Rider di tutto il mondo uniti in una giornata di sciopero transnazionale. Ieri una ventina di associazioni che rappresentano i fattorini che consegnano cibo a domicilio per le multinazionali hanno organizzato una mobilitazione nelle piazze di molte città di Europa e Sudamerica. Evento che in Italia, con cortei a Milano, Bologna, Firenze e Torino, ha avuto un’importanza speciale: poche settimane fa, infatti, è stato firmato il contratto nazionale “di comodo” dall’Assodelivery (Deliveroo, Glovo, Just Eat e Uber Eats) e l’Ugl, sindacato che si è allineato al volere delle imprese accettando i pagamenti a cottimo e l’assenza di diritti. Nel frattempo la Cgil ha annunciato che avvierà una battaglia legale contro l’applicazione del contratto. Deliveroo ha già fatto sapere ai suoi rider che chi non accetterà le condizioni dell’accordo Assodelivery-Ugl sarà mandato a casa e ha anche abolito il sistema dei turni inserendo il free login: meccanismo che, secondo i rider, finirà per esasperare la competizione tra lavoratori.
Covid+burocrazia: su MillenniuM cronaca delle settimane tragicomiche di un positivo
Tre giorni di telefonate a vuoto per ricevere indicazioni dopo la positività al tampone. Medici di base incerti di fronte alle richieste dei miei “contatti”. Un limbo senza informazioni chiare né procedure collaudate, che lascia decine di persone sospese e aggiunge all’angoscia del possibile contagio quella di non aver nulla che attesti la situazione, neanche per il datore di lavoro. Succede 6 mesi dopo il picco dell’emergenza Covid nella regione più colpita, la Lombardia. FQ MillenniuM, il mensile diretto da Peter Gomez, in edicola da domani, è dedicato al mostro mai sconfitto della burocrazia italiana, con il resoconto della mia personale esperienza di “positivo al Covid”, e non ancora conclusa.
Martedì 8 settembre, con indolenzimento muscolare e perdita di olfatto, decido di sottopormi a un tampone. Abito a Busto Arsizio, in provincia di Varese. Riesco a ottenere il test il giorno stesso in un centro privato. Mercoledì 9 posso già visualizzare il risultato online: positivo. Avverto familiari e colleghi, che si mettono in isolamento e prenotano tamponi. Telefono al medico di base per avviare la segnalazione all’Ats (l’Asl in Lombardia). Chiedo anche di aggiornare Immuni – per segnalare la positività ci vuole un codice rilasciato da un operatore sanitario – ma dice che non è nelle sue possibilità. La mattina successiva ricevo la chiamata dal centro dove ho fatto il tampone: “Si metta in quarantena con i suoi conviventi e aspetti la telefonata dell’Ats”. Immuni? “Non so”. Le mie segnalazioni non hanno effetto fino al pomeriggio di sabato 12, a oltre tre giorni dall’esito. Quando per la prima volta mi vengono chiesti i nomi dei familiari conviventi, per i quali c’è la “quarantena fiduciaria”, mentre per me è “obbligatoria”. “Siamo pochi”, si giustifica l’operatrice. E il tracciamento? Ad alcuni colleghi arriva una telefonata tra il 17 e il 18, quando i 14 giorni dal contatto a rischio sono trascorsi. E Immuni? Ottengo il codice il 15 settembre: 6 giorni dopo l’esito del tampone. E la notifica d’avvenuto contatto compare a una collega il 26 settembre. A due settimane l’accertamento della mia positività e a tre dal nostro ultimo incontro.
Babbo Renzi, come scompare la notizia
“I giornali non sono fatti per diffondere, ma per coprire le notizie”, diceva Umberto Eco. E i quotidiani di ieri ne sono la prova. Perché della chiusura indagine – atto che di norma prelude a una richiesta di rinvio a giudizio – della Procura di Roma nei confronti di Tiziano Renzi, padre dell’ex premier, sulla stampa nazionale c’è poca roba. A parte Il Fatto (che ha dedicato alla vicenda due pagine) e La Verità, sul resto dei quotidiani la notizia ha trovato davvero poco spazio.
I lettori del Corriere si sono dovuti accontentare di un mini box (senza firma) a pagina 15, una decina di righe, appena 582 battute. Nei quotidiani della famiglia Elkann-Agnelli, troviamo un pezzo su Repubblica a pagina 15, taglio basso (2300 battute): “Consip il padre di Renzi verso il processo”, mentre potremmo sfogliare per ore La Stampa, ma sul cartaceo non c’è nulla. Il quotidiano torinese si è limitato a pubblicare mercoledì pomeriggio un articolo sul sito.
