La voragine Campania: “Isolamento impossibile”

“Se abbiamo un incremento ogni giorno di 800 nuovi positivi chiudiamo tutto”. È stato netto Vincenzo De Luca. Lo sceriffo del Pd che il 22 settembre ha riconquistato la Campania a furia di ordinanze anti-Covid e grazie a una curva dei contagi che a lungo ha viaggiato orizzontale o quasi ora si trova a fare i conti con il suo repentino rialzo: “Obiettivo è avere equilibrio tra nuovi positivi e guariti – aveva detto ieri nel primo pomeriggio commentando i 757 nuovi casi di giovedì e annunciandone altri 700 – Ma se abbiamo mille contagi e 200 guariti è lockdown”. Poco dopo, l’ufficialità dei numeri di giornata – 769 positivi contro i 117 guariti – ha confermato che l’equilibrio è estremamente precario. La chiusura è un’ipotesi sul tavolo.

Ma come ha fatto una Regione definita il 26 giugno dallo stesso De Luca “Covid free” dopo diversi giorni a contagi quasi zero a trasformarsi in un focolaio, prima in Italia per valore dell’Rt con 1,24? Le ragioni sono diverse, a partire dalle condizioni ambientali e socio-economiche. L’area di Napoli concentra oltre il 50% della popolazione e i gruppi familiari sono spesso costituiti anche da 7-8 persone che convivono in appartamenti di piccola metratura. L’isolamento domiciliare diventa un’impresa. “Siamo di fronte a una epidemia intrafamiliare – spiega Silvestro Scotti, presidente dell’Ordine di Napoli e segretario nazionale della Fimmg, Federazione dei medici di medicina generale –, complicato dal fatto che possono passare anche 4 o 5 giorni dalla segnalazione del caso sospetto a quando viene eseguito il tampone. Questo perché il sistema è andato in sofferenza”. Cosa che ha già portato l’Asl 2 di Napoli Nord a emettere un bando di gara per individuare due alberghi – uno a Ischia o Procida, uno sulla terraferma – per l’isolamento dei positivi.

Poi ci sono le effettive capacità del sistema sanitario. La Regione assicura che il contact tracing “avviene in maniera massiva”, come è accaduto per il cluster provocato nel capoluogo da una festa Erasmus (35 positivi) “per la quale si è risaliti a 500 contatti”. Ma le difficoltà non mancano. Secondo la Federazione dei medici internisti ospedalieri (Fadoi) per 166 positivi accertati sui 923 della settimana tra il 14 e il 20 settembre non si è riusciti a risalire all’origine del contagio: “Purtroppo – spiega il presidente Dario Manfellotto – spesso le persone non collaborano o non agevolano il tracciamento dei contatti”. E in pochissimi scaricano la app Immuni: la Campania è terz’ultima in Italia per percentuale di popolazione che l’ha fatto (8,8%), davanti solo a Calabria e Sicilia.

Di certo la capacità diagnostica è un problema. Il numero dei tamponi è cresciuto negli ultimi giorni (9.549 ieri, 9.225 giovedì, 7.504 mercoledì, 5.064 martedì, 4.867 lunedì), ma secondo l’ultimo report di Altems (Alta scuola di economia e management dei sistemi sanitari della Cattolica), la Campania è la Regione che dall’inizio della pandemia ha fatto meno esami in rapporto alla popolazione, testando solo il 7,19% dei residenti contro una media nazionale dell’11,98%. Soprattutto, è tra quelle che hanno aumentato di meno gli esami: tra il 30 settembre e il 6 ottobre il tasso dei nuovi test per 1.000 abitanti è stato del 6,60% contro una media nazionale del 9,11. E solo martedì De Luca ha autorizzato i laboratori privati a eseguire le analisi.

Anche il loro utilizzo in funzione di screening lascia dubbi: dall’inizio dell’epidemia nella Regione l’88% dei casi è stato accertato con tampone diagnostico, cioè fatto in seguito all’insorgenza di sintomi, e solo il 12% in fase di ricerca attiva. Prima cioè che i contagiati diventino sintomatici, abbiano bisogno di cure e nei casi peggiori finiscano negli ospedali. Che sono già in sofferenza: “Se l’andamento dei casi continuerà con i ritmi ed i numeri attuali – ha detto Alessandro Vergallo, presidente dell’Associazione anestesisti rianimatori ospedalieri – in meno di un mese le terapie intensive al Centro-Sud, soprattutto in Lazio e Campania, potranno andare in sofferenza”.

Aldo, Giorgio e gli altri. Una nuova Spoon River

Di Covid-19 si muore ancora e, anche se i numeri giornalieri dei decessi in questa seconda ondata sono ancora relativamente bassi rispetto ai giorni drammatici di marzo e aprile, stanno progressivamente aumentando nel bollettino. Storie di uomini e donne, vite che si spezzano. L’età media rimane intorno agli ottant’anni e, salvo eccezioni che comunque ci sono, questi casi hanno patologie pregresse. In memoria di queste vittime ecco una sintetica Spoon river.

Aldo (il nome è di fantasia), 71 anni, era un grande devoto di Padre Pio. Per questo il 16 settembre, con 40 compaesani, era salito sul bus che da Mirabella Eclano (Avellino) lo ha portato al santuario di San Giovanni Rotondo. Già la sera stessa aveva avvertito i primi sintomi del coronavirus. Un malessere che il 3 ottobre lo ha costretto all’ospedale Moscati (Avellino) e che il 7 ottobre lo ha ucciso. Per quel tributo a Padre Pio sono 22 i pellegrini positivi ai tamponi. I quali hanno infettato parenti e amici: alla fine l’Asl certificherà che il focolaio di Mirabella Eclano ha registrato 34 contagiati. Sono ancora chiusi scuola e municipio.

