I contagi verso quota 4 mila. “Mascherina anche al chiuso”

La paura fa 3.678. Tanti sono i nuovi casi di positivi al Covid ieri (+1.001 rispetto a martedì), con Campania (+544) e Lombardia (+520) in situazioni già critiche. Rinnovato il record di tamponi con 125.314 test, +25.752 sul giorno precedente, ma per il balzo dei contagi la preoccupazione è evidente sul volto del premier Conte in serata.

Parla ai giornalisti davanti a Palazzo Chigi Giuseppe Conte, infatti, per anticipare alcune misure del Dpcm che firmerà entro mercoledì 15. Conte interviene poco prima del vertice tra il suo ministro Francesco Boccia e i governatori delle Regioni: ritorna permanente la cabina di regia Stato-enti locali che si darà tempo appunto fino al 15 ottobre per sciogliere i possibili nodi del nuovo Dpcm. Ma ieri neppure i più critici come il ligure Giovanni Toti, visti i numeri del contagio, hanno polemizzato, anzi: “L’obbligo di indossare la mascherina imposto dal governo è segnale di attenzione e avvertimento, il Covid-19 sta tornando a crescere. Una misura che richiama tutti a prudenza”.

Se Boccia, con il ministro della Salute Roberto Speranza, ha parlato ai governatori, Giuseppe Conte ha scelto le telecamere per informare l’Italia sulle decisioni che il governo metterà nero su bianco nel Dpcm: l’obbligo di mascherina, appunto, all’aperto (tranne in luoghi isolati) e al chiuso. Sono esclusi chi fa sport, i bambini con meno di sei anni, i soggetti con patologie o disabilità incompatibili con l’uso della stessa e chi per interagire con loro ha la stessa incompatibilità; “è una misura adeguata e proporzionale” spiega Conte. “Dobbiamo essere più rigorosi per evitare misure restrittive per le attività produttive”. E invita all’attenzione anche in famiglia, dove “ci sono persone anziane, fragili, vulnerabili: rispettiamo la distanza, proteggiamo anche loro con le mascherine se ci avviciniamo perché lo Stato non può entrare nelle abitazioni private ma serve massima attenzione anche quando si ricevono amici perché come ci dicono gli esperti, quelle sono occasioni in cui più si diffonde il contagio”. Altro punto cardine rimane l’applicazione Immuni, per cui è prevista “l’interoperabilità con le piattaforme attive, con le medesime finalità, nel territorio dell’Unione europea”: resterà operativa fino al 31 dicembre 2021. Confermato quello che diventerà il punto dolente da qui alla firma del Dpcm, il possibile conflitto con le Regioni, perché i governatori potranno adottare misure solo restrittive e “saranno limitati in quelle ampliative, che dovranno essere d’intesa con il ministro della Salute”. Inoltre vengono prorogati al 31 ottobre 2020 i termini per la presentazione delle domande di cassa integrazione ordinaria, assegno ordinario e cassa integrazione in deroga collegate all’emergenza coronavirus. Rispetto alle sanzioni, invece, il premier conferma che “per chi non indossa la mascherina sono previste multe fino a mille euro”. Mascherina che si deve indossare “sempre”, dentro e fuori, ha ribadito il ministro Speranza, che introduce di nuovo il tema lockdown: “Noi valutiamo giorno per giorno il quadro epidemiologico e lavoriamo per evitare i lockdown, ma i risultati fra due, tre o quattro settimane non sono scritti nel cielo. Dipende soprattutto dai comportamenti delle persone. Noi lavoriamo giorno e notte perché si eviti un lockdown nazionale”. Intanto ritornano quelli circoscritti a situazioni locali, infatti è già zona rossa Villafrati nel Palermitano e nel Lazio preoccupa molto la provincia di Latina, non solo Terracina, per l’ormai tristemente nota cena leghista post-comizio con Matteo Salvini ma anche Aprilia: entro domani il governatore Nicola Zingaretti deciderà eventuali restrizioni.

La pandemenza

Breve riassunto delle grandi questioni epocali che hanno occupato l’informazione negli ultimi tempi.

1. “Caos governo, senz’anima, né visione né identità. Infatti Conte è rimasto il fascioleghista che stava con Salvini: i dl Sicurezza non li cambierà mai e, se ci proverà, i 5Stelle faranno muro” (li ha cambiati lunedì sera, d’intesa col M5S, nel silenzio generale).

2. “Caos Mes: tutta la Ue lo prenderà tranne l’Italia, isolata sul no da un capriccio dei 5Stelle” (il Mes non l’ha preso nessuno: solo Cipro pareva interessato, poi ha rinunciato).

3. “Caos Azzolina: le scuole non riapriranno mai” (le scuole hanno riaperto il 14 settembre, come stabilito).

4. “Caos regole a scuola, la seconda ondata Covid verrà di lì” (in 20 giorni contagiati 1.492 studenti pari allo 0,021%, 349 docenti pari allo 0,047, 116 non docenti pari allo 0,059).

5. “Caos governo, rimpasto pronto: Azzolina verso l’uscita” (nessun rimpasto e Azzolina al suo posto, elogiata pure da Mattia Feltri su La Stampa per aver “fatto un buon lavoro”).

