Lodi, il pedofilo condannato come un omicida

“Ha ucciso l’infanzia di questi bambini” e per questa ragione il pedofilo di Lodi è stato considerato alla stregua di un omicida.

Questa la sostanza dell’importante, esemplare sentenza di condanna pronunciata ieri dal Tribunale di Lodi: 19 anni di carcere per l’uomo originario del Lodigiano accusato di avere adescato su Whatsapp e abusato tre minorenni – tra gli 11 e i 13 anni – fingendosi una ragazzina di nome “Giulia” riuscendo a soggiogarli. La pm Alessia Menegazzo, titolare dell’indagine, aveva chiesto una condanna a 17 anni di carcere per le accuse di violenza sessuale, corruzione di minore, sostituzione di persona e produzione e detenzione di materiale pedopornografico. Il Tribunale ha peraltro stabilito una provvisionale, immediatamente esecutiva, di 100mila euro per una famiglia che si è costituita parte civile nel processo. Stando all’indagine le violenze sono durate ben tre anni, dal 2015 al 2018.

Longhi direttore del Piccolo: nomina irrituale

È andata così: in malo modo, di certo irrituale per il primo Stabile italiano, il Piccolo Teatro di Milano. Il nuovo direttore è Claudio Longhi, dopo mesi di Cda rinviati, boicottati, allargati: l’ultimo coup de théâtre di Salvatore Carrubba e soci è stato di cooptare due nuovi membri – Lorenzo Ornaghi e Mimma Guastoni – per arrivare alla fatidica maggioranza e poter nominare il direttore gradito a Comune e Mibact. Proprio quel Longhi autoesclusosi dalla rosa dei candidati “per ragioni professionali” e poi rientrato in corsa, quando ormai gli altri (Calbi, Fonsatti, Giorgetti e Purchia) erano bruciati, anche per le denunce della stampa, Fatto in primis. Ieri in Cda si sono opposti alla nomina i soliti rappresentanti della Regione (Carcano e Crespi), ma con 6 voti su 8 il board allargato ha potuto serenamente procedere. Già ordinario all’Università di Bologna e alla guida di Ert dal 2017, il prof. Longhi sosterrà ora l’esame più difficile: succedere a Escobar. Prepariamoci a tanto teatro didattico.

L’ultima di Gallera e Fontana: vaccini pagati il quintuplo

Ventisei euro a dose. È il prezzo stratosferico che Regione Lombardia ha accettato di pagare il 1° ottobre 2020 alla Falkem Swisse pur di assicurarsi 400 mila dosi di vaccino quadrivalente antinfluenzale, per un totale di 10.400.000 euro. Un’enormità, se si considera che sul mercato – in condizioni normali, quando cioè si dovrebbero fare le gare per i vaccini antinfluenzali, a primavera – la stessa dose costa in media non più di 5,50 euro più iva. Tanto per esempio l’ha pagata la Regione Puglia a luglio scorso. Ma quando sei con l’acqua alla gola, accetti di tutto. E il Pirellone, rimasto drasticamente a secco di scorte di vaccini, era oltre l’acqua alla gola. Tanto che quest’ultima gara l’aveva indetta il 30 settembre scorso, era partita il 1° ottobre senza però apparire sul sito di Aria (agenzia che si occupa degli acquisti per il Pirellone), è stata chiusa il giorno successivo, cioè il 2 ottobre, ieri è stata aggiudicata definitivamente. Oltre ad aver accettato i 26 euro a dose, la Regione ha anche concesso al venditore termini di consegna delle dosi molto laschi (“entro il mese di novembre”) e ha anche rinunciato alla fidejussione normalmente prevista in questo tipo di contratti. Tutto pur di avere le benedette dosi.