Francesco era un uomo sano. È morto perché è stato contagiato mentre svolgeva il suo lavoro sull’ambulanza”. Rosanna è sconvolta. Francesco, 58 anni, era un suo collega dell’ospedale San Giovanni Addolorata di Roma, è deceduto il 3 ottobre. “Era uno sportivo, un rockettaro, una persona piena di vita”, raccontano i colleghi. Era un infermiere sempre in prima linea. Anni passati all’unità di terapia intensiva cardiaca, aveva lavorato a tu per tu con il virus per tutto il periodo del lockdown. Giovedì mattina a Savona è morto don Giorgio, 80 anni, direttore delle scuole salesiane di Alassio. L’11 settembre scriveva così ai suoi ragazzi che tornavano tra i banchi: “Viviamo un momento sociale non facile, un senso di paura, l’incertezza sul futuro. Non possiamo impostare l’anno come se non ci fosse il Covid, ma cerchiamo di essere fonti di energia contenta, allegra”. Dopo pochi giorni i primi sintomi, il ricovero e infine la scomparsa. Un altro religioso, il cappuccino Jean Laurent, è morto a soli 49 anni: padre guardiano del convento di Sorso, vicino Sassari, ha passato oltre 15 giorni in terapia intensiva prima del decesso. Si era scoperto positivo al rientro da una vacanza in Francia.

Renzo , 61 anni, era un imprenditore di Bastia Umbra, titolare di un’azienda di sistemi per la refrigerazione, è morto il 18 settembre dopo venti giorni di terapia intensiva. Amante del modernariato e delle auto d’epoca, era molto conosciuto in città. Il ghanese Joseph, invece, di anni ne aveva 51: in Italia dagli Anni 90, è spirato il 19 settembre all’ospedale di Udine. È morto la sera prima di compiere 74 anni Alberto. Faceva da sempre il macellaio a Santo Stefano, nel Bellunese. Soffriva di patologie cardiache e quindi si è ritrovato senza difese di fronte al morbo. “Aveva parlato con noi poche ore prima di morire – raccontano alcuni parenti – era affaticato, ma nessuno avrebbe pensato che sarebbe accaduto il peggio”. La sua macelleria sta per festeggiare i 50 anni di attività.

“Abbiamo fatto cinquant’anni di matrimonio a febbraio e ora non posso nemmeno dirgli addio”. Così si tormentava Maria, moglie di Salvatore, 78 anni, che in ospedale a Belluno è morto di Covid. Erano sposati dal 1960. La sua agonia è durata dieci giorni. Soffriva di Alzheimer. E c’è anche chi muore lontano dall’Italia, come Elda, 87 anni, deceduta a Olavarria, in Argentina, senza poter realizzare il sogno di ritornare almeno una volta a Fonzaso, piccolo comune vicino a Feltre.

5372 casi in un giorno. Verso lo stop ai bar e più risorse alle Asl

Oltre cinquemila nuovi contagi registrati ieri (5.372), sia pure con 129 mila tamponi, sorprendono anche il professor Giuseppe Ippolito dello Spallanzani, membro autorevole del Comitato tecnico scientifico: “Speravamo in una crescita inferiore, ora ci vuole attenzione giorno per giorno per programmare eventuali chiusure più limitate possibile”. Il governo osserverà la situazione per qualche giorno, la linea del presidente del Consiglio Giuseppe Conte si è imposta anche al ministro della Salute Roberto Speranza, che voleva fare più in fretta. Ma entro giovedì 15 dovrà uscire il nuovo Dpcm (decreto del presidente del Consiglio) e conterrà restrizioni: probabilmente per gli orari di bar e locali (chiusura alle 22 o alle 23, ma non per i ristoranti) e forse anche per i trasporti, battesimi e matrimoni, fiere e sport da contatto. Rischia il campionato di calcio, se non subito, all’ulteriore aumento dei contagi visto che è allo studio un dispositivo per variare le misure in base alla crescita di Rt, l’indice di trasmissione del virus: secondo l’ultimo monitoraggio diffuso ieri, riferito al periodo 17-30 settembre che sembra già storia, è a 1,06 (sopra 1 un infetto contagia in media più di una persona e quindi l’epidemia cresce). Possibili “chiusure locali” temporanee, ha detto la sottosegretaria alla Salute Sandra Zampa, revocabili se in 14 giorni la situazione migliora. Il ministro per gli Affari regionali Francesco Boccia, a domanda, ieri non ha escluso nemmeno lo stop agli spostamenti tra le Regioni. Nessuno pensa di chiudere le scuole, anzi il monitoraggio settimanale dice che i contagi scolastici sono stati solo il 2,5 per cento del totale tra il 29 settembre e il 4 ottobre. Molti di più quelli in ambito familiare: 75 per cento. Ma il movimento attorno alle scuole preoccupa eccome. Purtroppo però i dati diffusi dal ministero della Salute e dall’Istituto superiore di Sanità, provenienti dalle Regioni, fanno sempre difetto: manca il link epidemiologico di 4.041. su 12.618 nuovi contagi della settimana presa in esame, cioè per uno su tre. Dopo quasi otto mesi un po’ troppi.

