M5S I “Duri&Puri” non hanno futuro. Dialogare col Pd è utile a entrambi

Come lettore del vostro quotidiano, mi permetto di far osservare – a quei giornalisti che ambiscono che parte del M5S diventi una costola del Pd – che il Pd è lo stesso di quando c’era Renzi, un partito che alle ultime elezioni politiche prese il 18 per cento di voti contro il 34 del M5S. Concludo dicendo che il Pd, fino a quando non si riforma in un congresso, non può essere credibile.

Alberto Giordano

Gentile Lettore, conoscendo bene il “Fatto Quotidiano”, saprà come molte firme (io tra queste) credono che esista una “sinistra per Salvini”. Ecco: esiste anche un’altra fazione ancor più paradossale e masochistica, ed è quella dei “Talebani per Salvini”. Auspico anzi la nascita di un mitologico Pti, il “Partito Talebani Italiani”. Potrebbe essere guidato dal Duo delle Meraviglie (altrui) Laricchia & Lezzi. Quelle che hanno fatto di tutto per consegnare la Puglia alla destra di Fitto, ovviamente fallendo anche lì.

Dire che il Pd di adesso sia uguale a quello di Renzi è come dire che Gasparri è un genio. È cambiato molto (purtroppo non tutto) e ne è ulteriore prova il fatto che Renzi, nelle realtà locali, si sia spesso schierato contro il Pd stesso (laddove “reo” di flirtare coi grillini). Le Regionali hanno detto chiaramente che tanti elettori 5 Stelle, di fronte all’impossibilità di vittoria, non praticano neanche il “voto disgiunto”: scelgono direttamente il “voto utile”. È come se quegli elettori avessero gridato: “Vi prego, dialogate tra voi. Tutto tranne la destra!”. Quella destra che, durante il Conte-1, ha portato i 5 Stelle dal 33 alla metà dei voti. Eppure, ciò nonostante, tanti talebani rimpiangono la Lega: che fini strateghi!

I ballottaggi hanno poi evidenziato come, grazie al dialogo con il campo progressista (senza Renzi), il M5S vince ovunque. Non si tratta di esser “costola del Pd”: si tratta di dialogare per migliorarsi a vicenda, senza snaturarsi. Il mio, badi bene, non è che mero realismo: se voglio sognare a occhi aperti, non lo faccio certo con la politica, che era e resta “sangue e merda”.

Qualora però il suo sogno fosse vincere il trofeo vagamente onanistico dei Duri&Puri, conquistando al massimo un 2/3 per cento tipo Udeur, allora la strada giusta è quella da lei ipotizzata. Sarete irrilevanti, ma potrete dirvi da soli di essere “i mejo fighi del bigoncio”. E magari, nelle pagine di Paragone o di Di Battista, otterrete pure l’irrinunciabile badge di “fan più attivi”. Che meraviglia!

 

Tanta “Battaglia” per nulla: Leonardo nemmeno la dipinse

Ricordate la clamorosa ricerca della Battaglia di Anghiari di Leonardo in Palazzo Vecchio? È un po’ come dire: ricordate Matteo Renzi? Sembra passato un secolo da quell’autunno di nove anni fa. Era, appunto, il 2011 e il rapace sindaco di Firenze si avviava a prendersi l’Italia, per poi perdere tutto (e infine anche se stesso) nel referendum costituzionale del 2016: precipitevolissimevolmente.

Allora, Renzi usava l’arte e la cultura di Firenze come trampolino di lancio: dal referendum per costruire la facciata che Michelangelo aveva progettato per la chiesa di San Lorenzo, all’annuncio del rifacimento “rinascimentale” di Piazza della Signoria. Uno scintillante caleidoscopio di minchiate stellari culminato nell’operazione che lo consacrò novello Vanna Marchi: il “ritrovamento” del capolavoro perduto di Leonardo, proprio in quel Palazzo Vecchio in cui Renzi era momentaneamente acquartierato.

