Più elettrico e taglio dei costi (e dei posti): la strategia Mercedes

Sfruttare la rivoluzione elettrica come un’opportunità per migliorare la redditività. In sintesi, è questo il piano industriale della Mercedes, che prevede una gamma di prodotti inediti e una consistente razionalizzazione delle spese. Perno della strategia è, appunto, l’automobile a batteria: la Stella lavora “per offrire un parco auto nuovo Co2 neutrale in meno di 20 anni, con l’obiettivo che i veicoli ibridi, ibridi plug-in e completamente elettrici rappresentino più della metà delle sue vendite già entro il 2030. Più nel dettaglio, si parla di una gamma composta da 5 modelli 100% elettrici e 20 ibride plug-in (cioè ricaricabili alla spina) entro il 2021. Nel 2025 le elettriche saranno 10 (e 25 le plug-in) e 20 all’inizio nel 2030, costruite su architetture specifiche e motorizzate con propulsori sviluppati dal costruttore. Mercedes aspira a sviluppare tecnologie proprie anche per quanto concerne le batterie, pur mantenendo la collaborazione con colossi del settore come Catl, Farasis e Sila Nano.

Per far quadrare i conti il numero delle piattaforme costruttive sarà ridotto; ciò permetterà di semplificare la produzione e ridurne i tempi: il target è abbassare da 36 a 30 la media di ore necessarie per assemblare un’auto. Entro il 2025, poi, la volontà è di tagliare del 20% i costi fissi, ridimensionando gli investimenti dedicati a ricerca e sviluppo, marketing e vendite (si punta sugli acquisti digitali, soprattutto in Cina).

Tuttavia, a fare le spese di questo smagrimento programmato sarà anche il personale di fabbrica: secondo alcune fonti sindacali, potrebbero essere tagliati circa 5 mila posti di lavoro, “fregati” pure dal fatto che le vetture elettriche sono più semplici da costruire.

Markus Schäfer, capo delle operazioni in Mercedes, ha suggerito che il numero di motori a combustione interna diminuirà del 70% entro il 2030 e, progressivamente, saranno del tutto eliminate le trasmissioni manuali.

Già entro dicembre il costruttore metterà in produzione la suv elettrica compatta Eqa, seguita nel 2021 da Eqb ed Eqs. Quest’ultima sarà una grande ammiraglia, simile per impostazione alla Classe S, e porterà al debutto la piattaforma “Eva”, configurata come una sorta di skateboard gigante, con batterie e propulsori integrati nel fondo dell’auto. La Eva darà vita a veicoli con autonomia superiore a 700 km e potenza massima di circa 700 cavalli, che saranno costruiti in Germania, Usa e Cina. Ancora più flessibile l’architettura Mma, all’esordio nel 2025 e destinata ai veicoli di piccole e medie dimensioni (come Classe A, Classe C, Gla, e Glc), capace di ospitare sia meccaniche elettriche sia ibride plug-in.

Ecco come Big Tech cattura attenzione, tempo (e aziende)

“Quello che stiamo comprando davvero è il tempo”: la frase viene pronunciata nel 2012 da Mark Zuckerberg. Il fondatore di Facebook spiega perché sia così importante acquisire il social network delle foto, Instagram. “Una volta che qualcuno vince in un meccanismo, è difficile per gli altri soppiantarlo senza fare qualcosa di diverso. È possibile che qualcuno superi Instagram costruendo qualcosa di migliore al punto da ottenere la migrazione, ma questo è più difficile finché Instagram continua a funzionare come prodotto”. Delle 450 pagine pubblicate, dopo quasi un anno e mezzo di indagine del Congresso Usa, dal comitato antitrust della Commissione giudiziaria della Camera emerge con chiarezza che negli ultimi 20 anni gli Over the top (OTT) della tecnologia – Amazon, Apple, Facebook e Google – hanno fatto quanto potevano per affermare la propria posizione dominante. Sul terreno – dopo centinaia di interviste, milioni di documenti e testimonianze dall’interno – resta la narrazione che li vuole Robin Hood del web e dell’innovazione: la legge del mercato (del profitto) è l’unica cosa che le guida. Secondariamente emerge il ritardo della politica: il rapporto dimostra che, se si vuole, si può far bene. Ma finora non è accaduto.

Buona parte di quanto raccolto risale, infatti, a un decennio fa ed è ciò che ha portato ai monopoli esistenti oggi. Otto anni fa, si legge, Mark Zuckerberg spiegava quanto fosse importante assorbire tempestivamente i concorrenti pericolosi: “Anche se saltano fuori nuovi concorrenti, acquistare Instagram ora ci darà un anno o più per integrare le loro dinamiche prima che qualcuno possa avvicinarsi di nuovo alla loro scala. All’interno di quel tempo, se incorporiamo la meccanica social che stavano utilizzando, quei nuovi prodotti non avranno molta trazione poiché avremo già le loro meccaniche distribuite su larga scala”.

