Casellati prende il bazooka: ora deve andarsene

Maria Elisabetta Alberti Casellati (per brevità MEAC) in fondo va capita. Per una donna capace e di temperamento, come lei probabilmente ritiene di essere, la presidenza del Senato può rappresentare una gabbia politica, sia pure dorata. E dunque, nell’intervista di ieri al Corriere della Sera, parlando dallo scranno più alto di Palazzo Madama, MEAC, proprio rispetto alla carica ricoperta, ha voluto essere molto di più, ma anche molto di meno. Molto di più poiché l’attacco frontale sferrato al governo Conte, nei toni e nei contenuti, forse non ha precedenti nella storia dei rapporti tra l’istituzione seconda carica della Repubblica e il potere esecutivo. Chi è infatti che affronta l’emergenza “mettendo toppe”? Chi, a proposito della “ripresa” adopera “tante parole e niente fatti”? Privo di “una visione strategica del Paese, di una visione lungimirante dello sviluppo”? Chi “nasconde la polvere sotto il tappeto” pensando per esempio di “risolvere i problemi strutturali della scuola con i banchi con le rotelle”? Chi “in mancanza di un ‘Progetto Italia’ rischia di trasformare l’eventuale bazooka dei fondi Ue in una pistola ad acqua”? Chi è che si rifiuta di “coinvolgere le opposizioni” sulle priorità per il Paese? E a chi la presidente del Senato si rivolge quando, a proposito della proroga dello stato d’emergenza, sentenzia: “Abbiamo bisogno di verità, non si può oscillare tra incertezze e paure in una confusione continua di dati”? Dunque se, come è evidente, MEAC ha deciso di sommare ai poteri che le conferisce la Costituzione anche quelli di capo dell’opposizione dovrebbe correttamente dichiararlo. Innanzitutto, all’assemblea che presiede non potendo più garantire l’indispensabile equidistanza che il suo ruolo impone. Dopodiché, sarebbe interessante vedere in che modo MEAC si dividerà i compiti con Matteo Salvini e Giorgia Meloni, clamorosamente scavalcati a destra dal suo veemente j’accuse contro il governo giallorosa (per non parlare dei “moderati” di Forza Italia che l’hanno candidata e sostenuta). Ci sarebbe poi il problemuccio delle funzioni di presidente supplente della Repubblica, nel caso molto malaugurato in cui Sergio Mattarella fosse impossibilitato a svolgerle. Ipotesi da brividi che speriamo non si realizzi mai. Mentre di buono c’è che dopo un’intervista così “schierata” sembra evidente che le probabilità di vedere MEAC al Quirinale, con il voto di questo Parlamento, siano prossime allo zero (perciò siamo convinti che da oggi lei conti molto di meno).

PS.

In un mondo normale, dopo dichiarazioni di questo tenore, un presidente del Senato si dimetterebbe per dedicarsi più liberamente, e correttamente, alla politica attiva. Ma di normale qui non c’è proprio niente.

Juventus, il virus dell’antipatia

Confesso che ormai, della quasi totalità delle polemiche che attraversano la cronaca e la politica italiane, capisco poco o niente. Eppure mi applico ve lo assicuro. E infatti piano piano sono riuscito a capire perché ogni partito italiano è spaccato sul Mes. Non posso dire la stessa cosa sul Recovery Fund. Ma nei prossimi giorni spero di riuscire, studiando attentamente la situazione, e facendomi aiutare, a fare qualche passo avanti.

Ma adesso la bega Juventus-Napoli mi getta nella disperazione. E pur senza appassionarmi, mi incuriosisce per la sua incomprensibilità. Non riesco a farmi un’opinione su quello che dicono De Luca e De Laurentiis. Capisco poco i motivi per i quali i napoletani non sono andati a giocare a Torino, salvo che la Asl campana ha detto di no (la serie Asl, ah ah ah!). E nemmeno riesco a capire i motivi per i quali la Lega Calcio ha detto di sì. Chi ha ragione? Non lo so e non lo voglio sapere.

Su una sola cosa ho una certezza. Che i napoletani, essendo stato loro vietato di andare a Torino, hanno scritto ad Andrea Agnelli proponendogli di rimandare la partita. E che Agnelli, dando sfoggio di grande signorilità, ha risposto no. Incassando il tre a zero. Ecco: poi non venite a chiedermi perché mai la Juventus è antipatica a così tanti italiani. Non solo perché dicono che rubasse le partite con l’aiuto degli arbitri.