Le cose andarono così: seguendo le visioni di Maurizio Seracini (entusiasta ingegnere che ha dedicato una vita alla causa del Leonardo perduto), Renzi ordina di bucare gli affreschi con cui Giorgio Vasari decorò le pareti dell’enorme sala che egli stesso aveva trasformato nel Salone dei Cinquecento. Lì dietro, secondo Seracini, si sarebbe trovato senza fallo il dipinto murale che Pier Soderini aveva commissionato a Leonardo nel 1503. In verità il Vinci, che doveva gareggiare con il giovane Michelangelo, volle sperimentare una tecnica pittorica che aveva reinventato a partire da fonti classiche e che avrebbe dovuto garantire al suo murale una vita più lunga. Invece fu un disastro: già durante l’esecuzione, il dipinto, come scrive lo stesso Vasari, “cominciò a colare, di maniera che in breve tempo (Leonardo l’)abbandonò”. Fraintendendo completamente un’iscrizione vasariana che alludeva alla vana lotta dei partigiani della libertà fiorentina (“Cerca trova”), Seracini e Renzi si dicono convinti che Vasari avesse impacchettato un Leonardo per loro, con tanto di cartelli da caccia al tesoro. In un Paese di schiene diritte, la farsa si sarebbe fermata lì, perché i sindaci non hanno il potere di trapanare gli affreschi: ma a Firenze tutti i gradi della tutela si squagliano davanti al sindaco rampante, e così si arriva al marzo 2012, quando Renzi annuncia in mondovisione sul canale di National Geographic di aver trovato Leonardo! I giornaloni italici, ovviamente, esultano.

La verità era che Seracini sosteneva di aver rinvenuto del pigmento nero: campioni analizzati in un laboratorio di Pontedera di cui si serviva la Piaggio per le vernici degli scooter (!), e mai forniti ai veri istituti di ricerca. Un finale alla Amici miei, insomma: che avrebbe dovuto far capire a tutti cos’era Renzi, come allora mi sgolavo a spiegare su questo giornale.

L’unica funzionaria della tutela che allora si oppose, rifiutando formalmente di sopraintendere alla bucatura del Vasari, era anche una grande esperta di pittura murale del Rinascimento: Cecilia Frosinini. Che ha poi continuato a studiare in silenzio, e che oggi pubblica, insieme a numerosissimi specialisti delle varie discipline necessarie a sciogliere un nodo come questo, un ponderoso volume: La Sala Grande di Palazzo Vecchio e la Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci. Dalla configurazione architettonica all’apparato decorativo (Olschki 2020). La conclusione, rigorosamente verificabile, è che allo stato attuale delle conoscenze dobbiamo pensare che Leonardo non arrivasse nemmeno a dipingere realmente sulle pareti di Palazzo Vecchio. Il tempo necessariamente lungo della ricerca storica si contrappone così all’istantaneità della propaganda politica: la prima per restare, la seconda per essere dimenticata istantaneamente. Come i suoi protagonisti.

 

