“Per Bologna ’21 sto dialogando con Elly Schlein e con Bersani”

Un mese fa era salito sul palco della festa dell’Unità di Bologna, la sua città. Domenica scorsa ha partecipato a un dibattito nel capoluogo organizzato dalla Coalizione civica con la vicepresidente della Regione Emilia-Romagna Elly Schlein e il sindaco dem Virginio Merola. Il veterano dei Cinque Stelle, Max Bugani, spiega e commenta, mentre il M5S festeggia le vittorie nei ballottaggi: “Non conosco nel dettaglio i percorsi fatti a livello locale. Certo, nelle Regioni non si era fatto nulla…”.

Si prepara a lasciare il Movimento, magari traslocando a sinistra?

No. A Bologna io e il gruppo locale del M5S ci confrontiamo da mesi con Schlein e altri esponenti della sinistra e di associazioni civiche. Persone di grande qualità, con cui si può costruire un percorso, un laboratorio Bologna. Dialogo sempre più spesso anche con Pier Luigi Bersani, con cui c’è stima reciproca.

Lavorate a una candidatura condivisa per il Comune nel 2021.

Vogliamo alzare l’asticella su temi come l’ambiente, la trasparenza nelle liste, i trasporti, la lotta alle mafie.

Lei parla di percorso assieme al Movimento locale. Ma diversi parlamentari e altri esponenti non la pensano affatto come lei.

Ci sono delle resistenze. Ma noi abbiamo intrapreso questo dialogo dopo che gli attivisti su Rousseau hanno autorizzato eventuali accordi a livello locale. E poi comunque decideranno sempre gli iscritti sulla piattaforma, perché questo è il M5S. Non c’è nulla di scontato.

Le vittorie nei Comuni raccontano che le intese spesso sono vincenti. In fondo è la sua stessa strada, magari imboccata in modo diverso, no?

Io non voglio accrocchi fatti solo per vincere le elezioni, senza badare ai nostri temi. Ma progetti seri.

Lei prepara la scissione.

No, gli scissionisti sono quelli che non difendono Rousseau e l’importanza degli iscritti.

 

“Altro che morte nera: ho vinto grazie al Pd”

Glielo dice lei a Di Battista che il sindaco grillino di Matera è stato votato anche dai socialisti? Io non ho cuore.

Bisogna saper trarre dal territorio ogni utile esperienza. Utile e vicina allo spirito nostro. A Matera queste condizioni ci sono state e io ho raccolto un appoggio vasto.

Lei, Domenico Bennardi, è la prova dell’esistenza in vita dei 5S. I suoi capi in queste ore sono impegnati in un corpo a corpo.

Sono nel M5S dal 2009, iscritto della prima ora, militante nell’idea che il Movimento cresce se non si isola, non si blocca. Se si mette in cammino.

Il Movimento in movimento.

Ecco, bellissimo. Questa cosa qui.

Lei suggella l’accordo col Pd, formalizza il giallorosso come il sol dell’avvenire.

Abbiamo visto a nostre spese cos’è la Lega. E se qui si è vinto tanto, con un consenso così trasversale, così più ampio del nostro, è perché la città ha fatto fronte contro un sopruso culturale prima che politico: divenire una dépendance leghista.

Matera non si lega.

Assolutamente, definitivamente, cocciutamente. Matera non è leghistizzabile.

Bennardi, Di Maio le salterà al collo per la gioia.

È venuto quattro volte, ritornerà.

Giura che non si mette a fare pasticci con gli scontrini, i rimborsi, le indennità?

Io? Guardi che Rimborsopoli è un filone giudiziario che attende ancora il suo esito finale e appartiene al centrodestra qui in Lucania.

Stare col Pd è “la morte nera”, farete la fine dell’Udeur dice Di Battista.

Invece io penso che il centrosinistra sia il terreno dove possa crescere il movimento, l’unica area nella quale trova spazio e rispetto, il luogo politico dove può promuovere i suoi progetti.

Lei ha un mestiere, vero?

Sì, ho una piccola azienda che lavora nel campo della formazione dei beni culturali

Quindi una dichiarazione dei redditi.

Perché?

Non è uno sfaccendato, uno scappato di casa, come vi chiamano.

Ah, le ingiurie!

Bennardi, Matera è sua.

È nostra, è di tutti.

Metta pace, dica una buona parola per i suoi capi. Lei sembra un frate.

La mia proposta: facciamo gli Stati generali a Matera. Sarebbe anzitutto un segno di riconoscenza della politica nei confronti della bellezza, della quale dovrebbe occuparsi, alla quale dovrebbe destinare ogni sforzo. E poi Matera è un buon posto per chiarirsi le idee.

