Dati gonfiati, zero benefici. Il dossier che stronca il Tav

Una sonora bocciatura. Il Tav Torino-Lione è un progetto che non sta in piedi dal punto di vista economico, perché è basato su previsioni di traffico del tutto irrealistiche; dal punto di vista ambientale, su valutazioni del tutto fantasiose. A dirlo non è un militante del movimento No-Tav, ma il professor Yves Crozet, specialista in economia dei trasporti dell’Università Lione 2, in una nota redatta su richiesta della Corte dei conti europea (che ha poi inserito anche le osservazioni di Crozet nella “Relazione speciale” del 16 giugno 2020 sulle infrastrutture di trasporto dell’Unione europea).

Il professor Crozet è netto: “La galleria Lione-Torino è un tipico esempio di manipolazione del calcolo economico in cui, oltre alla sopravvalutazione del traffico, vi sono valutazioni fantasiose dei guadagni in termini di emissioni di Co2. Una volta rivisti, i dati del calcolo economico danno al progetto un quadro completamente diverso”. Il tecnico offre anche una spiegazione della “manipolazione”: “I promotori di grandi progetti infrastrutturali devono produrre dati per convincere i responsabili delle decisioni e i finanziatori. Nel caso dei finanziamenti privati, essi tendono in genere a gonfiare le previsioni di traffico da un lato e a sottovalutare i costi di attuazione dall’altro”. Esempio: il tunnel costruito sotto la Manica per collegare Francia e Gran Bretagna: “L’analisi ex-post condotta su Eurotunnel ha evidenziato che, al fine di aumentare la redditività potenziale dell’operazione, il traffico è stato gonfiato con flussi attesi da tutta Europa, oltre a quelli previsti tra Londra e Parigi. Nel caso di progetti che non hanno un ritorno finanziario, ma che sono giustificati da motivi ambientali, è il ritorno socioeconomico stimato che viene gonfiato dai promotori del progetto. Il finanziatore pubblico deve essere convinto che è nell’interesse della comunità finanziare l’operazione”. Ecco perché, a proposito del Tav, è stata fatta, da una parte, una “sopravvalutazione del traffico” e, dall’altra, “valutazioni fantasiose dei guadagni in termini di emissioni di Co2”.

Il traffico. Gli studi indipendenti, dice Crozet, dimostrano che “il traffico di transito è crollato nei tunnel franco-italiani. Rimangono alcuni flussi Francia-Italia, ma i flussi tra l’Italia da un lato e il Regno Unito, il Benelux o la Germania dall’altro sono stati dirottati verso altre direttrici, attraverso la Svizzera o l’Austria”.

È possibile e auspicabile – si chiede allora Crozet – attrarre questi flussi verso il territorio francese? Per rispondere, analizza le previsioni di traffico dei promotori del progetto. Dicono che, nel 2035, il traffico merci su rotaia supererà i 41 milioni di tonnellate all’anno. Quasi 14 volte il traffico attuale. “Come si possono prendere sul serio tali dati, se si basano su uno scenario di riferimento non realistico?”. La stima dei promotori è il triplo di quanto è realmente successo negli ultimi 30 anni. Il traffico dovrebbe aumentare del 7,6 per cento all’anno. Ma tutto il movimento merci attraverso le Alpi, su strada e su ferrovia, tra il 1984 e il 2014 è aumentato ogni anno soltanto del 2,6 per cento. “Come potremo fare tre volte meglio”, si chiede Crozet, “del trend degli ultimi 30 anni?”. E ancora: “Quale bacchetta magica potrebbe essere usata per raggiungere” l’obiettivo di un aumento del traffico ferroviario fino ai 28 milioni di tonnellate, quasi 10 volte il traffico attuale, “quando, tra il 2000 e il 2016, il traffico merci ferroviario in Francia è diminuito del 40 per cento?”. Secondo i promotori del Tav, il traffico ferroviario nel 2035 sarà 65 volte superiore a quello del 2004: “Una cifra più che ottimistica”, conclude Crozet.

Le emissioni di Co2. Con il tunnel Torino-Lione – sostengono i promotori – ci sarà un notevole abbattimento delle emissioni di anidride carbonica, perché le merci non viaggeranno più su strada, ma sulla nuova linea ferroviaria. Ma i promotori – ribatte Crozet – da una parte, come abbiamo visto, sopravvalutano il traffico, dall’altra sottovalutano le emissioni prodotte nella costruzione del tunnel, che saranno di ben 9 milioni di tonnellate. Secondo gli stessi promotori del progetto, il bilancio della Co2 diventa positivo solo nel 2037, quasi 25 anni dopo l’inizio dei lavori.

