Bonus 600 euro. Fuori i nomi dei parlamentari: l’Inps deve darli

 

Gentile redazione, scrivo per chiedere informazioni in merito ai parlamentari che hanno usufruito del bonus di 600 euro per le partite Iva. Il Fatto Quotidiano si era impegnato, a seguito di una petizione, a chiedere di rendere pubblici i nomi dei parlamentari coinvolti direttamente all’Inps. Se non mi è sfuggito qualche articolo in merito non mi risulta che i nomi siano stati resi noti. Gradirei per cortesia avere delucidazioni in merito. Grazie.

Anselmo Cocconi

 

Gentile Anselmo, non si sbaglia: i nomi dei politici (parlamentari e consiglieri regionali) che hanno chiesto il bonus Covid da 600 euro non sono ancora noti. O meglio, siamo fermi alle auto-denunce dei tre deputati (i leghisti Andrea Dara e Elena Murelli e l’ormai ex 5 Stelle Marco Rizzone) e della manciata di consiglieri che si sono fatti avanti credendo che l’Inps avrebbe di lì a poco rivelato l’identità di tutti i furbetti.

Si sbagliavano, perché da ormai due mesi l’ente previdenziale guidato da Pasquale Tridico nega ogni richiesta di accesso agli atti – compresa quella inviata dal “Fatto” – rimandando l’eventuale pubblicazione a quando il Garante per la privacy avrà chiuso l’istruttoria aperta nei confronti dell’Inps stesso. L’Authority sta infatti indagando su come l’ente abbia ottenuto i dati dei furbetti, “isolando” le richieste degli eletti in mezzo alle milioni di pratiche elaborate in quei giorni.

Nel frattempo la politica, che appariva così indignata, è ormai silente e non mostra alcuna voglia di andare fino in fondo a questa storia. La Commissione Lavoro della Camera avrebbe dovuto convocare il Garante in audizione, ma da più di un mese rinvia la pratica con la scusa proprio dell’istruttoria in corso.

Non resta allora che sperare nei principi del diritto all’informazione e dell’interesse pubblico: nonostante il primo rifiuto, il “Fatto Quotidiano” incalzerà presto l’Inps e il Garante con una nuova richiesta di accesso agli atti, sperando che per questa strada si possano superare i continui tentennamenti delle parti.

Lorenzo Giarelli

Siamo responsabili verso i più fragili

Ormai è chiaro. Il virus è dappertutto nel mondo. Malgrado si siano impiegate le strategie più disparate, ha sempre trovato una strada per sfuggire al nostro agguato. È la storia delle grandi pandemie. Quello che alcuni di noi aveva ipotizzato, è stato ufficialmente affermato da Michael Ryan, capo delle emergenze dell’Oms, in una riunione del consiglio esecutivo dedicata al coronavirus. “Le nostre stime attuali ci dicono che circa il 10 per cento della popolazione mondiale potrebbe essere stata infettata da questo virus”. È proprio cosi? Ancora una volta, i dati dell’Oms sono stati da più parti messi in discussione. Infatti, i vari studi di sieroprevalenza (numero di soggetti che in una popolazione mostra anticorpi e quindi ha contratto l’infezione) si attestano in una media del 5% e non del 10% come riportato da Ryan. In Italia i dati rilevati attraverso la campagna di sierodiagnosi si attestano intorno al 2,5% ed in particolare, in Lombardia, che ha registrato i dati più elevati, al 7,5%. Si parla di medie, mentre singole popolazioni possono dare estremi che vanno dall’1% fino al 43% a Bergamo.

Si conferma l’ipotesi che il numero dei soggetti positivi (che hanno avuto contatto con il virus) siano, di gran lunga, superiori a quelli ufficiali. Ciò è spiegabile perché la positività diagnostica è legata all’aver effettuato il test attraverso tampone rino-faringeo, che non è di facile accesso a tutta la popolazione mondiale. Analizzando i dati dell’Oms e quelli ottenuti dai vari studi di sieroprevalenza dei vari Paesi emerge che, dopo oltre nove mesi di circolazione, anche in Paesi che non hanno adottato idonee misure di contenimento, ancora oggi, circa il 90% della popolazione non ha avuto contatto con il virus e che perciò siamo lontani dall’effetto gregge che auspicheremmo ci possa proteggere dalla circolazione del virus. E poi i dati ad oggi ottenuti, ci fanno rielaborare i tassi di mortalità e letalità del virus. Se il 10% (o anche solo il 5%) della popolazione mondiale, cioè circa 760 milioni di persone (o la metà) hanno avuto contatto con il virus e i decessi sono stati 1.042.798 su 35.537.491 casi confermati, la letalità si attesterebbe al 2,9% e la mortalità intorno allo 0,2%. Percentuali molto più basse di quelle riferite nei primi mesi. Se dal punto di vista epidemiologico le percentuali che la caratterizzano oggi ci mostrano un’epidemia o pandemia “ridimensionabile” rispetto alle precedenti stime, è anche vero che i numeri assoluti sono molto importanti in un momento in cui stiamo assistendo ad un costante incremento dei casi. Quindi dobbiamo non sentirci assolutamente esentati dal rispetto di misure di contenimento che, oggi, non è solo una prevenzione personale, ma un dovere civico verso la società, rappresentata anche da tanti “fragili” che abbiamo il dovere di tutelare e che, ancora oggi, sono quelli che pagano il prezzo più alto.