6. “Caos giallorosa: centrodestra pronto alla spallata alle regionali e alle comunali” (Regionali: 4-3 per il centrosinistra; Comunali nelle 98 città sopra i 15mila abitanti: centrodestra 34, centrosinistra+M5S (separati o insieme) 52, liste civiche 12.

7. “Caos 5Stelle: 40/ 50/ 60/ 100 parlamentari pronti alla scissione” (finora nessuna scissione nei 5Stelle).

8. “Caos 5Stelle: gli stati generali slittano al 2021” (gli stati generali M5S si concluderanno a Roma l’8 novembre 2020).

9. “Caos Pd: Zingaretti lascia la Regione Lazio per candidarsi a Roma/entrare nel governo” (Zingaretti resta alla Regione Lazio).

10. “Caos Recovery Fund: l’Italia in ritardo sul Piano, mentre gli altri governi l’hanno già presentato all’Ue” (nessun governo ha presentato il Piano: lo faranno tutti a gennaio).

11. “Il Recovery Fund è una truffa: i soldi non arriveranno nemmeno nel 2021” (l’accordo dell’altroieri all’Ecofin prevede che i fondi del Recovery inizieranno ad arrivare nei tempi previsti da metà 2021 per sei anni: nella Nadef Gualtieri ha già inserito la scansione degli importi anno per anno, a partire da un “anticipo” di 25 miliardi già disponibili per la nuova legge di Bilancio).

12. “Governo nel caos, il nuovo Dpcm slitta di una settimana” (il nuovo Dpcm è uscito ieri).

E vabbè, dài, è andata così. A chi non sapesse più cosa inventarsi per riempire le pagine, essendo sfumate anche le famose sommosse di settembre, rammentiamo che da qualche giorno non si parla più del governo Draghi. Forza, ragazzi, rifateci sognare un po’.

Domus a Roma, il condominio adesso gestisce anche il museo

Otto secoli di storia tornano alla luce all’interno di un lussuoso condominio. La scatola archeologica della Domus Aventino, rinvenuta durante la realizzazione di un complesso residenziale in Piazza Albania, alle pendici del colle Aventino a Roma, è il primo museo a gestione condominiale aperto al pubblico. La cerimonia di inaugurazione è avvenuta ieri. Sui 18mila metri quadrati dove, negli anni 50, la Banca Nazionale del Lavoro aveva sede, la Bnp-Paribas Real Estate ha costruito 180 appartamenti. Durante gli scavi per l’adeguamento sismico, dal 2014 al 2018, la Soprintendenza Speciale di Roma ha scoperto stratificati sei livelli pavimentali che raccontano la vita dell’antica civiltà romana dall’VIII secolo a.C. al III secolo d. C.: in questa zona della Capitale, ritenuta dagli studiosi dopo le scoperte in via di Sant’Anselmo più antica dello stesso Campidoglio, un tempo si ergeva un apprestamento militare, forse una torre di guardia, per difendersi dagli invasori; poi sono stati fatti dei terrazzamenti per ampliare la superficie piana e far fronte alle asperità del colle, fatto di gole profonde; in seguito è divenuta una domus, appartenuta probabilmente a un ricco commerciante che intratteneva assidui rapporti con l’Oriente, ricca di mosaici in tessere bianche e nere (3mila in totale), intrecciate tra loro in eleganti motivi geometrici. Il connubio tra pubblico e privato ha permesso di realizzare un progetto unico, fatto di archeologia, architettura e tecnologia a disposizione del pubblico due volte al mese, a partire da novembre. Per raccontarlo è stato creato un allestimento multimediale con video mapping e proiezioni, curato da Piero Angela e Paco Lanciano. A gestirlo sarà una cooperativa di professionisti incaricata dal condominio sotto la supervisione della Soprintendenza. “Questo è il risultato di una proficua collaborazione, con Bnb-Paribas Real Estate, che ha sposato l’iniziativa finanziando l’intera operazione. Si è consentita così la tutela dei reperti e un lavoro scientifico, che verrà raccolto in due volumi”, ha spiegato Daniela Porro Soprintendente speciale di Roma. La considera “una scatola archeologica molto democratica” Anselmo De Titta, direttore generale del gruppo immobiliare che ha investito oltre 3 milioni di euro per far rivivere questo gioiello. “Tutto ciò che proviene dal passato ha la sua carica emotiva, le pietre parlano – ha dichiarato Piero Angela – ma c’è bisogno di chi le veda per poterle raccontare”.

“Quei ragazzi di ‘Mare fuori’ li conosco già dall’infanzia”

Il rovescio dei piani, non la sovrapposizione, è negli occhi di Anna Ammirati quando parla di Mare fuori, la serie tv di Rai1 dedicata ai ragazzi “ospiti” di Nisida, l’Istituto di Pena Minorile di Napoli. “È stato un po’ come ritrovare gli occhi dei miei compagni di viaggio quando da adolescente prendevo la Circumvesuviana per andare a scuola. E con il passare degli anni ho visto mutare i loro sguardi”.

Lei nella serie interpreta Liz, un’educatrice non totalmente in grado di schermarsi da certe storie; storie che le invadono l’io, le relativizzano l’esistenza, affondano nel suo regresso. “Il focus è sul punto di vista dei ragazzi, delle loro famiglie, e il rapporto che si costruisce con gli educatori”.

Lei quella realtà la conosce bene.