La crisi della scuola è antica: non è colpa della Azzolina

Edifici cadenti. Aule vecchie. Spazi angusti. Che la scuola abbia problemi seri non ci sono dubbi. Il bisogno di spazi, ognuno lo vede, è un’urgenza con la pandemia in corso e la necessità del distanziamento. Ma non si tratta solo di questo. In verità anche le scuole migliori sono in difficoltà: “Si parla ogni giorno di Internet – dice un prof – ma la Rete funziona male, i computer sono obsoleti, il segnale è debole e spesso inesistente”. È così, e non da oggi. Da quando il centrodestra straparlava delle tre “i” (inglese, Internet, informatica) s’è fatto poco. Peggio sul versante docenti: i più anziani, la maggioranza, non sono stati educati al digitale, e ai giovani s’è reso difficile l’ingresso nella scuola bloccando i concorsi e precarizzando migliaia d’insegnanti. Vogliamo dare la colpa alla ministra Azzolina che, finalmente, i concorsi ha deciso di farli? È che sulla scuola si economizza da sempre: da anni si accorpano istituti diversi, si predica sapere e si praticano tagli, si rinviano decisioni importanti, si lascia un Dirigente su troppe sedi disperdendo energie e producendo scarsi risultati. “La scuola è l’ingresso alla vita della ragione”. Vero. Purché sia organizzata, finanziata, e prevalga tra le sue mura una certa idea del sapere. Purtroppo, dagli uffici amministrativi dove ancora domina il cartaceo, ai banchi, ai laboratori, ai programmi, alle palestre, le nostre scuole sono obsolete. Ovunque problemi: dalla carenza di docenti di sostegno, agli stipendi inadeguati. Resta da capire se le criticità elencate siano attribuibili alla ministra della Pubblica Istruzione Lucia Azzolina. A leggere certi giornali sembrerebbe di sì, mentre si tratta di questioni aperte da molti decenni; da ben prima, per dire, che nel secondo governo Berlusconi (2001-2006) la ministra Moratti si preoccupasse di finanziare le scuole private, più che le pubbliche; e certo prima che s’insediasse in viale Trastevere la ministra del “tunnel” (Gelmini) che oggi pontifica di competenza e cultura, e ieri si congratulava per l’esperimento sui neutrini in un inesistente tunnel del Gran Sasso. I problemi della scuola vengono da lontano e si sono incancreniti nel tempo: penso alla lunga genia di ministri conservatori (Bosco, Gui, Scaglia, Sullo, Misasi, Malfatti, Pedini, Valitutti, Sarti, Falcucci, per citarne alcuni, tutti rigorosamente democristiani) per i quali la scuola era un carrozzone elettorale, un serbatoio di clientele, abbandonata a se stessa. Feroci le contestazioni studentesche: “Ucci, ucci ci mangiamo la Falcucci”; ad altri ministri si diceva di peggio. Vogliamo parlarne? Quanto pesano sulla scuola decenni d’innovazioni mancate? Quanto ha inciso restare indietro sull’Europa, innalzare, per dire, l’obbligo formativo a 10 anni, nel 2007, con enorme ritardo rispetto a Francia, Inghilterra, Germana, Danimarca, Svezia…? “La questione scuola” verrà risolta quando i politici (tutti) di destra e di sinistra prenderanno atto che a) è un’emergenza nazionale; b) vanno svecchiati i programmi; c) accelerate le immissioni in ruolo; d) modernizzate le strutture; e) quando si capirà che la scuola deve avere finanziamenti adeguati, come avviene nei Paesi europei più avanzati. Altro che responsabilità della Azzolina! La ministra, in una situazione emergenziale, s’è mossa complessivamente bene con l’obiettivo di non chiudere di nuovo la scuola. È che i problemi sono enormi: “Complesso gestire i docenti in quarantena in riferimento alla didattica a distanza”, dicono i presidi.

Come immagino la scuola? “Dovrebbe essere un luogo bellissimo – disse Wilde – così bello che, i bambini disobbedienti, per punizione il giorno dopo dovrebbero essere chiusi fuori dalla scuola”. È un’utopia. Ma per avvicinarsi a essa bisogna smetterla con le strumentalizzazioni e lavorare a obiettivi comuni.

 

Davigo può stare al Csm anche se è un pensionato

Nel Fatto del 6 ottobre, Antonio Esposito ha dimostrato la legittimità della permanenza nel Csm di Piercamillo Davigo oltre la data del pensionamento con argomenti pienamente condivisibili ai quali si concorre con intervento ad adiuvandum.

La contraria sentenza 6051/2011 del Consiglio di Stato risente della tendenza, propria dei miei pur bravissimi ex Colleghi, a dare una lettura amministrativistica, talvolta distorsiva, dei canoni costituzionali. Il presupposto di quella decisione era che, per far parte di un organo di autogoverno, è necessario appartenere in concreto alla categoria degli amministrati. Perciò, in caso di fuoriuscita dall’ordine giudiziario per pensionamento, non occorre alcuna norma esplicita per sancire la perdita di qualità di membro del Csm. L’effetto si produce automaticamente.

L’organo di autogoverno, nella rigorosa accezione giuridica, è composto esclusivamente dai membri eletti da (e tra) gli appartenenti alla categoria per amministrare enti e ordinamenti settoriali: ad esempio il Consiglio dell’ordine degli avvocati.

Il Csm, nel quale confluiscono, oltre ai magistrati, professori universitari e avvocati eletti dal Parlamento, nonché i membri di diritto, può essere considerato organo di autogoverno solo in senso figurato (C.cost. n. 142/1973) e impropriamente brachilogico. In tale riduttiva accezione la formula non è certo utilizzabile come caposaldo dell’affermazione giuridica contenuta nella su citata sentenza.