I casi giornalieri sono raddoppiati in meno di una settimana, venerdì 2 ottobre erano 2.499. Il rapporto tra positivi e tamponi non è mai stato così alto: 4,19%, fino alla settimana scorsa non era mai arrivato al 3 per cento dalla fine del lockdown. Preoccupano la Campania e la Lombardia, 769 e 983 contagi con progressioni allarmanti. Naturalmente, per quanto i numeri siano in apparenza sovrapponibili a quelli del 19 marzo, quando i casi erano 5322, il paragone non sta in piedi: allora i tamponi erano stati 17.236, ieri 129.471; lo facevano a malati gravissimi. Aumentano anche i decessi, 28 ieri e il trend è in crescita, ma il 19 marzo erano stati 427. E in terapia intensiva c’erano 2.498 persone, ieri 387 con un aumento di 29 da giovedì. Insomma il sistema sanitario sa trattare meglio il virus, soprattutto negli ospedali ma anche sul territorio. La falla ad ogni modo è qui, come spiega il professor Andrea Crisanti, docente di Microbiologia a Padova: “Con questi numeri il tracciamento dei contatti non è più possibile”. Per questo proponeva di moltiplicare i tamponi fino a 3-400 mila al giorno. Anche il professor Ippolito, del resto, osserva che “il problema è fare i prelievi”. Infatti al ministero della Salute si pensa a come rafforzare i dipartimenti di prevenzione delle Asl.

I casi registrati in Italia in 14 giorni ogni 100 mila abitanti sono passati da 34,2 (14-27 settembre) a 44,37 (21 settembre-4 ottobre), Spagna e Olanda sono sopra i 300, la Francia a 260 e il Regno unito a 218. Quelli che aumentano di più sono i sintomatici, non è buon segno: da 6.650 a 8.198, cioè più di due terzi. Scendono, ovviamente, i casi rilevati con il tracciamento dei contatti: 31,8%contro 35,8. Aumentano quelli rilevati con attività di screening (33,2% contro 28,2%). Il 29,1% dei nuovi casi è stato rilevato attraverso la comparsa di sintomi e nel 5,9% non è stato riportato l’accertamento diagnostico.

Inquietanti le conclusioni che sottolineano “un’accelerazione del progressivo peggioramento dell’epidemia di SARS-CoV-2 segnalato da dieci settimane, che si riflette in un notevole carico di lavoro sui servizi sanitari territoriali” e “per la prima volta” segnalano “elementi di criticità significativa relativi alla diffusione del virus nel nostro Paese”.

Aglio, oglio e Campidoglio

Se fosse un film, anziché la campagna elettorale per il sindaco della Capitale, sarebbe una strepitosa commedia all’italiana. A episodi.

Primo episodio. Dopo quattro anni passati a spiegare alla Raggi come si governa Roma e poi a scuotere i capini perché non capisce niente e non ne azzecca una, quelli che la sanno lunga da destra a sinistra sono terrorizzati che la Raggi prenda più voti dell’eventuale candidato del Pd, rivada al ballottaggio contro l’eventuale candidato della destra e rivinca le elezioni coi voti del centrosinistra. E, siccome sanno tutti benissimo come si governa Roma, non riescono a trovare un candidato che voglia governare benissimo Roma: se dipendesse da loro, la campagna elettorale andrebbe avanti senza candidati. Infatti attaccano la Raggi perchè osa ricandidarsi. Ma non spiegano il perché di tanto terrore: se la Raggi è l’incapace che dicono, la peggior sciagura per Roma dopo i lanzichenecchi, la sindaca più detestata dai romani, per giunta di un movimento morto e sepolto, basterà un paracarro (c’è solo l’imbarazzo della scelta) per batterla di sicuro.