Ipotizzando 900 mila camion il cui carico sia trasferito su ferrovia, si ottiene un risparmio di 362.700 tonnellate all’anno: 6,9 volte inferiore ai 2,5 milioni di tonnellate/anno indicati dai promotori. Con questo risparmio, “ci vogliono 25 anni per compensare i 9 milioni di tonnellate” di Co2 prodotti dalla costruzione del tunnel in Val di Susa.

“Il risparmio di anidride carbonica diventerà quindi evidente solo verso la metà del Ventunesimo secolo. E 20 anni dopo, il risparmio sarà di circa 7 milioni di tonnellate, 10 volte meno di quanto annunciato dai promotori del progetto”. Questo dando per buone le ipotesi più che ottimistiche sul trasferimento del traffico dai camion al treno: “Se il traffico fosse solo la metà di quello annunciato (450 mila camion invece di 900 mila), ci vorrebbero quasi 50 anni di traffico per compensare solo le emissioni legate alla costruzione del tunnel”.

Dalla Lombardia alla Sicilia: Matteo battuto ovunque

Stavolta “l’Alberto” – come lo chiamano i leghisti della prima ora – non è bastato. A Legnano oggi rimane solo la statua dell’eroe, Alberto da Giussano, che il 29 maggio 1176 respinse l’ultima avanzata di Federico Barbarossa. “La Lega di poche città rivendicò contro la maestà dell’impero la libertà del Comune” recita l’epigrafe di piazza Monumento. Di leghista non c’è rimasto altro. Le spille con lo spadone all’insù, le cene carbonare del 1984 per far nascere la “Lega Autonomista Lombarda” e le “schioppettate che abbiamo dato al Barbarossa”, per dirla con Umberto Bossi, sono solo un lontano ricordo. Il mito e l’autobiografia di un partito sono crollati come un castello di carte di fronte a un manager di 40 anni che si occupa di sociale, Lorenzo Radice. Legnano è caduta. Dopo 25 anni di governi del Carroccio, e dopo l’arresto del sindaco Gianbattista Fratus del maggio 2019, la Lega perde la sua piccola capitale. Una sconfitta che brucia ancora di più se in questo comune da 60mila abitanti nell’Alto milanese la sfida elettorale aveva tutti i crismi del leghismo d’antan: contro il giovane dem Radice correva Carolina Toia, ex consigliera regionale fedelissima di Roberto Maroni, e la sfida era già vinta visto che al primo turno la candidata del Carroccio aveva superato di 10 punti il giovane manager (41-31%). Al ballottaggio, la débâcle: 54 a 46% per i dem.

La sconfitta della Lega alle Comunali però esonda dal cuore della Padania a tutta la Lombardia: 7 a 2 per il centrosinistra. E dopo Mantova, al ballottaggio il Carroccio perde anche a Saronno, Corsico e Lecco conquistando solo Viadana (Mantova) e Voghera (Pavia). Tanto basta per far parlare di “Lombardia contendibile” al centrosinistra. Forse un po’ azzardato ma sempre più sincero del segretario regionale leghista Paolo Grimoldi che, più realista del re, attribuisce la batosta al “maltempo e ai contagi a livello nazionale”. Smentito ieri dallo stesso Salvini: “In Lombardia ci sono dati su cui riflettere” chiosa. Ma, in base alla proprietà transitiva, se la Lega straperde nel suo feudo storico, figuriamoci che risultati può fare al Sud. E infatti.

Il dato generale è eloquente: sui 98 comuni sopra i 15.000 abitanti in cui si andava a votare, nel bilancio finale la Lega ne perde 7 (da 41 a 34) mentre il centrosinistra passa da 41 a 51. Va ancora peggio ai ballottaggi: sui 18 capoluoghi di provincia, ne vince solo 3 (Venezia, Macerata e Arezzo) perdendone 10, da 27 a 17. Tra i comuni in cui si è andati al secondo turno, oltre alle città lombarde, pesano come un macigno le sconfitte in quelli governati dal centrodestra: Andria, Matera, Chieti e la più piccola Cascina, prima roccaforte rossa in Toscana strappata nel 2016 da Susanna Ceccardi. Un’èra geologica fa. Dopo la batosta della zarina alle Regionali, gli elettori hanno respinto il suo fedelissimo ed ex assessore Leonardo Cosentini contro il candidato giallorosa Michelangelo Betti. Bruciano le sconfitte anche a Reggio Calabria dove Matteo Salvini aveva puntato molto, e Lecco, cuore lùmbard conquistato dal centrosinistra nel 2015. Pesa anche la sconfitta a Terracina dove al ballottaggio vince Roberta Ludovica Tintari (FdI) e a Bolzano dove i meloniani accusano i compagni di essersi appiattiti sulla Svp. Ma il dato che fa tremare Salvini è quello generale: il Carroccio guadagna due punti rispetto alle comunali del 2015 (dall’11,8 al 13,4%) e dimezza la percentuale delle europee di un anno fa: dal 28,6% al 13,4%. FdI invece fa il doppio del 2015: da 3,8 a 8,1%.