Lei non eccede. Non è un tipo facondo, non urla. È un grillino in giacca e cravatta.

La mia è una rivoluzione garbata.

Mite.

Muovere le idee, trovare compagni di strada per farle vincere e promuovere uno stile sobrio.

Ecco, lo stile sobrio.

Bisogna essere credibili per rendere credibili anche i sogni.

Casaleggio e i big: la guerra aperta può finire in tribunale

La guerra civile a 5Stelle è lì, a un passo: pronta a tracimare anche nei tribunali. Ma il Movimento è già spaccato in due fazioni, che parlano con comunicati bellici e ragionano di vittorie e sconfitte. Così Davide Casaleggio, l’erede, è convinto di aver segnato un punto a suo favore nella scaramuccia di due giorni fa. Ritiene che i governisti di Roma, i 5Stelle che nel post di domenica mattina aveva accusato di predicare “il partitismo come rifugio di chi ha paura di perdere i privilegi”, abbiano commesso un errore. In serata il comitato di garanzia, composto anche dal capo politico reggente Vito Crimi, lo aveva censurato per aver usato il blog delle Stelle “per veicolare suoi messaggi personali non condivisi con gli organi del Movimento”, e soprattutto aveva ricordato: “Il blog è il canale ufficiale del M5S e Casaleggio non ricopre alcuna carica nel Movimento”. Ma ieri mattina l’Associazione Rousseau risponde, facendo notare che il blog è casa sua, di Casaleggio: “Il portale è il blog ufficiale sia del M5S che dell’Associazione, pertanto Casaleggio in quanto presidente di Rousseau è pienamente titolato a pubblicare i suoi articoli su di esso”.

Tradotto, il web è roba sua, del figlio di Gianroberto, e da lì non possono stanarlo. Sillabe che nel campo avversario seminano malumore e soprattutto sconcerto. Raccontano che a spingere il comitato di garanzia allo scontro fosse stato innanzitutto l’ex capo politico Luigi Di Maio. E che la prima versione del post anti Casaleggio fosse più dura. Di certo dentro i 5Stelle intossicati più d’uno parla di “autogol”. E su telefonini e chat circola il tweet di Marco Canestrari, esperto informatico un tempo vicinissimo ai Casaleggio e ora avverso al M5S: “Il blog è assolutamente di proprietà di Casaleggio”. Da Roma però non ci stanno. Fonti vicine al comitato di garanzia citano la mission del blog, “dove trovano spazio i contributi e le voci degli organi del Movimento, degli eletti e degli attivisti”. Però nella privacy policy (il documento che informa gli utenti sul trattamento dei loro dati) l’Associazione Rousseau è centrale… “Quella non l’ha mai approvata nessuno” è il siluro.

Tutto questo in attesa del possibile scontro frontale sul simbolo: secondo lo Statuto, dato in uso dall’associazione Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo alla nuova associazione, di fatto fondata a Roma da Casaleggio e Di Maio nel 2017. Il manager, raccontano, reputa di avere diritti anche sullo stemma, anche per aver depositato gli atti della nuova associazione. E ovviamente dall’altro fronte negano, con forza. Ma su tutto incombe sempre il nodo principale, cioè il mantenimento del vincolo dei due mandati. La vera partita tra la casa madre di Milano, che vorrebbe azzerare una classe dirigente e ripartire con un capo politico, cioè Alessandro Di Battista, e i maggiorenti del Movimento, che vogliono ridiscutere anche quel totem e costruire un progetto politico guardando a sinistra. Nel frattempo dietro le quinte si muovono truppe. Casaleggio chiama i fedelissimi di buon mattino, e l’amarezza trabocca: “A Roma non capiscono neanche ora come stanno le cose…”. Raccontano anche di un colloquio con Crimi. Il reggente lo avrebbe chiamato, manifestando grande “dispiacere” per il post del comitato di garanzia. Ma al Fatto Crimi assicura di non averlo sentito. Di certo Casaleggio rimane in trincea, fedele all’idea già diffusa urbi et orbi dal sodale Max Bugani: “Gli scissionisti non siamo noi, non quelli che vorrebbero vedere nomine diverse dai compagni del liceo”. E porta a casa anche l’appoggio di Nicola Morra: “Se ci si dovesse trasformare in una realtà partitica probabilmente non sarà soltanto Davide Casaleggio, ma anche Nicola Morra e tanti altri che decideranno di farla finita”. Sull’altro versante, si cerca di ripartire.

