaggio dai terroristi nel febbraio 2019. Chiacchio era partito dall’Italia per un’avventura assai bizzarra: un tour in bici nel Sahel, incurante dei gravi problemi di insicurezza che regna nella regione da anni. Il temerario turista era stato fermato in febbraio dalle forze dell’ordine a Douentza nella regione di Mopti, sulla strada per Timbuctù. Il ciclista è stato rilasciato due giorni dopo e senza esitare avrebbe preso la pista di sabbia di 200 chilometri Douentza-Bambara Maudé-Timbuctù. Fino a aprile 2020, con la pubblicazione del video che lo mostra insieme a padre Maccalli, nessuno ha più avuto sue notizie. Ora è nuovamente un uomo libero e avrà tempo di raccontare le sue avventure, come era solito fare nel suo blog. Qualcuno però insinua che il “ciclista folle” (come è stato soprannominato) fosse lì con un altro scopo: cercare Maccalli, cosa che gli è riuscita benissimo. I due sono rimasti prigionieri assieme.

Sophie Pétronin è stata rapita la vigilia di Natale del 2016 a Gao, dove operava da anni come responsabile dell’Ong svizzera Association d’aide à Gao

. Soumaïla Cissé, gran oppositore dell’ex presidente Keïta, è stato sequestrato insieme alcuni sostenitori e colleghi di partito – rilasciati pochi giorni dopo – durante un comizio a Niafunké, vicino a Timbuctù, la sua roccaforte. Durante le proteste nelle piazze di Bamako, iniziate il 5 giugno e che hanno portato alla caduta di Keïta, la sua liberazione è stata chiesta a gran voce da società civile, partiti dell’opposizione e religiosi.

Mentre il Mali e la comunità internazionale applaude per la liberazione dei 4 ostaggi liberati, altri sono ancora in mano ai loro aguzzini. Béatrice Stockly, missionaria della Chiesta metodista svizzera, è stata rapita il 6 gennaio 2016 a Timbuctù. La donna era già stata sequestrata nell’aprile 2012 per una decina di giorni: il rapimento fu rivendicato dal gruppo jihadista tuareg Ansar Dine guidato da Iyad ag Ghali, mentre ora è tenuta prigioniera dall’Emirato del Sahara, una fazione di Al Qaeda nel Maghreb Islamico (Aqmi). Il 17 febbraio 2017 a Karangasso (sempre in Mali) è stata rapita la suora colombiana Gloria Cecilia Argoti. Il medico australiano Ken Elliot è stato sequestrato insieme alla moglie Jocelyn (poi rilasciata) il 15 gennaio 2016 a Djibo, nel nord del Burkina Faso.

Aqmi ha rivendicato anche il sequestro del cittadino rumeno Iulian Ghergut, rapito in una miniera nel Burkina Faso nell’aprile 2015. Il cittadino statunitense Jeffery Woodke (operatore umanitario nel Paese dal 1992) è in mano ai terroristi dall’ottobre 2016. Un anno fa il presidente nigerino Mahamadou Issoufou aveva spiegato che l’americano e il tedesco Jörg Lange, operatore umanitario rapito nell’aprile 2018 , erano vivi.

Luce e gas, l’Antitrust vs Enel & C.

Contratti di luce e gas poco trasparenti nel mercato libero con costi nascosti anche nei messaggi pubblicitari che fanno lievitare il conto delle bollette.

Questa l’accusa con cui l’Antitrust ha avviato tredici procedimenti istruttori nei confronti delle più importanti società del settore, tra cui le due quotate in borsa Enel Energia ed E.On. Migliaia le segnalazioni arrivate alle varie associazioni e all’Authority dell’energia (Arera) per segnalare le condotte aggressive attuate dai tanti operatori che, laddove non estorcono la sottoscrizione del contratto attraverso i venditori porta a porta, applicano penali salatissime in caso di recesso, senza spiegare chiaramente l’esistenza di alcune voci di costo aggiuntive al prezzo o che il contratto prevede uno sconto solo per un periodo limitato nel tempo, di solito 24 mesi, al termine del quale la bolletta schizza in alto. Un settore, questo del mercato libero, che a 15 mesi dall’abolizione del tutelato (dove ci sono ancora 15 milioni di famiglie, circa la metà del totale) conferma l’esistenza di gravi criticità che hanno spinto diversi governi nel corso degli anni a scegliere di rinviare il passaggio. Il percorso è iniziato 21 anni fa. Intanto il presidente dell’Authority Stefano Besseghini durante la relazione annuale ha spiegato che le famiglie nel mercato libero pagano il 26% in più rispetto alla maggior tutela.

