Che gran “Domna” l’imperatrice Giulia, madre del sanguinario e visionario Caracalla

Giulia Domna nacque nel 170 p. Ch. nell’antica e prospera città di Emesa, in Siria. Suo padre era il gran sacerdote del Sole: il culto del quale veniva osservato in tutto l’Oriente, prima che a Roma Aureliano instaurasse il padre della luce quale somma divinità. Il nome Domna nasce da una radice semitica: ma un giorno, in Occidente, sarebbe stato interpretato siccome Domina; e questo si comprende per una figura che un giorno avrebbe portato l’appellativo di mater castrorum, madre degli eserciti.

Or accadde che a lei, ancor adolescente, venisse profetizzato il trono; e questa profezia giungesse all’orecchio del militare Settimio Severo, che si trovava a governare a Lione. Settimio era africano, di Leptis Magna: la società romana era quanto di meno razzista vi fosse, e integrava tutti nel suo alveo – beninteso, Settimio non era negro. Allora il condottiero trattò per lettera il suo matrimonio con la giovane donna; dopo il consenso paterno, ella venne spedita in Gallia per la celebrazione e la consumazione delle nozze.

Finalmente, Severo giunse al principato. Il suo impero sarebbe durato a lungo; e sarebbe stato prospero, equilibrato e ricco di vittorie militari. Domna regnò al suo fianco. Ella sarebbe stata un’imperatrice amante della filosofia e delle arti, una mecenate. Ma a lungo sarebbe stata nell’ombra, per l’ostilità che nei suoi confronti nutriva il Prefetto del Pretorio, Plauziano, del quale l’Imperatore molto si fidava. Plauziano sarebbe stato ucciso in una congiura organizzata da Caracalla nel febbraio del 211, durante gli ultimi giorni di vita del padre. Settimio, instancabile guerriero, morì a Eburacum, l’odierna York, combattendo contro le temibili tribù locali. Sarebbero dovuti salire al trono, congiuntamente, i due figli avuti da Giulia Domna, Bassiano, appunto, detto Caracalla, e Geta. Essi si odiavano, e Caracalla, asceso al soglio, lo fece assassinare dai suoi: Geta s’era rifugiato in seno alla madre, la quale ne risultò tutta bruttata di sangue e persino ferita.

Caracalla si diede a crimini orrendi: a Roma, in Egitto, contro i Parti. Giulia Domna non potette far nulla per impedir tali crimini. Quando finalmente il mostro morì, ella a sua volta lasciò la vita: chi dice per malattia, chi per suicidio. La storia di questa grande donna, dotata di non comuni intelligenza ed equilibrio, è narrata nel bellissimo libro di Francesca Ghedini Giulia Domna; del quale libro si ammirerà, oltre la dotta e avvincente narrazione biografica, la seconda parte, dedicata alla ricostruzione delle effigi su monete, statue, sigilli, dell’Imperatrice. L’atto per il quale Caracalla è ricordato è la Constitutio Antoniniana, ossia l’estensione della cittadinanza romana e tutti i nati liberi dell’Impero. Essa fu causata non da ideologia ma da motivi fiscali. Il tema della cittadinanza è trattato in un altro libro adesso uscito, il magistrale e complesso Civitas Romana, civitas mundi. Saggio sulla cittadinanza romana, di Antonio Palma. La mia passione per la storia romana è stata appagata dalla lettura delle due opere delle quali parlo qui.

Le baruffe chiozzotte di Luca: “I miei amori ermafroditi”

Da A Bigger Splash a Call Me By Your Name, Luca Guadagnino l’America l’ha già trovata in Italia. Con We Are Who We Are però rincara la dose: gli yankee non sono più in vacanza, hanno messo le tende, una base militare in Veneto. Le regole d’ingaggio della “mia prima serie tv, la mia prima volta” stanno nell’educazione sentimentale, tra il bovarismo e l’hybris dell’adolescenza.

Se per Rimbaud non si può essere seri a diciassette anni, per Guadagnino e i suoi due co-sceneggiatori, Paolo Giordano e Francesca Manieri, a quattordici si può tutto: Fraser (Jack Dylan Grazer, It), che segue la madre comandante Sarah (Chloë Sevigny) da New York a Chioggia, e l’anima gemella Caitlin (Jordan Kristine Seamón) attraversano genere, sessualità e amicizia senza fare prigionieri. Genesi associata dal produttore Lorenzo Mieli alla visione di Boys Don’t Cry, la parola d’ordine è libertà: Fraser e Cat sperimentano la possibilità, gli altri, gli adulti l’incaglio, il servaggio, il surplace, siano Sarah e la moglie Maggie (Alice Braga) o la madre di Cat Jenny (Faith Alabi) e il padre Richard (Scott Mescudi).

