Verso la stretta. Mascherine anche all’aperto e chiusure se tutto peggiora

I numeri fanno paura: ieri sono stati registrati 2.257 contagi a fronte di appena 60 mila tamponi, cioè la metà dei 120 mila di venerdì 2 ottobre quando i positivi erano 2.499. Il 3,7 per cento di tamponi positivi preoccupa, dalla fine del lockdown non ci si era mai arrivati. In 24 ore 16 morti (totale 36.002), 200 ricoverati in più nei reparti ordinari (sono in tutto 3.487), altri 20 in terapia intensiva (totale 323).

Il governo prepara il nuovo decreto del presidente del Consiglio (Dpcm) che non conterrà misure da “coprifuoco”, non ci sarà la chiusura anticipata dei locali alle 22 o alle 23 e nemmeno l’invio dell’Esercito contro gli assembramenti della movida. Dovrebbe invece prevedere la generalizzazione dell’obbligo di mascherina all’aperto, con multe da 400 a 3.000 euro come nelle Regioni che l’hanno già introdotta come il Lazio. Non piace ai presidenti di centrodestra di altre Regioni, dal ligure Giovanni Toti al lombardo Attilio Fontana e al molisano Donato Toma. Tace il veneto Luca Zaia, il meno salviniano dei leghisti. Ma anche Stefano Bonaccini, il presidente dem dell’Emilia-Romagna e della Conferenza Stato-Regioni, vorrebbe l’obbligo di mascherina all’aperto solo quando non è possibile il distanziamento, come è già previsto nella sua Regione e soprattutto nell’intero nazionale per effetto del Dpcm del 7 agosto prorogato a settembre, che scade domani. E vorrebbe allargare le maglie per gli impianti sportivi, superando l’attuale limite di mille in favore di presenze calcolate sulla capienza degli impianti. Fonti del governo negano di aver mai pensato al “coprifuoco”, nella bozza circolata ieri si legge di possibili “chiusure selettive di alcuni settori” se i contagi aumenteranno ancora.

Le misure in scadenza saranno confermate, si farà il possibile per intensificare i controlli su assembramenti e movida, ma secondo le disposizioni del capo di gabinetto del Viminale tocca soprattutto alle polizie locali, mentre polizia e carabinieri se ne occupano solo nell’ambito dell’ordinario controllo del territorio. Anche questo è un tema di frizione con gli enti locali. Alle Regioni, peraltro, il governo intende togliere il potere di allargare le maglie rispetto ai divieti nazionali, come è stato possibile durante l’estate in particolare per le discoteche, riportandole ai tempi del lockdown quando potevano solo introdurre restrizioni ulteriori. Lo stato d’emergenza disposto il 31 gennaio scorso, prorogato a fine giugno e in scadenza il 15 ottobre sarà prolungato, a quanto pare, fino al 31 gennaio prossimo, con tutto ciò che comporta dal ruolo della Protezione civile al Comitato tecnico scientifico e ai poteri speciali del commissario Domenico Arcuri.

Oggi le misure saranno illustrate alla Camera dal ministro della Salute, Roberto Speranza. Grande fiducia ripone il governo nella campagna per la app Immuni, che starebbe dando alcuni frutti: altri 350 mila smartphone l’hanno scaricata negli ultimi giorni, superando i 7 milioni di download, anche se, secondo gli esperti, non tutti la usano. Siamo però ancora molto lontani dall’obiettivo di farla utilizzare dal 60/70% degli italiani, 35-40 milioni di persone. Nel frattempo il governo dovrà rafforzare anche la sanità territoriale che si occupa del tracciamento dei contatti dei positivi: le difficoltà della Campania e del Lazio, dove gli ospedali hanno già qualche affanno, nascono soprattutto da lì.

I contagi si moltiplicano anche nelle istituzioni e nell’informazione. Alla Camera è risultata positiva Beatrice Lorenzin, ex ministra della Salute, già forzista, poi alfaniana, infine approdata al Pd. Contagiato il sottosegretario agli Esteri Ricardo Merlo. Il virus ha colpito anche quattro giudici della Corte costituzionale e il direttore de La Stampa, Massimo Giannini, con evacuazione della redazione di Torino.

Per la prima volta dalla riapertura delle scuole, la ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina, ha diffuso qualche dato sui contagi nelle scuole. Numeri rassicuranti, benché riferiti solo alle prime due settimane, peraltro spezzate dal voto referendario/regionale, cioè dal 14 al 26 settembre e limitati alle 13 Regioni che sono ripartite subito. “Il personale docente che risulta contagiato –­ ha scritto Azzolina su Facebook – è lo 0,047% del totale (349 casi di positività), si parla dello 0,059% (116 casi) per il personale non docente, per gli studenti la percentuale è dello 0,021% (1.492 casi)”. Meno di duemila in tutto. Almeno fino al 26 settembre, ha affermato la ministra, “la scuola non ha avuto un impatto sull’aumento dei contagi se non residuale”, ma è altrettanto vero che la gestione delle quarantene, dei test e del doppio tampone negativo per il rientro in classe degli allievi con sintomi simil Covid sta creando non poche difficoltà alle famiglie, anche per i ritardi delle Asl e qualche cortocircuito con la medicina di base.