Per capire quanto Gallera fosse in difficoltà, basta pensare che la stessa Regione Lombardia, in una delle tante gare per gli antinfluenzali indette da febbraio a oggi (in tutto 10: oltre a quella di ieri, 4 andate a buon fine, un positiva solo in parte perché non completa e 4 tra annullate e deserte), a luglio scorso era riuscita ad accaparrarsi 200 mila dosi di quadrivalente, la stessa tipologia di vaccino, a 7,70 euro. Ma era un secolo fa. Cosa è cambiato da luglio a ieri? Tutto. Ovvero, la regione più colpita d’Italia dal Covid si è ritrovata con scorte di antinfluenzale insufficienti per coprire le classi a rischio – gli over 65, i bambini da 0 a 6 anni, i malati cronici e gli operatori sanitari -, a causa di gare annullate per il tentativo di risparmiare o andate a vuoto a causa della mancanza di concorrenti. Il 23 marzo scorso, per esempio, Aria annulla una gara per 1,3 milioni di dosi perché giudica il prezzo proposto dall’unico partecipante – 5,9 euro a dose – troppo alto rispetto alla base d’asta fissato 4,5 euro . Ma è solo uno degli innumerevoli errori di una campagna acquisti fallimentare. Tanto che oggi, secondo i dati di Aria, il Pirellone dispone di circa 2,8 milioni di dosi di vaccino, contando anche quelle appena aggiudicate. Tuttavia la platea è molto più vasta: solo i bambini 0-6 anni, secondo l’Istat, sono 577.960, mentre gli over 60 sono 2.933.291. A questi vanno poi aggiunti i cronici e i sanitari. Il Pd aveva stimato in almeno 5 milioni il fabbisogno. Forse un po’ troppo, ma di sicuro molto più ampio della disponibiltà.

Di sicuro non saranno vaccinati i dipendenti della sanità privata – ai quali per la prima volta non sarà dato il vaccino dalla Regione – né gli operatori delle Rsa, dove si vivrà il paradosso di pazienti vaccinati ma il personale no. Idem per i dipendenti del comune di Milano. Ma per Gallera va tutto bene, tanto che solo ieri dichiarava: “Si partirà nella seconda metà di ottobre, stiamo definendo le date precise, la macchina è pronta. Regione Lombardia si è mossa addirittura presto, arriva nel momento giusto ad avere le dosi giuste di vaccini. Il vaccino si fa tra fine ottobre e novembre”.

Salvini dopo la cena-focolaio: l’isolamento è solo “consigliato”

Matteo Salvini deve fare il tampone e restare in isolamento. Anzi, no. Mentre a Terracina (Latina) i reduci della cena elettorale del 25 settembre (ma non solo loro) affollavano il punto drive-in organizzato dalla Asl per fare il tampone, nel giro di poche ore è cambiato lo “status” del leader leghista. Franco Iannizzi, il “presentatore” del comizio da giorni ricoverato al reparto Covid del Santa Maria Goretti di Latina, lo aveva indicato fra i contatti stretti, insieme al coordinatore regionale della Lega Francesco Zicchieri – positivo – e al candidato sindaco Valentino Giuliani, risultato negativo. Lunedì pomeriggio, la Asl pontina stava per comunicare alla Ats Milano la convocazione di Salvini per il tampone. Poi in serata, in seguito al secondo livello di controlli, che prevede le interviste alle persone indicate come possibili contatti e all’incrocio delle relative informazioni, la sua posizione è cambiata: l’ex ministro è passato da “contatto primario” a “secondario” e l’isolamento è divenuto facoltativo, sebbene “consigliato”. “Se non c’è la certezza della negatività, la persona non dovrebbe avere contatti sociali, è una questione di buon senso”, ha detto ieri il direttore della Asl Latina, Giorgio Casati, a Radio Capital, precisando qualche ora dopo con una nota che “non si parlava dei singoli casi”.

Al momento sono almeno una decina i positivi fra i quasi 200 presenti all’evento del ristorante “Il Tordo”, anche se una buona parte dei risultati dei test arriverà fra oggi e domani. Nella ricostruzione della serata fornita al Fatto, Giuliani spiega che “Salvini è stato con noi nemmeno un’ora: è arrivato, si è fatto qualche selfie, ha fatto il suo intervento e se n’è andato”. Quindi ricorda: “Eravamo tutti dentro perché fuori c’era il temporale, ma fuori c’erano le forze dell’ordine e gli addetti con il termoscanner, si entrava solo se si era in lista”. Giuliani ammette: “La notizia della positività di Franco si è diffusa sabato. Io? Sono stato a casa fino a lunedì, poi sono andato a fare il tampone prima che mi chiamasse la Asl. C’è un obbligo di legge, con queste cose non si scherza”.