Apple, Google, Facebook e Amazon vengono definiti più volte i “guardiani” della Rete: sono ai cancelli, dettano regole e condizioni di ingresso. Ma soprattutto, generano barriere insormontabili per i più piccoli: non possono fare a meno di loro, né competere. Foundem, un provider di ricerca di shopping comparativo con sede nel Regno Unito, ha testimoniato che Google ha il “predominio globale schiacciante” della ricerca orizzontale e per quasi tutti è “scomodo ma inevitabile”.

Non solo comprano tempo, ma di fatto gli OTT lottano per il tempo degli utenti: un ex dipendente ha spiegato che, come product manager di Facebook, “il tuo unico lavoro è ottenere un minuto extra. Non chiedono da dove provenga. Possono monetizzare un minuto di attività a una certa velocità. Quindi l’unica metrica è ottenere un altro minuto”. Al punto che, in un primo momento, c’è tensione nell’azienda addirittura per la competizione interna (l’unica che, secondo la commissione, appare davvero rilevante per i manager) Facebook vs Instagram.

Nel fiume di informazioni emergono anche dettagli di cui alla lunga ci si dimentica: non tutti sanno o ricordano che Waze, la maggiore applicazione di mappe stradali dopo Google Maps e che molti scelgono proprio per avere un’alternativa, è stata acquisita da “Big G” 7 anni fa (anche se i team restano separati) assicurandosi così una concentrazione quasi totale della navigazione: in sostanza, si legge nel report, l’acquisto ha fornito a Google “sia l’opportunità che la capacità di chiudere il mercato ai concorrenti”.

E ancora: acquisire informazioni da terze parti senza autorizzazione per migliorare i risultati della ricerca e gli ormai noti vantaggi ai propri servizi, attraverso Android e le opzioni predefinite nei sistemi operativi, hanno ulteriormente rafforzato la posizione dominante di Google. Bizzarro che – lo rivelano documenti interni citati nel report – quando ancora Google non dominava il mercato i suoi “dirigenti hanno monitorato le impostazioni predefinite di ricerca su Explorer di Microsoft e hanno espresso la preoccupazione che le impostazioni predefinite ‘non Google’ potessero ostacolare Google Search” raccomandando che agli utenti fosse la possibilità di scegliersi il motore di ricerca. Per tutti, il grande vantaggio è comunque la mole di dati, “informazioni di mercato quasi perfette” che arrivano da basi di utenti enormi, che permettono di monitorarli in tempo reale e di farlo con un’impressionante penetrazione di dettaglio. Al punto che, si legge, a un certo punto Facebook sentì il bisogno di acquisire un’azienda che gli permettesse di analizzare i dati delle aziende prima di comprarle.

Amazon non è da meno, per tutto. Per il Congresso Usa, detta di fatto le regole per il commercio digitale visto che un quarto dei suoi 2,3 milioni di venditori indipendenti la usano come unica fonte di reddito, il che li rende di fatto ostaggi delle sue tattiche opache, come ad esempio il funzionamento dell’algoritmo della Buy Box, la casella dove viene fuori il primo risultato tra i prodotti ricercati. L’azienda ha detto che si basa su una combinazione di efficienza e prezzo, ma non c’è nulla di chiaro. Anche perché emerge che Amazon raccoglie i dati su vendite e prodotti per offrire i propri prodotti concorrenti, magari a prezzi inferiori.Ufficialmente i venditori sono definiti “partner”, ma nei suoi documenti l’azienda li chiama “concorrenti interni”. Un esempio-sintesi: Amazon ha ampliato rapidamente l’ecosistema del suo assistente vocale Alexa “attraverso l’acquisizione di tecnologie complementari e concorrenti e vendendo i suoi altoparlanti intelligenti abilitati per Alexa a forti sconti”. Per dirla con un ex dipendente: “È prima di tutto una società di dati, semplicemente la usano per vendere cose”. È poi leader anche nel cloud computing: Amazon Web Service rappresenta quasi la metà di tutte le spese globali per i servizi di infrastruttura cloud e l’azienda ha una quota di mercato tre volte superiore a Microsoft, tanto che Netflix, concorrente di Amazon Prime Video, ha pagato 500 milioni di dollari nel 2018 per archiviare sul cloud di Amazon il suo streaming.

Infine Apple: il suo peccato originale è sempre lo stesso, essere il mercato più chiuso di sempre, ma comunque immenso con 100 milioni di dispositivi. Ha il monopolio del mercato delle app su iPhone e iPad, consentendo all’azienda di fare quel che vuole con gli sviluppatori, aumentando ad esempio le commissioni sulle vendite o condizionando i risultati di ricerca. Ovviamente predilige le proprie app e servizi sui propri dispositivi preistallandoli e rendendoli opzioni predefinite. Un vantaggio che, ancora una volta, “rende difficile la concorrenza”. E la concorrenza proprio non piace agli Over the top.