Cade l’ultimo tabù: nessuna cacciata per i condannati

L’ultima frontiera, il principe dei tabù, sta per cadere. Perché il 21 settembre per il Movimento non è stato solo il giorno in cui il taglio dei parlamentari, su cui tante fiches avevano puntato, è diventato realtà. Ma pure quello in cui la realtà – stavolta in carte in tribunale – ha bussato alla loro porta: una condanna per Chiara Appendino, la sindaca più amata dai Cinque Stelle, costretta ad autosospendersi e a non poter immaginare più il suo futuro dentro il M5S. E sì che per lei e per l’altra sindaca, Virginia Raggi, avevano appena cambiato le regole, permettendo ad entrambe di potersi ricandidare, annullando di fatto il loro primo mandato da consigliere comunali e aprendo le porte al bis da prime cittadine. Ma tutti sapevano che in realtà, quel cavillo, serviva più che altro a Roma, ché a Torino Chiara non aveva intenzione di ricandidarsi. Perché il suo, di futuro, lo immaginavano tutti da un’altra parte. Non tanto al governo, dove un posto da ministro l’aveva già rifiutato, quanto ai vertici dei Cinque Stelle, da mesi in cerca di una guida. E chi meglio di lei?

Donna, apprezzata da tutte le anime del Movimento – un mezzo miracolo coi tempi che corrono –, personaggio silenzioso, “che non ha bisogno di dire sempre la sua”: una dote assai apprezzata, raccontano, in particolare da Beppe Grillo. Che da giorni, non a caso, sta pensando come intervenire per “recuperare” Chiara. La riserva Appendino è nel guado. Anzi, sarebbe fuori. In primo grado ha preso sei mesi per falso in atto pubblico. Si è autosospesa dal partito ancor prima che glielo chiedessero, per evitare imbarazzi. Ma è rimasta sindaca, innanzitutto perché non è finita nelle maglie della legge Severino, e poi perché le mancano pochi mesi di mandato e ha ragionato che non fosse il caso di andarsene per così poco. Nessuno ha fiatato, sul punto. Sebbene tutti sappiano che è in piena violazione del Codice etico che ogni aspirante candidato firma quando sceglie di correre con i Cinque Stelle: “Costituisce condotta grave ed incompatibile con la candidatura ed il mantenimento di una carica elettiva quale portavoce del MoVimento 5 Stelle la condanna, anche solo in primo grado, per qualsiasi reato commesso con dolo”, recita il documento, che equipara le condanne ai patteggiamenti e alle prescrizioni, escludendo solo i cosiddetti reati di opinione. Un testo che oggi nessuno tra i big esita a definire “draconiano”. Perché non prevede una distinzione tra i reati personali e quelli commessi in qualità di amministratore pubblico. Né stabilisce un limite di pena al di sotto del quale si possa chiudere un occhio.

Erano altri tempi, quando quel codice venne scritto. Ma ora che i Cinque Stelle sono al governo del Paese e amministrano un buon numero di enti locali, si sono resi conto da soli che non sono argomenti con cui si possa andar giù con l’accetta. E il caso Appendino ne è la conferma più grande. “Come organi ci stiamo interrogando sul caso di Chiara Appendino e sull’attualità delle norme che riguardano il suo caso”, ammette Vito Crimi, capo politico reggente e membro del comitato dei garanti che sta studiando alcune limature al Codice etico. Un ragionamento – quello sul caso Appendino – che è slegato dagli Stati generali, ma nessuno esclude che il tema possa arrivare perfino su quel tavolo. Anche perché se la norma ha fallito al primo banco di prova, c’è da attendersi che succeda di nuovo. Così, dopo aver superato lo scoglio del rinvio a giudizio – che pure agli esordi in politica dei grillini era considerato fatale – ora ci si appresta ad andare oltre la condanna in primo grado, almeno per alcune fattispecie di reati legati alla pubblica amministrazione. E l’Appello? Non è un tema da sottovalutare, visto che è il grado di giudizio che attende Virginia Raggi. In primo grado è stata assolta, la garanzia sul secondo non ce l’ha nessuno.