Non solo il Carroccio vince sempre meno al nord ma non sfonda al sud. Delle città più importanti vince solo a Taurianova (Reggio Calabria), ma fallisce l’operazione Sicilia dove Salvini aveva deciso di far correre la Lega in autonomia nei grandi centri: a Milazzo, Augusta e Marsala vince il centrodestra senza il Carroccio che non arriva al ballottaggio e non supera mai la doppia cifra. “Il ballottaggio ci penalizza – ammette il responsabile Enti Locali Stefano Locatelli – tutti si coalizzano contro di noi. Dove abbiamo fatto errori, la prossima volta faremo meglio”.

Taurianova. Dopo il rosario, lo “scapolare”

Ha perso a Crotone. Ha perso a Reggio Calabria, dove i salviniani avevano puntato su Nino Minicuci e sono affogati nello Stretto dopo essere stati asfaltati dal sindaco uscente, Giuseppe Falcomatà (Pd). Ma Matteo Salvini voleva la sua “vittoria di Pirro” e l’ha trovata a Taurianova. Il suo candidato Roy Biasi, ex Forza Italia, ha vinto con 4mila voti in un paesino di 15mila abitanti. Al primo turno, la Lega ne ha presi meno della metà (1.456) in quella che è la città di Nino Spirlì, il vicepresidente leghista della Calabria che a Catania ha rivendicato il diritto di usare termini come “negro”, “frocio” e “ricchione”. E ieri c’era pure lui, con lo scapolare della Madonna del Carmine sulle spalle (nella foto), ad attendere Salvini sotto il palco. Salvini non commenta le uscite “infelici” del suo fedelissimo: “Ragazzi mi fate festeggiare? Vincere qui significa mettere un mattoncino importante”.

Le bandiere della Lega sono alte, ma non fanno rumore. Lo fanno, invece, i contestatori. Metà della piazza è loro. Cantano “Bella ciao” e lo invitano ad andarsene. Gli striscioni sono un pugno nell’occhio per l’ex ministro costretto a leggere che “i veri terroni non dimenticano”.

I fischietti disturbano il comizio. “Non sanno neanche cosa si fischiano”, sbotta dal palco il neo sindaco Biasi. Salvini, invece, invita i suoi fan a “comprare e mangiare solo italiano”: “Chi mangia bene, cresce bene. Chi mangia male cresce come quelli là”.

“I suoi hanno mangiato sicuramente peggio rispetto a noi”, gli replica una contestatrice quando è finito lo show. “In Calabria siamo 2 milioni e Salvini viene qui per festeggiare la vittoria per soli 4mila voti. Deve andare via”.

È sempre TeleSalvini: schermi pieni, urne vuote

Una delle ragioni per le quali i dati che l’Agcom pubblica ogni mese sul pluralismo in tv spesso non lasciano traccia nell’opinione pubblica è anche perché non sono mai stati di immediata leggibilità. Roberto Zaccaria nel suo Rai. Il diritto e il rovescio (lettura consigliata ) rileva come una dettagliata tecnicalità alla fine rischi di risolversi in una quasi impossibile decodifica.

Mancano le sanzioni dell’Autorità

Uno sforzo di chiarezza per la verità l’Autorità da qualche tempo lo fa pubblicando un utilissimo elenco dei 20 politici che più parlano sia nei tiggì sia nei programmi. Tabelle che meglio danno la possibilità di capire cosa funziona e cosa no nel pluralismo italico, anche se poi però l’Agcom di quei numeri non sempre trae le debite conseguenze, leggi sanzioni. Le ultime rilevazioni, poi, quelle relative alla campagna elettorale e referendaria, sono giunte parcellizzate sia cronologicamente sia nei contenuti. Non si poteva fare diversamente, ma il risultato è stato che le cose si sono complicate non poco per il lettore, con qualche effetto distorsivo in più. Abbiamo provato a districarci nella selva di numeri e grafici dei 5 tabulati del monitoraggio 6 agosto-19 settembre, esattamente quello regolato dalla par condicio, un lavoro non semplice ma dal risultato impressionante alla luce della normativa vigente. Ebbene c’è un leader che ha goduto nelle principali reti nazionali di una esposizione abnorme, mostruosa, e, perché no, illegittima, e questo leader è Salvini. Il quale nei tg e nei talk ha sommato un tempo di parola di 676 minuti, cioè oltre 11 ore di chiacchiera, doppiando tutti gli altri compreso il pur esposto premier, lontanissimo con 5 ore e poco più davanti a Renzi e Di Maio. Il distacco di Salvini dagli altri leader è siderale: non solo su Zingaretti (3 ore in tutto) ma anche su Meloni (2h 47’) senza dire di Taiani (95 minuti) o Berlusconi (79’). In questa già incredibile situazione alla vigilia di un voto importante, la seconda stranezza appare l’esposizione, benché con numeri nettamente inferiori al leghista, di Renzi, come detto, ma anche di Calenda, entrambi a capo di partiti quasi fantasma; l’ultimo soprattutto grazie alle cure dei talk de La7 che gli garantiscono quasi il totale delle sue quasi 4 ore di video.