A breve, dicono, Crimi darà comunicazioni sugli Stati generali annunciando le assemblee locali e provinciali, previste attorno a metà mese. Mentre Di Maio e Zingaretti celebrano la vittoria dei giallorosa nei ballottaggi. “Con la coalizione di governo e le coalizioni in generale il M5S torna a governare” rimarca l’ex capo, che rivendica un “modello”. Opposto a quello di Casaleggio: quello che ha ancora le chiavi di tutto.

Ballottaggi a tinte giallo-rosa: esultano Di Maio e Zingaretti

“Avevano ragione gli iscritti, vince il modello della coalizione”. Luigi Di Maio è appena arrivato nella sua Pomigliano d’Arco e non riesce a frenare l’entusiasmo: il suo candidato, il papirologo Gianluca Del Mastro, è stato appena eletto in coalizione del Pd 61-39% contro la sindaca uscente Elvira Romano.

Ma non c’è solo la città dell’ex capo politico del M5S: a suggellare il grande successo dell’asse giallorosa nei ballottaggi ci sono le altre quattro città dove si sperimentava l’alleanza. Oltre ai due sindaci già eletti al primo turno – Massimo Isola a Faenza e Vincenzo Falco a Caivano – i giallorosa al secondo turno fanno vincere anche Nicola Pirozzi a Giugliano (Napoli) e Maria Terranova a Termini Imerese (Palermo) mentre a Matera il grillino Domenico Bennardi ribalta il risultato del primo turno battendo il leghista Rocco Luigi Sassone (67-32%) grazie all’appoggio del candidato Pd Giovanni Schiuma. Un sostegno decisivo del M5S è arrivato anche a Corsico (nel milanese) dove il Pd Stefano Ventura batte il sindaco uscente Filippo Errante e a Cascina (Pisa): nel feudo di Susanna Ceccardi, il dem Michelangelo Betti ha la meglio sul leghista Leonardo Cosentini grazie all’apparentamento con il M5S. A Barcellona Pozzo di Gotto si consuma l’unica sconfitta dei giallorosa: qui Antonio Dario Mamì è stato battuto dal candidato del centrodestra Giuseppe Calabrò (65-23%).

Ma il risultato negativo del piccolo comune nel messinese non può oscurare il successo della coalizione che sostiene il governo Conte. Luigi Di Maio parla di “giornata simbolo per il M5S” e conferma la via dell’alleanza anche a livello locale, contrariamente ad Alessandro Di Battista: “Le coalizioni ci premiano – dice a caldo – Vince il modello dell’apertura verso gli altri”. Anche il segretario del Pd Nicola Zingaretti esulta parlando di “risultati straordinari” e che “con l’alleanza di governo si vince”. Poi rilancia la palla nel campo del M5S per le comunali del 2021: “Adesso bisogna aprire il cantiere per le amministrative del prossimo anno – ha aperto Zingaretti – anche a Roma”.

Allargando il quadro al resto dei ballottaggi, il centrosinistra domina in tutta Italia: nei 17 capoluoghi di provincia in cui si è votato, 8 vanno al Pd (oltre a Trani, Trento e Mantova del primo turno, anche Reggio Calabria, Andria, Chieti, Lecco e Bolzano), 4 al centrodestra (Macerata, Venezia, Enna e Arezzo), il M5S vince a Matera mentre Fermo e Crotone vanno ai civici Paolo Calcinaro e Vincenzo Voce e Aosta a Gianni Nuti dell’Union Valdotaine. Il primo risultato che fa esultare i dem è Reggio Calabria dove il sindaco uscente Giuseppe Falcomatà viene rieletto contro l’ex dirigente della Città Metropolitana Antonino Minicuci 59 a 41%: un’altra batosta per Matteo Salvini che su Reggio aveva puntato tutto a costo di litigare con Giorgia Meloni e Silvio Berlusconi. Il centrosinistra riesce a strappare al centrodestra anche Andria dove Giovanna Bruno il candidato del M5S Michele Coratella e Chieti dove il Pd, con il medico di famiglia Diego Ferrara, vince dopo 25 anni di centrodestra. Domenica era già arrivata la riconferma di Renzo Caramaschi a Bolzano mentre è rocambolesca la vittoria di Mauro Gattinoni a Lecco, feudo leghista fino al 2015, per 31 voti contro Peppino Ciresa. In Lombardia i dem vincono anche in storiche terre leghiste come Saronno, Legnano, Corsico e a Matteo Salvini non resta che andare a festeggiare nella più modesta Voghera. Oltre a Macerata e Venezia (primo turno), al ballottaggio il centrodestra vince solo ad Arezzo e a Enna con le riconferme di Alessandro Ghinellie Maurizio Antonello Di Pietro. Ad Agrigento è avanti Franco Micciché appoggiato da Vox, la lista del filosofo Diego Fusaro.