Al CSM mancano, infatti, per poter essere qualificato organo di autogoverno due caratteristiche strutturali e funzionali: la composizione unitaria quale espressione esclusiva del collegio elettorale dei magistrati e la capacità di dare efficacia immediata e diretta dei propri deliberati, affidata a provvedimenti ministeriali. Tutti i componenti, salvo i due massimi esponenti della Cassazione, sono poi esentati dal loro ordinario impiego: i magistrati dalle funzioni giudiziarie, i professori d’università dall’insegnamento e gli avvocati dall’esercizio della professione. Il distacco rispetto al momento antecedente l’elezione è completo, diversamente da quanto avviene negli organi di autogoverno come i consigli degli ordini professionali. Si spunta così il presupposto dell’argomento relativo all’interesse all’amministrazione della magistratura dell’eletto quale componente attivo della medesima. La soluzione data dal Consiglio di Stato, peraltro, ignora e perfino prevarica la volontà dei magistrati elettori, che votando il candidato (e non più la lista) hanno manifestato la volontà di essere amministrati per la durata della consiliatura da collega prescelto intuitu personae pur nella consapevolezza della sua età ben più che sinodale. Va poi sottolineata l’assoluta irrilevanza assegnata dalla pronuncia al dettato costituzionale, la cui lettura sistematica ne dimostra, invece, l’erroneità. L’art. 104, c. 6 Cost. dispone che i membri eletti del Consiglio durano in carica quattro anni.

Un precetto costituzionale che enuncia in modo incontrovertibile la durata di una carica non è di per sé assoggettabile a interpretazione diversa da quella letterale e non può essere assoggettato ad alchimie esegetiche desumibili da testi di meno elevata fonte normativa: queste ultime sono destinate fatalmente a eluderlo perché estrapolate al di fuori dei casi espressi e di stretta interpretazione contenuti nella legge istitutiva del Csm n. 195/1958, come richiamati e ben spiegati da Antonio Esposito. La disposizione che assicura ai membri eletti del Csm quattro anni di carica è poi coerente con l’intero impianto dell’articolo 104, soprattutto perché non si applica al primo presidente e al procuratore generale della cassazione.

La ragione è semplice: la partecipazione dei due più elevati magistrati è legata alla loro specifica funzione e non può prescindere dalla loro prestazione di servizio, requisito non richiesto e anzi esplicitamente negato ai membri elettivi.

Dalla distinzione tra componenti con mandato legato all’effettiva permanenza nei ruoli della magistratura (cioè i membri di diritto) e quelli elettivi si ricava l’agevole conclusione che solo per i primi vale l’imprescindibile collegamento tra permanente attualità dello status magistratuale e il titolo di membri del Csm.

 

Le belinate di Fabiofazio su costi, pubblico e “diffamatori populisti”

Resto sempre ammirato dal fiuto rabdomantico con cui, su undicimila giornalisti italiani, Fabiofazio riesce ogni volta a scovare nel mazzo quelli così educati da non contestargli mai le belinate. Le glosse che seguono riguardano l’ultima intervista pubblicata (La Stampa, 26 settembre 2020): fatene tesoro, cari intervistatori, e la prossima volta usatele per replicare. Ne avete facoltà.

Fabiofazio: “Quando abbiamo cominciato, eravamo l’unico talk show”. No, ce n’era un altro identico, ma proprio l’anno prima era stato fatto fuori dall’editto bulgaro, mentre il suo è in Rai da 18 anni ininterrotti (Certa gente ha proprio tutte le fortune).

Fabiofazio: “Sui costi segnalo che in una sentenza la Corte dei conti ha detto che Che tempo che fa costa la metà di qualunque varietà”. Anche stavolta senza attrito, Fabiofazio ripete lo slogan già usato nell’intervista a Repubblica (stesso gruppo editoriale torinese: tanto vale ristampare gli articoli, se dicono le stesse cose, spendete di meno). E anche qui la giornalista avrebbe dovuto replicare: “No, la Corte dei conti scrive che costa meno della metà dei ‘programmi di intrattenimento del servizio pubblico’, sulla base di dati Rai. La Rai però considera intrattenimento anche le fiction: hanno costi notevolmente superiori a un talk show, che in paragone sembra regalato”. Michele Anzaldi, segretario della commissione di Vigilanza Rai, sottolinea sul Giornale: “La Corte dei conti parla di un costo a puntata di 409.700 e un incasso stimato di 615.000 con uno share del 18-20%. In realtà, lo share su Rai1 è stato del 15%, e su Rai2 si è addirittura dimezzato al 9%, ma i costi sono rimasti gli stessi. Se la Corte dei conti si pronunciasse oggi, come potrebbe sostenere che il programma non sia in perdita?”.