Tornando invece ancora all’ex ministro dell’Interno egli nei telegiornali si colloca subito dietro al presidente del consiglio, staccato da questi di pochissimo, ma comunque è davanti a tutti i leader di partito. A garantirgli spazio sono i tg della Rai dove pur primeggia Conte, nonché quello di Mentana dove è dietro Zingaretti ma ben davanti al premier. Non gli va altrettanto bene nei telegiornali Mediaset dove sta dietro sia a Conte sia a Zingaretti e Di Maio. Ma appena si volge lo sguardo ai programmi informativi delle reti berlusconiane ci si accorge dell’inganno: tra agosto e settembre il leghista si rifà con gli interessi, infischiandosene bellamente grazie alla complicità delle testate di qualsiasi par condicio. Sulle reti di Arcore con Meloni e Sgarbi parla quasi quanto tutti gli altri sette di una top ten in cui solo tre sono della maggioranza (compreso il premier). Non da meno è la rete di Cairo, tanto che solo su questa Salvini realizza circa la metà della sua presenza totale in video. E mentre al TgLa7 si nota un certo equilibrio, i talk della rete appaiono completamente piegati alla parola dell’ex responsabile del Viminale che ivi raccoglie oltre 5 ore di parlato. Dietro di lui ancora un esponente dell’opposizione, il citato Calenda chiamato a parlare per quasi 4 ore.

Più distanziati invece qui compaiono i politici del centrosinistra, i quali sono talmente tanti che alla fine nel computo complessivo danno sì la sensazione di un corretto esercizio di pluralismo, ma con l’evidente sensazione che si tratti di una falsa prospettiva, da una parte infatti c’è la comunicazione univoca dell’uomo solo al comando, dall’altra un folto gruppo di leader e leaderini che parlano voci diverse e (non di rado) divise: il che non è esattamente la stessa cosa.

Rizzo e Moretti ospiti fissi al Tg4

Nel bailamme dei numeri e dei nomi di questo pluralismo all’italienne vengono fuori alcune curiosità. Il tempo che il Tg4 concede a Rizzo o alla Moretti, più di Salvini, Conte o Di Maio, il silenzio che il TgLa7 impone a Mattarella, l’amore appassionato di Rete4 per Salvini e Sgarbi, con i due da aprile sempre in testa nei programmi della rete e mai una volta che ci scappasse un altro/a (Meloni a parte). È la tv italiana, bellezza.

Sul Recovery passo avanti, ma i tempi restano incerti

Il giorno dopo l’approvazione della Nota di aggiornamento al Def (che fa da base alla manovra), al Consiglio dei ministri economici dell’Ue il Recovery fund fa un passo avanti. All’Ecofin è infatti passata la proposta tedesca (Berlino ha la presidenza di turno) che ha fatto infuriare diversi Paesi, dall’Irlanda al Lussemburgo all’Olanda. Il tema è la governance del Rff, il piatto forte del piano europeo (per l’Italia vale 65 miliardi di sovvenzioni e 127 di prestiti al 2026). Il testo soddisfa l’Italia, visto che amplia la quota di anticipo delle risorse al 10% del totale dei fondi e non del 70% previsto come stanziamenti entro il 2023. Viene poi leggermente ridimensionato il “freno di emergenza”, cioè la possibilità che hanno gli Stati di stoppare i fondi degli altri se non sono convinti dei progressi sulle riforme e sugli investimenti. Il compromesso tedesco stabilisce che gli sherpa dell’Ecofin hanno quattro settimane per presentare i loro rilievi sui piani, altrimenti la Commissione procederà a raccomandare l’erogazione dei fondi. L’Olanda & C. volevano ridimensionare il ruolo della Commissione, ma incassano almeno che il testo contenga un riferimento esplicito all’aspetto fiscale delle raccomandazioni economiche per i Paesi e alla procedura per gli squilibri eccessivi. Tradotto: un modo per ricordare ai Paesi che quando il Patto di Stabilità tornerà in vigore bisognerà rispettarlo (e con esso la stretta fiscale che dovranno applicare Stati molto indebitati come l’Italia).