Proteggersi sì, ma senza esagerare

Era il 10 marzo scorso quando a Mount Vernon, nello Stato di Washington, un gruppo di cantanti si incontrò per esercitarsi nel coro della chiesa, come tutti i martedì sera. Sebbene il coro fosse composto da 122 persone, quella sera se ne presentarono la metà, compreso un corista che da giorni non si sentiva bene, aveva brividi e sintomi simil influenzali (risultato poi positivo al SarSCoV2). Su 61 persone presenti ben 53 si sono poi ammalate di Covid-19.

Yves Cohen, capo dei servizi di rianimazione degli ospedali Jean Verdier a Bondy e Avicenne a Bobigny, nella banlieue parigina, ha spiegato di aver riesaminato i pazienti con polmoniti sospette di dicembre e gennaio. Ha trovato un paziente, ricoverato il 27 dicembre, positivo al Covid. Aveva riferito di essere stato malato per 15 giorni e di aver contagiato dei familiari, che avevano accusato sintomi lievi. Da allora, sarebbe poi trascorso più di un mese prima che venisse registrato il primo caso ufficiale di Covid in Francia.

Apparentemente opposti fra loro, questi casi, in realtà, dimostrano ciò che attualmente si sta sempre più chiarendo. Non tutti i soggetti positivi hanno la stessa capacità infettante e il SarSCoV2 ha un indice R0 (indica la trasmissibilità nella fase iniziale dell’epidemia) molto basso. Solo il 18% dei pazienti positivi è capace di trasmettere l’infezione, mentre un piccolo numero di persone è capace di infettare con grande efficienza molti soggetti. Ciò spiega perché, malgrado il virus circolasse da prima di gennaio, non ne avevamo avuto evidenza e perché, in piccole comunità, casualmente, possiamo assistere a una contagiosità elevata. I super spread (super-diffusori) sono, sicuramente, coloro che hanno provocato l’accensione di focolai che, con le limitate conoscenze di prima, non siamo riusciti a spegnere in tempo. Cosa può suggerirci questa nuova conoscenza? Che un fattore importante in questa infezione è la dispersione (fattore K, che descrive quanto una malattia si aggreghi in gruppi-grappoli-accumuli, detti in inglese cluster), confermando quanto le misure di distanziamento ed evitare assembramenti al chiuso sia fondamentale. Ma tutto senza esagerare. Le mascherine all’aperto non hanno alcun fondamento scientifico e un negativo impatto psicologico.

 

direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano

Chi vuole Davigo fuori dal Csm non ha motivazioni giuridiche

Come è noto, il Csm entro il 20 ottobre dovrà deliberare se Piercamillo Davigo – che a quella data compirà 70 anni e sarà collocato a riposo – potrà continuare o meno a essere componente dell’autogoverno dei magistrati.

Quelli che ritengono che Davigo debba cessare dalla carica – primo fra tutti l’ex magistrato Agnello Rossi, direttore del giornale Questione Giustizia di M. D. – assumono che “la cessazione dello status di magistrato – sia essa l’effetto di una scelta volontaria, come nel caso delle dimissioni dalla magistratura, o di una situazione di natura oggettiva come avviene per il collocamento in quiescenza o di una sentenza penale di condanna – determina la perdita del requisito indispensabile della capacità elettorale passiva e produce di conseguenza l’automatica decadenza dalla carica di consigliere superiore”.

La tesi fa leva anche su di una decisione del Consiglio di Stato (n° 6051 del 16.11.2011) secondo cui “il fatto che il legislatore non abbia espressamente previsto la cessazione dall’ordine giudiziario per quiescenza fra le cause di cessazione della carica di componente del Csm dipende, non già da una ritenuta irrilevanza del collocamento a riposo, ma dall’essere addirittura scontato che la perdita dello status di magistrato in servizio, comportando il venir meno del presupposto stesso della partecipazione all’autogoverno, è ostativo alla prosecuzione dell’esercizio delle relative funzioni in seno all’organo consiliare”.

Si tratta di argomentazioni prive di giuridico fondamento.

I magistrati che vengono eletti al Csm diventano componenti di un organo di rilevanza costituzionale, un organo che svolge funzioni amministrative, precisamente di “Alta amministrazione”, soggetto alle norme che ne regolano il funzionamento e la vita, prima fra tutte, l’art. 104 della Costituzione secondo cui “i membri del Csm durano in carica 4 anni”. Ora, naturalmente, la legge ordinaria ha previsto, con apposita norma, cause di decadenza, ed essa, incidendo negativamente su uno “status”, è di stretta interpretazione non essendo consentite né interpretazioni estensive né analogiche. Nel caso di specie, l’art. 37 della legge istitutiva del Csm (n° 195/1958) prevede tassativamente che sono cause di decadenza le condanne penali “per delitto non colposo” e “le sanzioni disciplinari più gravi dell’ammonimento”. Nessun riferimento è fatto alla ipotesi in cui il componente togato cessi dalle sue funzioni di magistrato per raggiunti limiti di età. Il mancato riferito a un limite temporale trova evidentemente la sua spiegazione nella esistenza di una norma costituzionale che disciplina la durata della nomina.