Secondo episodio. Terrorizzati dalla conferma della peggior sindaca di tutti i tempi, i partiti cadono in preda della frenesia e perdono di lucidità. La destra, sfumate le candidature di Meloni (avanzata da Salvini), Salvini (avanzata dalla Meloni), Bongiorno (avanzata dallo spirito di Andreotti), di Cattaneo (avanzata dai giornaloni a sua insaputa), di Gasparri (avanzata da Gasparri) e di Rampelli (avanzato e basta), pensa a Giletti, cui va tutta la solidarietà per le minacce mafiose e per il giubbotto antiproiettile che indossa sopra la camicia, come l’Avvocato portava l’orologio sopra il polsino e la cravatta sopra il maglione. Intanto il Pd brucia in tre mesi una trentina di candidati: Gualtieri, Sassoli, Letta, Gabrielli (che hanno già un mestiere ben più comodo e pagato), D’Alema (che non è del Pd), Morassut, Bray, Riccardi, la Cirinnà, Tobia Zevi, tali Caudo, Ciaccheri e altri che non nominiamo perchè nessuno sa chi siano (neppure gli interessati). Calenda, molto apprezzato dai conduttori di talk e dai suoi condòmini ai Parioli, sarebbe perfetto: peccato che non sia più del Pd, anche se è stato eletto eurodeputato grazie al Pd, e che per giunta abbia appena tentato di far perdere le regionali al Pd, oltre ad aver insultato tutti i dirigenti del Pd e pure gli elettori del Pd (“Sono senza dignità”: infatti l’hanno eletto al Parlamento europeo). Lui comunque giura che, pur sapendo benissimo come si fa il sindaco, mai si candiderà, perché “il mio impegno è dare vita a un partito, Azione, per popolari, liberali e riformisti” (vasto programma). E poi perchè “non prenderei un voto dall’elettorato 5Stelle, quelli manco crocifissi mi appoggiano”: il che è vero, anche perché li insulta prima e dopo i pasti. Ma questo è il meno: il guaio è che non lo votano neppure i non M5S, vedi le percentuali da albumina nei sondaggi, e pure nelle urne. Dunque propone Carlo Fuortes, sovrintendente dell’Opera, popolarissimo tra i tenori e le soprano, meno nelle periferie.
Terzo episodio. Lo racconta il sempre informatissimo Corriere: “Tutti, l’altra sera, a cena nella casa con vista sugli angioloni di Castel sant’Angelo”. Tutti chi? Boh. Però ci sono “divani rosso pompeiano e una coppia di levrieri afghani annoiati”. Almeno finché, “tra lo sformato di zucchine e caciocavallo podolico (dimenticabile invenzione di Eddie, il cuoco filippino) e le polpette di bollito fritte (squisite), la padrona di casa chiede all’ospite d’onore del Pd: ‘Allora, ministro: ci confermi che sarà Sassoli il nostro futuro sindaco?’”. E il ministro (quale? Boh): “Sassoli fa i capricci. Temo che stia pensando a un colle più alto del Campidoglio”. A beh allora. Ma, “mentre a tavola – direttamente dalla pasticceria preferita da Nanni Moretti – arriva una magnifica Sacher”, colpo di scena: “Sul cellulare di un’amica della padrona di casa entra il whatsapp. È Carlo Calenda”. Fermi tutti, che nessuno si muova: il noto trascinatore di folle annuncia che “sono gli ultimi giorni, sto decidendo se candidarmi a sindaco di Roma” e domanda (a chi? Boh): “Tu cosa ne pensi?”. Tripudio sui divani rosso pompeiano, i levrieri afghani si ridestano, esulta anche Eddie dalle cucine: “È scattato l’applauso”. Finalmente un bel nome, “sulle macerie della Raggi che comunque, sfrontata e imperterrita, si ricandiderà”. Ma ha trovato pane per i suoi denti. Calenda – pensate – “è convinto di strappare tra il 6 e il 7%”: meno di quanto occorre per fare il sindaco del suo ballatoio, ma quanto basta per levare voti all’eventuale candidato del Pd. Che infatti, pur di non aver contro Mister Sei-Sette Per Cento, lo invita a un “tavolo di coalizione per la riscossa politica della capitale” perchè si candidi alle primarie con gli altri sei nani. Evento avvincente, visto che Calenda non è né del Pd né della coalizione di governo: anzi è proprio contro. Così il Pd sposa la linea Di Battista: no preconcetto alle intese sui territori quando si tratta di sostenere il favorito del partito alleato. Per Dibba la Morte Nera era Emiliano: per il Pd è la Raggi.
Finale. L’ha già scritto Carlo Verdone in Compagni di scuola, quando l’amico apostrofa Christian De Sica che molla il tavolo verde: “Ma come? Famo er pokerino, famo er pokerino e poi co tre ganci te cachi sotto? Ma vedi d’annattene, va!”.

Un nobel intro-verso. Premio alla “sconosciuta” Glück

“Forse già non essere basta del tutto”, e fino a ieri Louise Glück semplicemente non era, non esisteva, almeno agli occhi dei lettori italiani; persino un prof. a Oxford aveva difficoltà a reperirne i libri… Chi è il Premio Nobel per la Letteratura 2020? “Una erede della Dickinson”, spiega un critico. “No, più Whitman”, ribatte un altro. “Ha forti radici ebraiche”, sostiene un terzo letterato. “Sì, ma non si sentono…”. È la poesia, che bellezza.

Sedicesima donna a ricevere il più alto blasone letterario e seconda poetessa dopo la Szymborska, l’americana è stata premiata dall’Accademia svedese per “la sua inconfondibile voce poetica che con austera bellezza rende universale l’esistenza individuale”. Glück (pronuncia “glic”: da oggi non si può sfigurare nei salotti) è nata a New York nel 1943 da una famiglia di immigrati ebrei ungheresi ed è cresciuta a Long Island: attualmente insegna poesia all’Università di Yale, ha due ex mariti e un figlio che studia da sommelier. Alla telefonata da oltreoceano ha risposto dicendosi “sorpresa e contenta”, lei, una star intro-versa, che in carriera ha incassato numerosi premi – dal Pulitzer nel 1993 con The Wild Iris al National Book Award nel 2014 con Faithful and Virtuous Night –, è membro dell’American Academy of Arts and Letters e già “Poetessa laureata” degli Usa.

Il suo percorso di formazione è stato piuttosto accidentato, anche a causa dell’anoressia che l’ha portata per anni in analisi a dipanare il complicato rapporto con la madre: in Averno – unica raccolta ora disponibile in Italia (Dante & Descartes, 2019) – va in scena proprio il conflitto tra Demetra e Persefone, “una specie di Edipo al femminile”, spiega il traduttore Massimo Bacigalupo. Col padre Louise fa i conti, invece, in Ararat (1990), mentre licenzia alcuni saggi (Proofs & Theories: Essays on Poetry) e la sua raccolta più famosa, The Wild Iris. Edito in Italia nel 2003 da Giano, il libro è ormai fuori commercio, ma la natura resta un filo rosso dell’intera produzione poetica, anche quando l’autrice scrive di trauma post 11 settembre (October).