L’affaire Vaticano e il broker: 4 inchieste dei pm di Milano

Un poker d’indagini e una rogatoria arrivata dal Vaticano: anche la Procura di Milano entra nella partita delle inchieste che stanno scuotendo la Santa Sede. Sotto la lente dei magistrati milanesi è finito uno dei finanzieri protagonisti degli affari promossi da monsignor Giovanni Angelo Becciu e dai suoi collaboratori presso gli Affari generali della Segreteria di Stato vaticana. È quel Gianluigi Torzi che nel 2018 sostituisce Raffaele Mincione, altro mago della finanza offshore, nella gestione dell’ormai famoso palazzo di Londra al numero 60 di Sloane Avenue, fonte – secondo gli investigatori vaticani – di perdite milionarie.

Ci sono ben quattro fascicoli sugli affari di Torzi aperti a Milano sulle scrivanie di quattro diversi sostituti procuratori, per reati che vanno dalla truffa alla bancarotta. Il più antico, di molto precedente alle indagini vaticane, riguarda il crac di Banca Mb, saltata nel 2012. Il più recente, aperto a luglio, nasce invece da una rogatoria inviata dal Vaticano. Riguarda proprio il ruolo di Torzi nella gestione dell’immobile londinese, ex sede dei magazzini Harrods. Le due indagini milanesi hanno un personaggio in comune: l’avvocato Nicola Squillace, con studio a Milano, a un indirizzo un tempo molto noto, quello dello studio Libonati-Jaeger, fondato dal suocero di Squillace, Pier Giusto Jaeger. Squillace è stato in passato indagato proprio per la bancarotta Mb, come poi anche Torzi. Oggi invece i magistrati stanno cercando di ricostruire le operazioni dalla Gutt sa, società lussemburghese di Torzi che viene alla ribalta nel 2018. Il 15 agosto di quell’anno, Becciu viene rimosso dal suo incarico e mandato a pensare ai beati, come prefetto della Congregazione delle cause dei santi. Lo sostituisce agli Affari generali della Segreteria di Stato l’arcivescovo venezuelano monsignor Edgar Peña Parra. Nel novembre del 2018, il nuovo arrivato mette alla porta Mincione, accusato di aver provocato pesanti perdite alle finanze vaticane. A prendere il suo posto arriva Torzi con la Gutt. Lo assiste, da Milano, l’avvocato Squillace. Ora l’indagine della Procura milanese, in risposta alla rogatoria vaticana, dovrà ricostruire l’operazione per i promotori di giustizia Giampiero Milano e Alessandro Diddi, i “pm del papa”, fornendo loro anche i documenti sequestrati a Squillace.

Torzi era entrato nell’operazione a fine 2018, quando la Santa Sede aveva cercato di venire in possesso del palazzo londinese, liquidando con 40 milioni le quote del fondo Athena Capital Global Opportunities di Mincione, che aveva avviato con Becciu l’affare di Sloane Avenue nel 2014. Torzi, entrato in partita, aveva ceduto al Vaticano 30 mila azioni della Gutt senza diritto di voto, mantenendo per sé 1.000 azioni con diritto di voto, che gli avevano permesso di mantenere il controllo del palazzo. Per cederle al Vaticano aveva chiesto 30 milioni, ma ne aveva ottenuti solo 15. Poi, il 5 giugno, era stato arrestato dalle autorità vaticane, con l’accusa di estorsione. Si fa ora strada l’ipotesi che i 30 milioni chiesti al Vaticano servissero a Torzi per chiudere un’operazione con la Popolare di Bari. È quella raccontata dal Fatto Quotidiano nel luglio 2019: Vincenzo De Bustis, allora consigliere delegato della banca pugliese, aveva annunciato l’arrivo di titoli per 30 milioni sottoscritti da una società maltese, la Muse Ventures Ltd, fondata da Torzi con un capitale di soli 1.200 euro. I 30 milioni non arrivano a Bari. In compenso, arrivano gli allarmi del servizio antiriciclaggio della Popolare di Bari, che sottolineano la “sproporzione tra i mezzi propri del sottoscrittore” (la Muse) “e l’importo della sottoscrizione dei titoli”; rilevano che “l’anagrafica e l’identificazione della società in discorso”, cioè la maltese Muse di Torzi, “risultano incomplete, essendo carenti le informazioni relative al titolare effettivo e al codice fiscale”; e che l’amministratore di Muse, Gianluigi Torzi, insieme al padre Enrico, è presente “nelle liste mondiali di bad press (WorldCheck) per diverse indagini a suo carico”. L’operazione con questo personaggio è classificata “ad alto rischio” e con “evidenza antiriciclaggio negativa”. Bloccato a Bari, Torzi ci prova comunque a Roma. Ora i nodi vengono al pettine a Milano.