Simbolo e iscritti: perché Casaleggio non può usarli

La premessa ha il suono di una sferzata: “Quanto sta succedendo tra i Cinque Stelle e Davide Casaleggio conferma che per fare politica in modo democratico non si può che fare ricorso ai metodi e agli strumenti tradizionalmente usati da ogni partito”. Così sostiene l’amministrativista Gianluigi Pellegrino, che con i partiti e la politica ha avuto sovente a che fare per motivi professionali. Anche per questo, il Fatto gli ha chiesto un parere sui principali punti dello scontro in atto tra il Movimento e il patron dell’Associazione Rousseau, che per alcuni potrebbe anche tracimare nei tribunali.

Il primo nodo: di chi è il logo?

Si parte da una certezza nero su bianco, ossia dallo statuto della nuova associazione Movimento 5 Stelle, nata a Roma nel 2017 per volere dell’allora capo politico Luigi Di Maio e dello stesso Casaleggio. All’articolo 1 prevede che “il simbolo, di proprietà dell’omonima associazione MoVimento 5 Stelle con sede in Genova (quella fondata da Beppe Grillo, ndr) è concesso in uso” alla nuova associazione. Essendo Casaleggio un fondatore di fatto dell’associazione del 2017, può vantare diritti sul simbolo avuto in uso da Grillo? Secondo Pellegrino no. “La proprietà di un simbolo di un movimento politico – spiega il legale – è regolata dal codice civile e dai contratti che nel caso riconoscono la titolarità in capo alla prima associazione. Ma sul suo uso a fini elettorali la legge stabilisce come, una volta usato da un partito presente nelle istituzioni, quel simbolo non possa essere riutilizzato da nessun altro movimento. Il M5S ha quindi un preciso diritto di riutilizzarlo e gli elettori hanno diritto di riconoscerlo”. Ergo, “Casaleggio o l’associazione Rousseau non potrebbero mai adoperare quel simbolo in nuove elezioni. Una loro eventuale richiesta in tal senso sarebbe infondata da un punto di vista pubblicistico ed elettorale”. Poi, certo, sull’emblema del Movimento ci sarebbe molto altro da dire. “So – conferma Pellegrino – che a Genova è in corso un processo sull’uso del simbolo, che negli anni è più volte cambiato a livello grafico. Per esempio, è stato tolto il riferimento a Beppe Grillo. Ma va detto che lo stesso Grillo ebbe l’accortezza di depositarlo nei suoi tratti essenziali senza dizioni particolari”.

Elenchi: Rousseau è solo mandataria

Secondo l’articolo 4 dello statuto dell’associazione Rousseau, presieduta da Casaleggio, la medesima associazione “forma e gestisce l’elenco degli iscritti”. Nel dettaglio, gli iscritti al Movimento 5 Stelle, che si registrano proprio su Rousseau. Da sempre, chi e quanti sono nel dettaglio è un’informazione a disposizione solo dell’associazione di Milano. Per l’evidente irritazione dei 5Stelle. Ma il Movimento ha diritto di richiedere l’elenco a Casaleggio? “Assolutamente sì” risponde Pellegrino, che spiega: “Come prevede il suo statuto, l’associazione Rousseau deve coadiuvare il Movimento, rispetto al quale ha quindi un ruolo ancillare. Ne consegue che se il M5S lo richiede l’associazione deve consegnare ai 5Stelle l’elenco degli iscritti al movimento”. Da qui, si arriva a un punto centrale: il Movimento potrebbe recidere il rapporto con Rousseau e scegliere un’altra piattaforma senza conseguenze legali, anche se il legame è stabilito dallo statuto dei Cinque Stelle? Il legale è convinto di sì, proprio per il rapporto tra M5S e associazione: “Di fatto, il Movimento è un mandante e l’associazione è un mandatario nell’interesse del primo scelto per svolgere determinati servizi. E un tale mandato è sempre revocabile”.

Il blog delle Stelle: a chi appartiene?