Sul Messaggero c’è un articolo taglio basso a pagina 11 (circa 2500 battute): “Consip, a rischio processo Tiziano Renzi e Verdini. I pm volevano archiviare”. Persino su Avvenire troviamo la notizia, seppure a pagina 10 in un piccolo box (579 battute), mentre non c’è traccia alcuna sul Giornale diretto da Alessandro Sallusti, sul Tempo della famiglia Angelucci, in cui lo stesso Denis Verdini è stato editorialista, né sul Foglio.
Eppure quando si trattava di dare notizie più favorevoli a Tiziano Renzi e ad altri, i giornali non si sono tirati indietro. Proprio Il Foglio, lo scorso 30 ottobre 2018, quando era stata formulata la prima richiesta di archiviazione per babbo Renzi, aveva destinato un paginone da 7 mila battute sulla vicenda. “Il boomerang di Consip”, era il titolo. Nell’occhiello: “Scafarto e l’attacco politico a Renzi. La procura sgonfia la fuffa di Consip”, mentre a centro pagina titolavano: “La Procura di Roma chiede l’archiviazione per Tiziano Renzi. Il lato politico di un caso anomalo”.
Il Corriere non era stato da meno con due articoli (pagina 18). Il taglio alto (2200 battute): “Consip, i pm: archiviare Renzi Senior, rischiano il processo Lotti e Del Sette”. Al centro pagina si titolava: “Dal padre dell’ex premier ricostruzioni inattendibili ma non esercita pressioni”. A Repubblica hanno voluto strafare: due articoli sul nazionale (pagina 20 e 21), e un terzo in cronaca di Roma. “I pm: a processo Lotti e Del Sette. Tiziano Renzi è da archiviare”. E ancora: “Consip, Lotti e Del Sette vanno verso il processo. I pm: archiviate Renzi Senior”.
Evidentemente la richiesta di archiviazione è una notizia, la chiusura indagine – che di solito precede la richiesta di processo – no.
Droni e palloni, così i boss portano i telefonini in cella
C’è chi ha lanciato un pallone. Chi ci ha provato con un drone. E chi con formaggio e salame. Nel solo biennio 2019-2020 sono entrati nelle nostre carceri ben 2.725 microcellulari. Un’impennata notevole se consideriamo i dati del triennio 2016-2018: rispettivamente 149, 252 e 502 apparecchi recuperati all’interno dei penitenziari. Il dato più grave riguarda la tipologia di detenuti che ha avuto accesso a questi telefoni. Per i detenuti in regime di media sicurezza si contano 1.420 telefoni nel 2019 e 1.036 nel 2020.
Per quelli in regime di alta sicurezza le cifre oscillano tra i 201 del 2019 e i 269 del 2020. E quando parliamo di alta sicurezza ci riferiamo a tre categorie di detenuti. La prima riguarda gli appartenenti alla criminalità organizzata di tipo mafioso. La seconda include gli imputati o condannati per delitti commessi con finalità di terrorismo (anche internazionale) o eversione dell’ordine democratico (mediante il compimento di atti di violenza). Infine la terza: chi ha rivestito un ruolo di vertice nelle organizzazioni criminali dedite allo spaccio di stupefacenti.
Il danno che può provocare un telefono cellulare nelle mani di un detenuto in regime di alta sicurezza non è difficile da immaginare: può comunicare con i suoi sodali – o sottoposti – mafiosi. Può continuare a gestire il narcotraffico. Può inviare messaggi con finalità terroristiche ed eversive. Ecco, ben 470 telefoni, nel solo biennio 2019-2020, erano destinati a detenuti con le potenzialità che abbiamo appena elencato. Il dato più incredibile, però, è che nessuno di questi casi ha mai rappresentato un reato. Fino a oggi s’è sempre trattato di un illecito disciplinare punito, di volta in volta, secondo il regolamento di ciascun penitenziario. Il regime cambierà in seguito alle norme che il ministero di Giustizia ha introdotto nell’ultimo decreto Sicurezza. Chi introduce in cella un cellulare destinato a un detenuto rischierà da uno a quattro anni di carcere. Stessa pena per il detenuto che lo riceve. Il caso più eclatante di questi anni risale senza dubbio al novembre 2019: a Parma, nella cella di Giuseppe Gallo detto “Peppe ’o pazzo”, detenuto al 41-bis, sono stati ritrovati ben tre cellulari (dotati di schede e perfettamente funzionanti). Le modalità per portare i microtelefoni nelle carceri sono piuttosto varie. C’è chi li introduce nel proprio corpo. Chi usa dei droni. Almeno due i casi registrati. Il primo a Secondigliano, nei mesi del lockdown, quando un apparecchio s’è abbattuto contro i muri del penitenziario. Il secondo sempre in Campania la scorsa settimana: trasportava – secondo GNewsonline il quotidiano online del ministero di Giustizia – ben 10 telefoni, altrettante schede telefoniche e 8 caricabatterie. Quando nel carcere di Carinola, in provincia di Caserta, iniziavano a piovere pietre, s’è scoperto che si trattava di calcestruzzo con dentro un telefono incellophanato.