Ora la data del primo gennaio 2022 è alle porte e milioni di famiglie sono in balia di una nuova decisione dell’ultimo minuto che potrebbe ancora far slittare il passaggio obbligatorio verso il mercato libero. Manca, infatti, ancora il decreto di indirizzo sulle modalità della fine dei prezzi tutelati dell’energia su cui stanno lavorando il ministero dello Sviluppo economico e l’Arera. Così come non c’è un tassello fondamentale per il superamento della maggior tutela: l’albo dei venditori abilitati alla vendita (già previsto dalla legge del 2017). Non ci sono regole chiare per la partecipazione al mercato dell’energia, tanto che gli operatori oggi sono addirittura più di 700 e ci si trova di tutto. Inoltre un così numero alto di gestori più che sana concorrenza, a vantaggio del mercato, potrebbe creare ancora più confusione. Intanto, nonostante il monito di Besseghini che invoca la massima attenzione sul superamento della tutela per i consumatori domestici, dal primo gennaio 2021 dovranno passare forzatamente al mercato libero tutte le piccole imprese (Pmi). Ma non è ancora chiaro come ciò avverrà. Si prospetta la creazione di “pacchetti” di clienti che verranno messi all’asta al miglior offerente con cui rimarranno bloccati per non si sa quanto tempo. In un mercato complesso come quello dell’energia elettrica, appesantito anche da oneri non legati alla fornitura (ad esempio il finanziamento delle rinnovabili), resta ancora facile cadere nelle trappole del marketing.

E l’Eni fa causa alla Nigeria: “Rivogliamo i nostri pozzi”

Mentre a Milano va verso la conclusione il processo per corruzione internazionale a Eni e ai suoi manager, accusati di aver pagato una supertangente in Nigeria, altre vertenze sul contenzioso nigeriano si accendono in giro per il mondo, a Washington e nel Delaware. Il 3 settembre si è chiusa la causa promossa dallo Stato nigeriano presso la Corte di Giustizia di Londra, che si è detta non competente per motivi di giurisdizione. Ora la compagnia petrolifera italiana ha avviato a Washington un arbitrato contro la Nigeria presso l’Icsid (International Centre for the Settlement of the Investment Disputes), l’organizzazione della Banca mondiale che giudica sulle contese contrattuali internazionali. Il 14 settembre, Eni ha chiesto all’Icsid di valutare il comportamento della Nigeria, che sulla base di accuse di corruzione che Eni ritiene infondate, non ha rispettato il contratto firmato nel 2011 che concedeva a Eni (e alla sua alleata Shell) il diritto di esplorazione sul gigantesco campo petrolifero denominato Opl 245. La Nigeria non ha mai revocato a Eni e Shell la licenza d’esplorazione petrolifera, non l’ha però mai trasformata in licenza estrattiva, bloccando dal 2011 a oggi l’investimento delle due compagnie.

Eni e Shell avevano ottenuto la licenza pagando su un conto a Londra del governo africano 1 miliardo e 92 milioni di dollari, poi subito girati a Malabu, una società riferibile all’ex ministro del petrolio Dan Etete, e infine dispersi in una serie di conti di politici, faccendieri, ministri ed ex ministri nigeriani e di alcuni mediatori internazionali. Una gigantesca corruzione internazionale, secondo la Procura di Milano, un caso di tangente che non è, come di solito, una percentuale dell’affare realizzato, ma addirittura l’intero importo dell’affare. Un normale contratto, secondo Eni, che ripete di aver versato i soldi su un regolare conto del governo, di non essere responsabile di quello che è successo dopo il suo bonifico e di voler tornare quindi in possesso del giacimento, che ritiene di aver regolarmente pagato, prima che la licenza scada, nel maggio 2021.

L’ipotesi dell’accusa formulata dai pm milanesi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro è però condivisa dagli attuali governanti nigeriani, che accusano di corruzione i loro predecessori, rifiutano di dare a Eni e Shell il giacimento e anzi chiedono di tornare in possesso di quel miliardo di dollari che ritengono strappato al popolo della Nigeria.

A pronunciarsi sulle accuse penali sarà, tra qualche mese, il Tribunale di Milano. Intanto però a Washington è al lavoro anche l’Icsid, che dovrà valutare gli argomenti contrattuali presentati contro lo Stato della Nigeria, per conto di Eni, da due studi legali, Three Crowns di Londra e Aluko & Oyebode di Lagos. “Si tratta di un atto dovuto a tutela dei nostri investimenti e nei confronti dei nostri investitori”, dichiara Eni, “ma confidiamo che si possa comunque arrivare a una soluzione soddisfacente per entrambe le parti”.