“La natura, scopriamo, non è come noi;/ non ha un deposito di memorie./ Il campo non sviluppa una paura dei fiammiferi,/ delle ragazze. Non ricorda/ nemmeno i solchi”. Ai profani, par di sentire una Emily Dickinson. “Per certi versi lo è”, spiega Luigi Sampietro, critico ed ex professore di Letteratura Angloamericana. “I suoi temi più cari sono il giardino e la famiglia, le radici, anche inconsce, di un popolo in perenne esilio. Una Dickinson ebrea, pur non formalmente. Nello stile somiglia forse più a Whitman. Il giardino è il paradiso, l’eden biblico, la terra perduta. In America la natura è al centro della produzione letteraria, non solo poetica, almeno dall’800, grazie soprattutto a Emerson e Thoreau”.

Il paragone con Emily funziona anche per il poeta e critico Paolo Febbraro, laddove “Glück è estremamente leggibile, senza orpelli avanguardistici, vorace, onesta, essenziale”. Ma perché in Italia è pressoché sconosciuta? Siamo noi provinciali? “È il triste destino della poesia contemporanea – commenta Bacigalupo –: vende pochissimo. Ma in America nessuno si è stupito del Nobel a Glück: lì è la numero uno, mentre, per dire, Sanguineti non lo conoscono. Se anni fa avessero dato il Premio a Caproni, all’estero si sarebbero tutti meravigliati, noi italiani no, però. Per fortuna l’Accademia non ragiona in termini di mercato”.

Da quelle parti in Svezia hanno ancora velleità geopolitiche: Louise, ebrea newyorchese, è democratica; addirittura insignita da Obama nel 2015 della National Humanities Medal. È un pizzino per gli Usa di Trump? “No, Glück è quanto di meno politico si possa immaginare, come tutti i poeti americani: chi si è mai schierato? Semmai il richiamo è al momento storico: lei canta la solitudine, l’isolamento. In questo periodo di confinamento, guardare dentro di sé, nella coscienza, è prezioso. Quanto ai suoi maestri, mi sento di dire che non è l’erede di nessuno, nemmeno della Dickinson: è come dire a un poeta italiano che è l’erede di Leopardi, ma tutti leggono Leopardi! Neanche la radice ebraica, a mio avviso, si sente: Louise non è viscerale ma limpida, netta”. Signor Bacigalupo, l’hanno chiamata per tradurre finalmente le opere di Glück in Italia? “Sì, c’erano già in ballo contatti con Mondadori, Bompiani e Feltrinelli”. Vedremo chi tra i big dell’editoria si accaparrerà questo porto sepolto. “Vi arriva il poeta”, gli altri chissà.

La bretella di Nicolazzi, la A1 di Fanfani e la pista di Scajola

“Ci sono le montagne, ma si possono bucare”. Definitivo il timbro di Fiorentino Sullo, l’irpino più potente nell’Italia degli anni Sessanta, così spiegando la deviazione del tracciato dell’autostrada Napoli-Bari. Con un colpo di penna indicò ai progettisti il nuovo itinerario: abbandonare al suo destino Benevento e piegare verso Avellino, buco dopo buco, viadotto dopo viadotto. All’altezza dello svincolo di Baiano la strada infatti fa un balzo in avanti, si inerpica e inizia ad aggrovigliarsi per una quarantina di chilometri fino a baciare la sua città.

Borgo natìo selvaggio. Sono pene d’amore queste opere ingegneristiche, cambiali pagate variante dopo variante perché il potere ha bisogno di essere riconosciuto fino al caminetto di casa.

Per terra, per aria e per mare. Svincoli, raccordi, intersecazioni residenziali. Lavori pubblici tracciati nel salotto, tecnicamente in house, itinerari deviati, voli pindarici.

Ricordate lo Scajola-Roma-Scajola? Si era nel 2008 e l’asfittico aeroporto di Albenga ebbe il piacere di trovar seduto al Viminale Claudio Scajola, santo patrono della vicina Imperia. Il ministro consigliò Alitalia di considerare anche la piccola Albenga come slot utile per atterraggi e decolli. Cosicché da Fiumicino iniziò a volare un Atr che, di media, conduceva 18 persone nell’ovest ligure. E tra questi appunto Scajola, soprattutto Scajola, cioè il ministro. Quando si dimise dal governo però Alitalia dismise il volo. E quella coincidenza suonò strana. L’aerovia riprese vigore solo dopo che l’ex ritornò a galla, nuovamente nella compagine di Palazzo Chigi a presidiare il programma del governo Berlusconi. I passeggeri della seconda ondata, molto distanziati, furono purtroppo di media otto a volo. Il declino politico del ministro coincise con la sconfitta aerea di Albenga dove nessuno più è mai atterrato.

Voler bene al proprio territorio. E volergliene a prescindere dai costi. Non sappiamo se il Tav a Rignano, il paese di babbo Renzi, fosse una pretesa o una necessità. Sappiamo che anche a Barcellona Pozzo di Gotto, per merito del parlamentare Carmelo Santalco, ivi residente, i binari furono oggetto di enorme corteggiamento.