Ascoltate gli elettori

Mentre i vertici grillini erano impegnatissimi a spararsi l’un l’altro, cioè sui piedi, infischiandosene dei ballottaggi di cui probabilmente ignoravano financo l’esistenza, gli elettori di Matera e Pomigliano d’Arco hanno eletto sindaci due 5Stelle. Il che ovviamente non risolve nessuno dei problemi pentastellati: l’emorragia di voti, la guerra per la leadership, la desertificazione sui territori, il caso Rousseau. Ma indica una strada che né Di Maio, convertitosi troppo tardi alle alleanze, né Di Battista, che ancora insegue velleitarie equidistanze e improbabili terzi poli, possono ignorare. Gli elettori hanno ripetuto ciò che avevano già detto alle Regionali: finché la destra sarà così impresentabile e il Pd non tornerà a somigliarle, la priorità è batterla. Meglio se con un candidato M5S, ma anche – turandosi il naso – con uno di centrosinistra. Sempreché non sia impresentabile come o peggio di quello di destra (tipo De Luca): nel qual caso va bene anche la “testimonianza” in una partita persa in partenza. Quindi le alleanze non sono obbligatorie, ma vanno tentate. Anche perché il Pd, sapendo di perdere senza i 5Stelle, è disposto a concedere molto. E lì si vede se restano un movimento o sono diventati un partito, se sono ancora il M5S o sono già l’Udeur.

Il problema non sono le poltrone, ma l’uso che se ne fa. Se per allearsi pretendono liste pulite, candidati eccellenti, cronoprogrammi vincolanti su ambiente, welfare e beni comuni, rimangono se stessi e gli elettori li premiano. Se mettono al primo posto le cadreghe, tradiscono la propria missione e vengono puniti. Di qui dovrebbero partire i loro fatidici stati generali: facendo parlare per primi Domenico Bennardi e Gianluca Del Mastro, nuovi sindaci di Matera e di Pomigliano. Il primo, 45 anni, si è laureato a Firenze in Scienze della formazione e specializzato in nuove tecnologie di restauro e beni culturali. Il secondo, 46 anni, è docente universitario di Papirologia, manager culturale e presidente delle Ville Vesuviane. Due esponenti della seconda generazione dei 5Stelle: quella che nel 2018 ha portato in Parlamento il gruppo col più alto tasso di laureati, lontanissima dalla leggenda nera degli scappati da casa incompetenti e terrapiattisti. Bennardi ha vinto da solo, strappando Matera alla destra coi voti del Pd escluso dal ballottaggio. Del Mastro – frutto del patto Di Maio-Zinga premiato pure a Caivano, Giugliano e Faenza – ha sottratto Pomigliano alla destra dopo 10 anni. Noi non li conosciamo, ma sospettiamo che abbiano priorità più concrete e contemporanee di tutte le pippe mentali su identità, terzo polo, alleanze, partito, movimento e Rousseau. Perchè non fare gli stati generali a Matera?

Twilight: la saga è eterna, finché non ti uccide

Niente di nuovo sotto il sole. Come allungare il brodo di un successo commerciale tra i più clamorosi degli ultimi anni con un bilancio di oltre cento milioni di copie smerciate? La ricetta per l’accanimento terapeutico letterario è presto detta: si rispolvera lo stesso intreccio ma affidando il racconto a un altro io narrante. Midnight Sun di Stephenie Meyer – in libreria per Fazi e subito in vetta alle classifiche – è la carta carbone del primo volume della saga di Twilight ma con un correttivo: questa volta il punto di vista del racconto è affidato al vampiro Edward Cullen anziché a Bella Swan, narratrice della saga originale (medesima scaltra operazione di Grey, rivisitazione al maschile di Cinquanta sfumature di grigio). Ecco che riemergono, impressi su centinaia di pagine fresche di stampa, tutti gli ingredienti che hanno avvinto tra il 2005 e il 2008 milioni di lettori e lettrici.

La tetralogia di Twilight – se è vero che è il grado zero dello stile (nel nuovo Midnight Sun già solo nelle prime pagine si leggono frasi vagamente trite e risibili quali “il suo profumo mi colpì come un ariete, come l’esplosione di una granata” oppure “i miei nervi erano tesi allo spasimo, come corde di pianoforte, pronte a suonare alla minima pressione”) – è altrettanto vero che, al di là dell’usurata trama gotica centrata sull’amore contrastato tra l’umana Bella e il vampiro Edward, domina con un adescamento davvero raro l’immaginario young adult sia su carta sia sul grande schermo (le cinque versioni cinematografiche sono state record di incassi al botteghino con oltre 3 miliardi di dollari). Qual è il segreto di una fedeltà tanto duratura soprattutto di lettrici e spettatrici? Valga questo commento intercettato sul web: “Twilight rispecchia la vita di tutte le adolescenti: la scuola, le amicizie, il primo amore, la separazione, la famiglia. Mi sono facilmente immedesimata in Bella: timida, imbranata, non ha niente di speciale, niente che possa porla su un piedistallo. Eppure proprio lei riesce ad avere ciò che tutte desideriamo: una storia d’amore come nelle favole, un principe azzurro che la ama più di se stesso”.

Non sono mancate le intemerate di taluni movimenti femministi contro Stephenie Mayer: Bella incarnerebbe lo stereotipo della donna che senza l’eroe maschile stenta a imporsi con una propria identità autonoma. Stereotipo o meno, i romanzi dell’autrice americana non fanno altro che rinnovare la cara vecchia tradizione del feuilleton. Abbiamo due innamorati pronti a sfidare tutto ciò che si frappone alla loro unione: la differenza d’età (lui ha più di cento anni, lei non è ancora maggiorenne), l’estrazione sociale (lui fa parte di una casata secolare, lei vive con un padre divorziato), le amicizie (lui sta solo in famiglia, lei frequenta dei nerd) ma soprattutto lui è un vampiro e lei dovrebbe esserne la preda.

