Addio dl Sicurezza? Non per le norme contro i lavoratori

Iporti semi-aperti, le piazze del tutto chiuse. Potremmo riassumere così le modifiche ai decreti Sicurezza del Conte 1 nel 2018 e 2019 varate lunedì sera dal Conte 2: alcune modifiche hanno cioè riguardato le scelte sull’immigrazione, nessuna quelle sulla repressione del dissenso e della conflittualità sindacale che erano l’altro cuore delle norme predisposte da Matteo Salvini (ma certi decreti di Marco Minniti e alcune parti di quello di ieri dimostrano che c’è una certa continuità sul tema nei governi italiani d’ogni colore).

Le vittime. Per capire di che si parla, serve qualche esempio. Lunedì prossimo, davanti al Tribunale di Nuoro, ci sarà un presidio convocato dall’associazione “Libertade”; dentro invece il gup deciderà se rinviare a giudizio 12 pastori accusati di blocco stradale (durante una manifestazione di febbraio 2019 avevano versato latte per strada dai loro camion). A Prato, a dicembre 2019, 21 operai della tintoria industriale Superlativa hanno ricevuto multe fino a 4mila euro sempre per blocco stradale: lavoravano in condizioni assurde e non ricevevano stipendio da 7 mesi. Dopo le sanzioni ci furono scontri con la polizia durante un corteo di solidarietà coi lavoratori multati: per quello la questura diede il foglio di via a due sindacalisti dei Cobas sulla base di una legge del 1931 inasprita dal governo Gentiloni (i Daspo urbani cari a Minniti e poi a Salvini). Il Tar toscano, fortunatamente, annullò poi il provvedimento, come fece in un caso analogo il Tribunale di Bologna: è un pezzo, uno dei meno inquietanti, della vertenza Italpizza di Modena, dove sulla base dei decreti sicurezza – ma non solo, va detto – vanno a processo 67 lavoratori (il conto arriva ben oltre 300 se si aggiungono i processi per le vertenze Alcar Uno, Emilceramica, Bellentani, Gls, eccetera).

Dl Sicurezza/1. E allora cosa c’era nei decreti Sicurezza di Salvini che non è stato toccato? Intanto la reintroduzione nel 2018 del reato di blocco stradale su strada ordinaria (da uno a sei anni), che era stato depenalizzato negli anni Novanta: per questo vanno a processo i pastori sardi. Per di più il leghista s’inventò di sana pianta le multe per il blocco stradale realizzato “con il proprio corpo” (è il caso di Prato). Di fatto, può diventare reato improvvisare un picchetto fuori da una fabbrica. Sempre nel primo decreto Sicurezza c’erano anche un aumentone delle pene per l’occupazione di edifici e terreni, a non dire – alla voce “decoro” – la resurrezione del reato di “esercizio molesto di accattonaggio” depenalizzato nel 1999 dopo una parziale dichiarazione di incostituzionalità.

Dl Sicurezza/2. Nel decreto Sicurezza bis (estate 2019) la componente anti-sindacale è persino più estesa. Quel testo, ad esempio, ha trasformato una serie di comportamenti finora puniti con contravvenzione in “delitti”: rischia fino a 12 mesi di galera il promotore di un corteo in cui qualcuno compia i reati di devastazione e danneggiamento e la stessa condanna pende sul capo di chi partecipa a un corteo non autorizzato. Di più, si arriva al paradosso che diventa “delitto” usare caschi o altri mezzi per non farsi riconoscere, ma solo durante una manifestazione: se succede altrove resta contravvenzione. Tra le altre cose, il decreto Sicurezza bis ha creato pure un nuovo reato: il lancio di “cose, razzi, bengala, fuochi artificiali, petardi, strumenti per l’emissione di fumo (…) ovvero bastoni, mazze, oggetti contundenti o, comunque, atti a offendere” (cioè tutto quel che si può lanciare) è oggi punibile anche con due anni di carcere.

Il dl giallorosa. Tra i provvedimenti del genere “viva la repressione” ce n’è solo uno modificato dal Conte 2. Un articolo del decreto Sicurezza bis (peraltro peggiorato in Parlamento) esclude a priori – dio solo sa perché – il fatto che i reati di violenza, minaccia o oltraggio a “un pubblico ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni” possano essere “non punibili per la lieve entità del fatto” come moltissimi altri reati, furto compreso. Di questa previsione, che era al vaglio della Consulta, si lamentò Sergio Mattarella al momento della promulgazione. Ebbene da ora la tenuità del fatto resta comunque esclusa a priori, ma solo in caso quei reati siano rivolti a “un ufficiale o agente di pubblica sicurezza” o a “un ufficiale o agente di polizia giudiziaria nell’esercizio delle proprie funzioni”. Insomma, dire “cretino” a un carabiniere o a un poliziotto in servizio (e a “un magistrato in udienza”, categoria negletta nella prima formulazione) sarà sempre reato, mentre restano senza questa fondamentale tutela i controllori delle FS, i vigili urbani e altri occasionali pubblici ufficiali assortiti, tra cui ci piace citare i parlamentari.