Nonostante Casati abbia spiegato che “per ora a Terracina non si può parlare di cluster”, nella cittadina regna il panico. Ieri a metà giornata c’erano almeno 500 persone in fila al drive-in allestito allo stadio Colavolpe. E in molti se la sono presa con i leghisti. Domenica, la compagna di un candidato è stata mandata via dal seggio dove svolgeva il ruolo di rappresentante di lista. “Abbiamo fatto campagna elettorale, è normale avere a che fare con tanta gente – racconta la leghista Sara Norcia –, ma si sta creando un allarmismo eccessivo e diffamatorio”.

Mascherine, Immuni, multe. E niente deroghe nelle Regioni

Èoggi la giornata per le nuove decisioni volte a contrastare la pandemia con un altro Dpcm, acronimo ormai ben noto agli italiani e che si traduce in misure eccezionali anti-Covid. Succederà o questa mattina in Consiglio dei ministri dopo il voto alla Camera sulle risoluzioni per autorizzare il governo alla proroga dell’emergenza fino al 31 gennaio 2021 oppure dopo il vertice con i governatori delle Regioni che dovrebbe tenersi sempre in giornata. In ogni caso il dado è tratto e come ha spiegato il ministro della Salute Roberto Speranza ieri in Aula i punti cardine saranno l’estensione dell’uso delle mascherine anche all’aperto (ma in presenza di altre persone, non se si passeggia in strade isolate) con rischio di multe da 400 a mille euro, la “valorizzazione” dell’applicazione Immuni e, punto più dolente, nuove indicazioni per i governatori: “Le Regioni – ha detto Speranza ai deputati – potranno naturalmente assumere misure più restrittive, ma è evidente che in questo tempo nuovo c’è bisogno di un livello di coordinamento molto più forte e significativo rispetto agli ultimi mesi”.

Nel caso il vertice Stato-Regioni andasse per le lunghe o partorisse un muro contro muro – che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella per primo non vorrebbe si manifestasse – il piano b è un “Dpcm ponte” per prorogare, intanto, le misure già in essere e non creare un vuoto normativo. Escluse, comunque, misure più dure come la chiusura anticipata di ristoranti e locali – la Germania ha deciso ieri di abbassare le saracinesche alle 23 – o altro. Mentre in Europa, soprattutto in Spagna che ha superato quota 20 mila, in Regno Unito a 15 mila e in Francia a 10 mila nuovi infetti giornalieri, la situazione dei contagi peggiora ulteriormente, in Italia ieri il bollettino riportava questi numeri: +2.667 (+420 rispetto a lunedì), però con quasi 40 mila tamponi in più rispetto al giorno precedente; 28 le vittime; 3.625 i ricoverati (+138) e 319 persone in rianimazione (-4, 7,8% del picco massimo: 4.068 il 3 aprile).

Ma i numeri che andrebbero guardati con più attenzione e che sono allarmanti sono quelli della media settimanale del rapporto tra nuovi casi e persone testate col tampone: ieri 4,01% contro il 3,85% del giorno precedente; sopra la media nazionale ci sono la Liguria al 7,68%, la Campania al 7,29%, la provincia di Trento al 6,83%, il Piemonte al 6,20%, la Valle d’Aosta al 5,41%, l’Umbria al 4,75%, la Sicilia al 4,42%, la Sardegna e il Veneto al 4,39%, la Puglia al 4,19%; meglio Lombardia al 2,82% e Lazio al 2,77. Nonostante questa preoccupante classifica i problemi per il governo arriveranno dalla fronda delle Regioni dissidenti guidate proprio dalla Liguria di Giovanni Toti che in serata ha attaccato: “C’è la limitazione per legge della facoltà ordinativa ampliativa delle Regioni, ovvero quello che avevamo chiesto al governo di non fare: non perché abbiamo intenzione di fare uso sconsiderato del nostro potere di ordinanza ma perché riteniamo che in questa situazione, che è di preoccupazione ma non di emergenza grave, la limitazione del potere di ordinanza ampliativo delle Regioni rispetto alle iniziative del governo vada a turbare il leale equilibrio istituzionale che è dovuto tra Regioni e governo centrale; le Regioni inoltre hanno la possibilità di modulare le proprie iniziative sul territorio in modo diverso e con maggiore appropriatezza rispetto alla visione d’insieme nazionale. Non si comprende il senso di un intervento che mutila ancora una volta inutilmente (anzi in modo nocivo) il potere di ordinanza delle Regioni. Sarà compito della Conferenza delle Regioni prendere posizione sul tema. Sulle altre misure ci riserviamo di valutarle nel momento in cui verranno presentate”.