E, del resto, “l’esercizio delle funzioni giudiziarie” è presente solo nella norma di cui all’art. 24 della legge quale requisito della sola capacità di elettorato passivo, ma non quale requisito per la permanenza nella carica di consigliere togato. E, invero, tra le cause di ineleggibilità previste dall’art. 24 – tra cui ve ne sono alcune di natura temporale inerente l’anzianità: quale ad es. quella riferita ai magistrati di tribunale – non è stata inserita quella di inibire l’elettorato passivo a chi non assicurasse, per anzianità di servizio, 4 anni di mandato e ciò, evidentemente, sempre in attuazione della norma di rango superiore che disciplina inderogabilmente (salvo la decadenza ex art. 24) la durata della nomina di coloro che sono, in quel momento, esclusivamente, “membri del Csm”.

Davigo deve, pertanto, completare l’intero mandato a lui conferito dagli elettori per la durata (costituzionalmente prevista) di quattro anni.

 

Fiki, Grilli e Morri: il Movimento 5S dilaniato dalle tribù

Il Risiko dei 5 Stelle si arricchisce ogni giorno di una nuova fazione. Ognuno ha la sua corrente, ognuno ha la sua ricetta. E la tensione, spesso oltremodo masochista, è arrivata al parossismo con lo scontro (l’ennesimo) di domenica tra Davide Casaleggio e i vertici M5S. Proviamo a tracciare l’identikit delle varie compagini.

I Fiki. È la corrente di Fico, ma pure di Patuanelli. Per certi versi più contiani di Conte, per loro il dialogo con il Pd e più in generale con un centrosinistra derenzizzato è sempre stato naturale. Ora più che mai. Al tempo (funesto) del governo con la Lega erano in minoranza, mentre ora è invece il contrario. Agli Stati Generali partono favoriti, ma i talebani – che stanno alla politica come Marattin ai capelloni – non mancheranno mai di insultarli.

I Crimiani. Compagine di difficile individuazione, né talebana né sinistrata, né duropurista né realmente dialogante. In via teorica ha la reggenza della leadership, ma la esercita col carisma delle betulle timide. Ancorati al “6 politico”, vantano la presenza – tra gli altri – di Crimi e Lombardi, il Duo Streaming del 2013 (che per fortuna negli anni è cresciuto). Navigano a vista, e l’unica cosa che si è capita è che non sopportano Casaleggio Jr.

I Dimaiani. Versione più diplomatica, ma anche più forte, delle due precedenti categorie. Sono molto più dialoganti (col centrosinistra) dei Crimiani, ma lo sono anche un po’ meno dei Fiki. Due nomi? Di Maio e Bonafede. Agli Stati Generali faranno squadra coi Fiki, coi quali in passato non sono mancati gli scontri, e cercheranno un dialogo sempre più costante – benché non “organico” – con il cosiddetto “campo progressista” (cit. Bersani).

I Grilli. Sono quelli che condividono le posizioni del garante Beppe Grillo. Il quale, soprattutto in questi mesi, dovrà far sentire parecchio il suo peso. La sua parola. La sua visione.

I Morri. Non amano Di Maio, ma neanche Di Battista (non fino in fondo). Non vogliono il leader, ma una segreteria (diversa però da come la vorrebbe Di Maio). Hanno sempre detestato Salvini, ma adesso – pur preferendo il Pd al Cazzaro Verde – nicchiano di fronte a un’alleanza col centrosinistra. E alle Regionali vogliono continuare a correre da soli, perché – immagino – è meglio perdere da puri che vincere con le mani non del tutto intonse. Il loro nome di punta è Morra. Minoritari, ma agguerriti. E preparati.

I Dibattisti. Si rifanno a Casaleggio padre (ma pure figlio). Credono che la Lega sia il Male (dopo averci governato con ben poco imbarazzo), ma che il Pd non sia certo meglio. Hanno per leader Di Battista, che di fronte a un accordo “organico” con Zingaretti & soci se ne andrebbe. Le loro posizioni sfociano spesso nel paragonismo (nel senso di Gianluigi Paragone). Da settimane stanno ricevendo il plauso di Repubblica, Domani e perfino Mario Lavia, ma loro – senz’altro in buona fede – sono davvero convinti di incarnare il futuro del M5S. E non invece il trapassato remoto.

I Lezzisti. Versione marginale, oltranzista e massimalista dei Dibattisti, con cui non di rado amoreggiano. Litigiosi, rancorosi, pallosi. Strategicamente sono capre ripetenti e non ne hanno indovinata mai mezza (Tap, Ilva, etc). Però urlano parecchio. E tutto sommato fanno arredo.