E sempre a Carinola persino un sacerdote, pronto a celebrare messa, è stato trovato in possesso di 9 telefoni nascosti dentro delle buste di tabacco. Ad Avellino 19 telefoni ritrovati nel fondo di una pentola. A Rebibbia c’è chi invece ha scavato nel formaggio, ci ha infilato un telefono, e ha ricomposto il tutto. Qualcun altro li ha infilati dentro un salame. Mentre ad Avellino ben 15 apparecchi sono stati ritrovati all’interno del più famoso dei palloni: il mitico Super santos.
È come 6 mesi fa? Analogie e differenze
Il territorio Non abbiamo x malati in un’area limitata e la risposta è nazionale
La prima cosa che cambia oggi rispetto a marzo e aprile è la distribuzione geografica del contagio. Non abbiamo un numero X di casi in un’area geografica ristretta, ma un numero distribuito su tutto il territorio nazionale, quindi per forza di cose con una capacità di risposta migliore. La distribuzione dei malati di Covid nelle terapie intensive e nei reparti avviene in condizioni diverse: mesi fa eravamo in presenza di malati che arrivavano al ricovero in ritardo, ammesso che ci arrivassero, e con altre patologie. In più ora quando si parla di posti Covid si fa riferimento a posti dedicati. È molto diverso indicare il 50% delle terapie intensive Covid e il 30% in senso assoluto delle rianimazioni. Inoltre, è migliore il contact tracing: casi che prima sfuggivano vengono isolati e diagnosticati prima, con gravità minore. Quelli gravi all’esordio sono come ad aprile: il coronavirus non è cambiato ma l’ospite e le condizioni sì. Non siamo ancora a una crescita esponenziale dei casi, seppur graduale. Possiamo invertire la tendenza seguendo le regole, a partire dal lavaggio delle mani e indossando il più possibile le mascherine.
Massimo Antonelli Direttore rianimazione Ospedale Gemelli di Roma
I focolai C’è il tracciamento ma non basta ancora: È necessario potenziarlo
Il numero dei casi giornalieri è ancora diverso, più basso di quello di aprile, quando avevamo migliaia di nuovi contagiati in più registrati al giorno e chissà quanti non tracciati, ma ci vuole poco a ritornare su quei numeri. Non siamo ancora fuori controllo, ma servono decisioni di precauzione e vanno prese in fretta. Chiarisco: non si possono introdurre misure che peggiorano e di molto la vita delle persone senza seri investimenti sul tracciamento dei positivi.
Bisogna aumentare il prima possibile la capacità di fare tamponi utilizzando i reagenti meno costosi, quelli che si possono autoprodurre in ospedale. Per ritornare a una situazione più confortevole come tre settimane fa ci vuole almeno un mesetto. Se il sistema sanitario non sarà in grado, perché sotto stress, di eseguire un sufficiente tracciamento l’impatto sulle terapie intensive sarà di nuovo drammatico. Non siamo ancora in presenza di tanti casi gravi quanti sono stati in aprile semplicemente perché i contagiati sono meno, non certo per mutazioni del coronavirus, e in misura lievissima per le condizioni date dalla stagione.
Andrea Crisanti *Docente Microbiologia all’Università di Padova
I casi Cinquemila positivi erano 5mila pazienti gravi, ora troviamo asintomatici
Se avessi fatto una scommessa a inizio settimana, quando dissi ai miei collaboratori che avremmo superato i 4 mila casi in pochi giorni, avrei vinto. Ora le nuove misure introdotte dal governo, l’obbligo di mascherina al chiuso e all’aperto su tutte, potrebbero produrre risultati buoni e invertire la tendenza nel giro di qualche altro giorno. Per nostra fortuna, comunque, la differenza con marzo e aprile è ancora grande: ora facciamo i test sulla base di un sospetto avvenuto contatto, mentre prima solo a pazienti col quadro clinico già compromesso. Quindi mesi fa 5mila positivi voleva dire 5mila malati gravi, oggi significa che abbiamo trovato una gran parte di asintomatici. Di 100 infettati meno di 5 finiscono in ospedale e 30 o 40 sono del tutto asintomatici, infatti. Il discorso della Campania e del Sud, invece, dipende dal rimescolamento di carte della passata estate. A non essere cambiato, invece, è il coronavirus, perché non è lui il problema ma l’ospite: se è un 90enne con patologie pregresse SarsCov2 farà più danni. L’inverno non ci spaventa se sarà affrontato anche al chiuso con la mascherina.