Tempo fa, per uno spettacolo teatrale, avevo bisogno di entrare meglio dentro certi meccanismi famigliari, dentro il sistema della delinquenza.

E…

Rifletto sulla responsabilità degli adulti; (silenzio) c’era un ragazzo che desiderava diventare barbiere, ma il fratello, boss del quartiere, glielo impedì con ogni mezzo seduttivo.

Un classico.

Ripenso a cosa gli gridava perché non era in grado di tenere in mano una pistola: “Ti devi far rispettare, non fare il ricchione“.

È cresciuta da quelle parti.

A Torre Annunziata: non è stata una passeggiata, per fortuna sono nata in una famiglia solida e presente. È l’unica salvezza.

Altrimenti?

Come dicevo prima, per me la Circumvesuviana ha rappresentato lo schermo più nitido rispetto alla realtà che vivevo: già allora guardavo i compagni di viaggio e tentavo di andare oltre gli input esteriori.

Cioè?

Dalla seconda fermata i vagoni si riempivano di eroinomani, spacciatori, piccoli ladri: un’umanità varia e disperata. Tutti i giorni così. E alcuni oramai li conoscevo di vista, avevo imparato a decifrare i loro momenti bui, i tic, le nevrosi, i timori. Soprattutto gli occhi infossati.

Non mentono…

Lo sguardo da vivace e attento, magari in caccia di una preda, diventava arreso e diretto all’ineluttabile. Poi all’improvviso quegli occhi sparivano e non sapevo se erano morti o finiti in galera.

A un certo punto è andata a vivere a Roma: fuga o altro?

Entrambi gli aspetti: per un lungo periodo mi sono sentita in conflitto con la mia realtà d’origine; (sorride) quando ho letto Gomorra, non mi sono sconvolta come la maggior parte delle persone.

L’avranno presa per snob.

Forse, in realtà per me era solo una fiction sulla mia infanzia.

Rispetto a 30 anni fa, com’è cambiata Napoli e l’hinterland?

Si sono mostrificati di più; però a vedere dove sono nata ci sono tornata una sola volta.

È entrata in carcere, ha parlato con i ragazzi.

Un paio di volte e l’effetto è straniante, ho avuto la percezione di confrontarmi con persone che sbagliano non dei delinquenti assoluti da emarginare.

L’approccio loro con lei.

(Sorride) Molto vivace, con un paio di apprezzamenti colorati; ma era previsto, è un modo per incutere timore, o solo difendersi. In certi casi l’errore più banale è quello di scomporsi, mostrarsi offesi o superiori.

Per gli attori a volte è complicato schermarsi.

Invece in alcuni casi è importante trovare le forze per permettere alle emozioni di affrontare le nostre convinzioni: non si può sempre e solo restare degli spettatori partecipi.

Insomma, un po’ è fuggita da lì…

Da ragazza? Quando mi presentai al provino per entrare all’Accademia di teatro, temevo di non aver studiato alla perfezione. Io ci tenevo tantissimo e loro erano giustamente esigenti.

Quindi?

Durante il saggio capii che non stavo rendendo secondo le aspettative: decisi di simulare uno svenimento.

Funzionò.

Sì, salvo poi mandarmi via perché avevo accettato il ruolo da protagonista in un film di Tinto Brass (silenzio, sorride).

Ma?

Come dicono quelli bravi? Quella è tutta un’altra storia. Adesso mi interessa aiutare questi ragazzi che sbagliano.

L’amante di lady Simone

“Ho voluto dirti ciò che solo nei libri si dice. Non lo hai mai saputo, ma dal giorno in cui ti ho incontrata sei stata tutto per me e ho deciso che, se tu fossi morta, sarei morta anche io”. Simone de Beauvoir scrisse queste parole nel 1954 per Elisabeth Lacoin, detta Zaza, sua amica del cuore e suo primo amore, morta tragicamente nel 1929 di encefalite a soli 21 anni.

La filosofa raccontò quella sua passione giovanile in un breve romanzo, mai completato, rimasto per tanti anni chiuso in un cassetto, e che solo ora, a trentaquattro anni dalla morte della sua autrice (il 14 aprile 1986), viene pubblicato con il titolo Les Inséparables (oggi in Francia per le Éditions de l’Herne, il 22 ottobre in Italia da Ponte alle Grazie). Nel romanzo autobiografico, scritto in prima persona, le “inseparabili” si chiamano Sylvie Lepage (la stessa Simone de Beauvoir) e Andrée Gallard (Zaza, dunque). Le due giovani crescono nella Parigi degli anni Venti tra la Grande guerra e gli Anni folli. Si incontrano da bambine frequentando il Cours Desir, un istituto religioso della rue Jacob, nel quartiere parigino di Saint-Germain-des-Prés, e sono due allieve modello. Le vediamo a vent’anni in una fotografia del 1928 scelta per la copertina del libro, carré corto e abito immacolato, sedute nel giardino della casa di Gagnepan dei genitori di Zaza, sulla costa atlantica del Sud della Francia, dove le due giovani andavano a trascorrere le vacanze estive.