Fare, e a prescindere dal costo. Nel tempo la misura del potere veniva considerata dalla capacità di succhiare una mai men che notevole quantità di miliardi di lire per vederla consacrata. Cosicché due coppie di potentissimi devono essere ricordati per via del bitume. Anzitutto il socialista Giacomo Mancini, cosentino e ministro dei Lavori pubblici. Appassionato e visionario, decise che l’autostrada Salerno-Reggio Calabria, la mitica autostrada dell’ingorgo trentennale, dovesse sloggiare dal mar Tirreno, verso il quale andava dirigendosi e salire attraverso le prime pendici silane pur di raggiungere Cosenza, la città ministeriale. Sono gli anni dell’ottimismo, del Pil crescente e della forza onnipotente della classe politica. Tra il 1967 e il 1974 una connessione Dc-Psi tutta calabrese sfonda ogni perplessità dell’ingegneria sismica, allora agli albori, e ogni lievitazione di costo avanzata dagli strutturisti. Mancini, insieme a Riccardo Misasi, colto notabile dc, impone il tritolo per bucare le montagne e tanto cemento armato. Il viadotto Italia (261 metri di altezza) sarà l’opera che traghetterà l’autostrada verso casa, medaglia d’oro al valor politico.

E che dire del duo Natali-Gaspari. Un’accoppiata democristiana ancora più vincente, ancora più esuberante e tremendamente competitiva. L’Abruzzo che era senza autostrada ebbe in dono la A24 finalmente. Collegamento veloce Roma-Pescara. La questione si fece seria quando si prese la cartina e si notò che Lorenzo Natali la voleva più a nord, verso L’Aquila, e Remo Gaspari più a sud, verso la sua Gissi. Erano fior di democristiani, potenti e vincenti. Si decise dunque di biforcarla, di doppiarla: dallo svincolo di Torano partì una striscia d’asfalto verso nord, per far contento Natali, e una verso sud, accontentando Gaspari. Da zero a due autostrade in un sol colpo.

E vogliamo ricordare qui Franco Nicolazzi, autentico fuoriclasse del piccolo Psdi, nativo di Gattico, Novara, che riuscì nell’impresa di far passare la Genova-Gravellona, il cui destino finale doveva essere il Sempione, per il suo piccolo comune. Nicolazzi, ministro tra l’85-92, amante dei trasporti, abbellì il natìo villaggio di bretelle autostradali (da qui il nome bretella Nicolazzi) che l’hanno trasformato in una sorta di autogrill permanente, essendo il paese traforato anche dall’autostrada dei Laghi.

Non finì come avrebbe dovuto e potuto la costruzione della A31, conosciuta come la Pi-Ru-Bi, dalle iniziali dei tre maggiorenti democristiani (Piccoli, Rumor e Bisaglia) che avevano interesse a portare la strada veloce rispettivamente a Trento, a Vicenza e a Rovigo. L’unico tratto costruito (Vicenza-Val d’Astico, 40 chilometri circa) consacrò Rumor sul podio dei Vip.

Resta per ultimo, ma primo per rilevanza geografica, l’enorme gobba che Amintore Fanfani fece fare all’autostrada del Sole, diretta a Milano e già sulla via dritta di Firenze, per far sì che la sua Arezzo avesse come partire e lui come arrivare.

Il diplomatico e la famiglia in ostaggio

Dopo che a Seul è emersa la notizia che Jo Song- gil, l’alto diplomatico di Kim Jong-un scomparso dall’ambasciata nordcoreana di Roma assieme alla moglie alla fine del 2018, ha disertato e trovato rifugio nella parte meridionale della penisola coreana, si è diffusa una forte inquietudine tra i fuoriusciti del regno eremita. “Il timore – spiega oggi l’autorevole sito NK News – è che quella di Jo venga considerata da Pyongyang non più come una semplice fuga, bensì come un tradimento che segnerà in maniera tragica il destino dei suoi parenti ancora residenti nel regno socialista eremita, a partire dalla giovane figlia”. Del resto è acclarato che la dinastia familiare al potere della Corea del Nord dalla sua fondazione spedisca nei campi di concentramento assieme ai presunti colpevoli di critica anche i loro parenti, compresi quelli più alla lontana, e gli amici. La storia del diplomatico ha subito acquisito le caratteristiche di una spy-story all’ombra dei monumenti della Città eterna tra la fine del 2018 e l’inizio del 2019. Jo, divenuto l’ambasciatore de facto della Corea del Nord in Italia dopo l’espulsione dell’ambasciatore, scomparve con la moglie dopo aver lasciato nella residenza dell’Eur la figlia che, secondo le autorità italiane, avrebbe espresso la volontà di ritornare in Corea del Nord per stare con i nonni. Fu pertanto rimpatriata e da allora non se ne è più saputo nulla. In realtà la ragazza sarebbe stata rimandata a Pyongyang dopo che agenti speciali nordcoreani avevano effettuato un blitz nell’abitazione romana per prelevarla e riportarla con loro. Se ciò risultasse vero, le autorità italiane devono renderne conto dato che si tratta di un rimpatrio forzato verso un paese dove non vige lo stato di diritto. Thae Yong-ho, ex numero due dell’ambasciata nordcoreana a Londra, la cui fuga rappresentò il peggiore colpo per il regime di Kim Jong, si è detto furioso per la fuoriuscita della notizia: “C’è una ragione per la quale i diplomatici nordcoreani attualmente al Sud non si rivelano e perché il governo non dà conferme su di loro: si tratta di una questione umanitaria nei confronti dei loro familiari”. Era anche una questione umanitaria di vitale importanza impedire che la figlia, minorenne, venisse rapita.