Fabiofazio: “È stata una campagna diffamatoria, frutto del populismo”. Anzaldi chiosa sul Giornale: “Fazio attacca Salvini, ma la Rai di Salvini, presieduta dal Marcello Foa, lo ha lasciato al suo posto senza neanche sfiorare l’appalto a Officina srl, che è stato rinnovato tutti gli anni dalla Rai gialloverde alle condizioni di Fazio”.

Fabiofazio: “Il programma si paga con la pubblicità”. Anche questo slogan è una bufala, come spiegò tre anni fa Business Insider: “A differenza delle televisioni commerciali, la Rai ha per legge un doppio limite all’affollamento pubblicitario: uno orario, fissato al 12%; e un altro settimanale al 4%, per il quale però si devono considerare Rai1, Rai2 e Rai3 nel loro insieme. In sostanza la media settimanale delle tre reti non può superare i 144 secondi l’ora. Supponendo che la concessionaria della tv di Stato faccia il pienone per le tre ore di programmazione domenicale di Che tempo che fa, bisognerebbe di fatto azzerare le inserzioni pubblicitarie per altre 9 ore: per andare in pareggio, quindi, la raccolta di Fazio dovrebbe coprire almeno i costi di 12 ore di trasmissione. Il direttore generale della Rai, Mario Orfeo (fece il contratto a Fabiofazio, ndr), è convinto di incassare 615 mila euro netti a puntata: un utile di 165 mila euro che andrà spalmato su altre nove ore”. Aggiunge Francesco Siliato, analista del settore media (Studio Frasi): “I conduttori senza la struttura non avrebbero lo stesso risultato (lo dimostra proprio Fabiofazio, che ha quasi dimezzato gli ascolti passando da Rai1 a Rai3, ndr)… È assai improbabile che una trasmissione Rai possa ripagarsi con la pubblicità. Oggi oltre metà del canone ripaga i mancati ricavi pubblicitari”.

Conclusione: è forse un caso personale? Lo sarebbe se fossi l’unico a pagare il canone.

 

Dopo 4 anni, la procura è costretta a vedere i fatti

Alla fine la Procura di Roma è stata costretta chiudere le indagini su Tiziano Renzi e compagni con un provvedimento diverso da quello desiderato.

Niente archiviazione, come avrebbero voluto i pm romani, bensì l’avviso di chiusura dell’indagine 415 bis che solitamente precede la richiesta di rinvio a giudizio.

Diventa concreta quindi l’ipotesi di un processo sul vero ‘caso Consip’. Non i presunti falsi dei carabinieri in danno di Tiziano Renzi. Non i presunti depistaggi e complotti vagheggiati dalla grande stampa. Il caso Consip torna a essere quello del presunto traffico di influenze e della presunta turbativa delle gare Consip (2,7 miliardi) e Grandi Stazioni.

Ci sono voluti quattro anni per arrivare a questo 415 bis. Dal dicembre 2016 Il Fatto cerca di spiegare che la questione principale non sono le fughe di notizie (più comuni) verso i giornalisti ma quelle (presunte ma più insolite e gravi) che vedono come protagonisti i generali dei Carabinieri e Luca Lotti.

Da quattro anni cerchiamo di spiegare ai nostri colleghi dei grandi giornali che la Procura avrebbe dovuto impiegare le sue risorse non per indagare giornalisti e pm innocenti come Federica Sciarelli e Henry John Woodcock, ma per chiarire meglio il rebus di un soggetto come Carlo Russo. Grazie al Gip Sturzo si scopre ora che Russo non spendeva solo il nome di Tiziano (millantando secondo i pm di Roma nella prima versione) ma incontrava al bar, non da solo ma con Tiziano Renzi, il numero uno della Rete Ferroviaria Italiana, per parlare del treno per Rignano sull’Arno.

A nostro parere i pm di Roma non hanno fatto tutto il possibile per chiarire il mistero dei rapporti tra Tiziano Renzi e Carlo Russo quando sarebbe stato il momento giusto per farlo.

Ora magari un processo si farà e si potrà capire se Tiziano Renzi è innocente. Comunque sarà troppo tardi.

Nel frattempo è cambiato tutto: Matteo Renzi aveva il 40,8 per cento dei consensi e ora arriva a fatica al 3 per cento. Al Governo c’è Giuseppe Conte. Il Matteo nazionale si chiama Salvini.