Resta invece in stallo la parte più politica del negoziato, che riguarda il rispetto dello Stato di diritto per ottenere i fondi e bloccata al Consiglio Ue per il veto dei Paesi dell’Est, con l’Europarlamento pronto a bloccare tutto se il compromesso non sarà all’altezza. L’appuntamento è per il Consiglio del 15 e 16 ottobre. Senza accordo, il Recovery non potrà partire. Un problema per l’Italia, visto che vale 14 miliardi (di sovvenzioni) sui 36 complessivi della manovra d’autunno (di cui 22 in deficit), ha confermato ieri il ministro Roberto Gualtieri. Che ha poi ribadito i tempi lunghi della riforma fiscale: “Avverrà in un triennio”.

Conflitto di interessi: sì dei giallorosa al testo

Alla Camera tiene l’asse M5S-Pd-LeU per mandare in soffitta la legge approvata nel 2004, regnante Silvio Berlusconi, che di conflitti di interessi finora ne ha evitati o risolti assai pochi. Le nuove norme del testo base adottato ieri dalla commissione Affari costituzionali di Montecitorio si propongono di spezzare a monte interferenze e condizionamenti di interessi privati su una corretta e imparziale azione politica: previsto un regime stringente di incompatibilità anche patrimoniali per i membri di governo e delle autorità indipendenti e l’ineleggibilità di tutta una serie di soggetti che per il mestiere svolto in precedenza o per la funzione ricoperta potrebbero risultare condizionati nell’esercizio del mandato in Parlamento.

Contrarissima l’opposizione targata Lega-Fratelli d’Italia-Forza Italia, mentre Italia Viva ha deciso di non partecipare al voto che avvicina lo sbarco della riforma in aula per la sua trasformazione in legge.

Ma sarà guerra già in commissione dove ora si tratterà sugli emendamenti. “Urgono correttivi. Così rischiamo di avere un Parlamento di incapaci o di professionisti della politica. Insomma, rimarrebbero solo gli esponenti del M5S” tuona il capogruppo del Carroccio in Affari costituzionali, Igor Iezzi. Ma gli fa eco anche il renziano Marco Di Maio, nostalgico di un certo “maanchismo” di veltroniana memoria, che anticipa lo scontro in seno alla maggioranza. “La disciplina del conflitto d’interessi rappresenta un tema cruciale per il nostro Paese, ma il rischio di cadere nella tentazione di strumentalizzarne la portata e dare vita a scelte ideologiche che penalizzerebbero una parte dei cittadini, è assai concreto”. Per la verità anche in una parte dei dem c’è qualche perplessità: il ministro degli Affari regionali, Francesco Boccia, ad esempio, insiste da tempo su una riforma che consideri anche i conflitti di interessi digitali, leggasi Casaleggio&Associati. Insomma nella partita appena iniziata, ci sono tutti gli ingredienti per uno scontro all’ultimo sangue con il centrodestra, ma anche per qualche tiro sotto la cintura tra alleati di governo.

“Chi vuole fare politica nell’esclusivo interesse dei cittadini non ha nulla da temere da questo testo” dice Giuseppe Brescia, pentastellato e presidente della Commissione Affari costituzionali, che poi rivendica la battaglia, senza paura di irritare gli alleati: “Dopo anni di fallimenti spetta al Movimento 5 Stelle indicare questa priorità a tutta la maggioranza. Siamo pronti a discutere su come migliorare il testo, ma serve un impegno chiaro per far entrare in vigore questa legge dal 1° luglio 2021”. Ma qual è la sfida? Portare a casa una riforma che impedisce per esempio a chi è al governo di svolgere qualsiasi tipo di impiego o detenere personalmente o per interposta persona di partecipazioni superiori al 2 per cento del capitale di un’impresa che sia titolare di diritti esclusivi o concessioni o che operi in settori strategici come le comunicazioni, l’editoria o comunque di interesse nazionale. Con una serie di divieti, obblighi e sanzioni per scongiurare che si avvantaggi della carica durante il mandato e pure dopo anche nel caso si tratti di amministratori di regioni e comuni. Questi ultimi diventano poi ineleggibili in Parlamento come gli alti funzionari dello Stato, i rappresentanti in imprese in regime di autorizzazione o di concessione o finanziate con contributi pubblici, i direttori di testate giornalistiche, mentre per i magistrati è prevista la fine delle porte girevoli con la politica. Una sfida titanica.