Massimo Galli* Direttore malattie infettive Ospedale Sacco Milano
Le misure L’epidemia oggi è controllata meglio e i medici sono attrezzati
I nuovi casi di positivi al SarsCov2 oggi crescono progressivamente, ma non siamo nelle condizioni della “prima ondata” perché: l’età media dei malati di Covid-19 si è abbassata; i pazienti con patologie pregresse sono più protetti da terapie ora conosciute; il livello di sicurezza degli ospedali e delle rsa non è paragonabile a quello di marzo, è decisamente più alto; abbiamo un trattamento precoce dei positivi asintomatici grazie al tracciamento più efficiente; è una crescita progressiva ma tenuta sotto osservazione costante, diversamente dall’eruzione improvvisa del cratere come sette mesi fa; abbiamo focali diffusi, ma con casi identificati in fretta per interrompere le catene. Se il tracciamento scappa di mano, come successo a Belgio, Francia e Spagna, perdiamo il controllo. Ma non credo che possa scappare di mano tanto da ripiombare nella situazione di aprile, perché l’attenzione è molto alta su quello che accade; il sistema ospedaliero è molto rinforzato, dalle terapie intensive alle terapie sub-intensive ai reparti.
Ranieri Guerra * Direttore aggiunto Organizzazione mondiale sanità
Ecco perché l’argine è crollato. Rotta la formula magica del 3%
L’argine che finora ha saputo contenere i contagi si è rotto. I dati di ieri indicano 4.458 nuovi casi positivi in Italia: sono 780 in più rispetto al giorno prima e ben 1.781 in più rispetto al 6 ottobre. Per chi dall’inizio della pandemia ha a che fare con dati e statistiche, come il team della pagina Facebook Coronavirus – Dati e Analisi Scientifiche, non si tratta di un fatto inatteso. Qualche giorno fa avevamo ipotizzato il superamento di quota 3.000 contagi giornalieri. Una previsione che ad alcuni era parsa azzardata, ma che si basava su solide evidenze statistiche.
L’argine di cui parliamo riguarda il sistema di testing, ovvero di come si effettuano i tamponi e si scovano i casi positivi al Covid, e di contact tracing, con cui si ricostruisce la catena dei possibili contagi. L’ingegnere e scrittore Tomas Pueyo, in un articolo diventato virale, analizza i dati internazionali nei mesi di marzo e aprile, e dimostra che i Paesi che hanno meglio contenuto la diffusione del virus sono stati quelli capaci di mantenere il rapporto tra i casi positivi e le persone testate attraverso il tampone al di sotto del 3%. Questa percentuale di soglia è particolarmente importante perché, come spiega Francesca Colaiori, ricercatrice del Cnr, “Questo parametro dà una misura di quanti test stiamo facendo in proporzione al reale numero di casi attivi presenti nella popolazione. In un regime controllato in cui il contact tracing funziona si fanno tanti tamponi e i casi che sfuggono al monitoraggio sono relativamente pochi, perché molti dei sintomatici e presintomatici vengono trovati tramite il tracciamento dei contatti, e il tasso di positività è basso. Quando comincia a salire significa che stiamo perdendo un sacco di casi, cioè che non riusciamo più a tracciare bene. Quei casi non saranno isolati e genereranno altri casi. C’è un valore di soglia oltre il quale la situazione cambia in modo qualitativo, e mi pare che l’abbiamo abbondantemente oltrepassato”.
Questo valore, come chiarisce Pueyo, è intorno al 3%, valore che in Italia abbiamo oltrepassato il 25 settembre, mentre dal 3 ottobre siamo stabilmente sopra al 4%. Il significato è molto chiaro: i test non sono più sufficienti a individuare i casi positivi reali, molti ne perdiamo e questo produce una dinamica di diffusione del virus che non siamo più in grado di controllare. Si è rotto un argine che prima aveva solamente qualche crepa e faceva passare qualche gocciolina d’acqua, ma ora che il muro è crollato il fiume sta straripando.
Così si spiegano i 4.458 casi di ieri e i 3.678 di due giorni fa; così si spiegherà l’aumento dei casi a cui probabilmente assisteremo nelle prossime settimane. Non è gioco d’azzardo, ma una previsione scientifica basata su andamenti riscontrati finora nella stragrande maggioranza dei Paesi per cui sono disponibili dati.