La giornata ieri è cominciata con la stonata esultanza dei leghisti per la mancanza del numero legale sul voto delle risoluzioni dopo il discorso di Speranza alla Camera, stonata perché gran parte dei deputati assenti sono in quarantena causa coronavirus come il capogruppo del Pd, Graziano Delrio, ha precisato: “È irragionevole e sbagliato considerare assenti quei deputati che, in osservanza delle regole sanitarie e quindi indipendentemente dalla propria volontà, non possono partecipare ai lavori della Camera anche perché, come si è visto, questo può determinare un diverso esito dell’esame e delle votazioni. Abbiamo chiesto che si ponga immediato rimedio a questa situazione. Anche all’opposizione dovrebbe stare a cuore il corretto funzionamento dell’istituzione”.

Alla lista dei Paesi al rientro dei quali in Italia è d’obbligo il tampone si aggiungono Belgio, Regno Unito e Olanda. Intanto dall’Organizzazione mondiale della sanità arriva una ventata d’ottimismo con le parole di Tedros Adhanom Ghebreyesus: “C’è speranza che entro la fine di quest’anno potremo avere un vaccino”. Per gli esperti sarebbe oltre i limiti dell’impossibile, ma sperare non costa nulla.

Papeete voodoo

Noi, per carità, non crediamo a certe cose. Infatti nel 2013 ci facemmo una grassa risata quando Calderoli, noto per essersi sposato con rito celtico davanti al druido, sostenne che il padre della Kyenge gli aveva fatto la macumba nel suo villaggio in Congo perché lui aveva simpaticamente paragonato la figlia ministra a un orango. La scena, mutatis mutandis viridibus, s’è ripetuta il mese scorso, quando Salvini di passaggio a Pontassieve è stato aggredito da una tizia di origini africane che gli ha strappato la camicia e il crocifisso urlandogli “Io ti maledico!” e l’autorevole il Giornale ha scritto che non era il gesto di una fuori di testa, ma un “rito voodoo di magia nera”. E noi di nuovo giù a ridere, anche perché la collezione di rosari sbaciucchiati e il filo diretto con la Madonna di Medjugorje ci parevano sufficienti a immunizzare il Cazzaro da simili diavolerie. Ora però stiamo riconsiderando la nostra posizione alla luce degli ultimi eventi.

È vero che da quell’8 agosto 2019 al Papeete non ne ha più azzeccata una. Voleva i pieni poteri e ha perso pure i semipieni. Voleva le elezioni subito e, se gli va bene, si vota nel 2023. Voleva l’arresto di Conte per i più fantasmagorici reati perché osa batterlo nei sondaggi e ora lo battono pure Zaia e Meloni. Voleva l’Emilia-Romagna per dare la spallata al governo e s’è lussato la spalla. Puntava tutto su Fontana, orgoglio e vanto del modello Lombardia, e sappiamo com’è finita. Seminava terrore sui migranti ed è arrivato il Covid che ne fa molto di più. E lui, a furia di chiudete tutto-aprite tutto, metto la mascherina-levo la mascherina, s’è un po’ sputtanato, anche perchè ogni suo comizio è un cluster. La grande occasione di riscatto erano le Regionali, quelle del “vinco 7 a zero e do la spallata a Conte”, con l’aggiunta del martirio al processo Gregoretti. Ma, nel rush finale, ha incontrato la strega di Pontassieve: sconfitta 3 a 4 e altra spalla lussata. Tant’è che, avendone solo due, per i ballottaggi comunali se n’è fatta prestare una da Siri: botte da orbi dal Sud a Lecco, Corsico, Legnano e Saronno. E al processo niente martirio: i pm han chiesto l’archiviazione, il gup sentirà come testimoni Conte, Di Maio, Toninelli e Trenta. Lui ha esultato come se fossero imputati. La Bongiorno voleva spiegargli la differenza, ma era sotto una lastra di marmo lì attaccata da 90 anni e venuta giù appena visto Salvini. Geniale anche lo slogan sulle t-shirt per i fan che dovevano accorrere a Catania in sua difesa, ma non sono venuti: “Processate anche noi”, subito adottato dai pm che gli stanno arrestando mezza Lega. Noi, per carità, non crediamo a certe cose. Ma delle tre l’una: o il voodoo esiste, o la Madonna di Medjogorje non esiste, o è incazzata nera.