Due ragazze “perbene”, come voleva la società borghese e bigotta dell’epoca. Ma Andrée-Zaza viaggia controcorrente. È brillante, vivace, ribelle. Con lei si può parlare di tutto e senza tabù, di politica, di religione, di letteratura, di ragazzi. Insieme le due giovani condividono il sogno dell’emancipazione. Sylvie-Simone è sedotta da quella sua amica “geniale”, come direbbe oggi Elena Ferrante: “Ammiravo la sua disinvoltura senza riuscire a imitarla”. Le convezioni sociali pesano come un masso sulle due adolescenti. Come restare libere in una società ipocrita e maschilista, che accantona le donne al ruolo di mogli e madri modello? Andrée non intende accettare il matrimonio conformista che la madre vorrebbe imporle. Comincia a dimagrire, si ammala. Sylvie la guarda spegnersi impotente. Senza Zaza, Simone de Beauvoir sarebbe stata Simone de Beauvoir?

Più tardi, nelle sue Memorie del 1958, la filosofa scrisse: “È solo paragonandomi a Zaza che ho realizzato con amarezza la mia banalità. Insieme abbiamo lottato contro il destino rivoltante che ci aspettavamo e per molto tempo ho pensato di aver pagato la mia libertà con la sua morte”. Pensare che era stato Jean-Paul Sartre a consigliare a Simone de Beauvoir di non pubblicare quel romanzo appassionato, che lui lesse ma trovò “insignificante”. “Non è abbastanza interessante per il lettore”, le avrebbe detto. Forse perché non era uno scritto politico. Forse perché avrebbe urtato la morale puritana dell’epoca. O forse semplicemente per gelosia?

Nel 1954, Simone de Beauvoir era già una scrittrice e una filosofa famosa. Aveva già pubblicato il suo saggio femminista e rivoluzionario, Il secondo sesso, uscito cinque anni prima, nel 1949, che avrebbe cambiato la vita di generazioni di donne. Aveva anche appena vinto il prestigioso Goncourt per I Mandarini, in cui scattava un ritratto autobiografico e ironico degli intellettuali parigini del secondo dopoguerra. Eppure quando Sartre, il compagno di una vita con cui condivise il gusto per l’esistenzialismo e un “amore necessario”, glielo bocciò, lei seguì il suo parere. Ripose dunque nel cassetto, senza mai riprendere, né gettare mai, come fece più tardi per altri testi che non amava più, quello scritto carico dei sensi di colpa di chi invece sopravvive.

Se una parte degli archivi di Simone de Beauvoir sono stati affidati alla Bibliothèque nationale de France, a Parigi, il manoscritto di questo romanzo e altre sue carte sono rimaste alla figlia adottiva di Simone de Beauvoir, Sylvie Le Bon-de Beauvoir, filosofa anche lei, che detiene i diritti morali dell’opera letteraria della madre. È stata lei a scegliere il titolo e ad annunciare al New York Times, la scorsa primavera, la pubblicazione di un nuovo romanzo inedito. Secondo lei la madre sarebbe stata d’accordo: “Riguardo alle sue carte mi disse: fai quello che ritieni giusto”. Perché allora non pubblicarlo sin dal 1986? Sylvie Le Bon-De Beauvoir lo ha spiegato sempre al Nyt: “Perché c’erano altre priorità editoriali: ora siamo pronti a lavorare sui romanzi e i racconti”. Altri inediti verranno, dunque.

Mele “assassine” e querele, c’è una guerra in Val Venosta

Il miracolo di Malles – Das Wunder von Mals – è la favola moderna di un paese di montagna che ha voluto essere libero dai veleni dei campi, ma è anche un atto d’accusa contro l’agricoltura che usa i pesticidi per portare sulle nostre tavole le mele più belle, appetibili, prive di imperfezioni. Sei anni dopo il referendum che in un fazzoletto di terra della Val Venosta mise al bando il glifosato, quell’evento è un segno di contraddizione che imbarazza i coltivatori, confonde i politici e anima il più sconcertante dei balletti in un’aula di giustizia. L’inizio fu la consultazione popolare del 2014, con una maggioranza del 76 per cento che scelse per l’ambiente pulito. L’epilogo è il processo in corso a Bolzano, contro Karl Bär, referente per la politica agricola e commerciale del- l’Umweltinstitut, l’Istituto per l’Ambiente di Monaco di Baviera, e lo scrittore e regista Alexander Schiebel, autore del libro e del film che, raccontando la ribellione di Malles, hanno descritto i raccolti miracolosi fondati sulla chimica.

La bellezza di 1.400 coltivatori, assieme alla Provincia autonoma di Bolzano, hanno presentato querela per diffamazione, ritenendosi offesi dall’uso dell’espressione “assassini” utilizzata in una campagna informativa ambientalista che aveva denunciato le presunte responsabilità del sistema agricolo nell’uso di massa dei pesticidi. Due anni fa le carte bollate, a metà settembre la prima udienza. Ma alla vigilia della comparsa in Tribunale, l’assessore provinciale all’Agricoltura Arnold Schuler aveva dato pomposamente l’annuncio: erano in corso trattative per ritirare la querela. Agli agricoltori bastava già la citazione a giudizio, come prova della non infondatezza delle accuse. E così in Tribunale era stato deciso il rinvio a novembre, per far sottoscrivere la remissione ai querelanti.

Ma hanno fatto i conti senza il pubblico ministero Federica Iovene e l’orgoglio ambientalista. A inizio anno la Procura ha fatto sequestrare i libretti di campagna delle imprese agricole, dove sono annotate le sostanze utilizzate. Riteneva i dati utili a dimostrare l’esistenza o meno di un impiego massiccio di pesticidi dannosi alla salute umana. Una prova boomerang, che ora rischia di scoppiare in mano ai querelanti.