In questo Midnight Sun emerge un Edward quasi inedito nella sua cupezza di fondo, nel suo tormentato dibattersi tra restare fedele alla propria natura e cedere a una passione capace di mettere in discussione tutti i suoi principi (“Volevo cose di cui non avevo mai sentito bisogno nella mia centenaria esistenza, prima di incontrarla. Cose che sicuramente non avevo voluto prima di essere immortale”).

La premessa della trama è nota. Nel liceo di Forks l’eterna monotonia del vampiro viene spezzata quando si avvede che il suo potere di leggere la mente altrui si infrange davanti a una nuova studentessa, Bella appunto, i cui pensieri gli restano inaccessibili.

Ne nasce un’ossessione che sfiora la volontà di ucciderla tanto è invincibile per lui l’aroma del suo sangue (“Non potevo permettermi di trovarla attraente. Più cresceva il mio interesse, più aumentava la probabilità che l’avrei uccisa”).

Tra i due si sviluppa una passione che mette in pericolo entrambi e che determina una serie di eventi drammatici, fino a un bacio che non mette fine alle avversità ma che certo suggella un amore destinato a durare. Il tono è stucchevole, elementare. Ma è proprio questo canovaccio già sperimentato che le lettrici, giovani e meno giovani, cercano più o meno consapevolmente.

Dopo avere sormontato centinaia di pagine il premio cui si anela è uno scambio di battute che se ne infischia della verosimiglianza ma che anzi sfondi il muro del sogno, della fiaba: “Ti amo più di qualsiasi altra cosa al mondo, senza eccezioni. Non ti basta?” – “Sì mi basta” le assicurai. “Mi basta, per sempre”.

Soldi del Recovery alle ferrovie? Lezioni dalla linea Napoli-Bari

La Banca Europea per gli Investimenti ha deliberato un prestito di due miliardi per la linea ferroviaria Av/Ac (Alta velocità/Alta capacità) Napoli-Bari, con interessi bassissimi e durata di 30 anni. Il prestito è “girato” dallo Stato alla Ferrovie, in sostanza nuovo debito pubblico, e la BEI non rischia nulla, qualunque sia la redditività dell’investimento. Il progetto ha un costo assai elevato, oltre 6 miliardi. I benefici dichiarati (senza dati a supporto) sono sostanzialmente due: minor tempo di percorrenza e minori emissioni di gas climalteranti.

Per il primo aspetto, oggi tra Napoli e Bari ci sono solo tre treni “veloci” che impiegano meno di 4 ore; fanno 4 fermate prima di Caserta, dove si cambia treno, e altre 4 prima di Bari. Le FS, senza investire un euro, avrebbero potuto mettere un diretto Napoli-Bari riducendo il tempo di percorrenza già da subito a meno di 3 ore. Questo servizio avrebbe consentito di verificare l’elasticità della domanda rispetto alla riduzione del tempo di viaggio. Un’impresa attenta ai conti l’avrebbe certamente fatto prima di iniziare un mega investimento. Forse si è preferito evitare il rischio che treni diretti mezzi vuoti mettano in dubbio l’utilità dell’investimento? Con l’AV/AC si ridurrà il tempo a 2 ore e 20 circa: ma che questo generi una forte domanda è dubbio. Lo stesso dubbio si pone per la riduzione dei tempi di viaggio tra Roma e Bari. Si rischia di spendere più di 6 miliardi per far risparmiare meno di un’ora ad un esiguo numero di persone.

I benefici ambientali sono attesi dallo spostamento di traffico da strada a ferrovia. Lo spostamento, che l’esperienza indica in genere modesto, riguarderà soprattutto il traffico stradale diretto Napoli-Bari. Ma sulla autostrada A16, tra Napoli e Canosa, il traffico teorico medio giornaliero è di sole 20mila auto al giorno e quelle che percorrono l’intero percorso sono ovviamente molti meno: questa autostrada è una delle meno trafficate di tutta la rete. Il potenziale spostamento è quindi modestissimo. Modesti benefici ambientali potrebbe risultare da qualche spostamento di traffico dall’aereo al treno, sulla Roma-Bari (quello di autobus riempirebbe a malapena due treni al giorno).

Comunque ci vorrebbero molti decenni anche solo per compensare le emissioni generate. La più recente letteratura indica in 60 treni pieni al giorno il minimo per compensare il CO2 emesso complessivamente da una linea ferroviaria nuova, principalmente dal cantiere. Uno scenario totalmente irrealistico per quella linea. È probabile che la nuova linea in realtà danneggi l’ambiente.

Mentre per gli investimenti in autostrade gli utenti tra tariffe e tasse sulla benzina pagano quasi tutto, dagli investimenti in infrastrutture ferroviarie lo Stato non recupera nulla. Anzi lo Stato deve sovvenzionare anche l’esercizio dell’infrastruttura. Anche in termini socioeconomici una linea AV si giustifica solo con un transito assai superiore a 60 treni/giorno (valore inferiore alla capacità di una linea a semplice binario). Il rischio che la Napoli-Bari resti sottoutilizzata appare fortissimo. Ma ciò interessa ben poco al “partito del cemento” o ai politici che hanno promesso di costruire questa linea, tanto gli investimenti sono pagati a piè di lista dai contribuenti e i risultati reali si vedranno solo tra molti anni. Per questo si continua a proclamare che questa linea AV/AC è “strategica” ma si è evitato di sottoporla ad analisi costi-benefici.

I lavori per questa linea sono stati ormai quasi interamente appaltati e sembra difficile qualunque “ripensamento”: perché allora tornare a parlarne? Per meditare sul rischio che il “partito del ferro” riesca a dirottare parte dei fondi del Recovery Fund verso progetti ferroviari come la AV Palermo-Catania-Messina (4,5 miliardi), ancor meno giustificabili della Napoli-Bari per esiguità di traffico.