Provaci ancora Carlà, regina del kitsch

Il nuovo album della sempre affascinante Carla Bruni ha incredibilmente qualcosa di interessante e alcune perle di raro kitsch. Altera, supponente, sofisticata la Bruni – 53 anni – prova per l’ennesima volta a intrigare con canzoni scarne, chitarra e voce, qualche tastiera e uno strumento atipico (l’arpa).

Non c’è l’ambizione di emulare Joni Mitchell o Mireille Mathieu, ma emerge la volontà di ritagliarsi un ruolo autorevole di cantautrice piuttosto che chansonnier, sin dai tempi di Quelqu’un M’a Dit.

Difficile credere alle note di presentazione: “Un desiderio di calma e semplicità, di libertà dal luccichio e dall’arroganza”. L’analisi dell’ascolto – in anteprima – dei primi brani è impietosa: Quelque Chose è, tutt’al più, una algida filastrocca orecchiabile da canticchiare sotto la doccia. La crepuscolare Un Secret è formale e asettica, merita solo il testo: “Un segreto molto antico nascosto dentro noi stessi, ma così in profondità e sepolto così lontano che non sappiamo più perché. Al di sopra del segreto, i fiori sono cresciuti, praterie e foreste, e nessuno ci ha più pensato”. Rien Que l’estase è – finalmente – sensuale: “Come posso descriverti le sue mani sui fianchi, mordendo avidamente la mia pelle bianca. E la paura ci fa a pezzi, ci attanaglia, quando la morte ci sorride”.

Ed ecco il miracolo: Your Lady prende spunto dall’intercedere di A Whiter Shade Of Pale dei Procol Harum – un peccato veniale – con una piccola tastiera talmente gradevole da diventare la vetta del disco. La seconda sorpresa è Partir Dans La Nuit, un brano dal sapore natalizio: potrebbe essere la colonna sonora per uno degli episodi di Bridget Jones, giocosa e sbarazzina. Degna di nota Comme Ci C’était Hier, canzone maudit abilmente mascherata da british pop; intro e outro dannatamente stregati.

Infine ecco la Due mondi di Carla Bruni, nominata Voglio l’amore con la partecipazione della sorella Valeria che rappa: il risultato è imbarazzante; peccato perché il riff al profumo dei Radiohead è gradevole. La prossima volta meglio passare a chiedere consigli a Patty Pravo.

La magia di Waters per non dimenticare quanto è bello il “live”

Una pallottola tedesca. Sulla sua traiettoria si trovò Eric Fletcher Waters, pacifista convinto, arruolato nell’Ottavo Battaglione dei Fucilieri Reali. Alle 11.30 del 18 febbraio 1944 la sua pattuglia incrociò il fuoco nemico ad Aprilia. Al sacrificio di Eric, caduto dopo lo sbarco di Anzio, si annoda il filo scoperto della Storia che ha innervato l’incandescente creatività del figlio. Roger ha sublimato quel dolore in un’investigazione psichica, sociale e artistica che da decenni trascende il concetto stesso di “rock”. Con i Pink Floyd dapprima, e i tour solisti dopo, Waters ha allestito spettacoli epifanici, di monumentale bellezza, ficcando il dito nel buio della condizione umana per esplorare i temi della perdita, dell’alienazione, dell’Altro – il nemico dichiarato e quello inventato dalle strategie d’odio. Impressiona, oggi, rivedere e ascoltare il set live di Us + Them, la stringa di concerti che nel 2017-18 aveva totalizzato quasi 2 milioni e mezzo di spettatori.