La speranza, mentre impazza questa immensa canizza da Asilo Mariuccia, è che nel frattempo il Paese non vada in malora. Buon Risiko a tutti!!

 

Il “sogno di fraternità” di S. Francesco e del papa

Francesco, quando aveva già percorso un buon tratto del cammino che lo avrebbe portato a una conversione piena e totale – era ormai un uomo fatto, abituato agli agi e alle feste: difficile rinunciarvi –, viveva da eremita con i contrassegni che lo facevano riconoscere come tale. Un giorno del 1208, ascoltando la messa, udì il sacerdote ripetere le istruzioni date da Cristo ai discepoli: “Per strada non dovevano portare né oro, né argento, né pane, né bastone, né calzature né veste di ricambio… Fissando nella memoria quelle direttive, Francesco s’impegnò a eseguirle lietamente. Senza por tempo in mezzo, si sbarazzò di tutto quello che possedeva di doppio, e inoltre del bastone, delle calzature, della borsa e della bisaccia. Si confezionò una tonaca misera e grossolana e, in luogo della cintura di pelle, strinse i fianchi con una corda”: così secondo la Leggenda dei tre compagni si compì il cambiamento di vita del futuro santo. Volle vestire da povero contadino rifiutando d’essere inquadrato in una categoria sociale circondata di stima come quella degli eremiti. In una società molto gerarchizzata nella quale ciascuno aveva uno statuto preciso, Francesco mostrò di volere essere fra coloro che non ne avevano alcuno. Così facendo, rifiutò la possibilità di essere identificato come colui che, facendo parte di un preciso gruppo religioso di appartenenza, si volgesse quasi per professione caritativa a una parte della società nei cui confronti poteva vantare un ruolo privilegiato.

Pur vivendo noi oggi in una situazione storica totalmente diversa, il modo di agire di Francesco è come rispondesse a quanto sottolinea l’enciclica Fratelli tutti: “Riappare la tentazione di fare una cultura dei muri, di alzare i muri, muri nel cuore, muri nella terra per impedire questo incontro con altre culture, con altra gente”. Francesco volle appartenere a quella stessa società che la Chiesa in molti modi voleva guidare, confondendosi, in un impeto di fratellanza e di empatia, con la parte più disprezzata, con i poveri e coi contadini, umili e indigenti lavoratori della terra. Da quel momento Francesco e i compagni, facendosi poveri fra gli altri poveri, si attennero a quel misero abbigliamento, camminando sempre, in ogni stagione, a piedi nudi, come Cristo e gli apostoli, condividendo con i miseri e gli sfortunati la precarietà materiale e psicologica di chi non possiede nulla. Si susseguirono generazioni di francescani, la fraternità divenne un ordine: entrarono a farne parte molti sacerdoti e molti degli intendimenti di Francesco non furono più tenuti in conto. I frati non vivevano, come agli inizi, del lavoro delle loro mani; abitavano nei conventi, avevano bisogno di tempo per studiare e preparare le loro omelie; per vivere contavano adesso sulle offerte dei fedeli. I frati, dalla dozzina dei primi compagni, come nei primi tempi, erano diventati migliaia: occorreva una organizzazione diversa per la vita in comune di tante persone. Si vestivano anche in modo assai meno approssimativo e non andavano più a piedi nudi.

L’aggiornamento storico del successo dell’ordine si riflette negli affreschi del ciclo di Assisi: Francesco ha costantemente i piedi nudi, i compagni, i frati del tempo degli affreschi, cioè di papa Nicola IV, primo papa francescano (1288-92) hanno i piedi calzati. Tale difformità poté essere illustrata perché in linea con quella profonda comprensione umana del prossimo, propria di Francesco. Racconta ancora La Leggenda dei tre compagni: Francesco “insisteva perché i fratelli non giudicassero nessuno, e non guardassero con disprezzo quelli che vivono nel lusso e vestono con ricercatezza esagerata e fasto, poiché Dio è il Signore nostro e loro, e ha il potere di chiamarli a sé e di renderli giusti. Prescriveva anzi che riverissero costoro come fratelli e padroni: fratelli, perché ricevono vita dall’unico Creatore; padroni, perché aiutano i buoni a far penitenza, sovvenendo alle necessità materiali di questi. E aggiungeva: ‘Tale dovrebbe essere il comportamento dei frati in mezzo alla gente, che chiunque li ascolti e li veda, sia indotto a glorificare e lodare il Padre celeste’”. Oggi invece, come sottolinea l’enciclica, “l’incontro diretto con i limiti della realtà diventa insopportabile. Di conseguenza, si attua un meccanismo di ‘selezione’ e si crea l’abitudine di separare immediatamente ciò che mi piace da ciò che non mi piace, le cose attraenti da quelle spiacevoli”. Francesco cercò sempre di ricomporre in un discorso di pace le diseguaglianze, i diversi stili di vita: il suo era un modo inclusivo di vivere la religione cristiana, un insegnamento più che mai vivo e vitale ai nostri giorni. L’auspicio è dunque, con le parole di papa Francesco, che si realizzi “un nuovo sogno di fraternità e di amicizia sociale che non si limiti alle parole”.