“I politici? Come le banche”: Siri rischia il processo

“Un po’ di politici li conosciamo, i politici sono come le banche, li devi usare! (…) Li devi usare e ogni volta che li usi paghi! Basta! Non è che c’è l’amico politico, non c’è l’amicizia in politica”. È “l’eloquente considerazione” (per usare le parole degli uomini della Dia) che l’ex parlamentare forzista, Paolo Arata, il 20 settembre 2019, consegna all’imprenditore Valerio Del Duca. Quest’ultimo è uno dei tre nuovi indagati dell’inchiesta che ha coinvolto, decretandone le dimissioni a maggio 2019 da sottosegretario alle infrastrutture, Armando Siri. Il senatore leghista ora rischia il processo: i magistrati capitolini hanno chiuso l’indagine (atto che di norma prelude a una richiesta di rinvio a giudizio) muovendo all’ideatore della Flat Tax l’accusa di corruzione per l’esercizio della funzione. Sono due dunque, secondo i pm, le presunte mazzette promesse o consegnate. C’è la vicenda già nota, quella che vedeva il senatore accusato di aver tentato di promuovere provvedimenti per favorire Arata in cambio della promessa di 30mila euro. A questa si aggiunge ora una nuova contestazione, anticipata dal Fatto il 18 settembre scorso. Con Siri e Arata, sono indagati altri tre. Tra questi Valerio Del Duca e pure due dipendenti della Leonardo Spa (ex Finmeccanica) – l’azienda chiave del comparto difesa controllata dal ministero dell’Economia – Simone Rosati e Paolo Iaboni. Secondo le accuse, Siri “si attivava (…) per ottenere un provvedimento normativo ad hoc che finanziasse, anche in misura minima – con differimento dell’intera copertura finanziaria, negli esercizi finanziari a venire – il progetto di completamento dell’aeroporto di Viterbo, di interesse della Leonardo Spa per future commesse”. Non solo. Per i pm, il senatore “esercitava pressioni direttamente o per interposta persona (l’avvocato Cardia Lamberto, persona di sua fiducia) sul comandante generale della Guardia costiera, l’ammiraglio Giovanni Pettorino” affinché rimuovesse “il contrammiraglio Piero Pellizzari dall’incarico di Responsabile unico del procedimento nell’ambito di un appalto in essere, ma in scadenza, per la fornitura di sistemi radar Vts (Vessel Traffic Service)”. Tutto questo perché Pellizzari era inviso alla Leonardo perché “critico su alcuni aspetti della fornitura”. Le pressioni non fanno presa su Pettorino, e Pellizzari resta al proprio posto. Colui che per gli investigatori avrebbe fatto da tramite, l’avvocato Cardia, è un nome noto: non indagato, è stato presidente della Consob.

In cambio del tentativo di ottenere un provvedimento ad hoc (l’emendamento non è stato presentato) e delle presunte pressioni, per i magistrati, Siri avrebbe ottenuto qualcosa in cambio. Ossia “la promessa di ingenti somme di denaro (per il tramite e in parte destinate anche agli intermediari Paolo Arata, con legami personali e illeciti con lo stesso Siri e Del Duca) e comunque la dazione di 8mila euro, anticipati da Del Duca e da Simone Rosati (dipendente di Leonardo Spa, d’intesa col suo superiore gerarchico Paolo Iaboni), che avevano programmato di riottenere tale provvista – pur non riuscendo nell’intento – mediante il pagamento da parte di Leonardo Spa di una fattura emessa” da un’azienda di ingegneria sistemistica. Alla fine l’operazione non va in porto, ma i pm hanno in mano intercettazioni alla base nella nuova contestazione. Sentiti dal Fatto, dalla Leonardo Spa spiegano: “La società è estranea al procedimento. Non appena ha avuto notizia dell’esistenza dell’indagine ha immediatamente avviato un audit interno e adottato misure in via cautelativa nei confronti dei due dipendenti”.

Lega, nuovo record: scoperte altre 100 operazioni sospette

Flussi di denaro per milioni di euro e operazioni sospette. La Procura di Milano, nell’ambito dell’inchiesta sul caso Film Commission e sui commercialisti vicini alla Lega di Matteo Salvini, ora indaga su questo. L’accelerazione è arrivata anche dopo il vertice con i colleghi di Genova che stanno lavorando sulla scomparsa dei 49 milioni di rimborsi pubblici dalle casse partito. Da giorni la Guardia di finanza di Milano sta studiando cento segnalazioni per operazioni sospette (Sos), elaborate dall’Antiriciclaggio di Banca d’Italia, che riguardano gli uomini vicini alla Lega coinvolti o solo citati nel fascicolo milanese e in quello ligure.