Dopo un passaggio nelle sale e l’approdo nelle piattaforme digitali, ora Us + Them arriva nei formati “fisici”: il documentario in Dvd e Blu-Ray, la colonna sonora in cd o vinile. Nel film diretto con Sean Evans, Waters attraversa il sontuoso repertorio floydiano (di cui era il principale artefice) rivisitando l’epos psico-galattico di The dark side of the moon così come la metafora politico-orwelliana di Animals o l’architettura simbolica di The wall accanto al più recente album Is this the life that we really want?, incentrato sulle problematiche della separatezza (il Muro di Gaza, i migranti). Al riesame del 2020, Us + Them è un cazzotto allo stomaco: non solo per la qualità del set e delle trovate sceniche (su tutte la centrale elettrica di Battersea che a metà dello show, con una geniale soluzione scenografica, si materializza in platea) ma soprattutto perché certifica il passaggio tra l’epoca appena trascorsa e quella che stiamo attraversando. Cosa ne sarà dei concerti irrinunciabili come quelli di Waters, nel prossimo futuro? Il Nostro ha già rimandato all’estate 2021 il nuovo tour This is not a drill: potremo godere ancora dei riti esperienziali collettivi in cui il Grande Rock resta cruciale strumento di decifrazione del mondo? O dovremo rassegnarci al commiato della generazione degli eroi che ha cambiato la percezione di noi stessi? In filigrana, la risposta è nel frammento di Another brick in the wall II in cui i bambini sul palco si tolgono di dosso le tute simil-Guantanamo e si sciolgono in una danza, rivelando magliette con la scritta “Resist”. E anche nella videografica per il bis di Comfortably numb: due braccia che tendono lentamente l’una verso l’altra. Darsi la mano, un gesto oggi negato, che forse un giorno tornerà ad essere profezia di pace, come piacerebbe a Waters.

Festa del cinema di Roma: 24 titoli e (appena) 600 posti disponibili

Orgoglio e giudizio. La Festa del Cinema di Roma prepara un’edizione, la quindicesima, dal 15 al 25 ottobre, con “uno zaino di warning sulle spalle”, per il presidente Laura Delli Colli, e un programma “di cui andare fieri”, per il direttore artistico Antonio Monda. Al vaglio del Cts i protocolli anti-Covid, si prevede un titolo di accesso all’Auditorium Parco della Musica, la registrazione sull’app della Festa e un tappeto rosso oscurato, ovvero visibile al pubblico solo dalla cavea superiore, 600 posti disponibili. Nondimeno, dice Delli Colli, “la Festa sarà per tutti, è un impegno preso con la città”.

In cartellone, “tra eventi popolari e raffinati”, una Selezione Ufficiale a 24 titoli; due coproduzioni con Alice nella città (Herself di Phyllida Lloyd e Tigers); cinque “Tutti ne parlano”, tra cui il blockbuster Peninsula di Sang-ho Yeon e Palm Springs; sei Eventi Speciali, dal doc Mi chiamo Francesco Totti a Fuori era primavera – Viaggio nell’Italia del lockdown di Gabriele Salvatores; 14 gli Incontri Ravvicinati, oltre allo stesso Totti, Steve McQueen, che porterà il trittico Small Axe e verrà premiato alla carriera, Zadie Smith, il campione del cinema spazzatura John Waters, Thom Yorke, Damien Chazelle, Gianfranco Rosi, i Manetti Bros. e Gabriele Mainetti, che offriranno antipasti di Diabolik e Freaks Out.

Le musiche di Ennio Morricone sul red carpet, gli omaggi a Fellini e Glauber Rocha, i restauri di Padre padrone e In nome della legge, da Cannes arrivano l’apertura Soul di Pete Docter, Druk di Thomas Vinterberg e Été 85 di François Ozon.

Cinque gli esordi italiani, tra cui il metafisico Fortuna di Nicolangelo Gelormini, The Shift di Alessandro Tonda e Le Eumenidi girato da Gipo Fasano ai Parioli con 9.000 euro: Monda scommette sul “futuro, di potenza e bellezza”.