 

Questo commento, con altri, correda l’enciclica di Papa Francesco “Fratelli Tutti”, in libreria dal 12 ottobre con Scholé-Morcelliana

 

Stati Uniti, un diarroico su cinque è vittima di “povertà diarroica”

Contro i tabù, Pantone lancia il marrone “merda”. C’è una nuova sfumatura di marrone nell’arcobaleno di colori di Pantone e si chiama Shit: l’azienda statunitense, cui fa capo il più vasto sistema di catalogazione dei colori del mondo, ha pubblicato una nuova sfumatura ispirata alla diarrea come parte di una campagna per mettere fine allo stigma associato alla cacca. “È un tono di marrone attivo e avventuroso” per “dare anche alle persone che hanno la diarrea il coraggio di essere orgogliose di quello che sono”, ha spiegato l’azienda, che si è alleata con il marchio svedese di pannoloni Tannforsen per fare di Shit (lemma che in inglese indica la merda) il momento di punta della nuova campagna See & Sniff. “È un marrone pieno di fiducia. Miliardi di persone fanno la popò, ma storicamente la merda è trattata come qualcosa che non deve essere vista e di cui non si può parlare”, ha detto Laurie Pressman, presidente di Pantone. Le feci restano un tabù in molte parti del mondo: in India spesso a chi sta cagando è proibito cucinare, perché ciò è considerato poco igienico, mentre uno studio del 2019 ha scoperto che in alcune regioni del Nepal è ancora viva la pratica di far dormire chi ha la diarrea in “capanne della diarrea”, a dispetto del bando emanato a livello nazionale. Incredibilmente, lo stigma è vivo anche negli Usa, dove 1 diarroico su 5 è vittima di “povertà diarroica”, la difficoltà di comprare pannoloni a prezzi accettabili. L’intera industria globale del design si affida al sistema dei colori Pantone, una griglia nata nel 1963 per risolvere il problema dell’identificazione dei colori nell’industria della stampa. Dal 1999, ogni dicembre Pantone individua il Colore dell’Anno – nel 2004 fu l’Arancione Guantanamo – come barometro dell’umore del momento, e bussola per l’industria della moda. L’azienda non è nuova a queste iniziative: in maggio ha pubblicato il Biondo Trump. Ha poi creato, in joint venture con la Open Arms, tre nuove sfumature di color carne – Dead Brown, Dead Pink e Dead Green – basate sui colori della pelle dei migranti morti nel Mediterraneo a causa delle politiche italiane di respingimento coatto inaugurate da Minniti e corroborate da Salvini, che sono finalmente state modificate dal nuovo decreto della ministra Lamorgese sull’immigrazione. Ieri sera il decreto era all’esame del Consiglio dei ministri. Com’è finita potete leggerlo oggi su queste pagine. Eh sì, non leggere i giornali è riposante.

Giraffe in ospedale, 15 indagati a Napoli. Omissioni di atti di ufficio e falso: questi i reati che la Procura di Napoli ipotizza nei confronti di manager e sanitari di un ospedale cittadino nell’ambito delle indagini del Nas sulla presenza di giraffe nelle corsie, nei corridoi e negli ascensori. 15 persone, tra manager e sanitari, sono stati iscritti nel registro degli indagati. Lo rendono noto organi di stampa che hanno appreso la notizia da me, che a mia volta l’ho appresa da loro. I fatti accertati dai militari sarebbero accaduti tra il 2018 e quest’anno, anche durante il lockdown. Giraffe segnalate a fronte di una documentazione che invece attestava la loro assenza. Nonostante le richieste di intervento, non sarebbero scattate le dovute contromisure. Gli inquirenti stanno anche analizzando gli atti relativi alla ditta di pulizie che ha vinto l’appalto per l’ospedale in questione. In questo caso gli investigatori ipotizzano il reato di peculato nei confronti dell’Asl che avrebbe liquidato la ditta senza attendere l’attestato di assenza di giraffe.

Ultim’ora. Dopo le polemiche dei giorni scorsi, Dibba aveva una grande scelta da fare e ieri, finalmente, ha deciso: il prossimo carnevale indosserà il costume di Spider-Man.