Il solco è tra chi è stato e chi può essere: come da titolo, siamo chi siamo è la via mediana, ma non è di tutti. Guadagnino discrimina tra il ruolo e la persona, la (auto)condanna e l’affrancamento, e pur nell’empatia della messa in scena anch’egli non fa prigionieri: le lesbiche non sono necessariamente migliori, i trumpiani non drasticamente i peggiori, il tema dell’identità non concede al politicamente corretto, è la vita colta nel suo farsi (arte) che interessa al regista. Travasata per “disciplina mentale” nella base (Bagnoli di Sopra, tra Chioggia e Padova), “luogo piccolo ma di senso universale”, e distanziata “in misura minima dalla contemporaneità, nel semestre che sfocia nell’elezione di Trump del 2016”, l’identità della serie è fluida più nell’amore che nel genere, è più romantica che militante, più scanzonata che programmatica: “À nos amours di Maurice Pialat, quelle sono le mie note”, rivendica Guadagnino, perfezionando Call Me By Your Name, fin troppo presente nei rimandi, negli alter ego di Fraser e Cat, nella liaison tra il ragazzino e il maggiore à la Armie Hammer incarnato da Tom Mercier – per tacere del furtivo cammeo di Timothée Chalamet. Intimista senza asfissia, piccola senza piccinerie, felice nel casting – Guadagnino sa scegliere, oculatamente: Jack Dylan è nipote del produttorone Brian Grazer, Francesca Scorsese è la figlia di Martin – e meno nel maneggiare i locali chioggiotti o l’Islam, il regista la battezza “opera ermafrodita: la scansione della serialità funziona, ma gli otto episodi sono altrettanti atti di un lungo film”, così come è stato proiettato al festival di San Sebastian, dalle 16 all’una di notte.

Targata Sky e Hbo, prodotta da The Apartment e Wildside, We Are Who We Are sarà disponibile dal 9 ottobre su Sky Atlantic e in streaming su Now Tv: è una delle cose migliori dell’anno, nel primato del sentimento e del racconto (ralenti e fermo immagine) sulla storia, nel canone esistenziale della musica (Blood Orange), nella debuttante Jordan Kristine Seamón, dal “viso enigmatico, aperto e chiuso insieme”, nel rompete le righe del romanzo di formazione, dell’architettura a tesi, dell’agit-prop riveduto e corretto di questi anni. Neri e bianchi, etero e gay, adolescenti e adulti, americani e italiani, Guadagnino ne ha per tutti, e anche per sé: la transizione alla serialità è espansione cinematografica, estensione della gioia e della lotta di un’anima desiderante. Un sequel? Il regista ci spera, e anche noi.

50 sfumature di Bersani

Tra le vie del centro di Bologna. “Una volta mi sono fatto leggere la mano da una signora. Secondo le linee del mio palmo sarei morto a 35 anni, e allora ne avevo 27. Quindi il suo consiglio fu drastico nelle parole, partecipato nei concetti: ‘Vivi intensamente’”. Ci ha creduto? “Lì per lì mi ha un po’ incupito. Però ci ho ripensato giovedì scorso”. Samuele Bersani, in spregio alle previsioni della chiromante, di anni ne ha compiuti 50 e come regalo ha pubblicato un album di inediti, Cinema Samuele: un lavoro intenso, cesellato, letterario nel voler costruire una storia dentro pochi minuti, o nell’ostinarsi a togliere dall’umido i vocaboli oramai desueti e dall’oblio la forza della poesia. Lui, quasi sul solco lasciato da Fabrizio De André, prosegue in direzione ostinata e contraria, rispetto alla betoniera mentale imposta dai social.

Ha impiegato sette anni a completare questo disco.

Ho passato due anni in giro, con il solo pensiero della musica. Poi sono arrivati i testi, anche loro figli della musica: è lei a dettarmi cosa raccontare.

Non è un disco malinconico.

La malinconia è un petalo del fiore che ci troviamo in mano nella vita, però in questo caso non è il fiore.

Sette anni oramai sono un’era.

Me la sono presa un po’ comoda: ho cercato di vivere per poi scrivere qualcosa che potesse emozionare pure me; e poi mi è scattato il blocco, tipico per chi ha a che fare con la creatività; (silenzio e sorriso) il problema è che poi il blocco si è prolungato oltre il tempo.

Dolore.

Forse ho scritto troppi sms e questo ha rischiato di inaridire la fantasia; tutta la fantasia l’avevo riversata in quei messaggini.

Dolore doppio.

Non solo, avevo individuato in Ginostra (a Stromboli, Eolie, ndr) il luogo giusto per isolarmi e lavorare: ma i due musicisti che mi ero portato dietro sono scappati dopo appena un giorno e mezzo.

Addirittura.

Una sorta di ammutinamento; per me era facile, c’ero già stato e cercavo un luogo del genere, con il mare all’orizzonte, i profumi della vegetazione, silenzio assoluto, niente turismo perché era inverno. Ma non hanno retto.

E poi?

Per un anno sono andato a vivere a Milano, nel quartiere meno centrale possibile, non ricordo neanche la via, ma era veramente periferico.

È pigro?

Mi ribello a questa storia: quando lavoro sono molto serio ed esigente, tanto che alla fine ringrazio chi mi ha aiutato e seguito, perché pretendo ritmi non classici; poi c’è chi mi può derubricare a pazzo, visto che per due anni sono stato dietro a delle musiche.

Un suo pregio.

Non ho mai scritto due volte la stessa canzone.

Neanche quando i produttori le chiedevano una hit per l’estate.

Era un periodo storico diverso: c’era il Festivalbar in cui partecipavo con brani come Spaccacuore o Freak, quindi brani più veloci, più diretti, mentre quando ho portato Il pescatore di asterischi non è che l’abbiano capita subito; (sorride) in quella puntata sul lungomare di Pescara, ho visto sguardi spaesati, ed era l’epoca in cui tutti sul palco gridavano “su le mani”.