Il rischio non è solo la prescrizione. Il rischio è che alcune delle risposte alle troppe domande del caso Consip arrivino quando i protagonisti saranno ex potenti dimenticati da tutti.

L’opposizione. È un carnevale qualunquista

È una maggioranza sicuramente sciatta quella che non riesce ad assicurare il numero legale sulla risoluzione anti-Covid del governo, ma si può sempre rimediare e infatti si è rimediato. Difficilmente riparabile appare invece la deriva goliardica dell’opposizione ridotta a esultare perché non si vota, come a scuola quando si festeggiava un’imprevista ricreazione causa assenza del prof. Un misto di frustrazione e dispetto che reagisce al fallimento in serie di spallate e sgambetti affidandosi al fato. Per esempio, sognando che le assenze dei deputati giallorosa siano state “un segnale al governo”, come ai lontani tempi della Prima Repubblica (il leghista Bitonci). Speranza più che altro vana visto che il governo non fa una piega e assorbe i ceffoni nella convinzione (soprattutto a Palazzo Chigi) che sull’altro fronte versino in uno stato di crescente disperazione politica. Del resto, quando Giancarlo Giorgetti sente il bisogno di precisare che “dire che abbiamo vinto in Lombardia non è vero perché se abbiamo perso, abbiamo perso”, significa che la testa pensante della Lega continua a smarcarsi dal capo in piena trance da sconfitta.

Tuttavia, la pochezza politica della destra-destra non sembra una buona notizia per il Paese. Primo, perché a furia di sfibrarsi con ridicole guerriglie à la carte l’opposizione rafforza di fatto il governo Conte (e forse oltre i propri meriti) che così, privo di un confronto credibile, può ergersi a esclusivo punto di riferimento in una fase drammatica per tutti. Secondo, perché la metà elettorale degli italiani (e forse qualcosa di più) meriterebbe di essere rappresentata non da una compagnia dadaista in gita premio, ma da una classe dirigente con dei progetti seriamente alternativi a quelli contestati sull’emergenza Covid. A Salvini&Meloni, mascherine e Dpcm con annessi e connessi non garbano? È nel loro pieno diritto, ma allora invece di strillare che c’è la dittatura sanitaria (risate) si sforzino di esprimere delle proposte diverse, e se possibile migliori di quelle governative. Cosa, come, fino a quando e perché: questo sarebbe lecito attendersi da dei leader sovranisti (seppure la parola ha ancora un qualche significato) consapevoli del proprio ruolo. Non l’attacco qualunque (e qualunquista) o il carnevale di sberleffi, urla e invettive, come martedì nell’aula di Montecitorio. Fino a quando questa opposizione continuerà a stare a rimorchio della destra televisiva, beandosi di presidiare gli studi (Salvini: 676 minuti dal 6 agosto al 19 settembre, secondo Agcom) non farà altro che scimmiottare (male) le intemerate dei vari Del Debbio, Giordano, Porro, Maglie, Capezzone. Ma quelli si sono candidati a governare gli ascolti, non il Paese.

Alitalia: tante perdite, poca cassa e il solito suk dei partiti

La frase è trita, ma adatta: piove sul bagnato. Ad Alitalia, su cui si è abbattuta anche la crisi Covid, mancava solo lo stallo politico, dovuto al solito suk partitico delle nomine. L’ex compagnia di bandiera – in amministrazione straordinaria dal maggio del 2017 – è in un limbo. A giorni, anzi “a minuti”, come ha auspicato ieri il commissario governativo Giuseppe Leogrande, è atteso il decreto che crea la “newco” destinata ad assorbire parte degli asset e per la quale il governo ha stanziato 3 miliardi. Doveva nascere a giugno, ma da allora il piano industriale si è composto di indiscrezioni ai giornali e il consiglio di amministrazione non ha mai visto la luce. I partiti hanno deciso di dividersi il cda col manuale Cencelli. A oggi sono certi solo l’ad Fabio Lazzerini, manager interno alla compagnia e gradito ai dem, e il presidente Francesco Caio, indicato da Palazzo Chigi, dove il testo è bloccato per gli scontri interni. Basti dire che Italia Viva ha fermato tutto perché Renzi non vuole pesare meno degli altri e pretende un suo nome in cda, mentre nel M5S si agita la senatrice Giulia Lupo, esperta del settore in quanto ex hostess.