Autostrade, il governo attende ancora i Benetton

Sul dossier Autostrade resta lo stallo, anche se l’ennesimo ultimatum del governo, in teoria, scade domani. Lo scontro tra le parti è ormai ostaggio di lettere e avvertimenti, un bailamme che ha come unica conseguenza quello di ingrassare uno stuolo di avvocati prezzolati. La sostanza però – se così si può dire – è che il governo minaccia la revoca ma spera che Altantia, e quindi la famiglia Benetton, facciano un passo indietro. Auspicio fatto pervenire ieri dal ministero dell’Economia e dalla Cassa Depositi e Prestiti direttamente alla holding.

In mattinata era atteso un cda del colosso per fare il punto. Poco prima il Tesoro e la Cdp hanno inviato due lettere fotocopia per invitare la società al dietrofront. Testuale: “Siamo tenuti a invitarvi, anche coinvolgendo il vostro consiglio di amministrazione, a riconsiderare le vostre posizioni e a presentare soluzioni coerenti con gli impegni da voi assunti”. Insomma Atlantia dovrebbe ritirare la delibere del suo cda del 24 settembre con cui ha messo in vendita le quote di Aspi al miglior offerente senza cedere il controllo a Cdp come previsto dagli accordi col governo del 14 luglio che avevano evitato, in teoria, la revoca. La trattativa con Cdp, come noto, è saltata in questi mesi per i dissidi sul prezzo ma soprattutto sulla richiesta della Cassa di avere una manleva legale dai rischi connessi al procedimento penale sul disastro del ponte Morandi di Genova.

Atlantia per ora non ha intenzione di fare passi indietro. La Cdp smentisce incontri a breve. Ieri l’unica novità è stato l’invio da parte di Autostrade di una lettera al ministero delle Infrastrutture. La ministra Paola De Micheli l’ha annunciata in tempo reale in audizione alla Camera, dov’era convocata proprio per parlare del dossier. In sostanza, il concessionario fa sapere di essere pronto a firmare l’accordo transattivo col Mit per chiudere la procedura di revoca ma senza il famoso articolo 10 contenuto nell’atto, che vincola la firma alla cessione del controllo di Aspi alla Cassa Depositi e Prestiti. Per Autostrade vincolare la nuova concessione e la chiusura del contenzioso alla cessione delle quote è illegale. Ieri De Micheli ha ribadito che quella clausola è stata una decisione condivisa da tutti gli attori in causa del governo, Palazzo Chigi, Mit e Tesoro, e “non fa altro che subordinare la transazione alla realizzazione degli impegni assunti da Atlantia con la sua lettera del 14 luglio”.

Tirate le somme. Per il governo, Atlantia è venuta meno ai suoi impegni sanciti nella lettera in cui proponeva di cedere a Cdp il controllo di Autostrade per chiudere la ferita del Morandi. Dal canto suo, la holding va avanti per la sua strada e fa sapere di aver già dato accesso ai dati del concessionario a una dozzina di investitori interessati, tra cui i Gavio (il numero due italiano del settore). Alla scadenza dell’ultimatum era previsto un Consiglio dei ministri sulla revoca. Nei palazzi romani sono in pochi a ritenere che ci sarà in settimana. Forse serviranno altre lettere.

“Bonus? Lo rifarei”. I leghisti sospesi sono stati graziati

All’indomani dello scandalo, Matteo Salvini aveva sfoggiato tutto il suo rigore e il suo piglio legalitario: “I leghisti coinvolti nella vicenda del bonus Iva devono essere sospesi e dichiarati incandidabili. Se qualcuno sbaglia in casa mia io sono inflessibile. Mi auguro che anche gli altri partiti politici siano egualmente fermi per dare un segnale di rispetto”. Ecco, l’inflessibilità della Lega verso i furbastri del Covid è durata poche settimane, il tempo di mostrare il volto truce all’opinione pubblica, ripulirsi un po’ la coscienza e tornare a far finta di niente.

I parlamentari leghisti, come anticipato dal Fatto, sono di nuovo al loro posto: Andrea Dara e Elena Murelli partecipano agli eventi del partito come nulla fosse, la senatrice Marzia Casolati (che ha intascato il bonus da 1.500 euro per la sua oreficeria) contribuisce ai lavori del gruppo leghista a Palazzo Madama esattamente come prima e si mostra in pubblico alle manifestazioni di Salvini, come la sfilata anti-giudici di Catania.

Ma scendendo ai piani più bassi, la gestione dello scandalo è la stessa: il modello Lega è insabbiare e dimenticare tutto anche nei territori. I consiglieri regionali del Carroccio che erano stati sospesi per editto salviniano sono stati reintegrati con una pacca sulle spalle. E con una sola consegna: il silenzio. Del pasticciaccio brutto del bonus Covid non si deve parlare più.