Domenica scorsa il comitato di garanzia del Movimento ha censurato Casaleggio per un suo duro post apparso sul blog delle Stelle, in cui criticava la rotta politica del M5S: “Il blog è il canale ufficiale del Movimento e Davide Casaleggio non ricopre alcuna carica nel M5S”. Ma in questo caso Pellegrino dà ragione al manager milanese: “Lui ha pieno diritto a scrivere sul blog, questo è evidente. Casomai, non potrebbe impedire ad altri iscritti di utilizzarlo”. Tanto più che il blog sembra appartenere a lui, o no? “La privacy policy (il documento che spiega il trattamento dei dati personali, ndr) fa riferimento diretto alla responsabilità dell’associazione Rousseau, da lui presieduta”. Tradotto, dal blog Casaleggio non può proprio essere sloggiato.

I soldi: che fine faranno i 300 euro?

Ogni mese i parlamentari del M5S versano 300 euro all’associazione Rousseau per la gestione della piattaforma. Ma se il rapporto tra Movimento e associazione si interrompesse, i 5Stelle avrebbero diritto di chiedere indietro i soldi residui rimasti a Rousseau? “No, resterebbero all’associazione, che li ha ricevuti in cambio della prestazione di alcuni servizi” risponde il legale. “E poi – continua – i parlamentari si sono volontariamente sottoposti al vincolo dei 300 euro, previsto dallo statuto”.

Il Palamara radiato diventa radicale

Cronaca di una sentenza inevitabile per quanto i fatti abbiano sempre parlato da soli. Luca Palamara è stato rimosso dalla magistratura dai giudici disciplinari del Csm e l’ex potente consigliere del Csm, “con la toga sempre nel cuore”, cambia campo e se ne va al partito Radicale come membro della commissione Giustizia interna che spinge per la separazione delle carriere e per la fine dell’obbligatorietà dell’azione penale. Quando da magistrato si diventa imputato “si vedono le cose da un’altra ottica”.

Il collegio presieduto da Fulvio Gigliotti, laico M5S lo ha condannato dopo due ore e mezzo di camera di consiglio. Al centro delle contestazioni la riunione all’hotel Champagne di Roma, la notte del 9 maggio 2019, dove, per parlare della nomina del procuratore di Roma, di Perugia e non solo, c’era un imputato nella capitale, per Consip, Luca Lotti, deputato del Pd ed ex ministro, un altro deputato Pd, oggi Iv, Cosimo Ferri, toga in aspettativa, ex Csm, leader ombra di Magistratura Indipendente e 5 togati, Lepre, Spina, Morlini, Cartoni, Criscuoli, senza alcun sussulto istituzionale che li abbia spinti ad andarsene, costretti poi alle dimissioni perché il trojan nel cellulare di Palamara, fatto mettere dai pm di Perugia che lo accusano di corruzione, ha registrato tutto.

Durante la requisitoria è stato spiegato anche perché i candidati a Roma sono tutti danneggiati, sia pure per motivi diversi:il “prescelto” Alfredo Viola, Pg di Firenze, “estraneo al progetto, non fu valutato per il suo curriculum” ma per una supposta “discontinuità con Pignatone”; Franco Lo Voi, procuratore di Palermo è stato danneggiato per “un presunto endorsement di Pignatone” e Giuseppe Creazzo, procuratore di Firenze “per l’aperta ostilità di Lotti” a seguito delle inchieste a carico dei genitori di Matteo Renzi. Tutti e tre i magistrati hanno presentato ricorso contro la nomina a procuratore di Roma di Michele Prestipino, eletto dopo lo scandalo nomine che ha squassato il Csm e ha minato la credibilità della magistratura. Poco dopo la sentenza, che “non è politica”, ha riconosciuto il difensore Stefano Giaime Guizzi, giudice in Cassazione, la notizia della conferenza stampa nella sede del partito Radicale. È la sostituzione delle annunciate e mancate dichiarazioni spontanee in aula. A tre ore dall’espulsione dalla magistratura, Palamara ribadisce la sua versione: “Ho pagato io per tutti. Relazionarmi con la politica era funzionale a ciò che dovevo affrontare, mai barattato la mia funzione per fare un favore al politico di turno”. Poi, le ennesime stoccate dal sapore di avvertimenti a chi sa: “Lotti non è l’unico politico che ho incontrato, per le nomine ho incontrato altri politici, non solo del Pd”. I nomi? “Parlerò solo documentato”.

