“Se abbiamo un incremento ogni giorno di 800 nuovi positivi chiudiamo tutto”. È stato netto Vincenzo De Luca. Lo sceriffo del Pd che il 22 settembre ha riconquistato la Campania a furia di ordinanze anti-Covid e grazie a una curva dei contagi che a lungo ha viaggiato orizzontale o quasi ora si trova a fare i conti con il suo repentino rialzo: “Obiettivo è avere equilibrio tra nuovi positivi e guariti – aveva detto ieri nel primo pomeriggio commentando i 757 nuovi casi di giovedì e annunciandone altri 700 – Ma se abbiamo mille contagi e 200 guariti è lockdown”. Poco dopo, l’ufficialità dei numeri di giornata – 769 positivi contro i 117 guariti – ha confermato che l’equilibrio è estremamente precario. La chiusura è un’ipotesi sul tavolo.
Ma come ha fatto una Regione definita il 26 giugno dallo stesso De Luca “Covid free” dopo diversi giorni a contagi quasi zero a trasformarsi in un focolaio, prima in Italia per valore dell’Rt con 1,24? Le ragioni sono diverse, a partire dalle condizioni ambientali e socio-economiche. L’area di Napoli concentra oltre il 50% della popolazione e i gruppi familiari sono spesso costituiti anche da 7-8 persone che convivono in appartamenti di piccola metratura. L’isolamento domiciliare diventa un’impresa. “Siamo di fronte a una epidemia intrafamiliare – spiega Silvestro Scotti, presidente dell’Ordine di Napoli e segretario nazionale della Fimmg, Federazione dei medici di medicina generale –, complicato dal fatto che possono passare anche 4 o 5 giorni dalla segnalazione del caso sospetto a quando viene eseguito il tampone. Questo perché il sistema è andato in sofferenza”. Cosa che ha già portato l’Asl 2 di Napoli Nord a emettere un bando di gara per individuare due alberghi – uno a Ischia o Procida, uno sulla terraferma – per l’isolamento dei positivi.
Poi ci sono le effettive capacità del sistema sanitario. La Regione assicura che il contact tracing “avviene in maniera massiva”, come è accaduto per il cluster provocato nel capoluogo da una festa Erasmus (35 positivi) “per la quale si è risaliti a 500 contatti”. Ma le difficoltà non mancano. Secondo la Federazione dei medici internisti ospedalieri (Fadoi) per 166 positivi accertati sui 923 della settimana tra il 14 e il 20 settembre non si è riusciti a risalire all’origine del contagio: “Purtroppo – spiega il presidente Dario Manfellotto – spesso le persone non collaborano o non agevolano il tracciamento dei contatti”. E in pochissimi scaricano la app Immuni: la Campania è terz’ultima in Italia per percentuale di popolazione che l’ha fatto (8,8%), davanti solo a Calabria e Sicilia.
Di certo la capacità diagnostica è un problema. Il numero dei tamponi è cresciuto negli ultimi giorni (9.549 ieri, 9.225 giovedì, 7.504 mercoledì, 5.064 martedì, 4.867 lunedì), ma secondo l’ultimo report di Altems (Alta scuola di economia e management dei sistemi sanitari della Cattolica), la Campania è la Regione che dall’inizio della pandemia ha fatto meno esami in rapporto alla popolazione, testando solo il 7,19% dei residenti contro una media nazionale dell’11,98%. Soprattutto, è tra quelle che hanno aumentato di meno gli esami: tra il 30 settembre e il 6 ottobre il tasso dei nuovi test per 1.000 abitanti è stato del 6,60% contro una media nazionale del 9,11. E solo martedì De Luca ha autorizzato i laboratori privati a eseguire le analisi.
Anche il loro utilizzo in funzione di screening lascia dubbi: dall’inizio dell’epidemia nella Regione l’88% dei casi è stato accertato con tampone diagnostico, cioè fatto in seguito all’insorgenza di sintomi, e solo il 12% in fase di ricerca attiva. Prima cioè che i contagiati diventino sintomatici, abbiano bisogno di cure e nei casi peggiori finiscano negli ospedali. Che sono già in sofferenza: “Se l’andamento dei casi continuerà con i ritmi ed i numeri attuali – ha detto Alessandro Vergallo, presidente dell’Associazione anestesisti rianimatori ospedalieri – in meno di un mese le terapie intensive al Centro-Sud, soprattutto in Lazio e Campania, potranno andare in sofferenza”.