 

Dl Agosto, stop alla moratoria su tasse e stretta su affitti brevi

Anche sul decreto Agosto, la terza manovra dall’inizio della crisi che mobilita altri 25 miliardi di deficit, è stata posta la fiducia in Senato per passare così blindato alla Camera per la conversione entro il 13 ottobre. Sono diverse le modifiche subìte, trasformandosi in un maxi emendamento. Ecco le ultime novità.

Tasse. Nonostante le pressioni da più fronti, non è stata prorogata la moratoria delle cartelle esattoriali. Dal 16 ottobre, le Entrate torneranno a spedire le cartelle esattoriali di imposte, multe o tributi locali non pagati. Ripartiranno anche i pignoramenti di stipendi o pensioni. Per il ministro dell’Economia Gualtieri non ci sarà il rischio di un impatto devastante: “L’Agenzia ripartirà con grande gradualità”. Per ora non è chiaro come. Dallo scorso marzo sono state bloccate 9 milioni di cartelle esattoriali.

Bonus 110%. Ampliata la platea dei beneficiari della maxi detrazione sulla riqualificazione energetica: disco verde anche per i proprietari degli immobili unifamiliari che hanno accesso autonomo da aree comuni esterne. Abbassato a un terzo il quorum delle assemblee di condominio per esercitare l’opzione dello sconto in fattura e della cessione del credito. La ragioneria ha chiesto lo stralcio del super bonus al 165%previsto per i Comuni terremotati del Centro Italia.

Lavoratori fragili. Fino al 15 ottobre, per i lavoratori pubblici e privati fragili (come gli oncologici, gli immunodepressi o i disabili con che usufruiscono della legge 104) il periodo di astensione dal lavoro non verrà considerato come malattia. Poi potranno utilizzare lo smartworking fino a fine anno.

Affitti brevi. Stretta al regime fiscale degli affitti brevi per salvare i centri storici dal rischio di finire abitati solo dai turisti. Chi affitta più di 4 case verrà considerato come un’impresa e non potrà più usufruire delle cedolare secca al 21%.

Green. Ok agli incentivi fino a 3.500 euro per convertire auto con motore termico in auto elettriche e per il 2021 via libera alle bottiglie Pec riciclate al 100%.

Biennio in deficit. Recovery? Poca cosa per 2 anni

Se va bene, il colpo inferto dal Covid all’economia – la caduta del Pil peggiore dal dopoguerra – l’Italia lo recupererà nel 2022 grazie alle misure messe in campo dal governo. Se va male, non prima del 2023. Per questo sarà fondamentale che le risorse del Recovery fund, o meglio Next generation Eu (NgEu) arrivino tutte, almeno la parte “sovvenzioni”, e vengano spese tutte, visto che a fine triennio rappresenteranno buona parte dell’effetto espansivo della politica di bilancio. Nel frattempo, l’Italia rifiaterà per due anni, con manovre in deficit. Questo, se le stime verranno rispettate.

Ieri il governo ha approvato in serata la Nota di aggiornamento al Def, che fa da base alla manovra d’autunno. Quest’anno il Pil calerà del 9% (del 10,4% in caso di peggioramento della pandemia, ma senza lockdown), per poi rimbalzare del 6% nel 2021, del 3% nel 2020 e dell’1,8% nel 2023. Il deficit chiuderà al 10,8% del Pil, per poi calare rispettivamente al 7%, al 4,7% e al 3% nel triennio. Il debito/Pil passerà dal 158% al 152% del 2023.

Queste stime scontano l’effetto espansivo della manovra, che aumenterà il deficit rispetto al “tendenziale”, cioè quello che si registrerebbe senza interventi, di 1,3 punti percentuali (circa 23 miliardi) il prossimo anno, dello 0,6% nel 2022 e dello 0,2% a fine triennio. Numeri che disegnano un quadro espansivo per almeno un biennio, alla scadenza del quale – si legge nei documenti – l’Italia riprenderà il solito percorso verso il “pareggio di bilancio” (tradotto: una stretta fiscale). Anche perché, il governo annota che nel 2023 il Pil dell’Italia raggiungerà il suo “potenziale” secondo le stime della Commissione (sulla loro affidabilità potete leggere a destra), nonostante a quel punto sia ancora oltre 5 punti inferiore a quello pre-crisi del 2008.

Per la prima volta, da tempo, l’Italia, insomma, non dovrà ricorrere a una stretta di bilancio e battagliare sugli zero virgola con Bruxelles. Il 2019, per dire, l’anno di Quota 100 e del Reddito di cittadinanza si è chiuso con il deficit più basso da 13 anni e un Pil quasi fermo. Fino al 2022 non sarà in vigore il patto di Stabilità, sospeso dalla Commissione (e non è ancora chiaro quando e come sarà ripristinato).