Così, ad esempio, i due consiglieri piemontesi Matteo Gagliasso e Claudio Leone sono stati allontanati dal partito con il divieto di partecipare alle sedute di aula e alle commissioni, ma giusto per il tempo della campagna elettorale. Dopo referendum e Regionali è arrivato il reintegro. Amici come prima. Solo con i giornalisti non parlano. Abbiamo provato a chiedere a Leone se non trovasse risibile la sospensione di poche settimane: “Sull’argomento non rilascio dichiarazioni”. Gli abbiamo chiesto se addirittura si sentisse vittima di un’ingiustizia: “Sull’argomento non rilascio dichiarazioni”. Ma è felice di come lo ha trattato il suo partito? “Sull’argomento non rilascio dichiarazioni”. Indovinate invece cosa ha risposto il collega piemontese Gagliasso? “Su questo tema non rilascio dichiarazioni”. Ha cambiato una parola.

Poi c’è Stefano Bargi, giovane pupillo di Salvini a Modena, ex capogruppo in consiglio regionale. Pure lui ha ottenuto il bonus dei 600 euro (e ben due volte, ma “solo per la mia azienda”), pure lui è stato sospeso, pure lui quasi immediatamente reintegrato. E ora gioca a nascondino: “Ho già detto abbastanza, per me se n’è parlato anche troppo. Se vuole sapere come è andata chieda al senatore Andrea Ostellari, è lui che ha gestito la questione in Emilia”. Insomma, Bargi non parla. Ma poi stranamente – ci riferisce lo stesso Bargi – non parla neppure Ostellari: non è disponibile.

Tra i furbastri del bonus che hanno ricevuto la grazia c’è anche il consigliere lombardo Alex Galizzi, che siede tranquillamente nel gruppo leghista. E poi i veneti, che non sono stati ricandidati da Luca Zaia, ma sono cascati in piedi lo stesso: Riccardo Barbisan è stato dirottato a Bruxelles, nello staff dell’europarlamentare Gianantonio Da Re. Il seggio di Alessando Montagnoli invece è stato salvato dalla maggioranza (a guida leghista) nel consiglio comunale di Oppeano (Verona): è abbastanza chiaro che il partito non l’ha scaricato.

L’unico un po’ più loquace è il consigliere provinciale trentino Ivano Job. Che è anche l’unico, formalmente, ancora non reintegrato nella Lega. “Io comunque continuo a lavorare con il gruppo leghista esattamente come prima – dice – sono sospeso soltanto dal partito”. Ma conta di essere riabilitato quanto prima: “Credo proprio di sì, io non ho fatto nulla di male. Ho preso il bonus per le mie aziende. Che devo lasciarle fallire?”. Quindi lo rifarebbe ancora? “Dipende, vediamo come va l’inverno. Se ce ne fosse bisogno, perché no?”.

Inps e politici in silenzio: i furbastri gongolano

Che fine ha fatto il caso dei furbetti del bonus? La domanda è semplice quanto lecita, in un Paese abituato a un frullatore politico (e mediatico) che mastica i suoi scandali per il tempo che serve all’indignazione quotidiana, per poi destinarli all’oblio come nulla fosse.

Due mesi fa – era il 9 agosto – Repubblica dava notizia di cinque deputati che avevano fatto domanda per ottenere il bonus Covid da 600 euro destinato alle partite Iva, non contenti di ricevere ogni mese stipendi parlamentari da circa 12 mila euro. Dei cinque furbetti ne sono noti soltanto tre, ovvero coloro i quali il bonus lo hanno ricevuto: i leghisti Andrea Dara ed Elena Murelli e il 5Stelle (poi cacciato dal Movimento) Marco Rizzone. Una manciata di consiglieri regionali – anch’essi percepiscono assegni superiori ai 10 mila euro mensili – si sono poi autodenunciati, credendo che di lì a poco l’Inps avrebbe diffuso i nomi di tutti i politici coinvolti (si parlava di 2 mila tra deputati, consiglieri regionali e comunali), ma in realtà ancora oggi siamo fermi a quel che sapevamo a Ferragosto: l’ente previdenziale, responsabile dell’erogazione del bonus e quindi in possesso dei dati dei richiedenti, ritiene ancora di non poter rendere pubbliche le identità dei furbetti.

i dubbi del garante. Il motivo dello stallo è un’istruttoria che l’Autorità garante per la protezione dei dati personali ha aperto ormai più di un mese fa nei confronti di Inps e del suo presidente Pasquale Tridico, con l’obiettivo di capire non se l’ente abbia facoltà di divulgare i nomi oppure no, ma se l’Inps abbia raccolto in maniera illegittima i dati sui politici.

Il tema è questo: per quale motivo – si chiede il Garante – l’Inps ha scandagliato parte delle domande ricevute scoprendo e isolando quelle inviate dai politici? Se i deputati e i consiglieri regionali sono cittadini come tutti gli altri ai fini dell’ottenimento del bonus – è il ragionamento – allora non c’era motivo per trattarli separatamente.