 

La vite agra: il prosecco s’è bevuto la poesia veneta

Da questi monti sembra lontanissimo il Veneto del 75% a Zaia, il Veneto delle Olimpiadi e del turismo, Pedemontana e Vinitaly. L’uomo che mi parla sul lago di Revine è il poeta Luciano Cecchinel (1947), Premio Viareggio di quest’anno, colui che in poche ma intensissime plaquette ha saputo dare cittadinanza agli elementi del tragico in una terra sempre pronta a rimuoverli in un ghigno sardonico.

Più ctonio, chiuso e “implosivo” del suo conterraneo e maestro Andrea Zanzotto, Cecchinel non si è mai contaminato con le grandi città, le case editrici, i salotti letterari, rimanendo fedele a un luogo appartato che è anche metafora di una cultura perduta, un luogo che è tutto fuorché pacificato: “No sté vardarne par stravès/ par che no ston ben gnesuloc” (“Non guardateci di sbieco/ perché non stiamo bene in alcun luogo”).

Siamo a un passo da Vittorio Veneto, ma la guerra di Cecchinel è la seconda, vissuta dal padre come capo partigiano della Brigata Piave e dalla madre Annie in una perigliosa ambasceria nel quartier generale della X Mas (diventeranno Le voci di Bardiaga): nel Dopoguerra vivrà le ambasce politiche di suo padre, giungendo a lanciarsi egli stesso nella lotta e facendosi eleggere, a 23 anni, come sindaco di Revine. Deluso dall’avventura politica, ripiegato sul mestiere d’insegnante, Cecchinel non smette di percepire la sofferenza, l’usura di questo vivere veneto nel progresso scorsoio che fiorisce di capannoni e denari. “Mi son l’ultimo vecio de sto paese” scrisse anni fa: e ora qui sul lago mi spiega come intendesse quella sua vecchiaia interiore di “stròlego stranbo e romit” (“stregone strambo e solitario”) nel senso dell’autoemarginazione di chi respinge l’entusiasmo dei molti per non ripudiare la sua eredità: quell’assetto etico-sapienziale intriso di umiltà e tenacia, e quel dialetto antico, aspro, petroso, “la to pore lengua” dei primi versi, da Al tràgol jert (L’erta strada da strascino, 1980) fino a Sanjùt de stran (Singhiozzi di strame, Marsilio 2011), versi pieni di arbusti e foschie, di casère, zavariament (deliri) e gomitoli di vuoto: un mondo travolto dalla catastrofe ambientale che il più recente trionfo della monocultura del prosecco aggrava in un verde fasullo.

Ecco allora l’America: lassù sui monti c’era negli Anni 60 una base militare degli yankee; e quaggiù tra le case di Revine-Lago c’erano famiglie decimate dall’emigrazione negli States, a cominciare da quella del poeta, la cui madre era nata in Ohio. Andate e ritorni di uomini e donne Da sponda a sponda (così s’intitola la raccolta premiata al Viareggio) e Lungo la traccia (Einaudi 2005): nelle vicende della propria famiglia Cecchinel ripercorre le lacerazioni di una Regione che pare aver dimenticato ogni cosa – la madre che rimpiange la “patria” e parla solo in inglese, la signora Ema che s’impicca per nostalgia nella sua farm… Tutto avviene a ritmo di jazz, in un precipizio tra lambrusco e acqua brillante, tra Walt Whitman e Jimi Hendrix, tra identità frantumate e impossibili nostoi (“E che poteva fare/ di qua del grande mare/ chi non poteva,/ chi sapeva di non poter tornare”). E sui manifesti elettorali, ora, poco lontano da qui, “prima i Veneti”? Provato da un ineffabile lutto personale, dall’arsura di un tempo di pace in cui si continua a scontare la guerra, e da una precaria, posticcia ricchezza in cui si sconta la povertà d’animo, Luciano Cecchinel si appoggia sulla staccionata che dà sul lago con le papere e gli ultimi bagnanti. Ha l’aria grave di chi non ha lezioni da dare ma esperienze da ricordare sottovoce, sempre a contatto con questa terra, “il vento, le onde un sempre prima”.