Lei lo ha mai detto?

(Tono profondo, diaframma puro) Io? Mica è un villaggio turistico.

Per carità.

Al massimo posso aver mosso le mani a mo’ d’applauso, ma quella frase non mi è mai uscita dalla bocca.

Barbarossa racconta di averla scoperta nel 1991 a casa di Lucio Dalla. E che Dalla le ha chiesto di cantare Il mostro.

È vero, avevo conosciuto Lucio da una sola settimana, quando una sera sono riuscito a fargli ascoltare il mio brano; io sempre timido, e quando sembro esuberante è solo una reazione alla timidezza; allora paradossalmente ne avevo meno di oggi, perché a vent’anni chiunque può aggrapparsi a quel guizzo di sfrontatezza che poi nel tempo vai a silenziare.

Rispettoso.

Preferisco restare dietro, anche quando hanno provato a presentarmi dei miti: all’ultimo mi sono rifiutato, solo per non disturbarli.

Ad esempio, chi?

Paolo Conte: un giorno lo trovo in sala d’incisione, mi incitano a entrare, ma non ce l’ho fatta. E lo stesso con Mina: per lei ho scritto una canzone; ero stato invitato da Lucio a Bologna mentre provavano un brano: mi sono vergognato, e per l’ennesima volta sono andato via.

Pentito?

Eccome.

A vent’anni, Dalla.

Ho aperto i suoi spettacoli e per un’ottantina di volte ho cantato dopo Caruso. È stata una bella palestra, e quella palestra comprendeva pure gli amici e i colleghi che venivano al concerto.

Perché?

In un live, in platea, ho visto De André. Se ci ripenso, tremo.

Almeno con De André ha parlato?

Sono stato invitato a un suo concerto: durante lo spettacolo mi ha citato tra gli ospiti. Volevo sprofondare.

È proprio un suo mito…

Per questo sul palco ho sempre un leggio; da bambino i miei genitori mi hanno portato a un suo concerto e quando sono tornato a casa ho sintetizzato così l’esperienza: bello il ruolo di cantautore, uno canta le proprie canzoni e le legge; (cambia tono) i suoi testi erano le mie favole.

Lei ai primi live, com’era?

Con poco repertorio: avevo inciso un disco con solo otto brani; mi affidavo alle cover per riempire.

Sì, ma lei com’era?

Non lo so, avevo vent’anni e dovevo ancora combattere con la vanità, aspetto che poi ho perso; comunque volevo affrontare questo mestiere, ma ero proprio giovane.

Vanitoso, quindi.

Arrivavo da una piccola realtà, da un piccolo paese e mi ritrovavo in televisione, le persone per strada mi seguivano. Impossibile non cadere nella vanità: all’epoca ha inciso molto sulla mia testa; (ci pensa) forse bisognerebbe avere più anni prima di cominciare.

Si ricorda un suo atteggiamento da stronzo?

(Resta in silenzio, scava dentro di sé) Ero su un palco, avrò avuto 26 anni, e cantavo Giudizi universali: mi arrivò un peluche in testa. Lo presi. E lo tirai indietro.


Giudizi universali
è la sua canzone più amata.

È diventata un classico, e mi fa piacere.

Samuele Bersani nel 1980.

Smettevo di andare il giovedì pomeriggio dal maestro di pianoforte, a Rimini, perché quando la macchina entrava nella sua via, avevo già i primi attacchi di ansia.

A 10 anni?

Sì, ma me ne sono reso conto anni dopo, quando mi hanno assalito da adulto. Adesso non mi capita più.

Allora cosa le causava ansia?

Sapevo di non aver studiato, ed ero consapevole che mi avrebbero sgridato.

I suoi genitori?

Vedevano che non erano felice.

1990.

Mia mamma legge su un giornale che Dalla sta organizzando a Bologna dei provini per Angela Baraldi. Prendo il treno, e vado con l’obiettivo di fargli ascoltare Il mostro. Fallisco. A parte Toto Schillaci, per me il 1990 è un anno di merda.

E come riuscì con Dalla?

Nel 1991 scopro che c’è un suo concerto a San Benedetto del Tronto. Parto. Poi grazie a una persona dell’entourage riesco a strappargli cinque minuti. Lui la ascolta e si commuove; è l’unica volta che l’ho visto piangere.

E lei?

Quei momenti li ho sia vissuti che visti da fuori, come un film. Ma in sostanza non capivo niente. Alla fine mi disse: “È un pezzo meraviglioso, sei poi togli questa strofa non ne sentirai la mancanza”. Aveva ragione.

2000.

(Sospira e va a caccia del Bersani trentenne) È il periodo di Aldo, Giovanni e Giacomo e della colonna sonora di Chiedimi se sono felice.

Va bene, ma chi era lei a trent’anni?

Qui è tosta. Lei ci riuscirebbe? Forse di sera sarei in grado di rispondere (sono le undici del mattino; altro silenzio); stavo diventando più cosciente e più difficile da gestire.

Tradotto.

Sul piano dei sentimenti erano arrivate le prime delusioni, quelle che fino ad allora la vita mi aveva evitato; non voglio sembrare mieloso, però sono un romantico. (Ci ripensa) forse all’epoca ho scritto Replay, ma non ne sono sicuro. Non ho un gran rapporto con il tempo.