Il nuovo dl Sicurezza: non solo migranti, anche Daspo e 41 bis

Le modifiche ci sono e anche consistenti. Non si tratta di un’abrogazione delle norme sulla sicurezza varate dal governo Lega-M5S, ma di una rivisitazione significativa sui temi dell’immigrazione con novità su altri fronti, dal nuovo reato previsto per l’introduzione clandestina dei telefoni nelle carceri all’inasprimento della pena per chi agevola i detenuti in regime di 41-bis. Partiamo da qui.

Cellulari in carcere: pena
da 1 a 4 anni

Fino a oggi s’è trattato di un illecito disciplinare sanzionato all’interno di ogni penitenziario. Ma quanti telefoni passano all’interno delle nostre carceri? In media – nel 2020 – parliamo di 6 apparecchi al giorno: 1.761 fino al 30 settembre. C’è chi li lancia nei cortili all’interno di un pallone, chi li trasporta con i droni, chi li introduce nel proprio corpo. Il reato prevede la punibilità non solo per chi riceve il telefono, ma anche per chi lo porta all’interno del penitenziario. E soprattutto: potendo aprire un fascicolo d’indagine sarà possibile anche analizzarne i tabulati. Pena prevista: da 1 a 4 anni.

41 bise comunicazioni esterne: da 2 a 6 anni

Aumenta la pena (fino a oggi da 1 a 4 anni) per chi agevola i detenuti al 41-bis: passerà da 2 a 6 anni. Se il reato è commesso da un pubblico ufficiale, un incaricato di pubblico servizio o un avvocato, la condanna sale dai 3 ai 7 anni.

Daspoe risse salgono reclusione e multe

Chi negli ultimi tre anni ha subìto denunce per reati commessi in pubblici esercizi può essere sottoposto al divieto di accedere ai locali pubblici. In alcuni casi il divieto può essere steso all’intera provincia. Per chi vìola il divieto la reclusione sale da un anno a 2 e la multa da 8mila a 20mila euro. Se fosse stata già in vigore, i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, accusati dell’omicidio di Willy Monteiro, ammazzato a Colleferro, avrebbero in teoria potuto ricevere il Daspo per i loro precedenti.

Multeridotte per le Ong
che violano i trattati Onu

Scompaiono le multe milionarie per le Ong – le operazioni di soccorso devono però essere immediatamente comunicate e rispettose delle indicazioni della competente autorità per ricerca e soccorso in mare – che si riducono alla soglia tra i 10 mila e i 50 mila euro se viene violato il “Protocollo addizionale della Convenzione delle nazioni unite contro la criminalità organizzata transnazionale per combattere il traffico di migranti”. Marco Bertotto di Medici Senza Frontiere: “Il nuovo decreto si limita a ridurre, anziché eliminare, le multe alle Ong ma non abbandona il messaggio propagandistico che criminalizza le organizzazioni che effettuano soccorso in mare”.

Il sistemadi accoglienza e integrazione”

Protezione internazionale: vietate espulsione e respingimento – si accede al permesso di soggiorno per protezione speciale – quando il rimpatrio, oltre al rischio tortura, comporta quello di trattamenti inumani o degradanti o si vìola il diritto al rispetto della vita privata e familiare. In arrivo i permessi per calamità, residenza elettiva, acquisto della cittadinanza o stato di apolide, attività sportiva, lavoro di tipo artistico, motivi religiosi e assistenza ai minori. Nasce il “Sistema di accoglienza e integrazione” che in futuro si occuperà anche dei richiedenti protezione internazionale e di chi ne è titolare.

“Stati generali: i capi non contano, l’ultima parola a Rousseau”

Il reggente lo giura: “A decidere contenuto e direzione degli Stati generali non saranno le figure apicali del M5S, ma un processo partecipato dal basso in cui tutti avranno spazio”. Chissà se e quanto pecca di ottimismo il capo politico dei 5Stelle, Vito Crimi, presentando il percorso congressuale che culminerà in un’assemblea “fisica” a Roma il 7 e l’8 novembre: “Non deliberante”, però. A decidere cosa sarà il nuovo M5S, a cominciare dalla guida politica, sarà poco dopo l’assemblea degli iscritti sulla piattaforma Rousseau.

Chi parteciperà all’assemblea di Roma?

Potranno partecipare i rappresentanti scelti dai vari territori, dove si terranno assemblee per discutere ed elaborare documenti sui vari temi. L’idea è che possano essere indicati attivisti come eletti di vario ordine e grado: persone legittimate.

Anche i ministri?

Sì, a patto che vadano ai tavoli territoriali e vengano scelti.

Che tempi prevede per le assemblee locali?

