Tra le vie del centro di Bologna. “Una volta mi sono fatto leggere la mano da una signora. Secondo le linee del mio palmo sarei morto a 35 anni, e allora ne avevo 27. Quindi il suo consiglio fu drastico nelle parole, partecipato nei concetti: ‘Vivi intensamente’”. Ci ha creduto? “Lì per lì mi ha un po’ incupito. Però ci ho ripensato giovedì scorso”. Samuele Bersani, in spregio alle previsioni della chiromante, di anni ne ha compiuti 50 e come regalo ha pubblicato un album di inediti, Cinema Samuele: un lavoro intenso, cesellato, letterario nel voler costruire una storia dentro pochi minuti, o nell’ostinarsi a togliere dall’umido i vocaboli oramai desueti e dall’oblio la forza della poesia. Lui, quasi sul solco lasciato da Fabrizio De André, prosegue in direzione ostinata e contraria, rispetto alla betoniera mentale imposta dai social.
Ha impiegato sette anni a completare questo disco.
Ho passato due anni in giro, con il solo pensiero della musica. Poi sono arrivati i testi, anche loro figli della musica: è lei a dettarmi cosa raccontare.
Non è un disco malinconico.
La malinconia è un petalo del fiore che ci troviamo in mano nella vita, però in questo caso non è il fiore.
Sette anni oramai sono un’era.
Me la sono presa un po’ comoda: ho cercato di vivere per poi scrivere qualcosa che potesse emozionare pure me; e poi mi è scattato il blocco, tipico per chi ha a che fare con la creatività; (silenzio e sorriso) il problema è che poi il blocco si è prolungato oltre il tempo.
Dolore.
Forse ho scritto troppi sms e questo ha rischiato di inaridire la fantasia; tutta la fantasia l’avevo riversata in quei messaggini.
Dolore doppio.
Non solo, avevo individuato in Ginostra (a Stromboli, Eolie, ndr) il luogo giusto per isolarmi e lavorare: ma i due musicisti che mi ero portato dietro sono scappati dopo appena un giorno e mezzo.
Addirittura.
Una sorta di ammutinamento; per me era facile, c’ero già stato e cercavo un luogo del genere, con il mare all’orizzonte, i profumi della vegetazione, silenzio assoluto, niente turismo perché era inverno. Ma non hanno retto.
E poi?
Per un anno sono andato a vivere a Milano, nel quartiere meno centrale possibile, non ricordo neanche la via, ma era veramente periferico.
È pigro?
Mi ribello a questa storia: quando lavoro sono molto serio ed esigente, tanto che alla fine ringrazio chi mi ha aiutato e seguito, perché pretendo ritmi non classici; poi c’è chi mi può derubricare a pazzo, visto che per due anni sono stato dietro a delle musiche.
Un suo pregio.
Non ho mai scritto due volte la stessa canzone.
Neanche quando i produttori le chiedevano una hit per l’estate.
Era un periodo storico diverso: c’era il Festivalbar in cui partecipavo con brani come Spaccacuore o Freak, quindi brani più veloci, più diretti, mentre quando ho portato Il pescatore di asterischi non è che l’abbiano capita subito; (sorride) in quella puntata sul lungomare di Pescara, ho visto sguardi spaesati, ed era l’epoca in cui tutti sul palco gridavano “su le mani”.
Lei lo ha mai detto?
(Tono profondo, diaframma puro) Io? Mica è un villaggio turistico.
Per carità.
Al massimo posso aver mosso le mani a mo’ d’applauso, ma quella frase non mi è mai uscita dalla bocca.
Barbarossa racconta di averla scoperta nel 1991 a casa di Lucio Dalla. E che Dalla le ha chiesto di cantare Il mostro.
È vero, avevo conosciuto Lucio da una sola settimana, quando una sera sono riuscito a fargli ascoltare il mio brano; io sempre timido, e quando sembro esuberante è solo una reazione alla timidezza; allora paradossalmente ne avevo meno di oggi, perché a vent’anni chiunque può aggrapparsi a quel guizzo di sfrontatezza che poi nel tempo vai a silenziare.
Rispettoso.
Preferisco restare dietro, anche quando hanno provato a presentarmi dei miti: all’ultimo mi sono rifiutato, solo per non disturbarli.
Ad esempio, chi?
Paolo Conte: un giorno lo trovo in sala d’incisione, mi incitano a entrare, ma non ce l’ho fatta. E lo stesso con Mina: per lei ho scritto una canzone; ero stato invitato da Lucio a Bologna mentre provavano un brano: mi sono vergognato, e per l’ennesima volta sono andato via.
Pentito?
Eccome.
A vent’anni, Dalla.
Ho aperto i suoi spettacoli e per un’ottantina di volte ho cantato dopo Caruso. È stata una bella palestra, e quella palestra comprendeva pure gli amici e i colleghi che venivano al concerto.
Perché?
In un live, in platea, ho visto De André. Se ci ripenso, tremo.
Almeno con De André ha parlato?
Sono stato invitato a un suo concerto: durante lo spettacolo mi ha citato tra gli ospiti. Volevo sprofondare.
È proprio un suo mito…
Per questo sul palco ho sempre un leggio; da bambino i miei genitori mi hanno portato a un suo concerto e quando sono tornato a casa ho sintetizzato così l’esperienza: bello il ruolo di cantautore, uno canta le proprie canzoni e le legge; (cambia tono) i suoi testi erano le mie favole.