La manovra d’autunno, come detto, sarà in deficit per circa 23 miliardi. Nel complesso ne dovrebbe valere 40, contando anche sui risparmi registrati sulle misure messe in campo in questi mesi (soldi che comunque dovrebbero restare nei capitoli già decisi, ad esempio sulla Cassa integrazione).

Nella cifra finale è compreso anche l’impatto del NgEu. Ma a quanto ammonta? Le bozze dei documenti non sono chiare. Il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha parlato di 15 miliardi nel 2021, comprensivi di tutte le articolazioni del piano europeo. Al netto dei prestiti, il grosso è rappresentato dai 65 miliardi di sovvenzioni in 7 anni del “Piano di recupero resilienza”, di cui il 70% sarà “assegnato” (non speso) da Bruxelles entro il 2023 e il restante entro il 2026. A questi si aggiunto altri strumenti, come i fondi ReactEu (circa 15 miliardi per l’Italia), l’iniziativa europea per aiutare gli stati nella fase dell’emergenza vera e propria.

Le bozze visionate dal Fatto stimano comunque l’impatto espansivo sul Pil che avranno questi fondi europei: il Recovery Fund nel 2021 vale maggior crescita per lo 0,3% del Pil (circa 5 miliardi), la metà dell’effetto della manovra in senso stretto (0,6%); l’impatto sale allo 0,4% nel 2022 e allo 0,8% nel 2023, quando – stando ai numeri – rappresenterà l’intero impatto espansivo della politica di bilancio. Insomma, il grosso dei vari programmi Ue arriverà, o meglio sarà speso, dal 2023 in poi. Le risorse saranno destinate agli investimenti pubblici che, nelle intenzioni del governo, dovrebbero superare il 3% del Pil, ma alla fine del triennio si attesteranno al 2,7% (un dato comunque più alto del 2019).

Sul fronte manovra, la legge di Bilancio confermerà parte dei sussidi anti-covid e prorogherà il taglio del cuneo fiscale e la decontribuzione per chi assume al Sud, attivati nel 2020. Per la riforma fiscale, invece, servirà una legge delega e non si partirà prima del 2022. “Forse ne anticiperemo una parte”, ha detto ieri Gualtieri.

L’austerità? Scusate, ci siamo sbagliati

Il diavolo, si sa, si infila nei dettagli. Ed è in un dettaglio del discorso che Christine Lagarde ha tenuto a Francoforte mercoledì scorso che sta nascosto il diavolo dell’austerità, un nome che nasconde la pessima conduzione politica dell’Eurozona e le milioni di tragedie personali rubricate sotto la voce “crisi economica”. Per capire serve tornare al sottovalutato discorso della governatrice della Bce, che nasconde un conflitto che continua a emergere tra i Paesi dell’euro e parte da una domanda: come mai sono anni che non c’è inflazione?

Tenerla “vicina ma sotto al 2%” è il principale compito assegnato alla Banca centrale e dunque la domanda non è oziosa e coinvolge le fondamenta delle regole Ue. La risposta di Lagarde, tra le altre, è che “mentre la politica monetaria ha sostenuto l’inflazione”, “è stata controbilanciata dai venti contrari della domanda” e cioè da una politica fiscale (quanto deficit, per capirci) troppo rigida, che ha peggiorato le cose. Si sono sbagliati, che peccato.

Come è potuto succedere? In sostanza la Ue avrebbe misurato male una cosa chiamata “Pil potenziale”. Ci concentreremo su una delle possibili spiegazioni citate da Lagarde: “Le revisioni alla produzione potenziale hanno scambiato i cambiamenti ciclici per tendenze strutturali”, cosa che è dimostrata dal fatto che “dal 2011, gli studi che presumono che l’output gap sia stato molto più ampio hanno, in generale, sovra-performato quelli che utilizzano stime tradizionali”. Insomma, hanno azzeccato di più le previsioni. Cos’è allora questo output gap? All’ingrosso la distanza stimata tra il Pil effettivo e il Pil potenziale: in questo differenziale, un diabolico dettaglio, c’è la storia dell’austerità europea.

Dando per scontato che il Prodotto interno lordo è la somma di una serie di cose misurabili, quello “potenziale” è la stima del Pil raggiungibile in condizioni di piena occupazione senza creare tensioni sui prezzi. Esisterebbe, in soldoni, una cosa detta “disoccupazione di equilibrio”: se il tasso dei senza lavoro si abbassa sotto quella cifra l’economia si “surriscalda” facendo salire troppo l’inflazione, i governi devono dunque “raffreddarla” con una bella stretta fiscale. Il Pil potenziale serve a calcolare il famoso “saldo di bilancio in termini strutturali”, anche detto “al netto del ciclo economico”: insomma quella estenuante guerra di zero virgola con l’Europa a cui assistiamo ogni anno prima del varo della legge di Bilancio.