Lo concorderò con i facilitatori regionali: orientativamente negli ultimi weekend di ottobre. Saranno riunioni regionali, o interprovinciali nel caso delle Regioni più grandi.

Lei nominerà un comitato organizzativo, giusto?

Non lo definirei così, è troppo formale. Sarà un gruppo di supporto. Chiederò ai capigruppo delle Camere, ai portavoce regionali e ai sindaci di fornirmi dei nomi che rappresentino le varie anime del M5S.

Quanti rappresentanti si riuniranno a Roma?

Va stabilito, tenendo conto del Covid. Pensiamo attorno alle 300 persone.

Se non decideranno, cosa faranno?

Discuteranno su tre ambiti, i temi da mettere al centro dell’agenda politica, dell’organizzazione migliore per realizzarli e delle regole, sulla base delle indicazioni territoriali. Dovranno preparare un documento finale di sintesi che andrà votato dagli iscritti su Rousseau. Penso a una full immersion dalle 9 alle 22 di sabato, fino alla domenica mattina. Nel pomeriggio dell’8 novembre invece ci sarà invece un’assemblea, trasmessa anche in streaming . Un momento di dibattito, aperto anche ad altre persone, che potranno parlare dopo aver ricevuto il via libera degli iscritti sul web.

Vista l’aria, rischiano di venire alle mani.

Ma no. L’obiettivo è avere un testo approvato con consenso unanime, che ovviamente sarà di indirizzo e non dettagliato. Ma se ci saranno posizioni contrastanti potranno confluire nel documento finale.

La scelta tra un capo politico o una segreteria ci sarà sulla piattaforma Rousseau solo dopo l’assemblea di Roma?

Sì.

Vi serviranno più voti per scegliere chi e come potrà candidarsi.

Si stabilirà in base alle indicazioni dei territori e dell’assemblea. Se si optasse per un organo collegiale, dovrà comunque prevedere un primus inter pares, cioè un rappresentante legale che faccia le veci del capo politico.

Sul blog delle Stelle lei scrive: “Il documento verrà sottoposto al voto della Rete e della nostra assemblea degli iscritti, che avrà sempre l’ultima parola”. Cioè Rousseau sarà centrale.

È naturale: è la nostra piattaforma, è lì che votiamo.

Però il M5S è in guerra con Casaleggio: rischiate di finire in tribunale, no?

Assolutamente no. Non succederà, non ce n’è motivo.

Casaleggio le ha proposto un contratto di servizio con cui rendere Rousseau un fornitore esterno, ma ha chiesto troppi soldi: è vero?

Mi astengo dal rispondere.

Si è pentito, come presidente del comitato di garanzia, del post con cui avete censurato Casaleggio per aver scritto sul blog delle Stelle? Il blog è suo…

Abbiamo solo precisato che quell’intervento era fatto come presidente dell’Associazione Rousseau.

Cioè era inopportuno.

Lo dice lei.

Domenica nei ballottaggi nei Comuni le alleanze tra M5S e Pd hanno pagato. Dopo il voto utile nelle Regioni, pare la conferma che dovete allearvi con i dem.

Sono fiero di aver avallato i progetti e le proposte che sono dietro quelle intese. Ho verificato tutto, e ho detto anche dei no.

La domanda era se è obbligatorio allearsi.

Dipende dall’obiettivo: se è eleggere un rappresentante che dia voce ai cittadini o governare le città. Se vuoi governare nella maggior parte dei casi non c’è alternativa alle alleanze, a patto che ci siano le condizioni.

Quindi il Pd non è “la morte nera”…

Quella battuta di Alessandro Di Battista si riferiva all’alleanza strutturale. E io francamente non vedo che senso abbia parlare di alleanze strutturali.

Il 21 settembre Luigi Di Maio l’ha accusata: “Le Regionali potevano essere organizzate diversamente per il Movimento”.

Abbiamo fatto un buon lavoro e alla fine abbiamo privilegiato le scelte dei territori. Il criterio è la legittimità delle decisioni.

Elisabetta Spitz, la donna forte del Mose adesso arruola anche l’avvocato ex “nemico”

Poco importa se l’avvocato aveva sostenuto le ragioni di una delle aziende coinvolte nello scandalo Mose, la Grandi Lavori Fincosit di Alessandro Mazzi (arrestato nel 2014), contro governo e Anac, arrivando a un passo dalla vittoria in un contenzioso da 200 milioni. L’architetto Elisabetta Spitz, commissario straordinario per il completamento del Mose, lo ha arruolato ugualmente. E così adesso Damiano Lipani sta dalla parte opposta con un incarico di “supporto legale in materia di acquisti e relazione atti interni normativi e regolamentari” da maggio 2020 a maggio 2021, pagato 60 mila euro dalla commissaria del Mose.