Consip, riecco Romeo: ammesso alla nuova gara

Alfredo Romeo ci riprova. L’impresa del re delle pulizie arrestato per la presunta corruzione di un funzionario Consip nel 2017 (scarcerato poco dopo e ora in attesa di giudizio) è stata ammessa alla seconda fase della gara FM per la pulizia e manutenzione dei grandi immobili pubblici indetta proprio dalla Consip. “Il concorrente – Romeo Gestioni Spa – è stato verificato con esito positivo” si legge nel provvedimento di Consip che ha disposto l’ammissione alla seconda fase della gara il 6 ottobre scorso. Romeo Gestioni Spa, controllata da Alfredo Romeo mediante la sua Romeo Partecipazioni, ha ricominciato a partecipare alle gare di pulizie Consip in corso e ora punta al colpo grosso: la gestione e pulizia dei grandi immobili pubblici. Nonostante Romeo sia a processo per corruzione di Marco Gasparri, ex funzionario Consip che ha patteggiato 20 mesi di pena e nonostante abbia appena ricevuto un avviso chiusura indagini per turbativa di gara e traffico di influenze (con Tiziano Renzi e altri) per la FM4, cioé la mega-gara relativa sempre ai palazzi pubblici.

La gara FM Grandi Immobili, indetta nel dicembre 2019, vale appalti per un miliardo e 16 milioni, suddivisi in 24 lotti. La FM4 del 2014 non è ancora aggiudicata per gran parte dei lotti proprio per le indagini penali e amministrative. La gara indetta a fine 2019 mette in palio un accordo quadro, non una convenzione esclusiva, come nella FM4. Chi vince insomma dovrà spartire il lotto con gli altri classificati dietro di lui.

Sull’ammissione di Romeo, la Consip spiega: “Si tratta di una prima verifica ‘light’ della documentazione amministrativa, basata su tre parametri: la corretta compilazione dell’istanza; il pagamento della garanzia provvisoria e il contributo CIG. I requisiti morali di partecipazione saranno oggetto di una valutazione successiva ristretta ai soggetti che passeranno la fase di selezione della busta B e C. Nella gara FM Grandi Immobili, infatti, abbiamo applicato per la prima volta il principio dell’inversione delle buste, in accordo con Anac e Antitrust, come previsto dalle nuove disposizioni”. L’inversione delle buste mira a risparmiare tempo facendo le verifiche solo sui ‘vincitori’. Risultato: se Romeo avesse offerto prezzi e condizioni migliori dei concorrenti, Consip dovrà valutare i requisiti morali prima di aggiudicare. Nella gara FM4 (quella per la quale Alfredo Romeo è indagato con il padre dell’ex premier Renzi) Romeo Gestioni fu esclusa da Consip. Non è detto che succeda ancora. La verifica dovrà infatti essere rifatta alla luce dei cambiamenti eventualmente intervenuti. In teoria la società potrebbe avere attuato misure di ‘cleaning’, cioè di pulizia interna, nei suoi assetti, sufficienti per Consip.

Dopo tre anni e mezzo dal suo arresto peraltro che non c’è una condanna, nemmeno in primo grado su Romeo. L’effetto combinato della nuova gara e dello stop della vecchia potrebbe essere paradossale: la gara FM4 per molti lotti non è stata aggiudicata e così le amministrazioni hanno prorogato gli appalti ai vincitori della precedente FM3.

Romeo aveva vinto per esempio il lotto più ambito di FM3, quello del centro di Roma. Nella graduatoria provvisoria della FM4 invece Romeo aveva perso quel lotto, il 10. Per sua fortuna però questo stesso lotto è uno di quelli non aggiudicati da Consip perché anche i rivali sono incappati nella scure dell’Antitrust. Risultato: Romeo continua a pulire il palazzo di giustizia di Roma, compresi gli uffici dei pm che lo hanno fatto arrestare. Ovviamente Romeo partecipa anche stavolta nel lotto Roma centro e – se vincesse – nel 2021 potrebbe subentrare a se stesso.

Eboli, il sindaco agli arresti mette a nudo il sistema dei “deluchiani”