Lei ai primi live, com’era?
Con poco repertorio: avevo inciso un disco con solo otto brani; mi affidavo alle cover per riempire.
Sì, ma lei com’era?
Non lo so, avevo vent’anni e dovevo ancora combattere con la vanità, aspetto che poi ho perso; comunque volevo affrontare questo mestiere, ma ero proprio giovane.
Vanitoso, quindi.
Arrivavo da una piccola realtà, da un piccolo paese e mi ritrovavo in televisione, le persone per strada mi seguivano. Impossibile non cadere nella vanità: all’epoca ha inciso molto sulla mia testa; (ci pensa) forse bisognerebbe avere più anni prima di cominciare.
Si ricorda un suo atteggiamento da stronzo?
(Resta in silenzio, scava dentro di sé) Ero su un palco, avrò avuto 26 anni, e cantavo Giudizi universali: mi arrivò un peluche in testa. Lo presi. E lo tirai indietro.
Giudizi universali
è la sua canzone più amata.
È diventata un classico, e mi fa piacere.
Samuele Bersani nel 1980.
Smettevo di andare il giovedì pomeriggio dal maestro di pianoforte, a Rimini, perché quando la macchina entrava nella sua via, avevo già i primi attacchi di ansia.
A 10 anni?
Sì, ma me ne sono reso conto anni dopo, quando mi hanno assalito da adulto. Adesso non mi capita più.
Allora cosa le causava ansia?
Sapevo di non aver studiato, ed ero consapevole che mi avrebbero sgridato.
I suoi genitori?
Vedevano che non erano felice.
1990.
Mia mamma legge su un giornale che Dalla sta organizzando a Bologna dei provini per Angela Baraldi. Prendo il treno, e vado con l’obiettivo di fargli ascoltare Il mostro. Fallisco. A parte Toto Schillaci, per me il 1990 è un anno di merda.
E come riuscì con Dalla?
Nel 1991 scopro che c’è un suo concerto a San Benedetto del Tronto. Parto. Poi grazie a una persona dell’entourage riesco a strappargli cinque minuti. Lui la ascolta e si commuove; è l’unica volta che l’ho visto piangere.
E lei?
Quei momenti li ho sia vissuti che visti da fuori, come un film. Ma in sostanza non capivo niente. Alla fine mi disse: “È un pezzo meraviglioso, sei poi togli questa strofa non ne sentirai la mancanza”. Aveva ragione.
2000.
(Sospira e va a caccia del Bersani trentenne) È il periodo di Aldo, Giovanni e Giacomo e della colonna sonora di Chiedimi se sono felice.
Va bene, ma chi era lei a trent’anni?
Qui è tosta. Lei ci riuscirebbe? Forse di sera sarei in grado di rispondere (sono le undici del mattino; altro silenzio); stavo diventando più cosciente e più difficile da gestire.
Tradotto.
Sul piano dei sentimenti erano arrivate le prime delusioni, quelle che fino ad allora la vita mi aveva evitato; non voglio sembrare mieloso, però sono un romantico. (Ci ripensa) forse all’epoca ho scritto Replay, ma non ne sono sicuro. Non ho un gran rapporto con il tempo.
È nell’album L’oroscopo speciale.
Bel disco, quello mi piace; non ho sempre inciso degli album che nel tempo mi hanno accontentato; ma ora mi chiede com’ero a 40 anni?
In teoria…
Ma no, lasciamo stare, non sono in grado di renderlo in maniera fattuale.
Cosa la fa ridere?
Per me il massimo in una donna è la simpatia, il senso dell’ironia, dell’autoironia…
Il suo personaggio letterario preferito.
Il barone rampante: Italo Calvino è sempre stato un riferimento e mi sono abbeverato molto presto dalla sua fonte. Poi aggiungo Gianni Rodari con le sue Favole al telefono. (Dopo due ore richiama: “Al Barone forse preferisco Marcovaldo).
A 17 anni in realtà quanti anni aveva?
Sono cresciuto con gli adulti, ma questo non voleva dire che fossi più maturo della mia età. Però avevo una bella sensibilità.
A scuola come andava?
Male: ero un rappresentante d’Istituto somaro, e il miglior amico delle bidelle.
Leader.
Probabilmente sì.
A cosa è sopravvissuto?
Non voglio risultare triste.
Va bene.
Di sicuro a un embolo polmonare.
A cosa è sfuggito?
Al ripetermi musicalmente, perché ci si può stancare anche di se stessi.
Uno come lei, a Sanremo.
L’ultima volta, nonostante fossi presente con una canzone di minore importanza, è stata anche l’ultima volta che ho visto Lucio vivo: mentre cantavo era lì in platea, e alla fine me lo ritrovo in piedi che mi fa l’ok con il dito; quell’attimo è valso tutta la decisione di concorrere.
Gioca mai alla lotteria?
Se entro in un bar e vedo le slot machine, non vedo l’ora di uscire.
Oroscopo?
Da giovane mi serviva per aprire una conversazione con una ragazza.
Chi è lei?
Non lo so.
Ci pensa e ci aggiorniamo?
Sì, grazie. (passano alcune ore) Non lo so ancora…
(Canta Samuele Bersani in “Giudizi universali”: “Troppo cerebrale per capire che si può star bene senza complicare il pane”).