Lite con Casaleggio, ora il Movimento pensa al piano B per soldi e piattaforma

Ora nei Cinque Stelle pensano davvero a un piano B, nel caso di guerra vera, totale con Davide Casaleggio. Ossia di cercare una piattaforma web e un blog alternativi a Rousseau e al blog delle Stelle, saldamente nelle mani del patron di Rousseau. E perfino un conto corrente alternativo. “Noi e Casaleggio non finiremo in tribunale, non ce n’è motivo”, ha assicurato ieri al Fatto il capo politico reggente, Vito Crimi. Ma una rottura da qui a qualche settimana, magari proprio durante il percorso degli Stati generali, non la può escludere nessuno.

Così il timore diffuso è che il manager possa arrivare alla mossa da fine del mondo, ossia sbarrare le porte della sua piattaforma Rousseau. O quantomeno a porre condizioni severe sulle votazioni web che seguiranno l’assemblea nazionale di Roma del 7 e 8 novembre (che verrà organizzata da Roberta Lombardi, uno dei tre membri del comitato di garanzia). Perché dopo l’assemblea saranno necessari diversi passaggi sul web. A cominciare dalla votazione di un nuovo Statuto, in caso gli iscritti optassero per un nuovo modello di guida politica, con una segreteria al posto del capo politico, l’unico tipo di governance a oggi prevista dalle norme attuali del Movimento. “Per avere una segreteria eletta si potrebbe arrivare a dicembre inoltrato” spiegano. Ma Casaleggio non crede nella segreteria. Voleva e vorrebbe un nuovo capo politico (Alessandro Di Battista). E a occhio non lo convince neppure il modello di Stati generali concepito da Crimi, impostato su assemblee regionali e provinciali. Tanto è vero che ieri ha pubblicato sul blog delle Stelle una sua lunga intervista allo statunitense Howard Dean, candidato nel 2004 per le primarie del Partito democratico, “il primo politico a utilizzare effettivamente Internet per promuovere la partecipazione dei cittadini, e tutto attraverso i meet up” come rimarca il portale. Cioè le comunità web, l’antitesi delle assemblee fisiche.

In questo quadro, più d’uno ha suggerito a Crimi di cautelarsi. Ovvero di “cercare una piattaforma e un blog sostitutivi, come chiesto già da settimane da diversi parlamentari con documenti anti-Rousseau. E magari anche di aprire un conto corrente, dove far confluire i soldi dei parlamentari che dovrebbero sostenere i nuovi portali. Il reggente però vuole resistere. Spera ancora che il divorzio non sia necessario. Sa che sarebbe una scelta con possibili ricadute legali, e in generale lavora per un armistizio con Milano. Sempre nel colloquio al Fatto, ha ribadito la centralità di Rousseau: “È la nostra piattaforma, votiamo lì”. Ma i venti di guerra soffiano, ogni giorno.

Senza idee, la destra la butta in caciara e diventa No Mask

L’epilogo sarebbe da commedia all’italiana, se il contesto non suggerisse riflessioni molto meno allegre. Sta di fatto che oggi la dialettica della destra parlamentare è appiattita su quel che, fino a qualche tempo fa, era derubricato a folkloristico complottismo e rappresentato al massimo dalla giacca arancione del Generale Pappalardo: “No alla mascherina”, siamo in una “dittatura sanitaria”, isolare gli asintomatici è “una soluzione fascista”.

In questi giorni se ne è avuta l’ultima prova, con le reazioni sguaiate alla proroga dello stato d’emergenza e all’introduzione dell’obbligo della mascherina all’aperto.

Martedì l’opposizione ha festeggiato perché alla Camera, tra assenti ingiustificati e deputati in quarantena, è mancato il numero legale. Una vera sfortuna, perché a pieno regime chissà quali altri interventi avremmo potuto ascoltare in aula. E così ci si deve accontentare del leghista Guido De Martini, che ne ha approfittato per riscrivere i manuali di virologia: “Testare le persone che non hanno sintomi ci porta a una malattia che ha un’altissima contagiosità”. Insomma: basta smettere di fare i test e il virus scomparirà. E ancora: “Se voi mi chiedete di usare la mascherina mentre torno da solo, in una strada deserta, questa è una cosa che non ha logica. Non vorrei che fosse mandato in strada l’Esercito”. Lo stesso che Salvini invocava in pieno lockdown.

Anche sorvolando sul fatto che la mascherina non sarà obbligatoria nel caso citato dal De Martini, resta il tema di una destra in crisi di argomenti. Citando Flavia Perina, ex deputata finiana, somiglia alla nuova versione del “Partito della Libera Discoteca”, quello che a fine agosto non vedeva altra emergenza che la chiusura del Twiga.