Dobbiamo aumentare il numero di test per scendere sotto la soglia del 3%. Il nostro argine è crollato: dobbiamo ricostruirlo in fretta. E dobbiamo migliorare il tracciamento dei contatti, perché tracciare velocemente i contatti di una persona infetta permette di intercettare i cosiddetti “pre-sintomatici”, che sono diffusori inconsapevoli del virus per il 45% dei contagi. Queste persone non sanno di aver contratto il virus perché ancora non hanno sviluppato i sintomi, ma proprio come avviene per altre malattie, la fase pre-sintomatica è la più contagiosa.
Per quanto riguarda invece noi cittadini, le indicazioni sono sempre le stesse: mascherine, distanziamento, igiene personale e utilizzo dell’app Immuni: poche regole che se rispettate da tutti potrebbero fare la differenza.
Contagi, quota 4.458. In sette giorni +42%. È allarme Campania
La curva fa un nuovo, corposo scatto verso l’alto. E diverse Regioni, Campania in testa, vedono da vicino lo spettro di una nuova emergenza. Nelle ultime 24 ore, le Asl di tutta Italia hanno registrato 4.458 nuovi casi di SarsCov2, 780 in più di mercoledì. Con la quota 4mila abbondantemente superata e in un solo colpo, la memoria torna all’inizio di aprile, in piena Fase 1: tra il 30 marzo e il 4 di quel mese i nuovi contagi giornalieri oscillarono tra i 4.050 e i 4.805, in discesa dai 6.557 del 21 marzo che ora con tutto l’inverno davanti appaiono purtroppo tutt’altro irraggiungibili. Oggi la differenza con allora la fanno la conta delle vittime e la situazione negli ospedali. In quel periodo i morti andavano dagli 812 del 30 marzo ai 681 del 4 aprile, nulla di paragonabile dal punto di vista numerico ai 22 di ieri (31 nelle 24 ore precedenti). Così come nei nosocomi in quei giorni erano ricoverate oltre 28mila persone, 4mila in terapia intensiva: oggi le rianimazioni ne ospitano 358 (21 in più) e nei reparti ordinari ci sono 3.925 ricoverati (+143). Ma è il modo in cui la curva epidemica ha preso d’improvviso tendere verso l’alto a destare preoccupazione. Al punto che il Comitato tecnico-scientifico ha indicato al governo la necessità di nuove limitazioni: “C’è una forte preoccupazione – si sottolinea – tutti gli eventi che prevedono aggregazione di persone vanno rimodulati”.
Nella settimana tra il 30 settembre e il 6 ottobre, è l’analisi della Fondazione Gimbe, i nuovi positivi sono passati da 12.114 a 17.252 rispetto alla precedente (+42,4%), mentre i casi testati – più indicativi del numero totale dei tamponi, perché quest’ultimo comprende non solo i test diagnostici, ma anche quelli di controllo – sono cresciuti da 394.396 a 429.984. Da metà luglio, inoltre, i nuovi casi settimanali sono più che decuplicati: da poco più di 1.400 agli oltre 17mila attuali. Di conseguenza si è verificato un netto aumento del rapporto positivi/casi testati, passato su base nazionale dal 3,1 al 4%. Un dato che, spiega il presidente Nino Cartabellotta, “conferma che il virus circola in maniera più sostenuta: nelle Regioni dove supera il 5% è cruciale potenziare le attività di testing & tracing”. Ovvero in Liguria (7,7%), Campania (6,3%), Provincia di Trento (6,8%), Piemonte (6,2%) e Val d’Aosta (5,4%).