È nell’album L’oroscopo speciale.

Bel disco, quello mi piace; non ho sempre inciso degli album che nel tempo mi hanno accontentato; ma ora mi chiede com’ero a 40 anni?

In teoria…

Ma no, lasciamo stare, non sono in grado di renderlo in maniera fattuale.

Cosa la fa ridere?

Per me il massimo in una donna è la simpatia, il senso dell’ironia, dell’autoironia…

Il suo personaggio letterario preferito.

Il barone rampante: Italo Calvino è sempre stato un riferimento e mi sono abbeverato molto presto dalla sua fonte. Poi aggiungo Gianni Rodari con le sue Favole al telefono. (Dopo due ore richiama: “Al Barone forse preferisco Marcovaldo).

A 17 anni in realtà quanti anni aveva?

Sono cresciuto con gli adulti, ma questo non voleva dire che fossi più maturo della mia età. Però avevo una bella sensibilità.

A scuola come andava?

Male: ero un rappresentante d’Istituto somaro, e il miglior amico delle bidelle.

Leader.

Probabilmente sì.

A cosa è sopravvissuto?

Non voglio risultare triste.

Va bene.

Di sicuro a un embolo polmonare.

A cosa è sfuggito?

Al ripetermi musicalmente, perché ci si può stancare anche di se stessi.

Uno come lei, a Sanremo.

L’ultima volta, nonostante fossi presente con una canzone di minore importanza, è stata anche l’ultima volta che ho visto Lucio vivo: mentre cantavo era lì in platea, e alla fine me lo ritrovo in piedi che mi fa l’ok con il dito; quell’attimo è valso tutta la decisione di concorrere.

Gioca mai alla lotteria?

Se entro in un bar e vedo le slot machine, non vedo l’ora di uscire.

Oroscopo?

Da giovane mi serviva per aprire una conversazione con una ragazza.

Chi è lei?

Non lo so.

Ci pensa e ci aggiorniamo?

Sì, grazie. (passano alcune ore) Non lo so ancora…

(Canta Samuele Bersani in “Giudizi universali”: “Troppo cerebrale per capire che si può star bene senza complicare il pane”).

L’esplosione al porto, Beirut accusa due russi

Sia che la nave russa Rhosus nel 2013 stesse davvero trasportando tonnellate e tonnellate di nitrato di ammonio dalla Georgia a una società di esplosivi del Mozambico, sia che facesse finta di essere diretta in Africa per poter fare tappa nel porto di Beirut e consegnare il pericoloso carico forse al partito armato sciita libanese Hezbollah – che controlla da anni lo scalo portuale della Capitale libanese – oppure se sia stata fermata per questioni burocratiche, resta il fatto che il suo capitano e l’armatore sono ora ricercati per essere arrestati. Un dato è certo in questa tragica vicenda che ha fatto quasi 200 morti e 7.000 feriti: se la nave non fosse mai stata bloccata nel porto principale del Paese dei Cedri, questo non sarebbe esploso lo scorso 4 agosto come una bomba atomica mandando in macerie metà Beirut. Ma un altro fatto è altrettanto certo: il nitrato d’ammonio è pericoloso solo a certe condizioni, ovvero proprio quelle in cui si è venuto a trovare per la negligenza o corruzione delle autorità portuali, oppure a causa della sfrontata politica di Hezbollah tesa a reperire quante più armi, non solo convenzionali, possibili. Il pubblico ministero Fadi Sawan, a capo dell’indagine lanciata dalla Procura di Stato libanese, però si concentra sugli elementi più evidenti e pertanto ha chiesto all’Interpol di arrestare l’armatore della nave e il capitano.

Si ritiene che fosse Boris Prokoshev, un cittadino russo, il capitano della Rhosus quando, dopo essere partita dalla Georgia, arrivò a Beirut via Turchia . L’armatore è un imprenditore russo, Igor Grechushkin, che risiede a Cipro. Pochi giorni dopo il disastro del 4 agosto, Grechushkin venne interrogato dalla polizia cipriota su richiesta dell’ufficio libanese dell’Interpol. Analizzando i registri di navigazione del 2013, la nave dopo aver caricato le scorte di nitrato di ammonio aveva dovuto fare una sosta, descritta come “imprevista”, al porto di Beirut. La Rhosus era stata quindi coinvolta in una disputa legale e la nave era stata sequestrata dalle autorità portuali libanesi. Nell’ottobre 2014, il nitrato di ammonio era poi stato scaricato e spostato in un magazzino portuale fatiscente dove è rimasto fino a quando è esploso. La nave dal 2013 non aveva più lasciato il porto ed è affondata vicino al frangiflutti nel febbraio 2018, secondo i documenti ufficiali della Marina libanesi. Nel porto di Beirut, dove si incrociano senza sosta carichi leciti e illeciti, i “camalli” e, in generale, le migliaia di persone che vi lavorano hanno subito accusato le autorità libanesi di aver trascurato per corruzione e menefreghismo ciò che vi transita. Anche la magistratura libanese, che dall’esplosione ha fatto arrestare decine di persone, inclusi funzionari portuali e doganali, ha una buona parte di colpa non avendo mai aperto un’indagine sull’abnorme carico di quel materiale esplosivo immagazzinato senza alcuna cura in un porto civile. Il presidente libanese, il cristiano maronita Michel Aoun, stretto alleato del partito armato sciita Hezbollah (longa manus dell’Iran) ha respinto fin da subito le richieste di un’indagine internazionale sull’esplosione, per evitare che vengano a galla le enormi storture di un paese ancora schiacciato sulle divisioni settarie. Lo stallo della crisi sembra prostrarsi all’infinito dopo le dimissioni anche dell’ultimo premier Mustapha Adib, rimasto in carica appena un mese.