Il pensiero va a Flavio Briatore e ai suoi discepoli, che in questi giorni saranno stati felici di ascoltare Vittorio Sgarbi alla Camera parlare di “una malattia da cui si guarisce e si è in ottima forma” e di misure “fasciste” in atto.

“È la destra salviniana del No – ci dice Giuliano Urbani, ex ministro tra i fondatori di Forza Italia –, quella che sa dire solo No: alla mascherina, all’emergenza, a tutto. Se qualcuno dovesse spiegare a uno straniero che cosa vuole la destra di Salvini, non saprebbe che dire”. Non che Umberto Bossi fosse un alleato mansueto, ma perlomeno i rapporti di forza erano diversi: “Forza Italia era in maggioranza. Dovevamo fare la rivoluzione liberale, ma abbiamo fallito. Però almeno riuscii a placare Bossi sulla ‘secessione’, parola orrenda. A un certo punto iniziò a parlare solo di ‘federalismo’”.

Adesso invece l’egemonia è tutta di Salvini, con Giorgia Meloni che alterna momenti in cui marca la distanza dalla Lega ad altri in cui cede alla stessa retorica: “La proroga dello stato d’emergenza a cosa serve? In base a quali dati?”, ha chiesto in Aula il deputato FdI Giovanni Donzelli, forse senza aver letto gli ultimi dati della protezione civile.

Ma spararla grossa – talvolta sfociando nel complottismo No Mask – ha i suoi perché, almeno per come la vede Ernesto Galli della Loggia: “I media sono assetati di eventi singolari, straordinari. E Salvini ne è un gran produttore, per cui riesce a occupare la scena, a schiacciare su di sé il dibattito oscurando anche altre anime più moderate della Lega, come Zaia o Giorgetti”. E in effetti l’attesa della presunta “anima moderata” della Lega rimane così un Aspettando Godot in cui l’unica vera presenza è quella di Salvini. Ma forse non per molto ancora: “In passato abbiamo visto come la gente a un certo punto si stufi di una centralità sempre uguale, che ripete i soliti concetti. Nulla consuma come l’esposizione mediatica”.

Il problema, secondo il politologo Giovanni Orsina, che sulla destra ha scritto diversi libri, è che la Lega e gli alleati sono come in trappola: “Si parla solo di Covid, ma devi stare molto attento a come critichi perché passi da negazionista. E in più nel centrodestra c’è un forte dibattito interno condizionato anche dalle ultime elezioni”. Motivi per cui, dice Orsina, “l’opposizione è fragile”.

Non basta però la propensione al sensazionalismo di Salvini a sollevare gli alleati da responsabilità (B. sul Covid non hai utilizzato i toni di Matteo). Su questo non ha dubbi Filippo Rossi, giornalista e teorico del movimento “Buona destra” che si oppone proprio alla deriva leghista: “Quando i partiti scommettono sui sentimenti peggiori della società, non riescono più a uscirne, è come un vortice perverso. La follia, però, è pensare di poter combattere questo fenomeno alleandocisi”. Inutile sperare in miglioramenti: “Non c’è modo di trasformare questi partiti, bisogna solo combatterli”.

Zaki in carcere altri 45 giorni. “L’Italia agisca”

Resterà in carcere altri 45 giorni Patrick Zaki. A decidere di prolungare ancora la custodia cautelare dello studente egiziano dell’Università di Bologna fermato al Cairo a febbraio è stata una “Corte d’Assise riunitasi presso la Facoltà di sottufficiali a Tora”, secondo quanto riferito dal suo avvocato, Hoda Nasrallah. Zaki, accusato di propaganda sovversiva su Facebook e istigazione alla violenza, è in attesa di una decisione che viene continuamente rimandata. L’ultima volta era il 27 settembre, due settimane fa, quando il legale del giovane aveva riferito che il Tribunale del Cairo aveva ulteriormente posticipato la sentenza. “Occorre veramente un impegno serio da parte del governo italiano, che riesca a far uscire Patrick da questo incubo, perché è inimmaginabile che possa andare avanti a oltranza questo meccanismo di rinvio della scarcerazione per chissà quali presunti supplementi di indagine, basati sul nulla”, è l’appello all’esecutivo di Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. “Non possono rimanere solo Amnesty, gli studenti, gli amici di Patrick, l’Università di Bologna e gli enti locali a portare avanti questa campagna”, ha detto Noury per cui l’ennesima mancata scarcerazione “è una notizia pessima”. Per Amnesty a questo punto “la cosa urgente è, con le piazze di Milano, Roma e Torino, di far sapere a Patrick che non è solo e che c’è una solidarietà fortissima intorno a lui”. Il timore, infatti, è per lo stato non solo fisico, ma anche mentale del giovane studente egiziano recluso da più di sette mesi. La famiglia, che ha potuto incontrarlo solo a fine agosto, l’ha trovato dimagrito e molto preoccupato. Al ragazzo non sarebbero mai state consegnate neanche le lettere della famiglia, mentre di quelle scritte da lui alla madre ne sarebbero arrivate solo due. “Il governo chieda il rispetto dei diritti umani come condizione delle relazioni bilaterali con l’Egitto”, ha esortato il sindaco di Bologna, Virginio Merola. “Non rassegnamoci”.