È la Campania a sollevare le principali preoccupazioni: secondo Gimbe, tra l’8 settembre e il 7 ottobre questo rapporto è stato del 5,06%, persino più alto del 4,96% registrato tra i 1° e il 30 aprile, mese in cui l’Italia era ancora in piena emergenza. Ieri la Regione di Vincenzo De Luca ha comunicato un nuovo record di 757 casi (544 quelli di mercoledì), a fronte di 9.925 tamponi. Il numero dei test è cresciuto negli ultimi giorni (7.504 mercoledì, 5.064 martedì, 4.867 lunedì, 7.250 domenica, 7.498 sabato, 8.482 venerdì 2 ottobre), ma la capacità diagnostica rimane uno dei talloni d’Achille. Secondo l’ultimo report dell’Alta scuola di economia e management dei sistemi sanitari dell’Università Cattolica, la Campania è la Regione che dall’inizio della pandemia ha fatto meno tamponi in rapporto alla popolazione: solo il 6,55% dei residenti è stato testato contro il 15,03% del Veneto e una media nazionale dell’11,26%. Al punto che solo l’altroieri il governatore ha autorizzato per la prima volta i laboratori privati a eseguire i test orofaringei e ieri lo stesso De Luca ha incontrato il commissario per l’emergenza Domenico Arcuri. “Saranno predisposte tutte le iniziative necessarie per garantire le forniture indispensabili per i dispositivi di sicurezza, per i test molecolari e sierologici, e quanto è necessario per attrezzare al meglio le terapie intensive e sub intensive”, ha specificato dopo l’incontro l’Unità di crisi della Regione. I cui ospedali registrano da giorni carenze di posti letto. Al 6 ottobre, secondo Gimbe, tra le 8 Regioni che hanno tassi di ospedalizzazione per 100mila abitanti superiori alla media nazionale di 6,5 la Campania (9,2) spicca dopo Lazio (13,9) e Liguria (13) e prima di Sardegna (8,8), Sicilia (7,9), Piemonte (7,1), Abruzzo e Puglia (6,6).
Bignami per somari
Piccolo bignami per conduttori di talk show, da usare quando un ospite disinformato e/o esagitato (cioè quasi tutti) attacca il pippone sulla dittatura sanitaria, i pieni poteri del premier tiranno, il Parlamento esautorato, la democrazia sospesa, il bavaglio della mascherina e mena scandalo per lo stato di emergenza e i Dpcm mai visti neppure negli anni di piombo.
Stato di emergenza. Regolarmente previsto da una legge dello Stato, la n. 225 del 1992 (Istituzione del Servizio nazionale della Protezione civile), può scattare in occasione di calamità naturali e durare fino a 90 giorni, prorogabili o rinnovabili. Per l’emergenza Covid è stato dichiarato il 31 gennaio 2020, quando i positivi in tutta Italia erano 2 e i morti zero. Il 31 luglio è stato prorogato fino al 15 ottobre e ora sino al 31 gennaio 2021. Non assegna al governo né pieni poteri né maggiori poteri, ma consente ordinanze di Protezione civile (emanate d’intesa con le Regioni coinvolte) per immediati interventi di soccorso e assistenza ai cittadini colpiti, la messa in sicurezza degli edifici, gli approvvigionamenti necessari per far fronte all’emergenza con procedure semplificate e abbreviate. Grazie allo Stato di emergenza: si è creato il Comitato tecnico scientifico in affiancamento al governo; si è potuto adottare lo smart working senza gli accordi individuali previsti dalla legge; la struttura del commissario Arcuri ha potuto acquistare in breve tempo banchi e attrezzature per le scuole e tutto il materiale sanitario e protettivo necessario contro il virus (mascherine, gel, camici, guanti, tamponi, test sierologici), saltando alcuni passaggi delle gare d’appalto; si è potuto bloccare voli e limitare ingressi da Paesi a rischio, noleggiare navi-quarantena per migranti, allestire le strutture temporanee per assistere i positivi, impiegare volontari della Protezione civile per i controlli negli aeroporti e nei drive-in per i tamponi, reclutare personale sanitario a supporto delle strutture regionali e delle carceri, anticipare il pagamento delle pensioni per scaglionarlo ed evitare assembramenti alle Poste. Eccetera. Tutto ciò non ha aumentato di un grammo il potere del premier e del governo (che ha agito con poteri conferitigli non dallo stato di emergenza, ma dal Parlamento che ha convertito il decreto legge del 6 marzo autorizzandolo ad “adottare ogni misura di contenimento e di gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica” e i decreti successivi). Ha semplicemente consentito interventi più rapidi ed efficaci in un’emergenza che si evolve di giorno in giorno e richiede risposte immediate e flessibili.
Chi si scandalizza per lo stato d’emergenza, come se non si fosse mai visto, dovrebbe sapere che nella storia repubblicana è stato dichiarato centinaia di volte, anche per eventi molto meno drammatici di questa pandemia (oltre 35mila morti in sei mesi e crollo dell’economia). E tuttora risultano prorogati decine di stati di emergenza, anche per calamità piuttosto risalenti nel tempo: terremoti in Emilia-Romagna (2012) e nel Centro Italia (2016), crollo del ponte Morandi, alluvione in Emilia e crisi idrica in Veneto (2018). Ma nessuno si scandalizza, forse perché nessuno lo sa. O perché non li ha dichiarati questo governo (nel 2012 c’era Monti, nel 2016 l’Innominabile e nel 2018 i gialloverdi).