Al lavoro anche il Tribunale distrettuale del Delaware, negli Usa, dove Eni ha chiamato in causa la Drumcliffe Partners Llc, una società americana di gestione degli investimenti che si è impegnata a finanziare le azioni legali della Nigeria, in cambio di una percentuale su quanto riuscirà a recuperare. Drumcliffe sostiene di gestire un portafoglio mondiale di richieste di risarcimenti per un valore complessivo di 14 miliardi di dollari che riguardano frodi commerciali, insolvenze, recupero crediti. Nel caso della Nigeria, Drumcliffe ha garantito finanziamenti per 2,75 milioni di dollari da impegnare nelle azioni legali del Paese africano in giro per il mondo, con l’obiettivo di recuperare la cifra di oltre 1 miliardo di dollari che la Nigeria potrebbe ottenere come risarcimento da Eni e Shell .

La vicenda nasce nel 2016, quando il procuratore generale e ministro della Giustizia della Nigeria, Abubakar Malami, dà mandato allo studio legale nigeriano Johnson & Johnson di recuperare i fondi di Opl 245 acquisiti illecitamente, secondo il governo, dalla società Malabu controllata dall’ex ministro Etete. In cambio di un compenso del 5 per cento sulle somme recuperate. Nel 2018, lo studio Johnson & Johnson stipula un accordo con una società del Delaware collegata a Drumcliffe, Poplar Falls Llc, riconoscendole un compenso del 35 per cento sui fondi che riuscirà a recuperare. Sul miliardo ipotizzato, sarebbero tra i 300 e i 400 milioni di dollari. Una “commissione” abnorme, secondo Eni, che chiede al tribunale del Delaware di fare chiarezza. Secondo un report commissionato dalla compagnia petrolifera, il fondatore di Drumcliffe, James “Jim” Christian Little, nel suo profilo Linkedin conferma di aver lavorato per una azienda, la Sra International, che ha fornito servizi tecnologici alle agenzie d’intelligence Usa; un suo collaboratore, Christopher Camponovo, ha lavorato per il Dipartimento di Stato americano e per il National Security Council Usa.

La Pedemontana Veneta è (quasi) realtà: mancano solo 6 anni e 129 giorni alla fine

Può attendere almeno 6 anni e 129 giorni la realizzazione della Pedemontana Veneta, superstrada a pagamento che – dalla A4 alla A27 – attraversa le province di Vicenza e Treviso, su cui la Regione ha puntato centinaia di milioni di euro. L’annuncio del ritardo monstre è stato dato, quasi inconsapevolmente, con un comunicato della Struttura di Progetto dopo il dissequestro ottenuto dalla Procura di Vicenza di un cantiere fermo dal 2017 “sulla canna sud, lato Castelgomberto” di una galleria, a causa di una voragine profonda 25 metri e larga una trentina. La stessa nota dà conto delle difficoltà trovate “dall’altra parte, lungo la canna nord” dove si è continuato a scavare: “La galleria è naturale, in terreno sciolto (caratteristiche che impongono medie di avanzamento giornaliere molto ridotte, circa 80 cm al giorno)”. Un dato che conferma come la Pedemontana non potrà essere finita prima del 2027. La Regione informa che della galleria nord (lunga 5,824 km) sono stati finora scavati 3 km. Mancano ancora 1,333 km sul lato di Vicenza, e altri 521 metri sul lato di Treviso, per un totale di 1,855 km. Ma se le “medie di avanzamento” sono “di circa 80 centimetri al giorno”, per ultimare il solo scavo della galleria (mancherebbe poi l’arredo stradale) servono 2.319 giorni di lavoro, festività comprese. Ovvero 6 anni e 129 giorni, salvo improvvise accelerazioni. “È il caso di dire che si comincia a vedere la fine del tunnel”, annuncia la Struttura di progetto. La realtà è ben diversa, visto che nel 2013 il fine lavori era stato previsto per il 2016 dallo stesso governatore Luca Zaia. Poi è stato spostato all’11 settembre 2020”. Il tempo è scaduto un mese fa: sono stati aperti solo 11 km dei 94 previsti. In realtà, gli intoppi per la maggiore opera cantierata in Italia (costo 2 miliardi 300 milioni di euro più Iva) non sono finiti. È stato dissequestrato ieri il cantiere bloccato nel 2016 per il crollo della volta che uccise un operaio e la Regione ha chiesto alle imprese “un nuovo cronoprogramma con tempi definiti”. Ma quale se si procede a 80 centimetri al giorno? Le 14 persone indagate fanno parte della direzione tecnica, della contraente Sis e della concessionaria Società Pedemontana Veneta. C’è poi un’inchiesta sui materiali utilizzati non a norma Ue. Il raccordo con la A4 è legato ai lavori dell’alta velocità e rischia di andare alle calende greche. La prima pietra risale al 2011. Nel 2017 la Regione finanziò con 300 milioni il Consorzio Sis per sbloccare l’impasse dei lavori. Ma così la giunta Zaia si è assunta i rischi economici legati al volume del traffico nei 39 anni di gestione del concessionario. Quei 7 anni di ritardo rischiano di far saltare tutti i piani finanziari relativi ai pedaggi. E a pagarne le conseguenze sarebbero i contribuenti.