Condom, salta l’obbligo di autorizzazione per gli spot: “Più informazione per i giovani”

Fare comunicazione sui preservativi sarà più facile e si eviterà di far passare il messaggio che l’abuso possa comportare rischi per la salute. Il viceministro alla Salute, Pierpaolo Sileri, ha infatti firmato il decreto che toglie l’obbligo di autorizzazione ministeriale per gli spot sui condom che in Italia erano considerati dispositivi medici e, quindi, soggetti a un regime autorizzativo per la loro pubblicità. “Con questo decreto, nato grazie anche alle sollecitazioni dei deputati Riccardo Magi e Gilda Sportiello, si dà finalmente un via libera alla comunicazione e all’informazione sull’utilizzo dei profilattici, cercando di dare la migliore conoscenza e un approccio alla sessualità consapevole e guidato”, ha spiegato Sileri. L’obiettivo del provvedimento – continua Sileri – è quello “di svincolare da una norma particolarmente stringente la pubblicità dei profilattici, che rappresentano la protezione più importante a fronte di una scarsa consapevolezza dei virus sessualmente trasmissibili tra i giovani, soprattutto tra i 15 e i 25 anni”.

Fermata Tiziano: “Il babbo voleva il Tav a Rignano”

Tra le nuove carte depositate dai pm romani nell’indagine su Tiziano Renzi, c’è anche un verbale di sommarie informazioni che riporta d’attualità un tema di cui Il Fatto si era occupato due anni fa: il collegamento ferroviario per Rignano sull’Arno caro a Tiziano Renzi. Ne parla l’amministratore delegato di Rfi, Maurizio Gentile, ai pm romani. Il manager pubblico svela di avere incontrato Tiziano Renzi in un bar di Roma, con Carlo Russo. Tiziano Renzi gli chiese un collegamento veloce per portare i turisti a Rignano sull’Arno, il paese che vedeva proprio Tiziano segretario del Pd, quando il figlio era segretario nazionale. Il Pd locale a Rignano aveva fatto campagna sul collegamento ferroviario veloce mediante una stazione. L’idea era poi quella di collegare l’Alta velocità con un battello a Rignano. La questione interessava anche l’outlet “The Mall” che si trova a Reggello, lì vicino.

Quando i pm di Firenze contestarono a Tiziano Renzi e al re dell’outlet Luigi Dagostino una fattura per operazione inesistente del 6 luglio 2015 da 140 mila più Iva, pagata alla Eventi 6, società della moglie e delle figlie di Tiziano Renzi, il padre dell’ex premier rispose: “Con specifico riferimento al sito di Leccio ove sorgeva il The Mall, proponemmo di realizzare un battello che effettuasse il trasporto dei clienti dalla stazione di Rignano a un sito accessibile dai parcheggi, approfittando della navigabilità del fiume in quel tratto”. In questo ambito, Tiziano con i pm cita una riunione tra governo, Ferrovie e il sindaco di Rignano: “Ricordo che all’incontro con le Ferrovie, utile a verificare la fattibilità di tale idea, era presente anche il sindaco di Rignano, Lorenzini Daniele”. Alla riunione, come raccontò Lorenzini al Fatto, era presente anche il sottosegretario ai Trasporti (renziano) del governo Letta: Erasmo D’Angelis. C’erano anche due manager delle Ferrovie dello Stato, disse Lorenzini, senza ricordare i nomi. Allora Dagostino spiegò: “Tiziano aveva questa idea del treno fino a Rignano per poi far salire i turisti sul battello e venire al The Mall. Gli spiegai che era folle pensare di far fermare il Frecciarossa da Milano a Rignano. Già c’erano polemiche per il treno che ferma ad Arezzo, città della Boschi”.