La versione di inps. A questa obiezione Tridico ha già provato a rispondere in Commissione Lavoro alla Camera, quando prima di Ferragosto fu convocato per chiarire i termini dello scandalo e – si pensava –per fare i nomi di tutti i furbetti. In quella sede il presidente spiegò come la task force antifrode dell’ente, guidata da Antonello Crudo, aveva avviato verifiche su oltre 40 mila richiedenti, anche perché per vedersi accogliere la domanda era necessario “non essere titolari di un trattamento pensionistico né essere iscritti ad altre forme previdenziali obbligatorie”. Secondo Tridico, era necessario porre l’attenzione sui politici proprio in quanto potenziali soggetti iscritti ad altre casse, anche se molti considerano invece le pensioni di Camera, Senato e Regioni (il vecchio vitalizio, ora riformato) non assimilabili alle altre forme previdenziali, visto il loro anomalo funzionamento.

Lo stallo. Chiunque abbia ragione, siamo ancora fermi qui. “Finché il Garante non concluderà l’Istruttoria – è quanto fatto sapere più volte dall’Inps – i nomi non ci saranno”. Se infatti l’ente dovesse divulgarli e poi, in un secondo momento, l’Authority dichiarasse illecito il modo in cui quei nomi li ha ottenuti, l’Inps e Tridico passerebbero guai, esponendosi a facili ricorsi da parte degli interessati.

Se invece il Garante dovesse non ravvisare illeciti, l’Inps avrebbe mani libere, dato che più volte la stessa Autorità ha chiarito – pur senza fornire pareri formali – che l’interesse pubblico e la funzione elettiva dei richiedenti giustifica la divulgazione dei nomi, come specificato dalla giurisprudenza e dalle Linee guida di Anac.

tutti zitti. In questa partita tra istituti, il grande assente dell’ultimo mese è la politica. Dopo aver fatto un gran baccano, adesso tutti tacciono. I leader chiedevano espulsioni per i furbetti e trasparenza sulla loro identità, la Commissione Lavoro guidata dalla dem Debora Serracchiani sembrava voler risolvere la questione entro pochi giorni. E invece siamo alla calma piatta.

Dopo l’audizione di Tridico, in cui il presidente aveva chiesto tempo per ricevere ulteriori delucidazioni dal Garante, la Commissione ha scritto di nuovo all’Inps, lasciando intendere la necessità di una imminente convocazione.

Tridico però – e siamo a fine agosto – ha ribadito di non potersi muovere prima della chiusura dell’istruttoria, motivo per cui a settembre l’ufficio di presidenza della Lavoro aveva deciso di chiamare in audizione direttamente Pasquale Stanzione, il presidente dell’Autorità. Doveva essere una formalità, con il deputato FdI Walter Rizzetto – uno dei più agguerriti – che aveva pure chiesto la diretta streaming della seduta. Ma un mese più tardi il Garante non è ancora mai stato invitato formalmente: prima la melina in vista delle elezioni del 20 e 21 settembre, ora – pare – un’attesa legata proprio all’indeterminatezza dell’istruttoria in corso.

Accesso civico.Il problema è che il Garante ha tempi tutt’altro che rapidi e l’indagine ha richiesto finora un intenso scambio di carte con l’Inps proprio sulla controversa questione delle casse previdenziali dei politici, motivo per cui è probabile che la chiusura dell’istruttoria non ci sia prima di un paio di mesi. Troppo, per una politica che giurava di aver fretta.

Visto l’immobilismo dei partiti, la soluzione potrebbe arrivare per altra via. Ad agosto Il Fatto aveva presentato richiesta di accesso civico agli atti, chiedendo all’Inps di rivelarci l’identità dei furbetti in nome del diritto all’informazione. La risposta è stata interlocutoria – il solito rinvio a tempi migliori, a istruttoria chiusa – ma nelle prossime settimane il nostro giornale rinnoverà la richiesta, sperando che la stampa possa anticipare i tempi biblici della burocrazia e quelli (dolosamente) lenti della politica.

Camere, voto al buio: si rischia di finire “sotto”

Mercoledì a Montecitorio, e tra mercoledì e giovedì a Palazzo Madama, si vota il Nadef. Con l’incognita Covid, che si traduce in incognita numeri. Perché è richiesto il sì della maggioranza assoluta dei componenti. Dunque, 321 deputati e 161 senatori. Di questi tempi non è detto che ci si arrivi: martedì alla Camera, sulla relazione di Roberto Speranza, è mancato il numero legale. Mercoledì si è trovato un escamotage: considerare in missione i deputati in isolamento (erano 23 del Pd, 15 dei 5s, 5 di Iv, uno di Leu, più alcuni del Misto). Ma la cosa non si potrà fare per il Nadef. Per cambiare il numero di voti richiesti servirebbe non un intervento regolamentare, ma addirittura costituzionale.

