Ese fosse stata la Cia? Se fossimo già tutti seduti di fronte al set di House of Virus, nuova serie ad alto tasso di complottismo, con luci e musica adeguate ai protagonisti, oltre a Donald Trump al posto di Frank Underwood? Il presidente spaccone, la morbida assistente, la bandiera a stella e strisce che sventola sulle sciagure umane. Tutto secondo la trama dell’eterna Fiction-America che fa i conti con l’America Reale, nel perpetuo slittamento di senso a cui ci addestrano i network e le piattaforme planetarie, anche questa volta imprigionandoci al centro del centro di Washington, la capitale del mondo dove si narrano i labirinti del mondo. E quelli di Netflix.
Ci siamo: dopo la pubblicità, dopo la sigla ridondante come il coro del Nabucco, ecco le ombre dei sacerdoti del Secret Service che si muovono laggiù
In primo piano l’erba verde davanti alla West Wing, mentre atterra l’elicottero Marine One. Militari schierati in alta uniforme scattano sull’attenti. Il presidente scende barcollando. Si bilancia, saluta, caracolla. Piccole voci di allarme tra gli operatori televisivi. La Casa Bianca che si chiude alle sue spalle, è tetra come la notte che sta scendendo.
E col favore della notte eccoci al primo tratto del labirinto. Per sbarazzarsi del più ingombrante inquilino della White House non servono più allestimenti eclatanti. Basta usare il deterrente al momento più diffuso. Non il Polonio. Non il Novichok o un’altra diavoleria da laboratorio super segreto, come fanno da anni quei fessi dell’Fsb a Mosca, tutti allievi dello zar Putin, che li sacrifica volentieri per il gusto di firmare le sue minacce, e rivendicarle per il puro piacere della pedagogia politica coniugata alla sua personale propaganda omicida. No. I papaveri di Langley, Virginia, quartier generale del perpetuo potere americano che governa quello provvisorio in transito dentro la Stanza Ovale, adottano quando possibile il basso profilo e dunque l’arma più anonima di questi tempi calamitosi, una banale droplet di SarsCov2, opportunamente trasporta da un vettore inconsapevole. Meglio se con gli occhi blu della più bella tra gli assistenti del Comandante in Capo, l’adorabile Hope, che vuol dire Speranza, ex modella, 31 anni, passata da Vogue all’Air Force One in un batter di lunghissime ciglia.
Ma intanto i corrispondenti dalla Casa Bianca, chiamano le rispettive redazioni centrali: “Sta succedendo qualcosa, teniamoci pronti”.
Dopo un tempo cospicuo e concitato, arriva la prima comunicazione ufficiale ai media: “Il presidente è stato contagiato dal virus”. Squillano le trombe delle Breaking News. Segue il piccolo tweet del grande malato: “Questa sera la First Lady e io siamo risultati positivi. Inizieremo immediatamente la nostra quarantena. Ce la faremo insieme”.
Secondo colpo di scena al minuto trenta, come prevedono i manuali d’alta sceneggiatura: “Il presidente è stato trasferito nella notte all’ospedale militare Walter Reed”. Quindi non va tutto bene. Le fonti ufficiali smentiscono, rassicurano, il ricovero è solo “a scopo precauzionale”, e le condizioni di salute del presidente “non sono in deterioramento”. Brutto eufemismo che evoca il significato opposto.
Crollano le Borse asiatiche in attesa del crollo di quelle occidentali. La scala Defcom, il sistema di allarme delle forze militari americane è salito al Livello 4, che significa “allarme verde in tempo di pace”, tutti “i sistemi di sicurezza attivati”. Restano nelle mani del presidente i pieni poteri, compresa la fatidica valigetta con i codici nucleari, ma il vice presidente, un tale Mike Qualcosa è pronto a scendere in campo, vedremo.
E la campagna elettorale? Slitta, rallenta, si ferma. Meglio stemperare le tensioni accumulate nel primo faccia a faccia che sembrava wrestling, in giacca, cravatta e insulti. Meglio fermarsi e dare la sveglia ai figuranti del Palazzo, visto che le rivelazioni sulle tasse mai pagate dal miliardario presidente sono scivolate come acqua sui vetri.
Il complotto è in marcia. Nessuno per il momento sospetta anche se i segugi del Washington Post hanno appena indossato gli impermeabili da grande inchiesta. Ma intanto si allentano come d’incanto tutti i nodi scorsoi che si stavano stringendo al collo degli Stati Uniti d’America in viaggio verso il fatidico 3 novembre, il giorno elettorale, considerato dagli analisti a “rischio democrazia” per i capricci di Donald l’Ostinato che diceva: “No, non accetterò la sconfitta. Se perdo sarà per colpa dei brogli postali”.
Ecco un presidente che tira troppo la corda, devono essersi detti i capi delle Agenzie di sicurezza, qualche banchiere d’alto rango, qualche cartello di multinazionali legali e illegali, legati da flussi di contante offshore. Proprio come ai tempi di Dallas, quando per riparare i danni di un altro presidente, bastarono tre colpi di fucile da tre punti diversi di Elm Street, più un tale Lee Oswald da sacrificare davanti all’opinione pubblica in lacrime furenti.
Ce la farà Donald ad accettare la sconfitta in cambio di un vaccino? E l’adorabile Hope troverà il prossimo uomo della sua carriera? Dopo la pubblicità, inventatevi il resto.