I documenti raccontano gli ultimi dieci anni di flussi finanziari, a partire dal 2010, epoca in cui era operativa la vecchia Lega di Umberto Bossi e del tesoriere Francesco Belsito. Si tratta di documenti che non sono stati depositati e che non coincidono con le note dell’Antiriciclaggio di Banca d’Italia allegate agli atti del fascicolo. Insomma, materiale inedito allo studio della Finanza.

Vi rientrano così tutte le attività che nel tempo hanno riguardato i due commercialisti vicini alla Lega e cioè Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni. Tutte le società a loro collegate, anche quelle, emerge dagli atti, nelle quali risultano soci politici di rilievo del Carroccio, come il tesoriere Giulio Centemero e il senatore bresciano Stefano Borghesi. Nello specifico si tratta della Stp, società di commercialisti contabili, già oggetto di segnalazione, il cui capitale iniziale per quanto riguarda Centemero è arrivato in parte da denaro pubblico.

Sul tavolo anche le attività connesse agli imprenditori vicini alla Lega. Tra questi Francesco Barachetti, l’elettricista ed ex consigliere comunale di Casnigo vicino di casa di Di Rubba che ha ricevuto parte del denaro pubblico frutto della vendita dell’immobile di Cormano dalla società Andromeda di Scillieri alla fondazione Lombardia Film Commission (Lfc). Denaro che lo stesso Barachetti girerà a società riferibili al duo Di Rubba-Manzoni. Negli ultimi anni Barachetti, che ha un vecchio precedente per spaccio e che oggi è indagato per peculato nell’indagine sui presunti fondi neri della Lega, ha ricevuto dal partito lavori per oltre due milioni di euro. Sotto la lente vi sono poi le attività dell’imprenditore bergamasco Marzio Carrara che non risulta indagato. Allo studio della Finanza, come scritto dal Fatto, c’è un pacchetto societario acquistato a 5,5 milioni anche da Carrara e Di Rubba e rivenduto solo 4 mesi dopo a 29 milioni all’imprenditore bergamasco Mario Francesco Pozzoni (non indagato). Carrara negli anni è risultato tra i fornitori della Lega. Nuove segnalazioni riguardano il caso dell’associazione Maroni presidente e il presunto giro di fatture false riferito in parte al parlamentare leghista Fabio Boniardi (non indagato) titolare di una tipografia nel Milanese. L’associazione riguarda l’indagine genovese e 450mila euro usciti e rientrati nella casse della Lega. Unico indagato per riciclaggio, Stefano Bruno Galli, assessore regionale lombardo alla Cultura.

Una montagna di carte dalle quali quindi potrebbero uscire novità di rilievo. Non a caso, nello scambio di atti dalla procura di Genova a quella di Milano, vi sono i risultati delle perquisizioni disposte dai pm liguri nel 2018 a carico dei commercialisti bergamaschi. Nel cd, ora allo studio della Finanza, ci sono gli assetti societari dell’imprenditore bergamasco Angelo Lazzari, il cui nome è associato a sue società, una in Lussemburgo che, si legge in una Sos agli atti, hanno gestito “indirettamente” la società Taac riferibile a Di Rubba e Manzoni. In particolare Taac, risulta dall’analisi dell’Uif della Banca d’Italia, è stata controllata indirettamente dalla spa Prima fiduciaria “attraverso – si legge – l’interposizione di svariate imprese due delle quali riconducibili a Lazzari, ovvero la lussemburghese Ivad sarl e la Sevenbit Srl”.

Dalla lista dei nomi vicini alla nuova Lega di Salvini spunta anche quello del commercialista Michele Scillieri, arrestato settimane fa con Di Rubba e Manzoni. Su Scillieri che nelle intercettazioni spiegava di aver un “cassetto” da aprire pieno di notizie rilevanti, emerge un secondo dato importante. Dalle perquisizioni successive agli arresti di settembre a uno degli indagati, è stata trovata una pen-drive sulla quale è caricato il backup del computer di Scillieri. Un elemento che come per le cento sos promette sviluppi interessanti. L’inchiesta sui presunti fondi neri della Lega non si ferma.

Il protocollo è salvo (per ora). La Serie A si tranquillizza

Il calcio italiano prova a salvare il protocollo. Cioè se stesso, perché senza non esiste campionato. È la sintesi del day-after di Juve-Napoli, la grande partita che non si è mai giocata per colpa del Covid, della Asl, di De Laurentiis, ancora non si è ben capito.