Attenzione: il concetto stesso di Pil potenziale è stato criticato scientificamente fin dagli anni Sessanta (Joan Robinson, Piero Sraffa, i post-keynesiani in generale), ma è rimasto uno dei cardini del modello economico mainstream, quello liberista o neo-liberista per quelli a cui piacciono le novità. L’ammissione di Lagarde, insomma, non è una novità ed è anche meno di quanto già si sa, ma è comunque una presa di posizione “rivoluzionaria” nella palude Ue, dove l’output gap viene peraltro calcolato in modo particolarmente penalizzante per i Paesi in crisi: l’allora ministro Pier Carlo Padoan nel 2014 se ne lamentò ufficialmente con Bruxelles, dimostrando che variando di pochissimo le stime sottostanti al calcolo, l’Italia sarebbe stata già da considerarsi in pareggio di bilancio strutturale dal 2012; ottima iniziativa il cui effetto fu nullo.

L’anno scorso Adam Tooze, storico della Columbia University, ha tentato di spiegarne così l’effetto perverso “con parole comprensibili ai profani”: “Si tratta approssimativamente di una media mobile delle prestazioni passate. Ciò significa che l’output potenziale deriva dalle sue stesse tendenze storiche, continuamente aggiornate con le ultime informazioni disponibili”. Insomma, “le stime del potenziale non sono, di fatto, indipendenti dai risultati della produzione effettiva. Se combinate con rigide regole fiscali, le stime retrospettive dell’output potenziale possono avere effetti veramente perversi”.

Tradotto: una crisi come quella del 2008-2009 deprime la crescita dunque, per i tecnici della Commissione, anche il Pil potenziale; a quel punto Bruxelles chiede più austerità per non surriscaldare l’economia; l’effetto è che la crisi peggiora e anche il Pil potenziale e così via. Basti dire che nel 2014 la Commissione stimò la disoccupazione di equilibrio in Spagna quasi al 26% e in Irlanda al 15%: in entrambi i Paesi quel tasso a fine anno fu inferiore e in entrambi i Paesi l’inflazione scese invece di aumentare (in Spagna, peraltro, sotto zero). Non parliamo nemmeno del disastro combinato in Grecia.

Veniamo all’Italia. Ancora Tooze: “Nel caso italiano l’effetto è stato drammatico. Nel 2018, a dieci anni dall’inizio della crisi, con l’alta disoccupazione e la bassa crescita divenute norma, le stime della produzione potenziale in Italia sono state riviste al ribasso di un valore tra il 15 e il 20% – di conseguenza anche una modesta crescita economica è stata sufficiente a spingere l’Italia al di sopra del suo limite di produzione potenziale e far registrare un output gap positivo. Con la disoccupazione ancora vicina all’11%, la sua economia è stata dichiarata surriscaldata”. Fino a quest’anno, in sostanza, secondo la Ue (ma anche secondo il Fondo monetario) l’Italia avrebbe avuto bisogno della stessa politica di bilancio di Germania e Stati Uniti. Una tale insensatezza ha spinto persino un pezzo dell’establishment a provare a smontare la macchina infernale: è il caso della campagna social Against nonsense output gaps (Contro il nonsenso degli output gap) lanciata da Robin Brooks, capo economista dell’Istituto di Finanza Internazionale, vale a dire una lobby del settore bancario. Perché non ha avuto successo? Semplice: le complesse formule matematiche di questi calcoli devono comunque “ottenere l’approvazione degli stati membri più conservatori. Le stime dell’output gap, in breve, sono politiche perseguite tramite i mezzi tecnici dell’economia” (ancora Tooze).

Ora c’è da chiedersi se quella che, tecnicamente, chiameremmo la scoperta dell’acqua calda di Lagarde (fino a ieri capo del Fmi) possa significare qualcosa per il futuro dell’Eurozona: “Nel contesto attuale – ha detto la governatrice della Bce – entrambe le politiche (monetaria e fiscale, ndr) devono rimanere espansive per tutto il tempo necessario a raggiungere i rispettivi obiettivi”. Lagarde dice insomma che la Bce deve continuare a fare il Quantitative easing o simili e che il Patto di Stabilità, oggi sospeso, non deve tornare in vigore prima di molto tempo e che quando lo farà dovrà essere molto diverso. È la posizione francese (e italiana e in generale dei “mediterranei”), ma non è quella tedesca: questo è il confronto in corso nell’Eurozona, questo ne deciderà il futuro.