Uno degli obiettivi primari del Recovery Fund è quello di aumentare il tasso di crescita dell’economia. Ridurre il tempo di percorrenza in treno è certamente un effetto gradito ai (pochi) benestanti per i quali il tempo è denaro, ma non si vede come, in un’ottica di lungo periodo, potrebbe accelerare il tasso di crescita dell’economia. Anche se l’obiettivo è sostenere la domanda nell’immediato, vi sono certamente impieghi di fondi pubblici migliori dei cantieri ferroviari (che sono capital-intensive), verso settori con tecnologie innovative e che promettono rapide crescite di reddito ed occupazione. Solo la mancanza di progettualità può indurre a considerare gli investimenti in linee ferroviarie destinate ad essere sottoutilizzate come il miglior impiego di fondi pubblici per stimolare la crescita economica del Mezzogiorno.

L’agonia di Big Oil mette a rischio gli equilibri mondiali

N ell’estate 2019 avevo pubblicato su questo stesso giornale un articolo dal titolo “I dinosauri delle fossili rischiano l’estinzione”. Pensavo di aver esagerato. La storia ha però subito un’improvvisa accelerazione. Con la crisi Covid, il consumo mondiale di petrolio è crollato del 20% in piena crisi, con il settore dei trasporti quasi paralizzato. Su base annuale il consumo potrebbe calare del 10%. La multinazionale britannica BP prevede che il picco storico della consumo di petrolio possa essere stato raggiunto nel 2019. Come ha titolato anche il Financial Times una delle conseguenze del declino del petrolio come principale fonte di energia sarà “la morte lenta di Big Oil”.

Le società petrolifere hanno svalutato i propri asset – il valore delle proprie riserve di idrocarburi – visto che queste o varranno di meno o addirittura dovranno restare sottoterra. Il combinato disposto di crisi dei profitti e svalutazione degli asset ha fatto sì che Exxon, la potente società fondata da John D. Rockefeller, sia stata espulsa dall’indice Dow Jones per la prima volta dal 1928. La stessa BP, compagnia nazionalizzata da Churchill (a lungo conosciuta in Inghilterra semplicemente come The Company), vale oggi in borsa meno di Enel e della spagnola Iberdrola, società leader delle rinnovabili. Percependo l’uragano all’orizzonte, la società petrolifere hanno scelto essenzialmente tre diverse rotte.

Le società europee – da BP alla norvegese Equinor a Eni – si sono impegnate ad azzerare le emissioni nette di CO2, sia dai loro impianti che nei prodotti che vendono ai loro clienti, entro il 2050. Bernard Looney ha schierato BP all’avanguardia di questa transizione, impegnandola a ridurre la produzione di petrolio da 2,6 milioni di barili al giorno (mbg) a 1,5 nel 2030 e, allo stesso tempo, ad aumentare la produzione di energia da rinnovabili da 2,5 GW a 50 GW. Anche Eni si è impegnata alla neutralità di carbonio nel 2050, con un picco della produzione di petrolio nel 2025.

Le società europee sembrano volersi trasformare in fornitori di energia elettrica da rinnovabili, produttori di idrogeno low carbon, aziende specializzate nella chimica, specie nei biocarburanti e nelle plastiche. Il problema è che i profitti nelle rinnovabili e nella chimica saranno parecchio inferiori a quelli che venivano dall’estrazione di una risorsa naturale scarsa. Serviranno investimenti giganteschi e la generazione di elettricità è un settore molto competitivo, già oggi presidiato da aziende specializzate.

Dall’altra parte dell’oceano i colossi Exxon e Chevron puntano ancora sul petrolio, tanto che quest’ultima ha recentemente acquistato Noble Energy per aumentare le proprie riserve. Essi ambiscono a perfezionare sistemi di carbon capture and storage (ccs) e investire in rinnovabili per decarbonizzare i propri impianti. Il ragionamento è questo: gli Stati Uniti restano il più grande produttore di idrocarburi al mondo, un mercato per il petrolio nel medio termine continuerà ad esistere, se gli ingenui europei se ne tireranno fuori ci sarà più spazio per gli americani. Il rischio di questa strategia è che un governo statunitense diverso dall’attuale potrebbe aumentare la fiscalità sul petrolio, limitare tecnologie come il fracking (l’estrazione di gas e petrolio dalle rocce di scisto), mentre il costo del capitale per finanziare investimenti nelle fossili sarà sempre più alto, quanto più l’opinione pubblica spingerà l’economia verde.

Il problema maggiore riguarda però le società petrolifere nazionali. Sono aziende – vanno dalla saudita Aramco alla venezuelana Pdvsa – che estraggono il 46 per cento del petrolio mondiale, contro il 14 delle multinazionali occidentali. Aramco era nel 2019 la prima società al mondo per profitti: ne macinava il doppio di Apple, al secondo posto. Le tasse che pagano queste società nazionali rappresentano gran parte delle entrate statali dei Paesi dell’Opec, e una quota significativa delle entrate di Paesi come la Russia. Alcune di queste società sembrano addirittura impegnate a realizzare progetti di espansione della capacità produttiva. La crisi delle società petrolifere, multinazionali o nazionali che siano, espone a problemi occupazionali, a rischi di instabilità del sistema finanziario, e a crisi geopolitiche nel caso dei Paesi esportatori, come evidente in Venezuela nel quale è in atto un fenomeno di emigrazione senza precedenti nella sua storia.

In un mercato anarchico e competitivo, come quello che abbiamo rischiato a marzo, quando i prezzi del greggio sono sprofondati, questi problemi si materializzerebbero insieme con impatto devastante.