Ci sono pezzi del “sistema De Luca”, il grumo di potere messo in piedi dal governatore Pd della Campania, nelle vicende politico-giudiziarie che hanno preceduto l’arresto del sindaco di Eboli Massimo Cariello. Il primo cittadino, rieletto il 21 settembre con quasi l’80% al primo turno, è accusato di corruzione per aver truccato un paio di concorsi con lo scopo di provare a far assumere le figlie dei suoi collaboratori e di un consigliere comunale. Vicende apparentemente “minimali”. Ma nelle carte raccolte dalla procura di Salerno guidata da Giuseppe Borrelli compaiono alcuni flash del “sistema”. Il trojan ascolta Cariello a colloquio con un funzionario di Cava dei Tirreni che in cambio della promessa di alcune soffiate sul concorso chiede in cambio di silurare una persona sgradita dalla presidenza di un consorzio farmaceutico pubblico. E Cariello cosa fa? Per ottenere lo scopo telefona a Bruno Di Nesta e Franco Alfieri, per sollecitarli a mettersi di traverso. Sono due deluchiani a cento carati. Pochi giorni fa Il Mattino ha scritto che Di Nesta, ex presidente di quel consorzio, sta per entrare nello staff del governatore. Mentre Alfieri, sindaco di Paestum, di De Luca è stato capo della segreteria: è il famoso “mister fritture di pesce”, emblema del clientelismo teorizzato da De Luca.

Con Cariello sospeso dal prefetto, Eboli è momentaneamente guidata dal suo vice nominato appena 24 ore prima: Luca Sgroia, fratello del presidente del Tribunale del Riesame di Salerno Gaetano Sgroia. I loro nomi evocano una storia del 2006 forse dimenticata: quella dei nastri di Vincenzo De Luca, all’epoca deputato, intercettato nell’inchiesta Sea Park. A decidere la distruzione di quelle bobine fu proprio il Gip Gaetano Sgroia, e subito dopo Luca Sgroia divenne segretario dei Ds di Eboli e aprì la campagna elettorale per De Luca sindaco di Salerno.

Oggi in famiglia De Luca il deputato in carica è il figlio, Piero De Luca. Fotografato l’11 settembre insieme a Cariello durante un evento elettorale moderato dalla giornalista Maria Rosaria Sica. La piazza di Eboli era piena. Di cittadini e di deluchiani.

“Ora il proporzionale con sbarramento al 5% e doppia preferenza di genere”

L’ultima volta che abbiamo parlato con Valerio Onida era la vigilia del referendum sul taglio dei parlamentari. Ci aveva detto: “Vorrei sottolineare, per coloro che sono preoccupati per le sorti del principio di rappresentanza, che da anni quando si discute di legge elettorale si sente parlare di correttivi che favoriscano la governabilità, i quali incidono sul principio di rappresentanza assai più del numero di parlamentari”. Oggi spiega: “Il numero dei parlamentari non era questione di grande importanza. Il fatto che il referendum sia passato con un risultato così netto significa che c’è stata sintonia tra i parlamentari e i cittadini; e che la maggioranza di coloro che hanno votato non avevano timori per le sorti della democrazia”. E dunque, acquisito il taglio, parliamo della legge elettorale.

Professore, attualmente la legge in discussione è di impianto proporzionale, ma qualcuno torna a parlare di maggioritario. Lei che ne pensa?

Se maggioritario significa solo collegi uninominali, sul modello della legge inglese per intenderci, le rispondo che non è pensabile introdurlo in questo momento in un sistema politico come il nostro che non è bipartitico e nemmeno bipolare. Potrebbe portare a gravi distorsioni, e cioè ad attribuire la maggioranza dei seggi in Parlamento ai candidati di un partito o di una coalizione diversa da quella che ha la maggioranza dei voti nel Paese. Se si vuole un sistema maggioritario, bisognerebbe adottare altri accorgimenti, come il doppio turno (alla francese) nei collegi nei quali al primo turno nessun candidato ottenga il 50% dei voti: il ballottaggio consentirebbe forme di convergenza o di ‘desistenza’.

O liste bloccate o preferenze: entrambi i meccanismi hanno controindicazioni.

Qui parliamo allora di un sistema elettorale fondamentalmente proporzionale di lista. Le liste bloccate, se sono molto corte (3-4 candidati), possono anche essere accettate. Infatti cosa vuol dire che l’elettore deve poter scegliere il deputato o il senatore? Quando il cittadino va a votare la prima scelta che normalmente fa è quella del partito che ha presentato la lista o il candidato. Un sistema di liste corte, come nel caso dei collegi uninominali, consente agli elettori di valutare le scelte che il partito ha fatto nella formazione della lista (o nella presentazione dell’unico candidato). In un sistema proporzionale di lista con liste non brevissime, si può introdurre il voto di preferenza, che nel nostro sistema è stato previsto per molto tempo. Le preferenze, ricordiamolo, dovrebbero essere almeno due in modo da consentire un equilibrio di genere (che nei sistemi uninominali o di liste bloccate dovrebbe essere assicurato imponendo un equilibrio nelle candidature). Il problema sono le possibili degenerazioni, con la compravendita di voti o pacchetti di voti, specie se gli elettori che usano il voto di preferenza sono pochi.