Dunque, si cercano soluzioni. Alla Camera, Stefano Ceccanti (Pd) ha fatto un appello per il voto online, che ha già raggiunto oltre 100 firme. “Il problema riguarda non tanto e solo la possibile mancanza del quorum (per il quale è possibile agire sulle missioni) o l’alterazione dei possibili esiti di votazioni ordinarie, quanto soprattutto le votazioni per le quali sono richiesti quorum particolari e in cui, quindi, solo la possibilità di garantire una partecipazione e anche un voto a distanza può non alterare il risultato”. In ogni capogruppo la maggioranza pone il problema al presidente, Roberto Fico. Soluzioni però non sono all’orizzonte: il voto online (che comunque nessun gruppo ha formalmente chiesto) resta solo per un’ipotesi, anche perché il Ministro per i Rapporti con il Parlamento è contrario. Così come il voto per delega. Comunque non ci si arriverà per la settimana prossima. Che il tema possa diventare rapidamente politico è chiaro dall’intervento fatto nella capigruppo di ieri dal leghista Riccardo Molinari. Il quale ha ricordato che i voti dell’opposizione potrebbero servire. E dunque, alla fine, quel dialogo tra maggioranza e opposizione che non è mai decollato, nemmeno nei momenti più bui del lockdown, potrebbe partire per la necessità della maggioranza di chiedere voti in prestito al centrodestra.

Dalla presidenza di Montecitorio, comunque, ostentano tranquillità: sarebbero allo stato solo 28 gli onorevoli in isolamento. In Senato nessuno si sta neanche ancora ponendo la questione. Per superare lo scoglio del Nadef di conta sull’uscita dalla quarantena di un numero consistente di Cinque stelle.

Comunque vada, si ripresenterà. Ci sono già in calendario altri provvedimenti che richiedono la maggioranza assoluta dei componenti: la settimana prossima la Camera si esprime anche sul voto ai 18enni in Senato e poi è previsto l’arrivo in aula della proposta di legge costituzionale di Fornaro.

I sindaci giallorosa: giovani professionisti (e fuori dalla politica)

Giovani, con nessuna (o quasi) esperienza politica alle spalle e un passato nel mondo delle professioni e della scuola. Sono loro i nuovi sindaci giallorosa che – da Faenza (Ravenna) a Termini Imerese (Palermo) – sono stati eletti tra il primo turno e il ballottaggio. Solo Massimo Isola, 46 anni e un passato da giornalista nelle cronache locali, faceva politica dal 2015 come vicesindaco Pd nel Comune emiliano, ma tutti gli altri sono professionisti o dipendenti pubblici: Domenico Bennardi neo sindaco di Matera, dopo anni passati a restaurare opere e catalogare documenti in giro per l’Italia ha deciso di fare il grande passo candidandosi nella sua città per strapparla al centrodestra. Bennardi, 45 anni, ha fatto lo stesso percorso di molti studenti del meridione: laureato in Scienze della Formazione a Firenze, ha girato molte università d’Italia tra cui la Sapienza di Roma, quella del Salento e di Camerino prima di tornare nella città dei Sassi dove si è sposato e ha iniziato a lavorare al “Museo virtuale per la Memoria Collettiva” per applicare all’arte il principio fondativo del grillismo: “La partecipazione sui social network”.

Tutto questo senza abbandonare la sua grande passione: scrivere romanzi. L’ultimo – “Il segreto delle nuove monache di Makkon” – è proprio ambientato a Matera e per questo i suoi concittadini hanno iniziato a chiamarlo, tra il serio e il faceto, “lo scrittore”. L’altro volto della vittoria Pd-M5S è quello di Maria Terranova, eletta a Termini Imerese, già ribattezzata la “sindaca ragazzina”. Sia per l’età – 34 anni appena compiuti – che per l’ascesa rapidissima (è iscritta al M5S dal 2017). Quando nella sua città gli operai della Fiat facevano i picchetti davanti alla fabbrica, lei era ancora al Liceo. Papà medico e mamma insegnante, dopo la laurea in Giurisprudenza decide di iniziare la scuola Notarile a Napoli ma dopo il concorso fallito torna in Sicilia e si butta in politica come consigliera comunale.

