Nessuna concessione alla dantologia pop; documenti della storia cittadina di Firenze, atti notarili, registri dell’esercito fiorentino che conservano la prova del passaggio di “Durante, olim vocatus Dante”, un uomo che avrebbe inciso sui secoli a venire. Dante di Alessandro Barbero (ed. Laterza, da oggi in libreria), è un’opera poderosa, un lavoro di scavo, con 100 pagine di note per la delizia di studiosi, curiosi e feticisti.
Professore, chi è e come vive “Durante anche chiamato Dante” da giovane?
Vive di rendita. Il nonno e il padre hanno avuto le mani in pasta negli affari per tutta la vita, comprato, venduto, prestato a usura, e Dante, che ha ereditato, appartiene all’élite dei cittadini agiati che possiedono abbastanza terra – nel suo caso, due poderi, più altri possedimenti sparsi – per vivere senza lavorare.
Nella Commedia ci sono riferimenti sprezzanti, snob, a “la gente nuova e i sùbiti guadagni”. Che rapporto ha con la nobiltà di sangue?
Controverso. Lui è un plebeo, ma è nato già ricco; finché vive a Firenze e fa politica in un comune di popolo, dove i nobili cavalieri sono stati allontanati dal governo, affetta di disprezzare la nobiltà di sangue, anzi dichiara che non esiste; ma nei vent’anni dell’esilio, frequentando le corti dei principi, preferirà insistere sul fatto che anche lui ha degli antenati.
Che opinione ha del volgo?
Pessima, dice che “latra”; ma non intende il volgo come i poveri, ma come tutti quelli che sono immersi negli affari e non hanno la testa per occuparsi d’altro; tutti quelli che non sono intellettuali.
Ma faceva parte di un governo del popolo. Soffriva di vanità personale?
Certo che sì! Aveva un’idea altissima di sé, e dagli torto! Sapeva di essere un intellettuale come ce n’erano pochi e che la Commedia era un capolavoro; godeva già in vita di una certa fama a livello italiano. Nella maturità, quando quel governo di popolo lo aveva condannato all’esilio, si sfoga convincendosi che per di più è anche nobile.
A 25 anni conosceva il latino scolastico e non aveva letto quasi niente. Poi che succede?
Che alla morte di Beatrice, disperato, cerca un modo, diremmo noi, per elaborare il lutto. E si ricorda che il suo maestro Brunetto Latini gli aveva parlato di una cosa misteriosa che si trovava nei libri degli antichi, la filosofia, capace di consolare da tutti i mali.
Lei definisce il rapporto con Beatrice “quasi inesistente sul piano pratico, immensamente importante su quello interiore”. Cos’è successo tra loro?
Niente. Si sono incontrati da bambini a una festa, poi si sono a mala pena incrociati per strada, e anche quello molto di rado. Lui si è costruito tutto da solo l’immenso lavorio mentale ed emotivo che ha fatto di Beatrice l’ispiratrice della Vita nuova e poi della Commedia.
Nella Vita nuova scrive che dopo averla vista si mette a letto e la sogna nuda che mangia il suo cuore. In una famosa lezione lei spiega come pensava un uomo del Medioevo. Ma come desiderava? Il desiderio era mediato socialmente? C’era un immaginario erotico cui attingere?
Domanda difficile. Nel Medioevo si parlava di sesso, e lo si descriveva, con estrema libertà. Boccaccio è castigatissimo rispetto a certi testi francesi. E si riconosceva tranquillamente la forza del desiderio, fra l’altro anche di quello femminile. Però, l’impressione è che l’immaginario sessuale e la grammatica del desiderio non fossero molto variati: siamo lontanissimi dal Kamasutra. Beninteso, Dante è un poeta cortese, e scrive dentro un sistema di convenzioni di genere per cui all’aspetto erotico si allude a mala pena: è per questo che mi sembra così importante il fatto che lui stesso abbia voluto dire esplicitamente che nel suo sogno lei era nuda.
Come si mantiene in esilio?
I partiti erano strutture trasversali, internazionali, in grado di mantenere i loro membri anche in esilio, grazie a una rete di appoggi. Quando ha litigato anche con la Parte Bianca, ha dovuto cercare ospitalità presso i gran signori. L’ideologia nobiliare dell’epoca dava per scontato che attorno a un marchese o a un “tiranno” cittadino vivesse un gran numero di persone, mantenute da lui per dar lustro alla sua corte; e Dante era un intellettuale e un poeta notissimo, oltre che uno specialista della lettera politica, del manifesto e del discorso; non gli mancavano gli inviti.
Si trasforma in una specie di buffone di corte?
Corre il rischio. In realtà buffone è troppo: nelle corti viveva tanta gente, anche personaggi di una certa caratura, magari nobili, ma poveri, che i signori impiegavano anche in missioni diplomatiche, e che però per restare a galla dovevano anche essere capaci di far bella figura a tavola, e raccontare barzellette divertenti; ecco, il terrore di Dante dev’essere stato di essere visto dagli altri come uno di quelli.
In cosa consiste il genio di Dante?
Nell’avere l’ampiezza di visione, la costanza, l’energia creatrice per produrre un’opera vasta, differenziata, originalissima, e che culmina in un capolavoro che nessun altro avrebbe saputo creare.
È eccitante per lo storico muoversi tra così poche fonti certe?
Il nostro lavoro è sempre eccitante proprio perché è un’inchiesta, un’indagine: è lo sforzo di ricostruire una verità interrogando testimoni inaffidabili e mettendo insieme un puzzle a cui manca la maggior parte dei pezzi.