Il ministro dello Sport Spadafora ha incontrato Lega e Figc. Sul tavolo la possibilità per i calciatori di giocare anche se entrati in contatto con un positivo. “Il protocollo è valido e dovrà essere rispettato con rigore, il campionato va avanti”. Sospiro di sollievo per il pallone, dopo voci di inasprimento delle regole (e magari di una quarantena). La revisione in futuro non è esclusa: potrebbe essere aggiunto un altro tampone prima del viaggio. Al ministero della Salute sono furiosi col pallone, ma per ora si va avanti. Resta il precedente devastante, visto che le Asl continueranno ad avere l’ultima parola. Su questo il governo è chiaro. “Auspichiamo che quella di Napoli sia stata un’eccezione”, abbozza il n.1 della Figc Gravina. Non può fare altro.

La controffensiva su De Laurentiis invece è basata sul fare le pulci al comportamento del Napoli, in particolare dopo la prima positività di Zielinski, quando i calciatori avrebbero dovuto entrare in bolla: la Procura Figc ha aperto un’inchiesta sugli azzurri (altre potrebbero seguire). Il governo pretende il rispetto delle regole: basta calciatori che scorazzano invece che stare in isolamento. Questo non risolve il dilemma Juve-Napoli. Il giudice sportivo prende tempo. Le carte dimostrano che dopo la prescrizione sull’isolamento, è stato il Napoli a chiedere lumi sulla partenza, scontata da protocollo. Uno scrupolo, per la società. Per la Lega la prova che è stato De Laurentiis a cercare il rinvio in Regione. Comunque sia, carte alla mano è difficile che il Napoli possa perdere un eventuale ricorso in tribunale, con dalla sua il parere tombale dell’Asl. Il campionato va avanti, si fa per dire.

Pochissimi tamponi e reparti già pieni: perché la Campania è un caso nazionale

SarsCov 2 corre veloce in Campania, la curva sale, ieri 431 positivi – il numero più alto del Paese – su appena 4.867 tamponi, 30 in più dell’altroieri, ma con 7.498 tamponi. I 130 posti letto covid dell’ospedale Cotugno di Napoli, avamposto di infettivologia, sono tutti occupati e ieri sera hanno riconvertito altri reparti per aumentare la capienza e arrivare a un totale, a regime, di 144 posti letto, di cui 16 destinati alla terapia intensiva, altri 16 alla subintensiva. “Bisogna mantenere la guardia altissima” commenta il manager del Cotugno Maurizio Di Mauro. Qualcosa si è inceppato in una delle regioni che raggiunse presto e bene il traguardo dei contagi zero, e seppe a giugno spegnere con fermezza il focolaio del quartiere Cirio di Mondragone. Il governatore De Luca punta il dito contro la movida e le irresponsabilità individuali, se la prende con le forze dell’ordine che non fanno controlli (“non ci sono più”) e firma un’ordinanza per sancire il ‘coprifuoco’ dei locali pubblici alle 23. Non basterà se, come emerge dalle cifre, non si prenderanno di petto ritardi e inefficienze dei servizi territoriali di diagnosi e tracciamento. A cominciare dai numeri dei tamponi, imbarazzanti per la loro modestia per una regione di quasi 6 milioni di abitanti: quello del lunedì è fisiologicamente basso rispetto a una media degli ultimi giorni di circa 8mila tamponi, ma il Lazio, per fare un esempio, ieri ne ha comunicati 11.402 (che hanno rilevato ‘solo’ 248 contagiati), e ne esegue regolarmente circa il doppio rispetto alla Campania. Il chirurgo milanese Paolo Spada, chief editor della pagina Fb ‘Pillole di Ottimismo’, circa 1 milione e 700mila contatti al giorno, luogo virtuale dove ogni giorno si analizzano i numeri del contagio che piovono da tutt’Italia, sottolinea che la Campania è una di quelle regioni dove “il rapporto positivi/persone testate è oltre il 7% e questo è un segnale di sofferenza del sistema, più è alto questo indice più è bassa la possibilità di allargare il cerchio dei contatti attorno al positivo, perché evidentemente la capacità di erogare il test in tempi utili è limitata”. Secondo Spada il numero di tamponi attuali in Campania è “insufficiente” ma invita i campani a non allarmarsi: “Qui il numero dei contagi è di circa 42 ogni 100.000 abitanti, nella provincia di Napoli 55, superiori alla media italiana di 25, ma a Parigi quest’indice è di 180 e inoltre non si intravedono sovraccarichi preoccupanti del sistema sanitario ospedaliero. Se i reparti sono pieni spesso dipende dal fatto che ospitano pazienti non gravi, ricoverati in via precauzionale perché le condizioni socio-familiari non consentono l’isolamento. C’è quindi un largo margine di riutilizzo di quei letti se dovessero arrivare casi davvero severi”. Resta il nodo tamponi, e in aiuto potrebbero intervenire i laboratori privati. “Ma in Campania non li vogliono e non capiamo perché – dice il presidente di Federlab Gennaro Lamberti – solo un centro di Casalnuovo, l’Ames, collabora con l’Asl Na 1 per processare i campioni che il pubblico non riesce a fare”.