Per questo i colloqui tra legali si sono fatti difficili, poi alcuni giorni fa si sono arenati. “Voltafaccia dell’assessore all’Agricoltura dell’Alto Adige. Gli avvocati di Schuler hanno espresso le condizioni per il ritiro delle querele limitando ancora una volta il diritto alla libertà di espressione degli imputati” spiegano gli ambientalisti. “È fuori discussione la possibilità di tacere all’opinione pubblica informazioni sulla reale entità dei pesticidi impiegati in Alto Adige/Südtirol. Dopo aver constatato che non avrebbe potuto trovare un ‘accordo’ a queste condizioni, Schuler ritira la parola data”.

La querela non sarà più rimessa. Tagliente il commento di Karl Bär, riferito proprio ai libretti di campagna: “L’assessore ha tentato di obbligarci a nascondere i dati, a dimostrazione di quanto la lobby della mela altoatesina tema che la verità venga a galla. Questo processo è un tentativo di intimidazione. Ma non riusciranno a metterci una museruola”. Lo scrittore Schiebel è convinto che il processo è un’occasione formidabile: “Non ho mai detto né scritto che i coltivatori di mele fossero degli ‘assassini’ o colpevoli di ‘omicidio premeditato’. Ora il processo sarà il nostro strumento per dimostrare i pericoli legati all’elevato uso di pesticidi e difendere il nostro diritto alla libertà di espressione”.

Secondo i legali di Schuler e degli agricoltori, invece, non c’è stato accordo a causa delle dichiarazioni – ritenute di nuovo offensive – che hanno continuato ad apparire sui social media. Ma l’avvocato Nicola Canestrini, difensore dell’Umweltinstitut, replica sfidandoli a rendere pubblici i contenuti reali della rottura. Non lo dice, ma il nocciolo della questione è nei libri sociali dei coltivatori, che ora sono nella disponibilità della difesa, ma contro il cui sequestro si erano battuti i legali della Provincia. Potrebbero dimostrare la fondatezza dei dubbi sulla raccolta miracolosa di mele in Alto Adige.

L’oro di Caracas ostaggio di Londra

Scontro alla Corte di Londra tra la Banca d’Inghilterra, il regime di Nicolás Maduro e il presidente ad interim Juan Guaidó.

Al centro della disputa le 31 tonnellate di lingotti d’oro – per un valore di 900 milioni di euro – che l’entità inglese custodisce da anni e che non vuole mollare al presidente venezuelano in carica, ma neanche al suo oppositore, Juan Guaidó (nella foto). Così ha deciso la Corte d’Appello di Londra ribaltando la decisione di luglio con cui il Tribunale supremo si rifiutava di mettere a disposizione di Caracas le riserve richieste da Maduro, adducendo che l’oro semmai, andava concesso al capo dell’Assemblea, riconosciuto all’epoca da 50 paesi, tra cui il Regno Unito. Dopo la richiesta d’appello di Maduro, i giudici di secondo grado hanno deciso di non concedere comunque i lingotti, ma con una motivazione diversa, anzi, opposta alla prima. “La Corte – si legge nella sentenza – considera ambigua la dichiarazione di febbraio 2019 da parte dell’allora ministro degli Esteri britannico, Jeremy Hunt, nella quale riconosce Juan Guaidó ‘presidente ad interim’ del Venezuela”. “Questo perché – spiegano i giudici – il governo inglese ha continuato a riconoscere ‘de facto’ l’Amministrazione di Maduro”. Al netto del ‘giuridichese’, è chiaro che a causa dell’ambiguità di governo (nel frattempo mutato) e Corona nei rapporti con il Venezuela e i suoi “due” presidenti, la Banca non può restituire a Caracas le 31 tonnellate di lingotti. Se si volesse semplificare si potrebbe affermare che il Regno Unito sta impedendo a un Paese in difficoltà i cui cittadini sono sempre più affamati di usufruire del proprio denaro. Maduro, infatti, aveva richiesto i lingotti per poter pagare il Programma di aiuto dell’Onu in cambio di materiale sanitario, medicine e cibo per la lotta alla pandemia. Londra, infatti, non sa che pesci prendere nella disputa tra Nicolás Maduro e Juan Guaidó. A porre rimedio all’ambiguità politica potrebbe essere proprio la Corte d’Appello che ha “avviato un’inchiesta il cui obiettivo sarà determinare a quale dei due rivali politici spetta il controllo dei fondi”. Prima, però, “bisogna dare una risposta definitiva alla questione del riconoscimento”, chiarisce la sentenza. “Sarà necessario determinare se il governo di sua maestà riconosca Guaidó come presidente del Venezuela a tutti gli effetti e di conseguenza, non riconosca Maduro como presidente a nessun effetto”.

“Repressione sudamericana nel cuore dell’Europa”

“A Minsk c’è una repressione dai caratteri sudamericani, nel cuore dell’Europa. Siamo andati per dare un segnale concreto. E anche per sollecitare l’opinione pubblica. Come Pd seguiranno altre iniziative: la difesa dei diritti umani per noi è tema fondativo”. È stato in Bielorussia da venerdì a lunedì scorso, il vice segretario del Pd, Andrea Orlando. Con lui c’era Barbara Pollastrini.