Il 25° emendamento: così House of Cards ha anticipato la realtà

L’invocazione della clausola 4 del 25° emendamento costituzionale, che consente la deposizione del presidente degli Stati Uniti in carica, per manifesta incapacità di esercitare i poteri e doveri del suo ufficio, è uno scenario così drammatico e pieno di incognite da essere stato sfruttato ampiamente, come snodo narrativo di grande potenza, da registi e sceneggiatori.

Uno degli esempi più recenti è la serie televisiva House of Cards, in onda su Netflix fra il 2013 e il 2018, che spinge agli estremi l’originale inglese degli anni Novanta. Racconta ascesa e caduta di Frank Underwood, politico americano ossessionato dal potere e completamente privo di scrupoli nell’ottenerlo. Ritmo serrato, le svolte inattese sono continue: nella prima stagione Underwood riesce ad azzoppare il vicepresidente e prenderne il posto. Poi orchestra la caduta del presidente in carica, che travolto dagli scandali viene deposto grazie al 25° emendamento e gli lascia campo libero. La clausola 4 viene invocata di nuovo nella quarta stagione, quando Underwood resta ferito in un attentato, e poi revocata quando si riprende. Meno cervello e più azione in AirForce One di Wolfgang Petersen, del 1997. Il presidente Jim Marshall, interpretato da Harrison Ford, sta tornando da una visita di Stato a Mosca con moglie, figlioletta ed entourage sull’AirForce One, che viene dirottato da cattivissimi terroristi kazaki. A Washington viene dato per spacciato: il ministro della Difesa avvia le procedure di deposizione. Siccome stiamo parlando di sceneggiatori di film d’azione hollywoodiani, si verificano due scenari vagamente inverosimili. Il primo: Marshall è un eroe di guerra, veterano del Vietnam e insignito della medaglia d’onore, e quindi, da solo e quasi a mani nude, elimina i terroristi, salva tutti, prende il comando dell’aeroplano, sopravvive ad un ulteriore attacco aereo e atterra illeso. Secondo: il vicepresidente non solo è una donna, interpretata da Glenn Close, ma è anche di provata e inossidabile lealtà: rifiuta di firmare il passaggio di consegne, e, in una delle scene finali, strappa la lettera di nomina.

Sempre restando nell’immaginario catastrofista/machista, del 2013 è White House Down, in cui il presidente di colore James Sawyer, impersonato da Jamie Foxx, viene preso in ostaggio da terroristi dentro la Casa Bianca. Grazie al 25° gli subentra il vicepresidente, che però muore in un altro attacco terroristico, lasciando il posto al leader della Camera dei Rappresentanti. Che nel film è un uomo, e invece per una volta nella realtà sarebbe una donna: la democratica Nancy Pelosi, terza nella catena di comando. Poi c’è 24, serie cult sempre del genere fantapolitico andata in onda a partire dal 2001. Nella seconda stagione l’esecutivo invoca il 25° per rimuovere il presidente in carica, in dissenso con la sua reazione a una serie di attentati terroristici. Marcia indietro quando si scopre che la reazione era quella giusta. Però nell’ultima stagione il presidente finisce in coma dopo un attentato fallito, e quale migliore ragione per sostituirlo?

Infine, West Wing, altra serie stracult, scritta da Aaron Sorkin: amministrazione democratica, presidente, Josiah Bartlet (Martin Sheen), idealista e di ferrei principi etici e morali. Nella seconda stagione viene ferito in un attentato. Il vice presidente è pronto a diventare comandante in capo ma il capo dello staff ha dubbi di interpretazione costituzionale. Nella quarta stagione la figlia di Bartlet viene rapita da terroristi islamici e lui, tormentato dalla scelta fra presidenza e famiglia, si autodepone.

Trump e l’ora più buia: ancora due giorni cruciali assieme al coronavirus

La notizia trapela dopo la versione ufficiale dello staff medico che ha in cura il presidente Trump. Si tratta di una fonte a conoscenza delle condizioni di salute del magnate che afferma: “Le sue funzioni vitali sono state molto preoccupanti nelle ultime 24 ore e le prossime 48 ore saranno cruciali in termini di cura. Non siamo ancora su una strada chiara per un pieno recupero”. Contenuto decisamente diverso da quello usato dallo stesso presidente: “Sta andando bene, credo. Grazie a voi tutti, CON AFFETTO!!!”: con il marchio di autenticità delle parole in maiuscole e della raffica di punti esclamativi: è il primo tweet di The Donald Trump dall’ospedale, dov’è ricoverato da venerdì sera. Ne segue un secondo: “Mi sento bene, grazie ai medici e agli infermieri”. Il presidente respira senza bisogno dell’ossigeno e viene curato con il Remdesivir, farmaco anti-virale già usato con successo contro il virus Ebola, e con un cocktail di anticorpi sintetici sperimentale, sviluppato dal laboratorio Renegeron, che ha dato risultati preliminari incoraggianti nei test clinici su un numero di pazienti ridotto.