L’altro grande tema di scontro è la soglia di sbarramento.

È chiaro che una soglia, anche significativa, è utile per ridurre l’eccessiva frammentazione politica, che non giova al buon funzionamento del Parlamento. In un sistema politico articolato e fluido come il nostro attuale – si pensi al numero abnorme di liste che vengono di solito presentate – lo sbarramento incentiva la convergenza delle forze politiche più piccole. Con un proporzionale puro o con una soglia molto bassa, ogni piccola formazione tende a presentarsi da sola. Con la soglia al 5 si cambia musica: è un incentivo alla presentazione di liste di coalizione.

Cosi si sacrifica la rappresentanza.

Il problema è sempre l’equilibrio fra rappresentanza e governabilità. Il cosiddetto ‘diritto di tribuna’ consentirebbe peraltro alle formazioni politiche più piccole, ma che abbiano un certo consenso solo in alcune aree del Paese, di eleggere dei loro rappresentanti, equilibrando l’effetto di una soglia di sbarramento alta.

Vitalizi, la sentenza impugnata congela il malloppo della Casta

C’è chi già brinda e chi è più cauto. Perché la sentenza che ha ripristinato i vitalizi agli ex senatori – che erano stati tagliati un anno e mezzo fa – sarà impugnata dall’amministrazione di Palazzo Madama. Con l’effetto di congelare la restituzione del malloppo.

Sentite qui Roberto Speroni, uno degli esponenti storici della Lega, anche lui tra gli ex inquilini di Palazzo Madama che punta a riavere l’assegno tutto intero, 6.600 euro al mese contro la miseria di 4 mila di oggi. “La commissione Caliendo (nel senso di Giacomo, presidente del collegio composto anche dai due leghisti Simone Pillon e Alessandra Riccardi e da due supplenti scelti dal presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati) riconosce che c’è stata una violazione di un diritto. È come quando fai causa all’Inps e la vinci. Ora non è che chiunque veda riconosciuto il diritto di avere dei soldi debba poi rinunciarvi, solo perché siamo in un periodo di pandemia o c’è qualcun altro in difficoltà economica”. Giammai, anzi. “Se me li danno questi soldi, li prendo, non è che li butto via” sottolinea con buona pace di Matteo Salvini, che dice di schifare i vitalizi come la peste. Un “odioso privilegio” che la sentenza depositata in questi giorni ordina di restituire tutto intero, arretrati compresi. Quelli che gli ex pretendono a compensazione delle somme falcidiate dal taglio entrato in vigore il 1 gennaio 2019 che in ben 776 hanno contestato minacciando sfaceli. Ottenendo in tempi record la cancellazione del “sacrificio” motivato da ragioni di equità sociale, ma a sentir Lorsignori inflitto con intento persecutorio: altro che poveri pensionati alle prese con le cause di fronte ai tribunali italiani contro l’Inps. Certo, c’è voluta tanta perseveranza da parte dell’organo di giustizia interna del Senato che ha dovuto fare i conti con dimissioni e astensioni dal collegio, nel frattempo sospettato di conflitti di interessi vari. Per tacere delle polemiche su un verdetto preconfezionato che il Fatto Quotidiano era stato in grado di anticipare prima che i “giudici” si riunissero per decidere.

Nulla da fare: Caliendo &C. hanno tirato dritto per vergare la sentenza che boccia il taglio dei vitalizi ritenuto ingiusto e illegittimo: “Risulta esorbitare i limiti fissati in ordine alla ragionevole incisione sui diritti in essere”. Insomma la sforbiciata è stata una mazzata per le tasche degli ex eletti che sono alla fame. Guardate Antonio Razzi che scaccia la disperazione tra comparsate in tv e balli su TikTok, quello stesso Razzi passato agli annali del Senato per la frase sussurrata a un collega: “Andiamo avanti. Manca un anno e entra il vitalizio. Amico mio, fatte li cazzi tua…”. L’Associazione Articolo 32- 97 (che si occupa di diritto alla Salute) si era costituita davanti alla commissione Caliendo per opporsi almeno al ripristino del suo assegno da oltre 3.300 euro al mese a vita. Niente da fare: “Ha vinto lo Stato di diritto”, per dirla con l’avvocato Maurizio Paniz che agli ex ha restituito un sogno chiamato vitalizio.