C’è dunque una soluzione? L’unica passa per due assunti. Il primo è che tutti gli attori coinvolti dismettano la propaganda contro il riscaldamento globale e comincino a introiettare la rivoluzione del “picco della domanda” di petrolio oramai raggiunta: le società europee sembrano un passo avanti. Il secondo requisito è una cooperazione multilaterale che garantisca un calo negoziato della produzione, accompagnato dal divieto alle tecniche più dannose per l’ambiente e da una fiscalità equa: solo così si possono garantire prezzi stabili. Questa cooperazione dovrà coinvolgere i Paesi OpecPlus, quelli del G20, con un ruolo speciale per gli Stati Uniti, il primo produttore al mondo. I governi europei, sostenitori ideologici del libero mercato, a volte più degli stessi Usa, sono un passo indietro su questo. Un abbozzo di questa cooperazione possibile s’è vista in occasione del G20 straordinario sull’energia di aprile. I nemici della cooperazione sono la perdurante ideologia del liberismo commerciale e il ritorno a una possibile lotta darwiniana tra Petrostati per sopravvivere.

Sfruttati e senza sindacati: la rivolta dei programmatori

Più sei grande, più vuoi diventare grande, più il tuo solo padrone è uno: il marketing. Detta i tempi, stabilisce se sia meglio che un prodotto esca in primavera o in inverno, dice come è meglio che sia o cosa è meglio che faccia. Nel campo dei videogames è dominante: la competizione è spietata, perché ogni mese escono migliaia di titoli nuovi, come nella musica, e c’è più offerta che domanda. “Un giocatore non si chiede mai ‘a cosa gioco adesso’: se immagina un gioco, probabilmente esiste”: è uno dei mantra tra gli appassionati. E per farlo scoprire bisogna essere al posto giusto al momento giusto. I ritmi stringenti del mercato, però, non sempre si sposano con i tempi richiesti dal lavoro specializzato e le conseguenze possono essere terribili.

A raccontarlo sono le testimonianze raccolte in tutto il mondo dal Game Worker Unite, un movimento che cerca di riunire sotto bandiera globale i sindacati dei lavoratori del gaming e di promuovere la sindacalizzazione dove non c’è. Sempre più spesso, dagli Usa alla Cina, dal Canada alla Polonia (e soprattutto nelle grandi case produttrici) i giovani sviluppatori vengono “presi, consumati e buttati fuori” spiega uno dei coordinatori. Lo chiamano crunch ed è l’uso disperato e sistematico di straordinari – anche non pagati o non regolamentari – per sei mesi o due anni per rispettare i tempi di uscita dei giochi stabiliti da chi gestisce il marketing. “I lavoratori – ci raccontano – spesso arrivano a dormire in ufficio e vanno a casa solo per lavarsi”. Il caso più celebre è stato riportato da Bloomberg pochi giorni fa e riguarda la casa di sviluppo polacca Cd Project Red, che sta sviluppando un atteso videogioco da rilasciare a novembre. Per stare nei tempi, hanno stabilito che i dipendenti lavoreranno sei giorni su sette. Gli straordinari saranno pagati ma si tratta di una prassi al limite. “Un anno fa – spiegano – Rockstar Games, che sviluppa Gta, stava per lanciare il suo nuovo videogioco e affermò come vanto che gli sviluppatori stavano lavorando cento ore a settimana”. Ma molti non reggono, con un danno alla stessa industria: lavorano a più non posso, magari sono giovani e inesperti, si esauriscono e alla fine se ne vanno. In questo modo si perde l’esperienza acquisita e si deve ricominciare da capo con uguale dinamica. Ovviamente, per ogni multinazionale “schiavista” ce ne sono due virtuose, per ogni azienda che paga le ore in più ce n’è un’altra che non lo fa. “In tutti i casi, però, la retorica è simile: stai realizzando la tua passione e devi esserne felice”. Le pressioni, poi, spesso ricadono sulla qualità dei prodotti: “Ci sono stati giochi che, per problemi di programmazione, una volta usciti non funzionavano”. Un bel problema: nel 1983 il settore ha vissuto una crisi fortissima perché si cercava di produrre tantissimo e il risultato era quasi sempre scadente, anche ad alti livelli.

In Italia non ci sono situazioni di questo genere: le case di produzione sono piccole e indipendenti, le condizioni di lavoro serene. Anche perché le multinazionali tendono a stabilirsi in Paesi che si distinguono per creatività (Usa e Silicon Valley) o per rilevanti sgravi fiscali (Canada) o per la manodopera a basso costo (Europa dell’Est). “Qui il problema riguarda invece chi sviluppa software in generale, anche fuori dal settore videoludico” spiega uno dei membri di Game Worker Unite. Le aziende applicano o il contratto nazionale metalmeccanico oppure quello del commercio terziario per la fornitura di servizi. Finanche quello da grafico editoriale, utilizzato nelle software house degli Anni 90. Non c’è un sindacato specifico e si sceglie magari il contratto che fa più comodo all’azienda. “Non per sminuire il settore industriale – ci racconta un lavoratore – ma qui per industria si intende ancora solo quella produce marmitte. È ora di riconoscere che la produzione intellettuale ha bisogni diversi e pari dignità”.