La guerra del dibattito fra Trump e Sleepy Joe

Il prossimo dibattito fra Donald Trump e Joe Biden, in calendario il 15 ottobre, si terrà, se si terrà, da remoto: il presidente e l’ex vicepresidente risponderanno alle domande dei cittadini – la formula è quella del town hall – da luoghi separati. La commissione organizzatrice dei dibattiti presidenziali motiva la sua decisione con preoccupazioni di salute derivanti dall’epidemia di coronavirus: Trump è stato dimesso lunedì dall’ospedale militare Water Reed e non risulta ancora negativo. Ma il presidente non ci sta: lui vuole essere, come previsto, con Biden sul palco dell’avveniristico Adrienne Arsht Center di Miami in Florida. E annuncia che non parteciperà al dibattito se non sarà in presenza: “Mi sento in gran forma, non penso di essere contagioso”, dice in una telefonata fiume e senz’argini con Maria Bartiromo, volto celebre di Fox Business. “Per noi il format virtuale non è accettabile”, dice Trump, accusando la commissione di volere “proteggere” il suo rivale.

“Non sprecherò il mio tempo in un dibattito virtuale – insiste il presidente – che non ha nulla a che fare con quello che dovrebbe essere un dibattito. Si sta seduti dietro un computer e si parla, è questo un dibattito? È ridicolo. E poi possono tagliarti quando vogliono”. Soprattutto, il suo microfono sarebbe spento mentre parla Biden, il che gli impedirebbe di interromperlo, come fece decine di volte nel primo faccia a faccia, la scorsa settimana. Così la campagna di Trump inizia la guerriglia: spostiamo il dibattito del 15 di una settimana, e l’ultimo lo facciamo il 29. Significa a soli quattro giorni dal voto. Joe Biden e i suoi reagiscono: “Non decide Trump le date: gli accordi erano questi, se non vuole esserci il 15 ci vedremo il 22 ottobre”. Senza rinvii, dunque. Fra l’altro, a Trump non piace neppure il moderatore scelto per il secondo duello con Biden, Steve Scully, della C-Span, il servizio pubblico televisivo Usa: “Non è mai stato un ‘Trumper’”.

Opposta la reazione di Biden, che non vede l’ora “di parlare direttamente al popolo americano” e d’illustrare il suo piano per unire il Paese e ricostruirlo”, dopo “la fallimentare leadership” di Trump che, complice la gestione dell’epidemia di coronavirus, ha gettato “l’economia in crescita ereditata” dall’Amministrazione Obama “nel peggior declino dai tempi della Grande Depressione”. Curiosità: nel 1960, l’anno dell’introduzione dei dibattiti televisivi, John F. Kennedy e Richard Nixon ne concordarono quattro: il terzo si svolse a distanza, ognuno a casa sua. Non c’erano emergenze o polemiche, ma la necessità di limitare gli spostamenti. La fiammata polemica sul secondo dibattito brucia l’immagine relativamente positiva lasciata, l’altra notte, dal dibattito televisivo fra i candidati vice. Mike Pence e Kamala Harris hanno fatto meglio di Trump e Biden, dal punto di vista di contenuti, educazione e correttezza. Il primo sondaggio a caldo, siglato Cnn, dice che la Harris ha vinto largo: 59 a 38%; ma – attenzione! – c’è il trucco, perché, prima del confronto, lo stesso campione era già predisposto a favore della Harris, 61 a 36%. Alla Bartiromo, Trump racconta un altro film: la Harris è stata “terribile”, è “un mostro”, è “peggio di una socialista, è una comunista”, “tutto quello che dice è una menzogna”; Pence “l’ha demolita”. Ma il vice sembra l’unica consolazione del presidente, che ieri ha lanciato strali pure su due fedelissimi, il Segretario di Stato Pompeo e il ministro della Giustizia Barr: entrambi lo hanno “deluso”.

Com’è triste Lisbona, fra pestaggi razzisti e il clone di Salvini

Sulla foto profilo del suo account Twitter, lui e Salvini si misurano la mascherina e l’italiano sembra indicargli di averne una nera, mentre quella dell’amico è una semplice chirurgica d’ordinanza. La copia lusitana dell’ex vicepremier italiano è André Ventura, leader dell’ultradestra portoghese che grazie all’1,29% dei voti alle elezioni dell’ottobre scorso, siede in Parlamento a dare manforte da palazzo ai gruppi peudo-nazi che stanno proliferando in Portogallo.

Da quando Ventura e il suo partito Chega (Basta), nato nel 2019, hanno fatto irruzione sulla scena politica, infatti, sono aumentate le violenze a sfondo razzista dei movimenti para-nazisti nel Paese.

A legare i due fenomeni è il rapporto delle Rete europea contro il razzismo (Enar) che indica nell’auge del leader amico di Salvini l’aumento dei pestaggi che a luglio hanno portato alla prima vittima. L’inchiesta, approfondita dal Guardian, racconta come l’estate scorsa Mamadou Ba, responsabile della organizzazione ‘Sos razzismo’ di Lisbona abbia ricevuto una lettera. “Il nostro obiettivo è uccidere tutti gli stranieri e gli antifascisti e lei è nel nostro mirino”, recitava la missiva. Una settimana dopo Mamadou ha trovato un secondo messaggio: se non avesse abbandonato il Portogallo, a farne le spese sarebbe stata la sua famiglia. Dentro la busta, anche un bossolo. Secondo l’Enar, che chiede “una risposta urgente alle Istituzioni del Paese” di denunce come questa ne sarebbero arrivate tante. Si tratta di vittime “quotidiane” di un assedio razzista.