Le premesse sono pessime. Leogrande, ieri in audizione alla Camera, ha chiesto di fare presto e lanciato il suo grido d’allarme. Alitalia ha ancora 260 milioni in cassa e solo grazie ai 200 milioni pubblici ottenuti a settembre per i danni del Covid: si appresta a chiederne altri 150, che vanno autorizzati da Bruxelles. Dal 2017, sono andati in fumo 1,2 miliardi di “prestiti ponte” dello Stato. La tragicommedia, che riguarda 11.500 lavoratori, è nei numeri snocciolati dal dg Giancarlo Zeni, secondo cui a causa del Covid Alitalia “ha perso 2,2 miliardi di ricavi in questi 9 mesi” (nei primi 9 mesi del 2019, senza il Covid, ne aveva macinati 954 milioni). Al mistero si aggiunge l’Antitrust Ue, che a breve chiuderà l’indagine sui prestiti ponte: “Se verranno dichiarati illegali e la nuova Alitalia opererà come la vecchia, sarà responsabile dei rimborsi”, ha avvisato la Commissaria Margrethe Vestager.

Carte, zero commissioni per le spese fino a 5 euro

Azzerate le commissioni sui micropagamenti fino a 5 euro, come la colazione al bar. E da novembre per incentivare i pagamenti digitali partirà una grande campagna su radio, tv e giornali, simile a quella in corso per l’app Immuni, ma questa volta a pagamento. Queste le ultime due pedine della scacchiera del piano cashless (senza contanti) che prenderà ufficialmente il via il primo dicembre quando scatterà il rimborso del 10% delle spese effettuate tramite carta di credito, bancomat e app (è escluso lo shopping online), per un massimo di 300 euro l’anno (tecnicamente si chiama bonus cashback) previsto dal dl Agosto, cui si aggiungono 3 mila euro grazie al super cashback per i primi 100 mila consumatori che useranno maggiormente la carta. A contare però sarà il numero delle operazioni, non la cifra: 5 caffè equivalgono a 5 borse di lusso. Lo stanziamenti previsto è di 1,7 miliardi di euro per il 2021 e di 3 miliardi per il 2022. Poi a gennaio 2021 sarà, invece, la volta della lotteria degli scontrini fatta slittare negli scorsi mesi a causa dell’emergenza Covid con premi fino a 5 milioni di euro per un totale di 50 milioni di euro.

Le ultime novità per incentivare i pagamenti tracciabili e combattere l’evasione arrivano dal nuovo incontro che c’è stato ieri tra il premier Giuseppe Conte e i principali operatori di servizi di pagamento (da American Express a Postepay, dalle banche a Nexi fino a Satispay), ai quali ieri è stato presentato il piano di comunicazione per consentire all’Italia di fare un balzo in avanti sui pagamenti elettronici e avvicinarsi al modello cashless society, come già accade in molti Paesi d’Europa, soprattutto del Nord, dove oltre la metà dei pagamenti viene fatta senza contanti. Mentre l’Italia è ferma al 25% dei pagamenti effettuati con strumenti digitali risultando tra le trenta maggiori economie al mondo per uso del contante.

Così, per rendere più facili le spese con app, carte di credito e bancomat, il governo è riuscito ad ottenere dagli operatori l’azzeramento delle commissioni sulle spese di piccolo importo, ma non c’è stata nessuna possibilità di apertura da parte degli operatori per gli importi superiori a 25 euro (entro questa soglia non è necessario digitare il Pin delle carte contactless, a sfioramento), che rappresentano la parte più consistenze delle spese. I player coinvolti sostengono che non è fattibile rinunciare alle commissioni che in Italia sono tra le più basse in Europa, ma che per negozianti, baristi o tassisti rappresentano da sempre una mazzata insostenibile tale da scoraggiare l’utilizzo del Pos. Per i piccoli commercianti possono superare anche l’1,75%.

La convergenza degli operatori verso l’azzeramento delle commissioni dovrà comunque avere il via libera dell’Antitrust perché, di fatto, rappresenta un cartello tra gli operatori che potrebbe essere impugnato dagli altri esercenti che non hanno aderito.