Ora l’ad di Rfi, Maurizio Gentile, sentito nei mesi scorsi come persona informata dei fatti dai pm romani, aggiunge un nuovo elemento sull’attivismo di Tiziano. Il Gip Gaspare Sturzo nell’ordinanza di rigetto della richiesta di archiviazione per Tiziano Renzi in relazione ad altre questioni, cioè il presunto traffico di influenze su Consip e Grandi Stazioni, sottolineava ai pm l’importanza di una telefonata intercettata nella quale “Gentile (non indagato, ndr) riferisce al Gizzi Silvio, commentando un articolo del Lillo, che Russo gli si era accreditato quale una specie di ‘factotum del governo’, riferendo anche che Russo si sarebbe qualificato come persona che lavorava per il sottosegretario Lotti. Gizzi ammetteva che nei colloqui con il Russo, questi volesse sapere delle gare e che gli aveva richiesto di dargli il suo curriculum”. I pm quindi, seguendo l’input del Gip, hanno convocato Gentile. E così hanno scoperto che l’Ad di Rfi, nominato nell’aprile del 2014 in piena era Renzi, ha incontrato Tiziano Renzi insieme a Russo. Al Fatto Gentile spiega: “Ho incontrato Russo quattro volte. Una volta mi chiese di incontrare Tiziano Renzi e li vidi al bar ‘Il Fagiano’ vicino a Porta Pia. Tiziano mi chiese se fosse possibile fare un collegamento ferroviario per i turisti per Rignano. Gli spiegai che c’era già la linea ordinaria e che comunque non era materia di cui si occupa Rfi”. In un altro incontro, Russo chiese a Gentile informazioni sulle gare di Grandi Stazioni. “Gli dissi – spiega oggi Gentile – che delle gare si interessava Grandi Stazioni e non Rfi”.

Comunque Tiziano Renzi, prima dell’incontro con Gentile, quando non era ancora premier Matteo Renzi, aveva tentato un’altra strada. Erasmo D’Angelis, quando Il Fatto nel 2018 gli chiese della riunione a Firenze sulla questione del collegamento ferroviario per Rignano, spiegò che l’incontro era stato fatto quando era sottosegretario ai Trasporti del governo di Enrico Letta. “L’idea – disse allora D’Angelis – era quella di far fermare il treno da Milano a Rignano per poi trasportare i turisti sull’Arno al The Mall”. Maurizio Gentile oggi spiega: “Non sapevo di questa riunione a Firenze con due manager di Ferrovie e comunque anche dopo non ho più saputo nulla della questione”.

Consip, ora Renzi sr. è accusato di 4 reati

Le cose per Tiziano Renzi non si sono messe troppo bene a Roma. La sua posizione nell’ambito dell’inchiesta Consip si è aggravata. Dopo le ulteriori indagini volute dal gip Gaspare Sturzo, che ha rigettato in parte la richiesta di archiviazione nei suoi confronti, il padre di Matteo Renzi adesso si ritrova indagato per quattro reati. La Procura di Roma contesta infatti il traffico di influenze e la turbativa d’asta in relazione a due gare: da una parte l’appalto Fm4 indetto da Consip (del valore 2,7 miliardi di euro), dall’altra la gara per i servizi di pulizia bandita da Grandi Stazioni.

I magistrati capitolini hanno chiuso, quindi, l’ultimo filone dell’inchiesta Consip, atto questo che di norma prelude a una richiesta di rinvio a giudizio. Oltre Tiziano Renzi, tra gli indagati sono finiti anche l’amico di quest’ultimo Carlo Russo, l’imprenditore napoletano Alfredo Romeo, gli ex deputati Denis Verdini e Ignazio Abrignani e pure l’ex amministratore delegato di Grandi Stazioni, Silvio Gizzi. Ma procediamo con ordine.

Fm4, le pressioni su Marroni per favorire Romeo

Per Tiziano Renzi ieri non sono arrivate buone notizie. Inizialmente indagato per traffico di influenze illecite, i pm nei suoi confronti avevano chiesto l’archiviazione, respinta in parte dal Gip Gaspare Sturzo che ha delegato nuove indagini. Alla fine di questa ulteriore attività investigativa, i reati contestati a Renzi sono cresciuti.

Partiamo dunque da Fm4, gara indetta nel 2016 e sospesa dopo l’esplosione dell’inchiesta partita a Napoli e giunta a Roma per competenza. Per Fm4, Renzi è accusato di traffico di influenze e turbativa d’asta. In sostanza, secondo le nuove accuse, l’amico Carlo Russo di faceva promettere denaro in nero dall’imprenditore campano Alfredo Romeo per se e per Renzi sr.. Dal canto suo Russo “in accordo con Tiziano Renzi” faceva pressioni sull’allora amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni, affinché favorisse la Romeo Gestioni nella gara Fm4.

Come riporta il nuovo capo di imputazione, quindi, Russo (che è accusato di turbativa d’asta, ma non di traffico di influenze) “agiva in accordo con Tiziano Renzi” su Luigi Marroni, ex amministratore delegato di Consip. La “mediazione illecita” di Russo consisteva quindi nell’istigare “Marroni al compimento di atti contrari al proprio ufficio”, ossia sarebbe dovuto intervenire sulla commissione aggiudicatrice della gara Fm4 “e in particolare sul presidente Francesco Licci (…) per facilitare la Romeo Gestioni Spa”, società che partecipava a quell’appalto. In cambio di questa “mediazione illecita”, Russo “si faceva promettere da Alfredo Romeo”, la stipula di un contratto di lavoro per la sorella della compagna, ma anche “numerose ospitalità negli hotel di proprietà del gruppo Romeo” e si faceva promettere “denaro in nero per sé e per Tiziano Renzi”. Oltre al padre dell’ex premier, per questa gara sono accusati di traffico di influenze illecite e turbativa d’asta anche il manager Consip, allora presidente della commissione di gara di Fm4, Francesco Licci, e l’ex presidente della stazione appaltante, Domenico Casalino.