Dopo le dimissioni del sindaco Francesco Giunta decide di candidarsi sindaca nonostante una certa timidezza: “Non avevo mai preso un microfono in mano nemmeno per il karaoke” racconta oggi. Ma in campagna elettorale si trasforma in una candidata agguerrita vincendo al primo turno con il 41% dei voti. Dal mondo della Scuola e dell’Università arrivano Enzo Falco, sindaco di Caivano con un passato da professore in vari Istituti Tecnici cittadini, il primo cittadino di Pomigliano Gianluca Del Mastro, associato di Papirologia alla Vanvitelli di Napoli che gira il mondo per raccontare i reperti di Napoli e Pompei, ma anche Michelangelo Betti, nuovo sindaco di Cascina, cittadina nel pisano governata fino al 2019 dalla leghista Susanna Ceccardi: laureato in Lingue, è un anglofilo e non voleva lasciare i suoi studenti dell’Istituto “Pesenti” di Cascina. Oltre alla nuova generazione di sindaci giallorosa, restano i numeri che rafforzano l’alleanza: secondo un sondaggio dell’Istituto Cattaneo, gli elettori di Pd e M5S hanno già immaginato un’alleanza strutturale. La base sostiene (61% i 5S e 55% i dem) che la collaborazione debba andare avanti “dopo aver governato insieme” e che serva per combattere la destra. Non solo: “Sono gli elettori 5 Stelle ad aver interiorizzato in quota maggiore agli elettori Pd un’opinione favorevole verso l’alleanza”. Come dire: la distanza tra la classe dirigente M5S e la sua base ormai è diventata un fossato.

Emiliano e Giani a caccia di 5S Roma, lo spettro Calenda sul Pd

Telefonate e incontri. Di quelli sfuggenti, in cui si passa dalla porta sul retro che se, poco poco escono sui giornali, fanno infiammare le chat interne. Epperò le Regionali in cui ci si faceva la guerra per ordine costituito sono finite, i risultati sono stati vidimati e allora è il momento di formare le giunte. Così Michele Emiliano in Puglia ed Eugenio Giani in Toscana tessono le proprie reti con il M5S con una strategia chiara: portarli al governo come avviene a livello nazionale. Di tempo per formare le giunte entrambi ne hanno preso molto, più dei loro colleghi: altri 10 giorni per Giani, mentre si arriverà alla fine di ottobre per Emiliano.

I motivi ufficiali sono diversi – il toscano aspetta l’insediamento del Consiglio, il pugliese la decisione del Tar sui seggi da assegnare – ma la realtà è che entrambi stanno provando a coinvolgere i 5Stelle che, e qui sta la notizia, rispondono “presente”. In Puglia, Michele Emiliano ha già in mente alcuni assessori e tra le cinque donne – oltre alle due del Pd, una ai vendoliani e una ad Art.1 – il governatore ha lasciato libera una casella da riservare al M5S: una tra la consigliera Rosa Barone o Grazia Di Bari, perché della dura e pura Antonella Laricchia ovviamente non se ne parla.

Così martedìmattina i 5 consiglieri 5S si sono incontrati per scegliere il da farsi e si sono spaccati: di fronte all’oltranzismo di Laricchia (“gli elettori ci hanno mandato all’opposizione”), i propri colleghi spingono per entrare (Cristian Casili ha chiesto un assessorato all’Ambiente). Nel mezzo, come ha rivelato ieri il Corriere del Mezzogiorno, c’è stata una telefonata tra Emiliano e Luigi Di Maio, che pure entrambi hanno smentito parlasse del puzzle-giunta: nessuna indicazione da parte dell’ex capo politico che come al solito fa sapere che ogni scelta è rimandata ai “territori”, seppure dagli stessi Cinque Stelle arrivi la conferma che nel gruppo pugliese la voglia di collaborare c’è, eccome.

In Toscana invece Giani e l’ex candidata del M5S, Irene Galletti, si sono visti mercoledì scorso nella sede del Consiglio Regionale a due passi dal Duomo. Una chiacchierata informale e lontana dalle telecamere che è servita per iniziare “un dialogo costante”, come spiega lo stesso Giani . A cui non dispiacerebbe farlo diventare “un’alleanza strutturale” con il M5S e, in caso, “allargare la coalizione” di governo. Chissà, magari partendo dall’estromettere dalla giunta quei renziani che sono molto arrabbiati per la sua intervista al Foglio di qualche giorno fa in cui ha attaccato a testa bassa Matteo Renzi: “È più quello che gli ho portato di quello che ho ricevuto” ha detto.

L’ex premier si è offeso molto e vuole rimanere fuori dalla giunta ottenendo la Presidenza del Consiglio Regionale per condizionare di più la maggioranza. Giani, che ieri ha incontrato il premier Conte a Roma, si è preso ancora fino al 19 ma prima incontrerà di nuovo Galletti per parlare di temi. E se il governatore non offrirà una poltrona ai grillini, di certo chiederà loro un appoggio esterno: “Se Giani tiene fuori Renzi dalla giunta è un buon segno di indipendenza – apre Galletti al Fatto Quotidiano – adesso dovremo vedere i programmi”. E se vi offrisse un assessore? “Servirebbe una riflessione – spiega – e vedere se il cambiamento è reale”. Non proprio una chiusura.