Il gran business dei videogame. Segreti di un settore senza crisi

Gran Bretagna: David è stato licenziato perché ha alzato la voce contro i suoi superiori. Era sull’orlo di una crisi, aveva pensieri suicidi, non aveva più una vita e neanche più la forza di immaginarsela. Durante la pandemia ha lavorato notte e giorno, con straordinari non pagati e il fiato sul collo. Le scadenze erano vicine ed era in gioco il suo lavoro. Alla fine, non ce l’ha fatta più. Di questa e di altre molte storie simili è costellato il mondo del settore videogame negli ultimi tempi. Dal Guardian a Bloomberg, l’attenzione è alta e il motivo è semplice: ad oggi, quello dei videogiochi è uno dei settori imprenditoriali più redditizi, con un mercato che entro la fine del 2020 potrebbe arrivare a valere 160 miliardi di dollari e che non conosce crisi. I videogames, infatti, oltre a crescere da dieci anni con regolarità, globalmente fatturano più di musica e film messi insieme. Tanto che Ikea, il gigante svedese dell’arredamento, ha iniziato a pensare a una linea di mobili a misura di giocatore.

L’universo dei videogame va però ben oltre le crudeli storie della cronaca (che approfondiremo nell’articolo accanto). Lo scopriamo a Leamington, una cittadina inglese che a fronte di 20mila abitanti ha sul suo territorio circa trenta software house (tra cui anche le multinazionali Ubisoft, Sega e Activision) e dipendenti che passeggiano indossandone le t-shirt con il logo ben in vista. Qui vive Giorgio Pomettini, 28 anni, programmatore di videogiochi dal 2013: “Sono partito quando hanno riaperto gli aeroporti – racconta – e durante il lockdown ho lavorato da remoto”. Prima, in Italia, ha collaborato a lungo con grandi aziende del settore, ma non solo. Per Eni ha sviluppato uno dei cosiddetti advert game, giochi con cui le aziende cercano di farsi pubblicità positiva: il giocatore doveva raccogliere più cozze possibili dalle piattaforme petrolifere in mare e vivere così una esperienza quasi naturalistica. Altre campagne simili, ben pagate, sono arrivate da Poste, Enel, Phillip Morris: tutte consulenze. L’Italia, infatti, ha un’industria piccola e basata su software house indipendenti che spesso associano ai videogames altri lavori legati all’informatica, ma come nel resto del mondo, anche qui si prova a spingere sui giochi èer il mobile, da cui arriva ormai la metà del fatturato del settore. “Si cerca di produrne tanti in poco tempo perché la soglia d’attenzione sugli smartphone è molto bassa – dice Giorgio – : sul solo negozio Apple ce ne sono un milione”. Ma, ovviamente, maggiore l’azienda, maggiore è la possibilità di realizzarne free to play, ovvero con guadagni sulla pubblicità o sull’acquisto di funzioni aggiuntive. “Un’azienda piccola non può permetterselo – spiega Giorgio – e spesso o rinuncia o tenta di proporre qualche gioco a pagamento. Anche se da qualche tempo Apple ha iniziato a spingere i giochi premium”. Ben diverso è invece il modello di business dei videogames destinati alla fruizione da “fisso”: un gioco di fascia internazionale può impiegare tra i 200 e i 300 professionisti per 2 o 3 anni di sviluppo. Questo significa che c’è bisogno di un buon capitale di partenza e di qualche anno di rosso. Oltre che di una squadra affiatata. “Al lavoro – spiega Giorgio, che ormai è la nostra guida – abbiamo una bacheca condivisa. Se c’è da ‘implementare una funzionalità e il personaggio deve volare’, il designer dice quanto, quanto in alto, se deve ricaricarsi. Io glielo faccio fare, il grafico lo adatta e così via”. Parliamo di giochi da Pc, quelli che Giorgio definisce più “duraturi”. “War of Warcraft per dire, è in auge dal 2004”. Al contrario, i videogiochi online sono legati alla comunità che li utilizza e sono i più costosi da sviluppare perché prevedono una infrastruttura capace di coordinare più utenti contemporaneamente e abilità altissime se solo si considera che uno sviluppatore deve fare in modo che le condizioni base di gioco siano le stesse per tutti, indipendentemente dalle condizioni della loro rete. In questo caso il modello di business si divide sempre in “pago una volta sola”, in abbonamento oppure gratis ma con possibilità di comprare accessori. Per esempio League of Legends è gratuito ma si può comprare un costume per il giocatore. Sembra bizzarro ma funziona: un gioco dove chi paga prende il fucile più potente favorirebbe chi ha più i soldi.

La vera sfida è però farsi conoscere fuori: recensioni, youtuber o gli stream (su Twich si può guardare a cosa giocano gli altri) o la stampa. “Se lanci un gioco e nessuno ne parla è come se non lo avessi fatto” dice Giorgio. King, uno dei più grandi produttori per il mobile, ha per esempio comprato spot durante il Superbowl.

Tommaso Bonanni è invece il Ceo di Caracal Games, una softwarehouse di Roma. Racconta che decine di volte al mese viene contattato da venture capitalist, grandi studi, investitori che gli fanno offerte per l’azienda. Pure le acquisizioni sono in crescita. “La notizia che recentemente ha scosso il settore è l’acquisizione da parte di Microsoft di uno studio enorme che ha fatto alcuni dei videogiochi più venduti (Bethesda, ndr) per 7,5 miliardi di dollari ”. Lui, però, non cede. Se deve finanziare un prodotto per due anni, cerca un publisher che opera in questo campo e si accorda sulle percentuali. “In Italia abbiamo formazione tecnica di ottimo livello e scuole importanti” spiega. E poi che accade? “Si va all’estero, in software house di altissimo livello che offrono stipendi più alti”. E si perde un patrimonio di conoscenza. La Polonia, ad esempio, è cresciuta tantissimo e ha i migliori studi di sviluppo in Europa, con investimenti pubblici monstre nel settore (ma anche problemi ad attirare talenti a causa del basso costo della vita e, quindi, degli stipendi): quando il presidente polacco ha incontrato Obama nel 2011 gli ha portato in regalo un videogioco prodotto dalla principale softwerehouse del Paese.