Grandi Stazioni, “convincere il numero uno Silvio Gizzi”

C’è poi la gara per i servizi di pulizia indetta da Grandi Stazioni, vicenda per la quale sono stati iscritti nel registro degli indagati Tiziano Renzi, l’ex parlamentare Italo Bocchino e Alfredo Romeo per traffico di influenze e turbativa d’asta. Reato, quest’ultimo, contestato anche a Carlo Russo e a Silvio Gizzi, ex amministratore delegato di Grandi Stazioni. Anche in questo caso, per i pm, è il solito Russo a voler favorire la Romeo Gestioni Spa. È scritto nel nuovo capo di imputazione: Russo – sfruttando le relazioni esistenti con Gizzi (“relazioni ottenute anche per il tramite di Maurizio Gentile, amministratore delegati di Rfi Spa, a sua volta sollecitato da Tiziano Renzi”) – avrebbe dovuto convincere “Gizzi a favorire la Romeo Gestioni Spa”. In cambio “si faceva promettere da Alfredo Romeo, il quale agiva in accordo con Italo Bocchino, utilità consistenti in somme di denaro periodiche”. E, anche in questo caso, per i magistrati, Russo “agiva in accordo con Renzi”.

Russo, la minaccia di licenziamento al manager

Ma oltre alla turbativa d’asta, Carlo Russo – che peraltro è già a processo per millantato credito – è indagato pure per estorsione. Secondo le accuse avrebbe minacciato l’ex numero uno di Consip, Luigi Marroni, spiegandogli che qualora non fosse intervenuto sulla gara Fm4 a favore della Romeo Gestione Spa, “sarebbero intervenuti Tiziano Renzi e Denis Verdini, persone che per relazioni e ruolo potevano farlo licenziare da Consip”. Non riuscì nell’intento, “per la resistenza dello stesso Marroni”.

Indagati anche Denis Verdini e ignazio Abrignani

Su Marroni a quei tempi però sarebbero giunte anche altre pressioni. Secondo i pm, dagli ex parlamentari Denis Verdini e Ignazio Abrignani, che nell’interno della gara Fm4 patteggiavano invece per Cofely Spa. Nei confronti dei due, quindi, la Procura contesta sia la concussione che la turbativa d’asta. Secondo le accuse, infatti, Verdini, nel 2016 parlamentare, “con abuso della sua qualità e dei suoi poteri, all’epoca sostenitore della maggioranza di governo” e quindi in grado di influire sulle nomine, “costringeva Marroni”, Ad di una “società pubblica i cui vertici vengono designati proprio dal governo”, “a erogare a Ezio Bigotti (…) l’utilità consistita nell’incontrarlo e ascoltarlo in quanto interessato a conoscere notizie riservate sulla gara FM4 e a sollecitare una minore resistenza di Consip nei contenziosi pendenti con le società riferibili al medesimo Bigotti”. Reato di concussione nel quale, secondo la Procura, avrebbe concorso Abrignani.

Gli ex parlamentari sono accusati anche di turbativa d’asta. Per i pm, con gli imprenditori Bigotti e Romeo, “agendo per conto della Cofely Spa, turbavano la gara FM4 ancora nella fase delle valutazioni delle offerte (che avrebbe visto detta società prima in graduatoria per il lotto 10), offrendo un accordo ad Alfredo Romeo – dominus della Romeo Gestioni Spa, concorrente nella medesima gara anche per lo stesso lotto – per rilevare la Conversion & Lighting srl, controllata da Bigotti, che avrebbe permesso a Romeo di ottenere un 30% dei lavori assegnati a Cofely nell’ambito del suddetto lotto”.

Tutti gli indagati ora hanno venti giorni di tempo per presentare memorie o farsi interrogare. Poi la Procura deciderà se chiedere il rinvio a giudizio o archiviare. Consip potrebbe continuare a essere la spina nel fianco di Tiziano Renzi e di tanti altri.

“Marito col virus, io non respiro, 9 giorni in casa senza tampone”

Ci sono voluti 9 giorni solo per ottenere il tampone a domicilio e, dopo 48 ore, è ancora in attesa dei risultati. Nonostante lei e la sua famiglia abbiano passato giorni difficili fra febbre alta e difficoltà a respirare, tutti reclusi nella loro casa del quartiere Prenestino a Roma. Anna, 40 anni, ha saputo il 26 settembre scorso che suo marito era positivo al Covid. L’uomo aveva svolto prima il test antigenico al drive-in e poi il molecolare. La coppia si è messa in isolamento insieme al bimbo di 5 anni, chiedendo alla Asl Roma 2 una squadra a domicilio per il test molecolare agli altri due componenti. Ma per giorni non si è visto nessuno. “Ci avevano dato anche un numero a cui telefonare – racconta Anna – Ci avrebbe dovuto rispondere un medico assegnato al nostro caso. Invece ha sempre squillato a vuoto. Anche 25 telefonate al giorno. Niente di niente”.