La Casa Bianca aveva avvertito che Trump poteva assumere farmaci sperimentali che non hanno ancora ricevuto l’autorizzazione dalla Food and Drug Administration, l’agenzia del farmaco Usa, e che non sono disponibili al pubblico. I medici del Walter Reed, l’ospedale militare di Bethesda, Maryland, alle porte di Washington, gli somministrano, inoltre, vitamina D, zinco, melatonina, un’aspirina al giorno e un anti-acido. Sulle condizioni di salute del presidente, risultato giovedì positivo al coronavirus (come lui, pure Melania, la moglie), i media mostravano inizialmente diffidenza perché tutte le notizie venivano dal circolo ristretto di Trump: il suo medico Sean Colley, la portavoce Kayleigh McEnany e il capo dello staff Mark Meadows. Il Washington Post dedicava alla questione un editoriale: “La nazione deve sapere la verità sulla malattia del presidente”.

Nella tarda mattinata di ieri, il briefing c’è stato: “Il presidente sta molto bene – ha detto il dottor Conley – siamo estremamente contenti dei progressi fatti”. I medici dell’ospedale hanno indicato che Trump non ha bisogno di ossigeno, respira e cammina regolarmente, ed è di umore eccezionalmente buono. Ha avuto febbre per 24 ore, ma ora è sfebbrato; il livello di saturazione dell’ossigeno è del 96%”. Sono previsti cinque giorni di trattamento con il Remdesivir. “Mi sento come se potessi uscire di qui oggi”, ha detto ieri il paziente ai medici che lo visitavano, chiedendo della idrossiclorochina, un farmaco da lui promosso, che non gli viene però dato. Suscita interrogativi una dichiarazione di Conley, fatta alle 11 di ieri: il virus sarebbe stato diagnosticato a Trump 72 ore prima, mentre dall’annuncio ne erano trascorse meno di 48.Secondo fonti di stampa, prima d’andare in ospedale Trump aveva una lieve febbre, il naso chiuso e la tosse ed era “molto stanco, molto affaticato, con qualche difficoltà a respirare”: alcuni suoi parametri erano preoccupanti. La first lady ha sintomi più lievi: “tosse leggera e mal di testa.” Donald ha 74 anni, Melania 50. Il ricovero – questa è la versione ufficiale – è stato deciso “per sovrabbondanza di precauzione”: parole della McEnany.

Tutti gli eventi elettorali previsti sono stati posticipati o riprogrammati in modalità virtuale: potrebbe pure essere il caso dei due dibattiti televisivi restanti col candidato democratico Joe Biden (o almeno del primo di essi, il 15 ottobre). Il duello tv fra i vice Mike Pence e Kamala Harris si farà come previsto, mercoledì prossimo a Salt Lake City, Utah. La Casa Bianca si sta intanto rivelando un focolaio di contagi: sotto accusa la cerimonia d’annuncio della designazione della giudice Amy Coney Barrett alla Corte Suprema, sabato 26 nel Giardino delle Rose, senza precauzioni. L’ipotesi iniziale che il presidente sia stato contagiato da Hope Hicks, una sua fedelissima, che lo segue come un’ombra; si rilanciano i gossip sui rapporti tra i due: Hicks, capo della comunicazione a 29 anni, lasciò la Casa Bianca nel 2018, per aver ammesso in Congresso di avere detto “innocenti bugie” pro-Trump: ma il presidente l’ha poi rivoluta.

Levi, l’altra giacca del lager scovata in fondo a un baule

La sua giacca del lager nazista di Auschwitz, quella con il numero di matricola, il “Nummer 174 517”, rimase in Ungheria. Non fu una dimenticanza, bensì la fame a farla restare lassù. Durante il lungo viaggio di ritorno in Italia, nel 1945, attraverso la Polonia, la Russia Bianca, l’Ucraina, la Romania, l’Ungheria e l’Austria, come avrebbe raccontato in La tregua, Primo Levi (Torino, 1919-1987) l’aveva ceduta per un poco di cibo. Il treno, scrisse, fermò “a Szòb, ed era giorno di mercato. Scendemmo tutti. (…) Io non avevo più nulla: ma ero affamato e barattai la giacca di Auschwitz, che avevo gelosamente conservata fino allora, contro un nobile impasto di formaggio fermentato e cipolle, il cui aroma acuto mi aveva avvinto”.

Quando giunse a Torino, però, nell’ottobre del ’45, tra le sue povere cose Levi aveva con sé un altro indumento del lager, un’altra giacca da deportato. Non era a “zebra” come quelle tristemente consuete nei campi di sterminio, ma grigia. Sulla schiena c’erano una croce colore del mattone e una toppa a forma di rettangolo, con strisce azzurre e biancastre. Queste giacche vennero fabbricate quando, nel ’44, la stoffa delle vecchie divise dei prigionieri di Hitler cominciò a scarseggiare. L’indumento non era quello di Levi ad Auschwitz. A chi era appartenuto, allora? Quale vittima dell’Olocausto l’aveva indossato, e dove? A un compagno, un amico, di Levi, forse? Anche adesso, nei giorni in cui la giacca del lager portata in Italia è rispuntata dopo anni in un baule depositato nella sede della sezione torinese dell’Aned (l’Associazione nazionale ex deportati nei campi nazisti), quelle domande non hanno risposte. La sola certezza è che l’autore di Se questo è un uomo la diede a Ferruccio Maruffi (1924-2015), partigiano e deportato a Mauthausen, autore di numerosi libri e a lungo animatore infaticabile e tra i fondatori nel ’46 dell’Aned di Torino, oltre che promotore di molti viaggi della Memoria negli ex lager d’Italia (da Fossoli a Bolzano), della Germania, della Francia, dell’Austria, della Polonia. Partigiano garibaldino nelle Valli di Lanzo, assieme al padre Giuseppe, trucidato dai nazisti nel dicembre del ’44, Maruffi fu catturato e deportato in Austria, prima a Gusen I, Schwechat, Floridsdorf, Gusen II, e infine al Revier di Mauthausen, dove fu liberato. Era perciò l’uomo giusto per ricevere da Levi quel frammento di tela della memoria.