Lipani fa parte dello Lipani-Catricalà & Partners, con socio Antonio Catricalà, ex presidente di sezione in Consiglio di Stato, ex presidente Antitrust, ex sottosegretario nei governi Monti e Letta, nonché candidato da Berlusconi a giudice della Corte Costituzionale nel 2014. A fine 2016 Lipani e Catricalà avevano assistito Grandi Lavori Fincosit di Mazzi contro Viminale, Anac e Prefetto di Roma, davanti al Tar del Lazio perchè Giuseppe Fiengo e Francesco Ossola, amministratori straordinari del Consorzio Venezia Nuova, avevano accantonato gli utili delle imprese consorziate e accusate del grande scialo di denaro pubblico. Era una cautela per future pendenze penali o cause civili di risarcimento, importi considerevoli, visto che dal 2014 sono stati accantonati circa 250 milioni, inducendo altre aziende coinvolte (tra cui la Mantovani) a far causa al ministero e ai due amministratori per 193 milioni, chiedendo di incassare.

Il Tar aveva dato ragione a Fincosit e ai suoi legali, revocando il vincolo. Ma il Consiglio di Stato, a fine 2017, aveva stabilito la legittimità dell’accantonamento, “per scongiurare il paradossale effetto di far percepire, proprio attraverso il commissariamento che conduce all’esecuzione del contratto, il profitto dell’attività criminosa”. Trascorsi due anni, il legale che faceva causa al Consorzio entra nello staff del Commissario, che deve completare i lavori del Mose, per la prima volta in funzione sabato scorso con risultati positivi. Spitz si prepara ora a entrare nella gestione della nuova Autorità per Venezia, approvata con il “decreto Agosto”. Due giorni fa ha dichiarato: “Tra i miei compiti, con la nuova Autorità ci sarà anche la competenza sulla procedura di liquidazione del Consorzio”. È lei la donna forte del Mose.

Don Franco Castagneto, abusi archiviati. Le vittime: “I pm credono solo a Bagnasco”

Don Franco Castagneto ha confessato gli abusi su minorenni commessi quand’era parroco a Sori, borgo della riviera ligure di Levante, tra il 1979 e il 1998. Ma si tratta di reati prescritti, mentre “non è emersa alcuna conferma sulla consumazione di molestie sessuali presso la parrocchia di Albaro, dov’era stato trasferito in epoca più recente”. Lo scrive il procuratore di Genova, Francesco Cozzi, chiedendo al gip l’archiviazione del fascicolo nato dall’inchiesta del Fatto sulla misteriosa rimozione di Castagneto dalla chiesa di Santa Teresa ad Albaro, nel capoluogo. La Procura ha acquisito negli archivi diocesani due relazioni e una missiva, tutte a firma dell’ex arcivescovo Angelo Bagnasco, “che ripercorrono l’attività istruttoria posta in essere dalla Curia riguardo il caso del sacerdote”. È la seconda relazione, del 19 marzo 2019, che contiene l’“ammissione di responsabilità con alcune riserve” espressa da Castagneto in un incontro con lo stesso Bagnasco. Un elemento di prova che si affianca alle denunce sporte alla diocesi negli anni 90, nonché alle nuove testimonianze arrivate alla onlus Rete L’Abuso dopo le rivelazioni del Fatto nel dicembre 2019. Tuttavia, scrive il procuratore, i reati “sarebbero ampiamente prescritti, posto che la condotta delittuosa è da collocarsi tra il 1979 e il 1998”, quando il sacerdote fu trasferito a Genova.

Quanto alla denuncia di Rete L’Abuso su casi più recenti segnalati ad Albaro, la Procura chiede l’archiviazione citando informazioni raccolte dallo stesso cardinal Bagnasco “che dichiara di conoscere e avere molta confidenza con le persone che frequentano la parrocchia, per esservi stato viceparroco per circa 30 anni”. Scrive Bagnasco nella sua relazione: “Da quanto ho potuto raccogliere, non è emerso alcun dubbio o allusione su comportamenti scorretti del parroco; al contrario, ho sentito apprezzamenti e gratitudine per la sua dedizione”. “Pare quasi che alla Chiesa sia stato chiesto di indagare su se stessa”, commenta Francesco Zanardi, presidente di Rete L’Abuso, che intende opporsi all’archiviazione. “Stupisce che la Procura prenda per buona la ricostruzione delle gerarchie ecclesiastiche senza ulteriori approfondimenti. Resta una domanda: perché Castagneto è scomparso dalla sua parrocchia da un giorno all’altro, senza spiegazioni?”.