Anna e la sua famiglia raccontano di essere rimasti senza alcuna assistenza per oltre una settimana. “Sono stati giorni difficili – spiega – avevamo tosse e febbre, ero molto preoccupata per il mio bimbo. Ci sono stati momenti in cui abbiamo pensato di andare al pronto soccorso, ma poi ci siamo fatti forza, avremmo messo a rischio tanta altra gente”. Ad assisterli solo il medico di famiglia, per telefono, che “ci prescriveva soprattutto cortisone e antibiotici”.

Dopo numerosi solleciti, la squadra della Asl bussa finalmente alla porta di Anna lunedì 5 ottobre. “Noi non sappiamo nulla, facciamo solo i tamponi”, la risposta degli ausiliari alle domande insistenti della famiglia. Ovviamente i risultati ancora non sono arrivati: da qualche settimana a Roma e nel Lazio passano anche 7 giorni prima di avere il responso. “Mio figlio probabilmente sarà positivo – dice Anna – ma con questi tempi anche il protocollo scolastico non avrà funzionato, essendo passati i 14 giorni senza aver conosciuto l’esito del tampone”.

Le balle sui pieni poteri. A che serve l’emergenza

C’è chi, come Francesco Lollobrigida di Fratelli d’Italia, si sgola per denunciare il misfatto anti-democratico: l’ulteriore proroga di tre mesi dell’emergenza Covid “unico caso l’Italia, serve per lasciare in stato di emergenza una nazione che è privata di una serie di possibilità, anche di esprimere la propria posizione nelle piazze”. E chi, come la capogruppo di Forza Italia alla Camera, Mariastella Gelmini evoca senza mezzi termini il desiderio di “pieni poteri da parte del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte”. Matteo Salvini, invece, che l’anno scorso i pieni poteri li aveva chiesti per sé lanciando un’opa su Palazzo Chigi, riuscendo invece nell’impresa di perdere pure quelli di ministro dell’Interno, ora ha una voglia matta di normalità: “La lotta al coronavirus si può affrontare in maniera efficace, ordinaria, senza bisogno della proroga di stati di emergenza inutili, superflui, che preoccupano” ha detto puntando il governo. Che ieri, a fronte dell’aumento dei contagi, ha deciso di introdurre fin da subito l’obbligo di mascherina su tutto il territorio nazionale, ma soprattutto di prorogare l’emergenza fino al 31 gennaio garantendo così la continuità operativa del sistema di allerta Covid.

Con la fine dello stato di emergenza dichiarato il 31 gennaio 2020 e di prossima scadenza (il 15 ottobre) verrebbe meno il Comitato tecnico scientifico anche se gli stessi tecnici potrebbero essere reclutati come consulenti del ministro della Salute. Cesserebbe invece la struttura guidata da Domenico Arcuri a cui solo lo stato di emergenza assicura poteri in deroga (fuorché alle norme penali): le polemiche sulla tempestività con cui sono stati assicurati banchi e sedie semoventi alle scuole o le mascherine per tutti a prezzi calmierati, sono note.

È un fatto che senza un commissario, i tempi della macchina degli approvvigionamenti sarebbero stati ancora più lunghi. Senza lo stato di emergenza verrebbe inoltre meno la possibilità di adottare ordinanze di protezione civile per il coordinamento dell’attuazione degli interventi, nonché la partecipazione del Servizio nazionale della protezione civile alle attività ancora in corso: salterebbe insomma tutta la catena di comando che ha fin qui assicurato gli interventi di soccorso e assistenza alla popolazione, tra cui l’allestimento e la gestione delle strutture temporanee per l’assistenza alle persone risultate positive, il noleggio delle navi per la sorveglianza sanitaria dei migranti, l’impiego del volontariato di protezione civile impiegato anche per i controlli agli aeroporti o nei drive-in allestiti per i tamponi, il reclutamento di personale sanitario a supporto delle strutture regionali e degli istituti penitenziari. Decadrebbero anche altre misure come ad esempio il pagamento anticipato delle pensioni per evitare l’assembramento alle Poste, la ricetta elettronica, l’attività del numero verde 1500 come pure i decreti attuativi delle ordinanze di protezione civile che attribuiscono ai presidenti delle Regioni la funzione di soggetti attuatori degli interventi, con poteri di deroga e copertura finanziaria per assicurare il più efficace coordinamento delle attività sui territori di competenza.