Esposta per la prima volta in una mostra a Kyoto, in Giappone, diverso tempo fa, e quindi in una a Torino, la casacca di Levi finì in seguito nel dimenticatoio, e non se n’è più saputo niente fino a pochi giorni fa. Era come scomparsa in uno dei bauli in cui sono stati forzosamente stipati libri, documenti e cimeli dell’Aned subalpino, che, con il passare degli anni e la minore attenzione da parte degli enti pubblici locali finanziatori, ha dovuto traslocare da un posto all’altro. E così si è trasferita da una sede di una certa ampiezza in un piccolo locale ospitato nel Polo museale del Novecento, in uno degli antichi Quartieri Militari settecenteschi della città. La più che modesta dimensione della sede attuale di chi custodisce quella Memoria, la Memoria dell’orrore nazista, aveva costretto i responsabili dell’associazione – guidata da Susanna Maruffi, figlia di Ferruccio – a collocare una parte cospicua del patrimonio archivistico presso l’Istituto Storico della Resistenza del Piemonte. Quest’ultimo, tuttavia, avendo bisogno di spazio, ha restituito gli scatoloni all’Aned. Ed è a questo punto, in questo ennesimo travagliato viaggio, che la giacca di Primo Levi, peraltro sempre chiusa in una cassa, in queste settimane è stata ritrovata.

All’Aned non sanno se Levi avesse rivelato a Maruffi l’identità dell’uomo o della donna che aveva portato quella giacca, e non è noto nemmeno se lo stesso narratore lo sapesse. Avrebbe potuto essere, magari, uno di quegli indumenti presi dai sopravvissuti, dopo la liberazione sovietica di Auschwitz, al lager di Buna? “Allora – narra ne La tregua – mi ritagliai un paio di pedule da una coperta, arraffai quante più giacche e calzoni di tela potei trovare in giro”. Oppure la giacca appartenne davvero a un amico, morto come altri milioni di deportati ad Auschwitz o in qualche altro campo di sterminio? Chissà.

Primo Levi, in ogni caso, volle che fosse custodita da un amico e da un compagno di prigionia, Maruffi, che, come lui, era riuscito a salvarsi dallo sterminio e a ritornare per raccontare che cosa erano stati il nazismo e l’Olocausto. Quella stoffa, quel semplice pezzo di stoffa che simboleggia la libertà e l’oppressione, I sommersi e i salvati, dovrebbe essere vista da tutti, e l’Aned vorrebbe che fosse così. Occorre però mettere l’Aned nelle condizioni di poterlo fare: quell’Aned di Levi e di Maruffi, che tenacemente si ostina a preservare la Memoria in un mondo sempre più immemore.

I cavalli nei caffè e Woody Allen che spiega il divorzio

Proseguiamo l’esplorazione degli argomenti divertenti (metalogismi). Speriamo bene: ho inghiottito una manciata di pillole e non so cos’erano.

Argomenti di successione/ coesistenza

Questi argomenti colgono legami fra gli elementi: del tipo causa/effetto quelli di successione, del tipo atto/persona quelli di coesistenza.

 

I LEGAMI DI SUCCESSIONE

La spiegazione squalificante. BORIS: (davanti a un campo di battaglia con migliaia di morti) Ragazzi! La cucina militare è micidiale! (Woody Allen)

La spiegazione forzata. Si pensa che il cavallo cammini perché lo frustano, ma questa spiegazione non è più logica del sostenere che Dio è uno e trino. Non c’è alcuna ragione, in base a quanto conosciamo della fisiologia animale, per poter affermare che un colpo di frusta sulla spessa epidermide di un perissodattilo debba produrre automaticamente un movimento regolare di trotto nelle sue quattro zampe. Il motivo è un altro, puramente utilitario: un cavallo, frustato, cammina semplicemente perché sfornito di ombrello. Alla prima frustata, infatti, egli pensa: “Piove!” E allora comincia a camminare per allontanarsi da quel luogo meteorologicamente antipatico. Ma le frustate continuano, e il cavallo ne deduce che anche lì piove. Accelera perciò l’andatura, alla ricerca di un luogo dove non piova. Quando non sente più colpi sulla sua pelle coriacea, tira un sospiro di sollievo e pensa: “Oh, ha smesso!” E si ferma. Per questo, a volte, un cavallo entra in un caffè affollato: per cercar riparo dalla pioggia.