Dpcm. È l’acronimo di Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, anch’esso frequentissimo ed esistente da sempre nell’ordinamento repubblicano. Non dipende dallo stato di emergenza (può benissimo essere adottato anche senza), ma da leggi o decreti legge regolarmente approvati a monte dal presidente della Repubblica e a valle dal Parlamento (che, se non vuole i Dpcm, può bocciare i decreti che li autorizzano o sfiduciare il governo). Non sono dunque leggi primarie, ma norme amministrative di rango secondario: in pratica regolamenti attuativi di leggi e decreti veri e propri. La legge o il decreto enuncia i principi generali, il decreto attuativo ne fissa i dettagli tecnici. Quando lo adotta il premier, si chiama “Dpcm”; quando lo emana un solo ministro, “decreto ministeriale”; quando lo firmano più ministri, “decreto interministeriale”. Ma non può mai essere orfano o spuntare come un fungo: deve sempre essere figlio di una legge o di un decreto che lo autorizzi, regolarmente approvati dal Parlamento e promulgati dal capo dello Stato. E non è certo un’invenzione di Conte per il Covid: è regolato dall’art. 17 della legge 400 del 1988 (governo De Mita). Soltanto nell’ultima legislatura intera, la XVII (2013-2018), Openpolis calcola che il Parlamento approvò 352 fra leggi e decreti legge, di cui 88 (il 25%) hanno richiesto almeno un decreto attuativo. E molti di più i 126 decreti legislativi (leggi-delega). In tutto 214 norme primarie che richiesero ben 1.735 decreti attuativi: del premier (Dpcm), di un ministro (decreto ministeriali), di più ministri (decreti interministeriali). Dei 1.069 effettivamente adottati (61,61%), 722 (67,54) furono decreti ministeriali e 171 Dpcm (16,09). Eppure nessuno gridò alla dittatura del premier, ai pieni poteri, al Parlamento scavalcato e alla democrazia sospesa come si fa oggi per i 19 Dpcm anti-Covid varati da Conte in 8 mesi. Forse perché nessuno ci faceva caso. O perché c’erano altri premier?
“Selfie sul balcone insieme agli slip. Fama e like ci rendono ridicoli”
Pubblichiamo stralci di “Annessi e connessi” di Pinuccio, all’anagrafe Alessio Giannone, in libreria con Mondadori Electa.
Studiando i social, mi sono reso conto che l’ostentazione della felicità aumentata non risparmia neanche la sfera più intima della nostra esistenza. Nel corso degli ultimi anni, seguendo i miei contatti, ho assistito a decine di gravidanze, tutte documentate con foto. Ho visto le pance crescere mese dopo mese, le ecografie con lo sviluppo del feto, il parto, l’allattamento. Mancavano solo le istantanee dello spermatozoo che fecondava l’ovulo e poi avrei visto tutto.
Durante una manifestazione in Calabria dedicata al mondo del web ho conosciuto una giovanissima influencer: quindici anni e un milione di follower. Era accompagnata dalla madre, che controllava ogni sua mossa… Non ho potuto fare a meno di notare che non c’era traccia di felicità negli occhi della ragazzina.
La famosa famiglia degli spot del Mulino Bianco era un esempio evidente di felicità aumentata. Oggi, però, il fenomeno si è accentuato, anche perché le nostre pagine di Instagram o di Facebook non sono semplici album di foto, sono come canali televisivi che hanno bisogno di fare ascolto. E siccome la famiglia infelice non piace a nessuno, e non attira pubblico, mi ritrovo puntualmente a fare i conti con post di famiglie sorridenti.
Se non aderiamo agli standard della felicità aumentata ci sentiamo più soli, isolati… La solitudine digitale – come la chiamo io – è l’altra faccia della felicità aumentata e può essere difficile da sopportare così come è difficile sopportare l’isolamento nella vita reale.