Ma i giallorosa sono alle prese anche con il “caso Roma”. Nicola Zingaretti, che da giorni chiede di aprire il “cantiere” delle Comunali, ha ricevuto solo “no” dai cosiddetti “big” come David Sassoli, Paolo Gentiloni, Enrico Letta, Roberto Gualtieri e Franco Gabrielli e così sta per rassegnarsi alle primarie “dei sette nani”. Uno schema che secondo alcuni sarebbe funzionale a una indiretta riconferma della Raggi, su cui gli stessi dem potrebbero convergere al ballottaggio in chiave anti-destra. Ma c’è la variabile di Carlo Calenda che sembra pronto a presentarsi, anche per rompere l’eventuale asse giallorosa. Per tentare di rimettere ordine nel centrosinistra, il segretario del Pd romano Andrea Casu ha convocato una riunione mercoledì con i renziani, Stefano Fassina e lo stesso Calenda. Che si arrivi a una rapida soluzione è difficile da immaginare.

“Fatti gravissimi, unici nella storia italiana, Palamara sia rimosso dalla magistratura”

Via dalla magistratura. Come previsto, anche dall’interessato Luca Palamara, ieri l’avvocato generale della Cassazione Piero Gaeta ha chiesto il massimo della sanzione disciplinare, la “rimozione” per l’ex presidente dell’Anm ed ex consigliere del Csm che solo fino a maggio 2019 era tra i magistrati più ossequiati d’Italia, uomo forte del correntismo con codazzo di toghe questuanti. Chat cantano. Il massimo della pena, ha spiegato Gaeta, è per “l’assoluta gravità degli illeciti”, per le sue condotte “molteplici e plurioffensive”. Palamara ha avuto un “ruolo primario” nella strategia per scegliere il procuratore di Roma e “non ha fornito elementi per attenuare la gravità delle accuse”. Il riferimento è anche alla scelta di avvalersi della facoltà di non rispondere. Gaeta ripercorre quei fatti “gravissimi” che rappresentano “un unicum” nella storia della magistratura”: l’incontro all’hotel Champagne di Roma, la notte del 9 maggio 2019, tra Palamara, il deputato e imputato per Consip, a Roma, Luca Lotti, un altro deputato del Pd, ora di Iv, Cosimo Ferri, magistrato in aspettativa e gli allora 5 togati del Csm Gianluigi Morlini, Luigi Spina, Antonio Lepre, Corrado Cartoni e Paolo Criscuoli, tutti sotto processo disciplinare. “Un soggetto imputato – rileva Gaeta – e senza titolo, ha concorso nella scelta del dirigente dell’ufficio che avrebbe dovuto sostenere l’accusa nel suo processo. Un concorrente a procuratore aggiunto presso il medesimo ufficio (Palamara, ndr) ha organizzato l’incontro e concorso a quella scelta”. Il sostituto pg Simone Perelli, che ha tenuto una parte della requisitoria, parla anche della Procura di Perugia, che accusa Palamara di corruzione: volevano un “procuratore di Perugia addomesticato, che doveva assecondare il sentimento di rivalsa suo e di Lotti nei confronti di Paolo Ielo (aggiunto a Roma, ndr)”. In apertura di requisitoria, Gaeta aveva respinto con sdegno l’accusa mossa alla Procura generale dalla difesa e da una parte della stampa: nessuna compressione dei diritti di difesa e soprattutto nessuna volontà di fare di Palamara un “capro espiatorio” del tipo “sacrificarne uno per salvarne mille”. L’opposizione alla quasi totalità dei 133 testi è dovuta all’incolpazione che si incentra sulle “legittime registrazioni” agli atti. Ma per il difensore Stefano Guizzi è un “grave vulnus alla difesa”. Chiede l’assoluzione di Palamara, condannabile solo sul piano etico. In subordine, sospensione di due anni. Oggi dichiarazioni spontanee e probabile sentenza.

CasaPound in Rai: a giudizio nel 2021 (a 13 anni dal fatto)

Servirà ancora un anno per sapere se gli esponenti di CasaPound dovranno rispondere dell’irruzione del 3 e 4 novembre 2008 alla sede Rai, per la tentata interruzione del programma Chi l’ha visto?, che aveva trasmesso le immagini degli scontri tra i blocchi studenteschi in piazza Navona.

Dopo ben 12 anni, cinque giudici, due pm e sei udienze, non c’è ancora un verdetto di primo grado. Per anni il procedimento era rimasto fermo, dopo la scomparsa del pm Pietro Saviotti che aveva condotto le indagini, in attesa che venisse fissata una data. Dopo un articolo del Fatto, la giustizia ha ripreso il suo corso. A processo sono 12 imputati, accusati di violenza o minaccia a incaricato di pubblico ufficiale, tra cui Francesco Polacchi, titolare della casa editrice Altaforte e di Pivert, che pubblicò il libro intervista di Matteo Salvini; Gianluca Iannone presidente di CasaPound Italia; il segretario nazionale Simone Di Stefano e il vicepresidente Andrea Antonini. I difensori hanno chiesto ieri di procedere con il rito abbreviato.