A gennaio, scrive il Guardian, una donna nera e sua figlia sono state aggredite perché non possedevano il biglietto dell’autobus. A febbraio, la polizia ha aggredito due donne brasiliane e, nello stesso mese, il calciatore del Porto, Moussa Marega, originario del Mali, ha lasciato la partita per i cori razzisti. Ma l’episodio più cruento è quello di luglio, un sabato pomeriggio l’attore nero Bruno Candé è stato assassinato con sei colpi alla schiena: “Un crimine razziale palese”, scrive l’Enar nel rapporto. “Negli ultimi mesi abbiamo registrato un aumento preoccupante degli attacchi razzisti di estrema destra in Portogallo, il che conferma che i messaggi di odio stanno ravvivando strategie più aggressive indirizzate ai difensori dei diritti umani e alle minoranze razziali”. E l’aumento è più evidente dalle scorse elezioni, quando, cioè, anche in Portogallo, come in altri Paesi europei, vedi la Spagna di Vox (52 seggi in Parlamento), si è verificato un exploit dell’estrema destra. Certo, c’è da dire che Chega di scranni ne ha ottenuto solo uno, eppure la presenza di Ventura in Parlamento e la sua sovraesposizione mediatica giustificherebbero, secondo l’Enar, la legittimazione percepita dai gruppi violenti. Questo anche grazie alla nomina tra i dirigenti del partito di persone legate ai gruppi radicali di estrema destra o membri di formazioni neonazi. A saldare queste scelte in un’ideologia di partito sono le dichiarazioni pubbliche del 37enne leader, come quando definì “candidata gypsy” una candidata, o quando ha consigliato “la drastica riduzione delle comunità musulmane d’Europa”. Quanto all’agenda, Ventura porta avanti slogan populisti: lotta contro la delinquenza degli stranieri, che si tratti di rumeni o afroportoghesi, o l’azzeramento delle élite politiche corrotte, in una retorica che per molti analisti somiglia a quella del presidente del Brasile, Jair Bolsonaro. In Parlamento, Chega ha proposto l’inasprimento delle pene per corruzione e l’interdizione dai pubblici uffici per 10 anni, oltreché il ridimensionamento del governo (12 ministri), il taglio del numero dei deputati e la limitazione della carica di primo ministro ai soli politici nati in Portogallo.

Le tre proposte sono state giudicate incostituzionali dalla commissione parlamentare. Poi ha presentato un progetto di revisione costituzionale che prevede la castrazione chimica per i pedofili, l’ergastolo per i reati gravi e il lavoro obbligatorio in carcere. Così Ventura riesce a tenere in scacco il Parlamento, oltre che a dare voce al razzismo. Forse anche per questo, il movimento Black Lives Matter lusitano ha proposto invano un dibattito sulle discriminazioni in Portogallo, mai affrontato dai tempi della decolonizzazione post-rivoluzione dei garofani (1974). Ventura si è opposto: “Il Portogallo non è razzista”.

Contro le manifestazioni seguite all’uccisione di George Floyd – l’afroamericano che ha perso la vita a Minneapolis, negli Stati Uniti, il 25 maggio, mentre un poliziotto lo teneva bloccato a terra, la cui morte ha poi scatenato l’estate di proteste della comunità di colore – i neonazi hanno inscenato un corteo in stile Ku Klux Klan di fronte alla sede di Sos razzismo, sulla cui facciata hanno disegnato svastiche e scritto insulti razzisti. Per loro nessuna punizione.

L’ispettore Lundini, un caso da ridere

Possiamo dire che nella televisione generalista italiana esiste un caso Valerio Lundini? La domanda è di stretta attualità, considerato che questo comico romano con le sue incursioni notturne nel palinsesto di Rai2 sta andando forte grazie al passaparola (Una pezza di Lundini, lunedì, mercoledì e venerdì sera). In sé, Lundini è un cocktail di comicità postmoderna; un po’ scuola demenziale, un po’ stand up comedy, un po’ effetto oltre il giardino, perfino un po’ Mac Rooney. Vecchi ingredienti che mescolati ad arte danno un sapore nuovo. Molto dipende dallo shaker, come insegna James Bond (“Agitato, non mescolato”). Lundini lo avevamo visto agitarsi insieme alla sua metà coatta Emanuela Fanelli in Battute, altro tentativo di resuscitare la seconda serata non in senso cronometrico, ma in senso arboriano (l’altra serata, che quasi sempre è il superamento della prima). Con la regia di Giovanni Benincasa in entrambi i casi, Una pezza di Lundini è nella sostanza Battute capovolto. Lì in molti comici (o aspiranti tali) facevano una cosa; qui uno solo (aspirante conduttore farlocco) ne fa tante. Quell’uno solo al comando è l’ispettore Lundini, che chiamato a riempire un buco di palinsesto vaga a capocchia tra i suoi luoghi comuni, metodo sicuro per mostrarne la vacuità. Stacchetti, collegamenti, pistolotti, la fiction de borgata A piedi scarzi. E poi le interviste: la quintessenza della marchetta fusion, l’anello di congiunzione tra il talk di informazione e quel che resta dell’intrattenimento. L’intervista di Fabio Fazio al grande Johnny Dorelli in Che tempo che fa, con Vincenzo Mollica in veste di procacciatore di superlativi, non era nella sostanza diversa dai faccia a faccia tragicomici di Lundini, solo che si prendeva tremendamente sul serio.

Cosa manca nella tv italiana, dall’alba al Marzullo? L’ironia, e ora qualcuno prova a metterci una pezza. Sì, possiamo dire che esiste un caso Valerio Lundini.