La falla nei laboratori privati “Alcuni positivi sono spariti”

Ha fatto il test sierologico ed è risultato positivo. Ma il centro diagnostico privato al quale si è rivolto non lo ha comunicato al medico di base. Al responso è seguito il silenzio. “È accaduto al mio socio: io negativo e lui positivo – racconta A., fotografo di moda napoletano –. Siamo stati noi a comunicarlo al medico, che poi ci ha detto di fare un altro sierologico, un tampone rapido e uno molecolare. È emerso che il primo test era un falso positivo. Ma se fossimo stati meno responsabili avremmo potuto andare in giro come se nulla fosse, senza essere segnalati, a contagiare altre persone”. Un caso isolato? Fino a che punto le disposizioni regionali vengono rispettate?

Il laboratorio privato al quale si sono rivolti A. e il suo socio è un grande poliambulatorio del capoluogo campano. Tutto per questioni di lavoro. Erano stati chiamati ad allestire un set fotografico e dovevano avere la certezza di non essere entrati in contatto con il virus. “Il laboratorio ci ha chiesto i nostri dati e il nome dei nostri medici – prosegue A. –, dicendoci che li avrebbero contattati per riferire l’esito. A noi è stato detto, il medico del mio socio lo ha saputo da noi solo il giorno dopo. Per fare un altro test e i tamponi ci siamo rivolti ad un’altra struttura privata”. Se così fosse si tratta di un’aperta violazione di quanto disposto dalla Regione Campania. Il presidente Vincenzo De Luca, con il protocollo con il quale ha affidato pochi giorni fa anche ai privati la facoltà di eseguire test sierologici e tamponi, ha previsto l’obbligo di trasmettere sempre gli esiti – positivi e negativi – alla piattaforma digitale alla quale è collegato tutto il sistema sanitario campano, dagli ospedali ai medici di base. Anche se è proprio la Regione la prima a non stupirsi del fatto che un laboratorio privato abbia dimenticato di comunicare l’esito del test. “Sappiamo di casi di persone risultate positive e che poi sono sparite”, riferiscono dallo staff di De Luca, spiegando che la sua resistenza ad aprire ai centri privati era dettata anche dal timore di perdere il controllo del monitoraggio”.

In realtà l’obbligo di trasmettere il responso di un test o di un tampone sembra essere sempre su iniziativa delle Regioni: ogni provvedimento che autorizza anche i privati ad eseguire i test contempla anche gli obblighi di comunicazione. Così è in Campania. Ma non solo. Anche, per esempio in Lazio, in Toscana, in Piemonte, in Veneto. In quest’ultima regione, per esempio, tutto deve essere trasmesso ai servizi di igiene e prevenzione pubblica delle aziende sanitarie. “Ogni laboratorio privato al proprio interno ha un medico responsabile che è tenuto a farlo – spiega Domenico Crisarà, medico di famiglia e vice segretario nazionale della Fimmg –. E le comunicazioni tra i sanitari sullo stato di salute di un paziente non sono coperte dalla privacy”.

“È improbabile che un positivo non sia segnalato all’Ats”. sostiene Erminio Torresani, direttore del Laboratorio analisi cliniche dell’Auxologico di Milano: “Il nostro sistema si basa su un doppio controllo – spiega – il laboratorio ogni sera compila un file con nome, cognome, codice fiscale, telefono ed esito, di ogni persona che si è sottoposta al tampone. Quel file, poi, viene inviato agli uffici di Regione Lombardia che filtra i dati”. Il secondo livello di controllo riguarda i soli positivi, “per ognuno di loro si apre un file che è mandato all’Ats di competenza”. Anche nelle strutture più piccole vigono rigidi sistemi di tracciamento.

Euromedica, due laboratori a Milano, prima di ogni tampone impone la sottoscrizione dell’informativa che recita: “L’esito positivo degli esami diagnostici (…) sarà obbligatoriamente segnalato dal laboratorio analisi esecutore degli accertamenti al sistema informatico dell’ATS”. Ma, se in Lombardia i controlli sembrano funzionare a monte, qualche problema c’è a valle, quando cioè, dopo i 14 giorni di quarantena previsti, si aspetta il recall dell’Ats per il tampone che certifica la guarigione. Come conferma Torresani: “Abbiamo avuto più di un paziente che è giunto da noi perché l’Ats non chiamava”. Il paziente ottiene così una certificazione da una struttura privata che in Lombardia ha lo stesso valore di una pubblica, visto che la gran parte dei laboratori privati sono stati autorizzati – e quindi parificati ai pubblici – nell’aprile scorso, durante il picco della pandemia.