Anche per questo la settimana scorsa, l’Accademia italiana videogiochi (Aiv) ha organizzato un evento di tre giorni con una impressionante partecipazione di ministri e personalità di spicco di governo e Parlamento. L’intento è spingere in questo settore, sia a livello di investimento pubblico che di pubblicità. “Siamo partiti dalla formazione perchè servono delle buone fondamenta – spiega Alessandro Salvador, business developer di Aiv e direttore Aiv Milano – ma servono anche agevolazioni fiscali”.

In Italia i giocatori sono 17 milioni, i fondi stanziati 4 milioni attraverso il First Playable Fund (nel 2018 in Gb sono stati stanziati 3 miliardi di sterline). L’indotto è grande, il tasso di occupazione pure: per realizzare un videogame occorrono artisti, matematici, sviluppatori, designer, narratori, scrittori, animatori, musicisti, figure di raccordo, marketing. “Dall’Accademia, l’80 per cento è occupato entro i 12 mesi dalla fine del terzo anno di corso, tra i programmatori si sale al 100 per cento, anche prima di concludere l’intero ciclo di studi”. Per sviluppare il famoso Gta 5, ad esempio, sono stati spesi circa 265milioni di dollari, altrettanti per il marketing. E sono state impiegate più di mille persone. Il prodotto ha superato gli incassi di qualsiasi film: 6 miliardi di dollari.

Ma come sono cambiati i videogames? “Si è passati dall’animazione di semplici pixel sulla tv a simulare il ping pong a veri e propri capolavori digitali” spiega Salvador. “Il videogioco si è evoluto secondo due aspetti: per tipologia e per acquisto. Prima c’erano i negozi e i giochi in scatola, poi con digitalizzazione e banda larga è cambiato tutto. Il peso dello scatolato oggi in Italia è di circa il 2 per cento”. Online, invece, il confine tra le diverse dimensioni del web diventa più labile: i giochi sembrano film, l’audio è in dolby theatre, nella modalità multi-giocatore e in streaming si può comunicare con persone da ogni parte del mondo. E per evitare che tutto si fermi, bisogna spingere sempre di più. “Il pubblico è sempre più esigente, vuole mondi sempre più complessi e tecnica sempre più evoluta” conclude Salvador. Una sfida nella sfida, con costi altissimi e sconosciuta ai più.

Caso Bobbitt Lorena, le forbici e John Wayne. Un bel corno a volte è meglio di un taglio netto

L’incubo di ogni uomo diventa realtà. Una giovane moglie, Lorena Bobbitt, la notte del 23 giugno 1993 pensa bene di evirare il marito John Wayne Bobbitt, come l’attore, ma con un Bobbitt in più, mentre dorme nella loro casa in Virginia, per vendicarsi a suo dire di ripetute violenze sessuali.

Come se niente fosse Lorena esce di casa con il pezzo di pene, fino a poco prima appartenuto al marito, sale in auto, percorre alcuni chilometri e si libera del prezioso “oggettino” gettandolo dal finestrino. Nel frattempo John Wayne va in ospedale, non a cavallo come avrebbe fatto il suo famoso omonimo, e incarica la polizia di recuperare il suo gioiellino, ma la polizia pur cercando dappertutto non lo trova. Un bel problema! Dove sarà finito il pene di Bobbitt? Non può sparire cosi, dove può essersi cacciato? La giovane moglie si rende conto di aver esagerato e avverte la polizia: “Pronto polizia, sono Lorena Bobbitt, come va? Io abbastanza bene. Volevo comunicarvi che ho appena evirato mio marito John Wayne, non l’attore, un altro. Lo aveva piccolino e non lo sapeva adoperare, tant’è che io non ho provato mai uno straccio di orgasmo in 10 anni di matrimonio… pronto, mi sente? Ispettore è caduta la linea o è caduto lei? Se vi interessa, il pene si trova al chilometro 148 della strada nazionale per Virginia Beach. Grazie infinite e complimenti per il vostro lavoro”.

Miracolosamente il pene fu ritrovato e riattaccato alla meglio peggio. Al processo finirono entrambi sul banco degli accusati, Lorena per lesioni e John Wayne per violenza carnale. Il processo si concluse con una doppia assoluzione, Lorena incapace di intendere e di volere e il marito assolto. Quest’ultimo tentò invano la carriera di attore pornografico per cercare di riabilitarsi dopo aver dovuto cambiare il suo nome in Giovanna Wayne. Ma c’era proprio bisogno di ricorrere alle forbici? Bastava separasi o mettersi con un altro, a volte un bel corno è meglio che un taglio netto.

 

Enzo Golino. La grande letteratura e la leggerezza del varietà Rai: ecco il critico che divorava cultura

Ogni epoca letteraria ha un interprete che dà un senso alle cose che si scrivono e si pubblicano, agli autori, ai testi, ai tempi, alle trame, alle storie al proposito di un saggio e alla ossessione di un romanzo. In questa rubrica di libri chiedo ai miei lettori di seguirmi negli anni e nel lavoro di Enzo Golino, che ci ha lasciati da pochi giorni, a 88 anni.