Ma non è solo questo lo scoglio del piano che dà la possibilità di ottenere indietro fino a un massimo di 300 euro per una soglia minima di spesa di 3mila euro. Per ottenere i soldi indietro, bisogna registrarsi al portale “Io”, valido per tutti i servizi della Pubblica amministrazione, cui si accede solo con lo Spid, il sistema pubblico di identità digitale, che fino ad oggi è stato richiesto solo da 10 milioni di italiani tra lungaggini e complicazioni varie. E che i detrattori della nuova tecnologia considerano la causa del flop registrato dal bonus vacanza che può essere richiesto solo tramite lo Spid.

Una modalità che, limiti tecnologici a parte, semplificherà il lavoro dell’Agenzia delle Entrate che agevolmente incrocerà i dati di pagamento delle carte nell’ottica della lotta all’evasione.

Tute blu, aumenti da beffa: Bonomi fa saltare il rinnovo

Date le ripetute uscite del nuovo presidente della Confindustria Carlo Bonomi, la riunione di ieri tra Federmeccanica e i sindacati dei metalmeccanici non prometteva nulla di buono. E infatti ha finito solo per segnare la rottura totale, la conclusione delle trattative sul rinnovo del contratto delle tute blu: gli industriali hanno ribadito di non avere alcuna intenzione di alzare gli stipendi. Come offerta, giusto i pochi spiccioli che derivano dalla scarsissima inflazione prevista per il triennio e la volontà di garantire i premi di risultato a tutti i lavoratori. Una posizione chiara da mesi, ma da ieri ufficiale: Fiom, Fim e Uilm hanno subito proclamato lo stato di agitazione nelle fabbriche, il che significa sciopero della flessibilità e degli straordinari; Federmeccanica ha reagito abbandonando il confronto. I tre appuntamenti previsti inizialmente tra oggi e la prossima settimana sono stati annullati.

Come prevedibile,il più “delicato” tra i rinnovi sarà una guerra. Il contratto dell’industria metalmeccanica riguarda 1,4 milioni di lavoratori e l’ultimo è stato sottoscritto nel 2016, scaduto a fine 2019. I sindacati hanno presentato lo scorso autunno una piattaforma che chiedeva un aumento dell’8% sui salari di base, ma il Covid ha rallentato il negoziato.

Nel frattempo, al vertice di Confindustria è salito Carlo Bonomi, che ha iniziato a parlare della volontà di firmare contratti “rivoluzionari”. Tradotto: senza incrementi sulla parte fissa dello stipendio, se non quelli legati all’inflazione, e più peso ai premi. Insomma, soldi in più solo nelle aziende con buoni risultati. Negli ultimi giorni, poi, Bonomi aveva prima accusato Maurizio Landini della Cgil di essere “tornato agli anni 70” e al “salario variabile indipendente” e poi chiarito che “è impensabile rinnovare i contratti chiedendo aumenti sul salario minimo”.

Parole su cui è comunque difficile che qualcuno in Federmeccanica non fosse d’accordo. Ieri, comunque, è stato il primo incontro coi sindacati metalmeccanici che avesse il tema delle retribuzioni all’ordine del giorno. Il dg degli industriali Stefano Franchi ha iniziato dal crollo del 21% della produzione industriale registrato nei primi sette mesi del 2020: i minimi salariali, ha scandito, vanno ancorati all’inflazione e basta. Secondo i calcoli del segretario Uilm Rocco Palombella, questo significa un aumento di appena 7 euro nel 2020, di 13 euro nel 2021 e di 18 euro nel 2022, quindi 39 euro complessivi in tre anni.

Federmeccanica ribatte che crescerà la quota di lavoratori coperta dalla contrattazione di secondo livello: oggi, a quanto risulta a loro, siamo al 70% e il proposito è di raggiungere il 100%; i sindacati non sono affatto convinti di questi dati ed è proprio nel momento in cui Franchi li ha riportati che sono volati gli stracci. “La posizione di Federmeccanica è inaccettabile – ha detto la segretaria Fiom Francesca Re David – perché di fatto rigetta gli elementi fondamentali della piattaforma”. Franchi ha aperto alla possibilità di riprendere il dialogo “ma non con uno stato di agitazione in corso”.

È il secondo (indiretto) banco di prova per Bonomi. Il primo lo si è avuto a fine luglio con il contratto dell’industria alimentare: il rinnovo con 150 euro di aumento è stato firmato da sole tre associazioni di imprese su tredici e questo ha segnato una profonda frattura all’interno della Federalimentare. La linea del presidente della Confindustria è molto rigida, ma non tutti la seguono.