Test e quarantena, Sileri contro il Cts: “Siete troppo lenti”

L’unico medico del governo dice che i consulenti medici del governo, quelli del Comitato tecnico scientifico che si riunisce alla Protezione civile, sono “lenti: c’è troppa burocrazia”. A sostenerlo è Pierpaolo Sileri, chirurgo e viceministro della Salute. “Ho chiesto al Cts, già da settimane, di pronunciarsi sulla quarantena breve a dieci o anche sette giorni, come in Francia. Illustri virologi chiedono di validare i test salivari, che sono i più rapidi. Ma anche su questo non c’è stata risposta. All’inizio hanno fatto un lavoro eccezionale, ma a volte sono arrivati tardi, troppo tardi. Sulle terapie intensive, sui voli… quello che chiedevo ai primi di luglio è stato fatto solo dopo. Ha visto i numeri? Tra poco avremo mezza Italia in quarantena. Non bastano i bollettini”.

La polemica si è aperta martedì sera nello studio di Di Martedì, la trasmissione di Giovanni Floris su La7. Sileri, 5stelle atipico, cresciuto all’Università di Tor Vergata a Roma dove denunciò l’ex rettore e destinato al San Raffaele di Milano, ne ha discusso con Luca Richeldi, professore di Pneumologia alla Cattolica e al Gemelli di Roma, membro autorevole del Cts, che ribadiva la prudenza sui test rapidi in assenza di adeguata validazione scientifica. Ieri l’Ansa scriveva che “il Cts ha censurato le critiche giudicate ‘avventate e superficiali’” di Sileri “e ha scritto una lettera al ministro Speranza chiedendo un intervento”. Non c’è conferma. Ma a riprova della tensione è intervenuto il premier Giuseppe Conte: “Ho parlato con Sileri e non c’è nessuna polemica. Sileri ha sempre apprezzato il lavoro del Comitato tecnico scientifico. Il Cts sono i nostri esperti, non nel senso degli esperti del governo, ma della comunità italiana. Ed è un lavoro che svolgono gratuitamente. Ci sono un paio di profili su cui c’è una riflessione in atto”. Test e quarantena, appunto. Sileri, peraltro, a luglio aveva chiesto di integrare il Cts con l’infettivologo del San Martino di Genova Matteo Bassetti, il microbiologo di Padova Andrea Crisanti, l’infettivologo del Sacco di Milano Massimo Galli e il rianimatore del San Raffaele di Milano Alberto Zangrillo, ottenendo un secco “no” del Comitato. Anche dal Cts smorzano: “Non siamo arrabbiati con nessuno, il viceministro Sileri è un esponente del nostro governo e come tale ha tutta la nostra stima”, ha detto Alberto Villani del Cts, pediatra, anche lui del Gemelli.

Ora però, al di là dei botta e risposta tv, il problema è serio. I contagi in due mesi si sono quintuplicati e il numero dei tamponi è appena raddoppiato. Ai primi di agosto, infatti, si contavano 5/600 casi e 60 mila tamponi in media al giorno, oggi i tamponi sono circa 100 mila al giorno di media (ieri 125 mila) e i casi quotidiani poco meno di tremila (ieri 3.678). “Se la trasmissione aumenta rischiamo di non controllarla più, salta il tracciamento”, aveva detto qualche settimana fa Crisanti. L’abbiamo imparato: ogni positivo comporta da 5 a 10 contatti da tracciare, isolare e testare (per quanto il tampone non sia obbligatorio). Cioè i tamponi dovrebbero aumentare più dei contagi. Infatti lo stesso Crisanti, che in Veneto ha ottenuto risultati migliori di altri facendo dall’inizio più tamponi anche agli asintomatici, a fine agosto ha proposto al governo un piano per arrivare subito a 3-400 mila test molecolari al giorno, potenziando i laboratori, con una spesa di circa 40 milioni di euro più 1-1,5 milioni al giorno.

Ma il governo e il Cts vanno più lentamente. Le Asl sono state rafforzate meno degli ospedali, i laboratori sono in affanno, soprattutto per mancanza di reagenti. Sembra che il commissario Domenico Arcuri stia preparando un bando per acquistare macchine simili a quelle che Crisanti fece comprare alla Regione Veneto, che processano un maggior numero di tamponi al giorno (circa il 30/40 per cento in più) con un minor dispendio di reagenti. Vedremo.

L’altra strada, anche concorrente con la prima, è quella dei test rapidi compresi i salivari, certamente meno sensibili dei tamponi, sostenuta con forza dal viceministro Sileri e non solo. Dieci studiosi (Sergio Abrignani, Adriana Albini, Franco Buonaguro, Francesco Cecconi, Guido Poli, Alessandro Quattrone, Luca Scorrano, Stefano Vella, Elisa Vicenzi, Antonella Viola) hanno chiesto di imboccarla con decisione. Il ministero della Salute ha fatto un passo sui tamponi rapidi nelle scuole, forzando un po’ rispetto al più prudente Cts. Visti i numeri, però, rischia di non bastare.