Chi avete incontrato?

Abbiamo visto diversi esponenti dell’opposizione, di cui non posso fare i nomi. Tra loro ci sono professionisti, manager, persone che non avevano mai fatto politica. Anche qualcuno legato al Consiglio di coordinamento, l’organismo che guida il movimento. Abbiamo visto persone che hanno subito violenze nei giorni della repressione. Ci hanno raccontato di pestaggi, torture, stupri.

Com’è nato il movimento?

La maggior parte della gente all’inizio ha manifestato per rappresaglia dopo le violenze della polizia, unendosi a chi da subito era sceso in piazza per protestare contro l’esito truccato delle elezioni. Lukashenko nel corso degli anni era sempre riuscito a barcamenarsi tra una spinta russofila e una distanza da Putin. In queste settimane la repressione è diventata sempre più dura, il regime si è chiuso a riccio. E lui non risponde neanche alle telefonate dei leader europei. Hanno cercato di contattarlo inutilmente Rama, Borrell, Macron. Ma lui si è sempre più appoggiato a Putin. Le opposizioni, anche quelle storiche, non si aspettavano una reazione così forte come quella emersa dopo il voto. Neanche Lukashenko era preparato. Prima c’è stato un momento di sbandamento, poi hanno cominciato a reprimere con caratteri sudamericani. La fine del comunismo con la sua implosione è stata, ci hanno detto, molto meno violenta.

Che tipo di movimento è?

Mi è parsa una sorta di “rivoluzione” borghese alla quale hanno via via aderito settori popolari. Il movimento si è allargato progressivamente dopo la repressione. La società non si è mobilitata, finché la violenza era chirurgica. Lukashenko ha detto che non era successo niente, ha sostenuto che i dimostranti erano solo prostitute e drogati. Ora ogni domenica scendono in piazza 200-250mila persone. Sono stato tra loro. Ci sono tantissimi giovani. Arrivano portando le bandiere sulle canne da pesca: non possono portare nulla, non ci sono striscioni. Piccoli gruppi convergono in un fiume più grande, cambiando sempre percorso perché arriva la polizia con gli idranti. La domenica, le autorità bloccano internet.

Cosa vi hanno chiesto?

Vogliono soprattutto che raccontiamo quello che sta succedendo lì: i giornalisti che ne parlavano sono stati licenziati e arrestati. Ora c’è una propaganda martellante tesa a screditare l’opposizione.

Che approccio hanno verso Russia e Europa?

Non hanno un tono anti-russo e neanche filo europeo: non c’era una bandiera della Ue. Il loro, sanno, è uno spazio tra Russia e Europa. È un movimento per la democrazia è più ancora per lo stato di diritto.

Sono sufficienti le sanzioni Ue, senza Lukashenko?

È una discussione complessa: l’Europa non può eccedere, caricando il sentimento anti-russo, altrimenti si rischia di provocare la reazione di Putin. Ma non può neanche abbassare i toni di fronte alla gravità della situazione.

L’Italia è stata piuttosto defilata. Il Pd vuole spingere il governo a iniziative più incisive?

L’Italia sta con l’Europa ed è giusto. Non ci permettiamo di dettare la linea, ma l’attenzione di tutti, anche del nostro governo deve restare alta. Forse a questo punto l’Italia potrebbe esercitare un ruolo più forte. Merkel e Macron hanno fatto condanne dure. La cancelliera ha appena incontrato Svetlana Tikhanovskaja.

La sua malattia è uno spot. Trump si toglie la mascherina

Donald Trump gioca in campagna elettorale la carta del supereroe che sconfigge il coronavirus con i suoi super-poteri: si proclama “invincibile”, lui che ha beneficiato di terapie d’avanguardia non accessibili al cittadino qualunque, e twitta che il Covid-19 “nella maggior parte dei casi è meno letale” dell’influenza, un dato puntualmente smentito dai media: in sei mesi il coronavirus ha fatto negli Usa più morti (oltre 210 mila) che l’influenza in cinque anni (178 mila).

Chi s’aspettava un magnate presidente ‘ammansito’ dall’esperienza della malattia è rimasto deluso: “La stagione dell’influenza sta per arrivare. Ogni anno, l’influenza fa anche oltre 100 mila morti, nonostante il vaccino. Chiudiamo per questo il Paese? No, abbiamo imparato a convivere con essa, proprio come stiamo imparando a convivere con il Covid, che per gran parte della popolazione non è letale”, ha ieri twittato. Il suo post è stato segnalato come “fuorviante e potenzialmente dannoso”. L’operazione ‘mitizzazione’ è partita subito dopo il rientro di Trump alla Casa Bianca dall’ospedale, dov’è rimasto appena 72 ore: ne era parte il gesto studiato con cui il magnate presidente, tuttora positivo e contagioso, s’è tolto la mascherina, sotto il portico della sua residenza, poco dopo essere sbarcato dal MarineOne sul South Lawn.