Focolaio alla cena leghista. Ma Salvini gira la Liguria

Pioveva, il 25 settembre in via Scifelle a Terracina (Latina). C’era da sostenere Valentino Giuliani verso il ballottaggio e gli astanti, un centinaio, i più entusiasti con Alberto da Giussano effigiato sulla mascherina, si erano rifugiati nel ristorante in cui ci sarebbe stata la cena, a poche centinaia di metri dalla via Appia e dall’ospedale Fiorini. Per l’occasione alla trattoria “Il Tordo” era arrivato Matteo Salvini: il derby con Fratelli d’Italia per l’elezione del sindaco era troppo importante perché il segretario quel giorno non fosse a Terracina, a tirare la volata al suo candidato con tutto lo stato maggiore della Lega provinciale. L’altroieri la scoperta: il presentatore della manifestazione ha il tampone positivo e i sintomi del Covid. Ora tutti coloro che sono entrati in contatto con lui sono stati posti in isolamento e dovranno fare il test. Ieri pomeriggio, però, Salvini era in giro per la Liguria.

C’erano i deputati Claudio Durigon e Francesco Zicchieri, l’europarlamentare Matteo Adinolfi e Angelo Orlando Tripodi, consigliere regionale. Tutti nel potenziale cluster insieme al leader per sostenere l’uomo a cui era affidato il compito di strappare la città ai meloniani. Ora, con l’intera provincia in allarme per la crescita dei contagi, è scattato il contact tracing. Tra i primi a fare l’esame, ieri, è stato Zicchieri che, essendo di Terracina, aveva frequentato il presentatore-organizzatore nei giorni dell’evento. Ieri sera l’annuncio su Facebook: “Il mio tampone è positivo”. “Abbiamo attivato il protocollo per il tracciamento dei contatti – conferma Giorgio Casati, direttore generale della Asl di Latina – Attiveremo in questi giorni il drive-in di Terracina per i residenti e chi non lo è ma ha avuto contatti diretti che possano aver determinato il contagio ha ricevuto o riceverà una notifica. Ovviamente non do alcuna indicazione su casi personali”. Per i non residenti a effettuare il test sarà la Asl locale. Nel caso di Salvini sarà l’Ats di Milano alla quale, da quanto risulta al Fatto, da Latina ieri è stata inviata la relativa comunicazione. In serata la struttura non confermava.

Ieri sera l’entourage del senatore, che in giornata aveva visitato il Salone nautico di Genova e poi era stato a Voghera per salutare la neo-sindaca leghista Paola Garlaschelli, spiegava di non aver ricevuto nulla. Un po’ di cautela, però, sarebbe stata utile. Il protocollo prevede che se il contatto con il caso infetto non è diretto si fa il tampone e si resta in isolamento fino all’esito del test. Se invece è diretto oltre al tampone scatta la quarantena, perché il test può risultare negativo ma la positività può saltare fuori in un secondo momento. In entrambi i casi, tuttavia, il soggetto deve restare in isolamento. Anche se la Ats di riferimento non gli ha comunicato l’obbligo, quindi, Salvini avrebbe potuto evitare di propria volontà gli appuntamenti in Liguria.

Non avrebbe potuto nulla, invece, su quelli successivi a quel 25 settembre. Quella stessa mattina in un evento a Formello il leader leghista aveva detto di essere “un po’ febbricitante ma ci tenevo a essere qua”, salvo poi correggersi il giorno dopo dicendo di non aver “mai avuta febbre” e aver “fatto il test sul Covid ieri mattina, negativo”. Ieri il partito ha confermato i nuovi controlli: “Tutti gli esponenti della Lega che hanno partecipato all’evento di Terracina lo scorso 25 settembre stanno procedendo a fare i controlli necessari Covid-19 – si legge in una nota –. Ricordiamo che il segretario aveva fatto il test già il mattino del 25 settembre con esito negativo”. Come a dire, l’“untore” non è Salvini. Oggi lo farà anche Adinolfi, che il 3 ottobre era con Tripodi alla manifestazione di Catania per sostenere il leader in occasione dell’apertura del processo Gregoretti.