Tutto comincia da una discussione con Umberto Eco negli anni ’50, quando entrambi lavoravamo in Rai. Parlavamo degli alieni, chiamati “Trifidi”, di un libro di fantascienza. In disaccordo, Eco disse: “Chiedilo a Golino”. Poco dopo ho lasciato la Rai per la leggendaria fabbrica di Adriano Olivetti. Durante la conversazione su un autore che gli stava a cuore, Olivetti mi ha detto: “Ne parli con Golino, gli dica di scrivermi. Lo troverà alla biblioteca di Comunità, ci va quasi ogni giorno”. Golino non andava quasi ogni giorno in biblioteca, come avrebbe voluto, perché alla Rai dirigeva il settore “Varietà e Rivista”. Non lo faceva con amarezza o distacco. E non si può aggiungere per scherzo che, dopotutto, Golino era napoletano, e dunque naturalmente incline allo spettacolo musicale (infatti ha sposato Mimma Gaspari, una delle autrici più di successo della canzone italiana). In realtà i due personaggi – “Golino spettacolo” e “Golino critico e recensore” – coesistevano bene.

Il dirigente Rai era impeccabile. Il lettore e recensore di libri è entrato, quasi subito, nel giro dei grandi giornali che facevano cultura: Il Corriere della Sera, Repubblica, l’Espresso e le riviste autorevoli (Il Mondo di Pannunzio, Tempo presente di Chiaromonte, Nuovi Argomenti di Moravia). Così Golino ha conquistato l’attenzione di due mondi: gli specialisti e il popolo non vasto, ma compatto, degli appassionati di letteratura. Quei giornali hanno inaugurato presto pagine dedicate ai libri e supplementi di cultura, e lui è stato sempre tra i fondatori.

Chi altri, poteva essere miglior testimone della nascita del “Gruppo 63”, comprendendo e spiegando a fondo il senso storico e politico di quello strano e allegro evento, caso unico di aggregazione (musicisti, architetti, poeti, romanzieri, saggisti, giornalisti, accademici e autori di strada) da cui è nato un giornale (Quindici ) e che ha lasciato una lunga traccia. Golino ha guidato verso il sapere e la comprensione, perché la sua qualità (condivisa solo con 4 o 5 grandi critici letterari del secolo scorso) era di vedere il Paese, la cultura, la storia e gli eventi del suo tempo.

Per lui un libro era (anche, ma come chiave di lettura) tutto ciò che accadeva intorno: era l’interesse accurato e nitido per il contesto, che escludeva il “brutto” e il “bello” per adottare le categorie di “utile” o “inutile” al cambiamento culturale.

Per fortuna non resta un ricordo. Ha lasciato una splendida bibliografia. Io qui raccomando, come il miglior ricordo, “Dentro la Letteratura. Ventuno scrittori parlano di scuola, natura, operai, lingua, dialetto, storia”.

 

 

Caffè amaro. Zanetti ritira Segafredo dalla Borsa. Gli altri soci perdono oltre metà di quanto investito

“Buy low, sell high” è a Wall Street una delle massime più famose fra gli investitori per guadagnare. In Italia, la settimana scorsa, i risparmiatori hanno potuto apprendere dal vivo la variante “Vendi alto, compra basso” con l’annuncio da parte dell’azionista di maggioranza della Massimo Zanetti Beverage Group (Mzbg) di un’Opa, ovvero un’offerta pubblica di acquisto, su tutte le azioni quotate al fine di togliere dal listino la società. Insomma, di ritirarla dalla Borsa.

Mzbg è il produttore di caffè che controlla il marchio Segafredo oltre ad altri marchi commercializzati in tutto il mondo con un network di bar e caffetterie in franchising.

Un gruppo alimentare molto noto anche nell’ambito sportivo per le sponsorizzazioni (Formula 1, basket, calcio, ciclismo, pallavolo) che ha fatturato quasi 915 milioni di euro nel 2019 e che nel primo semestre 2020 ha visto una discesa del fatturato di circa il 10% per effetto del lockdown. Un confinamento, a causa delle norme anti-Covid, che Massimo Zanetti, l’azionista di maggioranza di questa società, ha trascorso bloccato in barca nell’oceano della Polinesia, come l’Italia ha appreso da un filmato motivazionale di Urbano Cairo (patron di Rcs e La7) diretto alla forza vendita e finito sui social all’insaputa degli interessati.

A rendere nervosi molti azionisti del Zanetti Group è un particolare non di poco conto. Il prezzo offerto per liquidare gli azionisti di minoranza, pur offrendo un premio del 28,2% rispetto al prezzo ufficiale di una settimana fa (3,90 euro), è nettamente inferiore al prezzo di collocamento (11,60 euro) avvenuto nel luglio 2015.

I coordinatori globali dell’Ipo nel 2015 di Zanetti erano stati Banca Imi (tra l’altro gran parte del ricavato andava a rimborsare un debito nei confronti di Intesa Sanpaolo) mentre Bnp Paribas e Jp Morgan facevano parte del consorzio di collocamento.

Motivazione fornita al mercato per spiegare il riacquisto dei titoli dagli azionisti di minoranza? “La quotazione in Borsa non ha permesso di valorizzare adeguatamente il gruppo” insieme al desiderio di “procedere ad una riorganizzazione finalizzata all’ulteriore rafforzamento della società, operazione più facilmente perseguibile nello status di non quotata”. Insomma come cantava Mina “non gioco più, me ne vado”.

Solo a fine 2019, lo stesso Massimo Zanetti spiegava in un’intervista a un sito del settore “come nel destino di un’azienda due cose sono necessarie: la managerializzazione e la quotazione in Borsa”, sottolineando come lo sbarco a Piazza Affari, pur se faticoso, era stata “la scelta giusta, la migliore”. Ora invece arriva il dietrofront che lascia letteralmente con l’amaro in bocca gli azionisti poichè chi aveva creduto nella multinazionale italiana del caffè rischia di dover cristallizzare definitivamente una perdita anche superiore al 50% se l’opa avrà successo.

Un caffè molto amaro e non basterà un poco di zucchero per mandarlo giù.