La scelta di Trump di togliersi la mascherina è stata letta da molti come un atto di sfida, del resto confermato dai messaggi del presidente nel lasciare l’ospedale. I sanitari confermano che il magnate non presenta più sintomi: “Questa mattina il team dei medici del presidente si è incontrato con lui. Ha avuto una notte tranquilla a casa e oggi non riporta alcun sintomo”, scrive Conley, medico della casa Bianca. La campagna del candidato repubblicano ha diffuso un video che ne celebra il trionfo sul Covid-19, nonostante i medici mettano in guardia sul rischio di ricaduta. La clip, una parodia di una partita di football americano tra i San Francisco 49ers e i Philadelphia Eagles, mostra un attaccante dei 49ers con la faccia del presidente evitare un difensore con la testa da coronavirus e fare touchdown. Segue un balletto di esultanza: uno spot muscolare in sintonia con l’immagine di “eroe invincibile.” Il presidente ha proseguito di buon mattino dalla Casa Bianca l’offensiva di tweet lanciata lunedì mattina dall’ospedale militare Walter Reed, attaccando il suo rivale, il candidato democratico Joe Biden, sull’aborto e sulla Corte Suprema. Biden non è, però, rimasto passivo: ha twittato “Masks matter”, le mascherine contano, “Salvano vite”, in aperto contrasto con l’immagine di Trump che, appena tornato alla Casa Bianca dal Walter Reed, si toglie la protezione dal viso. Troppo presto per dire se il presidente supereroe, che probabilmente galvanizza il suo elettorato, farà presa anche sugli indecisi e sui moderati.

Negli ultimi giorni, di sondaggio in sondaggio, Biden ha visto il suo vantaggio su Trump ampliarsi: secondo l’ultimo rilevamento nazionale della Cnn, che tiene conto del dibattito del 29 settembre e della malattia del magnate, il 57% degli elettori propende per il candidato democratico e il 41% per quello repubblicano. Confermato il duello in tv questa notte fra il vicepresidente Mike Pence e la candidata democratica alla vicepresidenza Kamala Harris: i due saranno separati da un pannello di plexiglass, per ridurre al minimo i rischi di contagio. E Trump annuncia che ci sarà il 15 al dibattito a Miami con Biden. Continua, intanto, il braccio di ferro sui vaccini tra la Casa Bianca e la comunità scientifica: Trump vuole che il vaccino arrivi prima del voto e ha bloccato le nuove linee guida della Food and Drug Administration (Fda), l’agenzia del farmaco Usa, sul- l’immissione sul mercato dei vaccini anti – coronavirus, che ne avrebbero di fatto impedito l’approvazione prima del 3 novembre. L’Fda prevedeva che i partecipanti ai trial clinici di massa fossero monitorati per due mesi, perché non insorgano effetti collaterali e per avere la garanzia che la copertura sia duratura. Nonostante la posizione della Casa Bianca, la Fda replica che le compagnie farmaceutiche sono a conoscenza degli standard e prevede che li rispetteranno. Ma Trump è determinato a ottenere l’autorizzazione di un vaccino prima dell’Election Day, nonostante gli esperti lo ritengano assai improbabile.

Quei giorni al mare con Pasolini

Non ho mai saputo se con Moravia o Dacia Maraini o Siciliano vi sia stato un legame di confidenza, non ce lo siamo mai detto. Nel nostro rapporto prevaleva da un lato una vibrazione politica che rendeva molto alto e teso il reciproco interesse di eventi e parole. Dall’altro faceva da guida la celebrità pubblica di Pasolini, tra Comunisti e Radicali, tra cinema e romanzo, tra comizio e dichiarazione, fra arresto e trionfo mondano.

Due giorni prima dell’intervista era arrivata la chiamata telefonica, non un amico, un tecnico della produzione, che ci avvisava che nel pomeriggio alle tre un gruppo di poche persone avrebbe visto il primo montaggio del film. (…) Avremmo imparato che la dimensione feroce del fascismo era diversa persino dalle storie e dalle esaltazioni della Resistenza. Avremmo capito ciò che Pasolini ha visto nitido e terribile: uno spazio al di là della storia dove il male ha dimensioni che sono diverse dalla narrazione del male, un calmo eccesso di sadico approfittare dei corpi per arrivare, attraverso l’estrema umiliazione, a una misura ultima, quasi spirituale di malvagità, come una santità rovesciata. (…) Ricordo un senso di smarrimento del piccolo pubblico (sei o sette persone tra cui Moravia) di quella domenica pomeriggio nella minuscola, mal ridotta sala di proiezione. C’era qualcosa di clandestino e qualcosa di intollerabile, qualcosa di nascosto, come dire che cose così non sono consentite, non sono possibili, e non saranno viste altre volte. Una cosa sai di non poter promettere: “Non accadrà mai più”. (…) Uscendo dalla sala di proiezione de Le 120 giornate di Sodoma, nessuno di noi parlava. Nessuno di noi si è fermato per commentare o discutere. Il senso del tempo reale e della attualità degli eventi rendeva impossibile la conversazione e lo scambio di opinioni. Quel film aveva il potere tremendo di imporre una verità che conoscevi bene e avevi smesso di raccontare. Era un documento e una prova, non un racconto. Ma aveva anche la forza tremenda della profezia. (…)

Nel periodo dell’intervista vedevo Pasolini abbastanza spesso. Una delle ragioni era il rapporto frequente con Moravia, Dacia Maraini, Enzo Siciliano, i suoi veri amici del “mondo di qua”, quando “non scendeva all’inferno” (espressione che ha usato nella mia intervista). Certo, aveva zone di protezione create dall’affetto che lui sapeva generare (un misto di intensa simpatia ricevuta e di empatia donata). Ma nel mondo delle lettere, che allora era anche società romana, società italiana, erano loro (Moravia, Maraini, Siciliano) che arrivavano con Pasolini. O ti portavano da Pasolini. Oppure Pasolini li raggiungeva, e dunque raggiungeva anche noi.