Comici e YouTuber che ripropongono le loro scenette negli androni dei condomini; food blogger che passeggiano con i piatti in mano per le strade del centro… Patiti di selfie che stampano i loro ritratti in fotografie formato lenzuola, le appendono al balcone insieme a mutande e biancherie…
Pur di ottenere consenso siamo disposti a renderci ridicoli. Penso a tutti gli adulti stagionati che provano a cimentarsi con TikTok, un social nato per attirare un pubblico di adolescenti… Con poche mosse puoi realizzare video simpatici e ben editati e prendere parte a qualche challenge… Un utente mediamente famoso cammina su un ponte cantando canzoni di Toto Cutugno e tutti si mettono sui ponti a cantare canzoni di Toto Cutugno. TikTok, quindi, sembra una enorme scuola di balli di gruppo…
Eddie e Malcolm, l’hard rock piange gli Dei della chitarra
Il plettro. Era convinto che ad aver generato il cancro alla lingua fosse stato il plettro di rame. “Lo tenevo sempre in bocca, proprio in quel punto. Ho fumato e preso droghe, ma i miei polmoni sono puliti”. Da vent’anni combatteva contro il male. Se aveva visto giusto, si è dovuto arrendere a un atroce contrappasso. All’addio prematuro a Eddie Van Halen potrebbe aver contribuito l’innocuo accessorio con cui perlustrava la sei corde, inoltrandosi con beata incoscienza e un talento piovutogli giù dall’Olimpo in territori che pochi strumentisti avevano avuto la ventura di scoprire. E dire che non era neppure capace di leggere la musica: analfabeta del pentagramma, però rabdomante.
Trovava la fonte del suono percuotendo il manico della sua inconfondibile “Frankenstrat” con quel plettro o un inusitato trapano, o semplicemente con le mani, perfezionando la tecnica del “tapping” che altri avevano sperimentato prima di lui, ma senza questo virtuosismo emozionale, da fenomeno che ci metteva il cuore e non andava a caccia di primati.
Eddie Van Halen è stato il maestro heavy-metal in rotta verso il pop sintetico degli anni Ottanta. Quello che sparava una successione prodigiosa di note in Eruption o metteva la creatività al servizio delle tastiere nell’inno da stadio Jump, dove il rock diventava prestazione atletica, gioiosamente muscolare, vertigine cazzeggiona.
Era versatile e onesto: quando il produttore Quincy Jones gli telefonò per proporgli il cammeo in Beat it di Michael Jackson, dapprima pensò a una burla, poi decise che non pretendeva compensi, preoccupandosi perché non riusciva ad avvisare i compagni di band, gli altri “Van Halen” che erano fuori città. Andò in studio e sparò un assolo sensazionale: tagliato sull’album Thriller (era troppo denso), ma in quei 20 secondi Eddie segnò una svolta nell’evoluzione dell’hard-rock bianco che tendeva la mano al pop-dance black di Michael.
Ecco perché Van Halen merita un posto d’onore nel pantheon dei migliori chitarristi di sempre. Da ragazzo aveva adorato gli dei – l’Eric Clapton dei Cream e Jimi Hendrix – e compreso che per aspirare alla condizione di eroe devi ingaggiare un corpo a corpo con lo strumento fino a dominarlo, in un rapporto che può essere conflitto o eros, ma in ogni caso scoperta. Per diventare Van Halen devi reincarnarti in Achille, De Sade e Livingstone, un essere polimorfo con una sintesi musicale da genio. Di quelli nati solo nell’epoca aurea del rock. Che oggi chissà.
E tuttavia è bizzarro che nelle stesse ore del compianto per la morte di Eddie il Fato abbia fissato sul calendario l’atteso ritorno degli AC/DC. Il singolo Shot in the dark suona poderoso, la cifra stilistica degli australiani resta inconfondibile, la premessa per l’album Power Up, in uscita il 13 novembre, è lusinghiera. Ma pure qui la vita e l’arte vanno avanti per concessione di uno spettro benedicente: quello di Malcolm Young, defunto fratello del leader Angus.
I due chitarristi, insieme, avevano scritto negli anni decine di riff lasciati nel cassetto. Il sopravvissuto Angus vi ha pescato a piene mani per il nuovo disco, dove alla voce torna l’acciaccato ma mai domo Brian Johnson, fermato da un danno all’udito provocato, sostiene lui, dal rombo dei motori durante le gare di auto sportive cui partecipava.
Dunque, anche Power up, che si annuncia magmatico e ribollente di energia, denuncia un’origine in parte esoterica, un gancio con l’Ade, un primo lascito da chi è transitato sull’altra riva.
Gli eroi muoiono, e con loro lo spirito mitologico del rock. Che è carnale, tridimensionale, pretende fatica, sacrifici e tormento, e premia solo quelli prescelti da Zeus. Insieme a essi tramonta un’epoca irripetibile, in questo presente velenoso di pandemie, concerti negati, talent-show per divetti effimeri, voci flebili, computer inzeppati di suoni preconfezionati, pavidamente ripiegati sul copia e incolla della penultima star adolescenziale.
La speranza è che ci sia ancora qualche ragazzino disposto a farsi sanguinare le dita cercando la verità nascosta in una chitarra. Su un palco di fortuna, un angolo di strada, il tetto di una città blindata. Per invertire il giro di un tempo inaridito.