Al mare, per esempio. Le case erano quelle di Alberto e Dacia oppure la nostra, di Alice e mia, tutte e due a Sabaudia. Se Pasolini veniva senza preavvertire, e Moravia e Dacia non c’erano, Pasolini veniva da noi, e doveva accettare due rituali, l’ammirazione devota della ragazza che in quel periodo ci aiutava con la nostra bambina piccolissima (la ragazza era una lettrice appassionata di letteratura). E la bambina, che riusciva già ad arrampicarsi, andava a sistemarsi sulle ginocchia di Pasolini, forse perché le piaceva il tono di voce sempre uguale, venato di una certa dolcezza (persino nel colmo di un disaccordo, tipo i dibattiti sul progresso), sempre sereno (parlo di tono) di questo visitatore a cui era ormai abituata, e a cui evidentemente dava la preferenza. Non erano giorni facili. Ma prima di narrare, vorrei provare a dire che amicizia c’era tra me e Pasolini, visto che io ero “avanguardia” e “Gruppo 63” nel mondo letterario di allora, e Pasolini sembrava essere (o poteva essere descritto come) un tradizionalista legato ai tempi e ai costumi della vita pre-industriale.

Non gli interessava il padrone buono. E non aveva illusioni sul capitalismo. Gli interessava che tu fossi padrone di te stesso. E non vedeva il benessere come percorso del grande cambiamento. Temeva invece il distacco delle persone da se stesse. Nel linguaggio della sua conversazione essere te stesso voleva dire non arrendersi, non piegarsi, non rinunciare e adattarsi educatamente ai tempi gentili e insidiosi, dove puoi essere trasportato in un mondo che non conosci e non ti riguarda, e, nonostante la finzione, non si occupa affatto di te ma ti abbandona appena possibile dopo averti usato. (…) Come arrivavamo a questo conversare intenso e quieto intorno a un grande spazio vuoto (la nostra differenza sulla modernità, il progresso, lo sperimentalismo, in letteratura e nella vita), le volte in cui eravamo soli con lui, se Moravia e Dacia e Siciliano tardavano o non arrivavano? (…)

Il nostro appuntamento era stato facile. Era bastata una telefonata due giorni prima. L’occasione era l’uscita del primo numero di Tuttolibri, primo giornale dedicato a libri e letteratura in Italia e legato al quotidiano La Stampa. (…) Il giorno (il pomeriggio) della nostra intervista Pasolini era già seduto (nella sua casa all’Eur) in fondo a una grande stanza, dietro un tavolo che mi sembrava piccolo, pensando che doveva esserci posto per scrivere versi, cominciare un articolo, rivedere un testo già pubblicato, annotare un copione, buttare giù gli appunti per un nuovo lavoro o una risposta o un improvviso intervento. Pasolini mi sembrava anche diverso, più concentrato e serio, più lontano, come andare a un esame da un professore amico che però, da esaminatore, non vuole variare i criteri del normale giudizio. Aveva sul tavolo, dalla stessa parte, due cartelline senza intestazioni che, evidentemente, contenevano poche pagine. Aveva dei fogli bianchi su cui non ha mai scritto nulla. Guardava me o meglio, verso di me, ma anche, di tanto in tanto, verso uno spazio più largo, come un fondale di cui ero parte o che comunque era alle mie spalle, e in cui sembrava vedere segnali da tener d’occhio.

Pasolini mi appariva una sentinella affacciata su un mondo di cui, da solo, conosceva il pericolo, e considerava suo compito avvisarci in tempo. Mi parlava come dettando, frasi brevi, nette, frammento di un annuncio, non di conversazione. In chi annuncia un evento inatteso, specialmente se tragico, c’è sempre una forma, anche involontaria, anche inconscia, di compiacimenti per il privilegio della comunicazione esclusiva. Non in Pasolini. L’annuncio non prevedeva obiezioni ma non aveva niente di assoluto. Aveva se mai la tristezza medica di un verdetto che non si può cambiare e che non dipende dalla solidarietà e dall’affetto. Il fatto è già avvenuto. Gli era facile e naturale, nel suo modo interessato di ascoltare, raccogliere le domande. Ma la risposta non era alla domanda, era il seguito della dichiarazione, quell’annuncio “siamo tutti in pericolo” che è stato dato non dalla politica o dalla informazione ma dall’istinto di un poeta che sta già vedendo le cose che accadono. Tragici eventi che accadranno dopo, che accadono anche adesso mentre scrivo queste righe su quell’ora e quel giorno, erano già parte di quella intervista-annuncio. Era come se sentisse il peso della sua responsabilità. Conoscevo la sua conversazione, mai allegra ma sempre con una sua equilibrata serenità. Qui, quando ti diceva “tu non sai neanche chi, in questo momento, si sta preparando ad ucciderti” ti avvertiva di un cambiamento pericoloso e profondo che non dipendeva dal ragionare, confrontare, discutere. Dipendeva dal capire in anticipo ciò che in ogni caso sarebbe accaduto.