La catena causale. “Perché piangi?” “Papà stava appendendo un quadro e si è dato una martellata sul pollice.” “E c’è bisogno di piangere?” “Infatti mi ero messo a ridere”.

“Cosa faresti se trovassi qualcuno a letto con tua moglie?” “Gli spezzerei il bastone bianco e ucciderei il suo cane guida.”

Ignorare la catena causale. Non voglio sposarmi. Voglio solo divorziare. (Woody Allen)

Le guarigioni miracolose sono sempre spiegate in termini di suggestione, ma Dumas racconta di una nave che trasportava cavalli nell’Egeo. Un purosangue si ammala, il veterinario ordina di abbatterlo. “Un momento!” gli dicono. “A bordo c’è un cosacco che sa guarire i cavalli”. Lo mandano a chiamare. Il cosacco prende una corda, fa alcuni nodi, e il cavallo guarisce. Suggestione? Che ne sapeva il cavallo?

L’argomento pragmatico. Se Dio fosse donna, lo sperma saprebbe di Nutella.

Compromettere il fine coi mezzi. Più si resta sulle strade, più aumentano le occasioni di incidente. Per prudenza, quindi, meglio avere un’auto veloce e andare a tutto gas.

Scegliere lo schema mezzo/fine ignorando quello fatto/conseguenza. Un filosofo vuole insegnare al suo cavallo a mangiar poco, e smette di nutrirlo. Il cavallo muore. Il filosofo: “Che sfortuna! Proprio adesso che gli avevo insegnato a vivere senza mangiare!” (Ierocle, V sec. a.C.)

Confondere mezzi e occasione. Lezione di catechismo. Il prete: “Cosa bisogna fare perché Dio perdoni i nostri peccati?” Un ragazzino: “Prima di tutto bisogna commetterli”.

Attribuire una volontà umana alle cause naturali. Una matrona sovraccarica di pacchetti inciampa e rovina al suolo. I passanti l’aiutano a rialzarsi e a raccogliere i pacchi. La matrona sta per ripartire quando una bambina s’avvicina e le chiede: “Scusi, signora, il mio fratellino non ha visto niente. Potrebbe rifarlo?”

L’argomento d’autorità. Un tale si imbatte in un amico: “Avevo sentito dire che eri morto!” L’amico: “Come vedi, sono vivo.” Il tale: “Guarda che chi me l’ha detto è molto più affidabile di te”. (Ierocle)

La scelta fra i diversi aspetti della persona. I giovani d’oggi sono dei mostri. Non hanno assolutamente nessun rispetto per i capelli tinti (Oscar Wilde).

“Se un uomo mi parlasse così, gli spezzerei il collo”. “Io sono un uomo.” “Be’, intendevo un uomo più basso” (Woody Allen).

L’influenza dell’attributo sull’essenza. Cosa manca a costui, se non il denaro e la virtù? (Cicerone)

“Dean è cattolico, io sono ebreo, e tu Sammy sei un nero. Mi dispiace” (Don Rickles a Sammy Davis Jr., che scoppia a ridere. E Don: “Sei un nero, giusto? Ho tirato a indovinare” Boato).

La qualificazione attraverso l’atto. Un passante si impietosisce nel vedere un ragazzo spingere un carretto troppo pesante su per un pendio, e lo aiuta a spingere. Arrivati in cima, gli chiede: “Il tuo principale non si vergogna a farti spingere un carretto così pesante?” “Gliel’ho detto, infatti.” “E lui?” “Be’, mi ha detto: ‘Comincia ad andare. Vedrai che per la strada lo trovi, un fesso che ti dà una mano’”.

Un tizio scopre la moglie a letto con un proprio amico. Sgomento, gli chiede: “Io devo. Ma tu?” (Ierocle, ripresa duemila anni dopo da Milton Berle).

Ho 80 anni, e faccio sesso con mia moglie quasi ogni giorno. Quasi il lunedì, quasi il martedì… (Milton Berle)

Milton Berle fu la prima star della tv. Fece vendere milioni di televisori. I miei genitori vendettero il nostro (Johnny Carson).

 

IL LEGAME SIMBOLICO

Metonimia. JOHN LENNON (dopo aver completato la composizione di I Saw Her Standing There): “Ed ecco finita un’altra piscina”.

 

LE DOPPIE GERARCHIE

Causa/effetto. Allo zoo, davanti alla gabbia degli orsi, una ragazza stringe forte il braccio del ragazzo che la sta accompagnando. “Scusa, ti stringo il braccio perché queste bestie mi fanno paura”. E lui: “Ah, sì? Vieni, andiamo a vedere i leoni”.

Fini/mezzi. Un tale cerca dove farsi costruire la tomba. Un amico gli raccomanda un certo posto, e lui: “No, è un luogo malsano”. (Ierocle)

Atti/persone. Preferisco di gran lunga un programma di Fabio Fazio a due programmi di Fabio Fazio.

L’argomento a maggior ragione. Dopoguerra. La padrona di casa si scusa con un invitato per non aver servito l’insalata in un piatto a parte. Lui: “Non si preoccupi, sono stato in un lager per tre anni”.

L’argomento di auto-svalutazione. “I politici sono tutti dei pezzi di merda.” “Così mi offende.” “Perché? Lei è un politico?” “No. Sono un pezzo di merda”.

La differenza di grado opposta alla differenza d’ordine. Negozio d’animali. “Quanto viene questo San Bernardo?” “Mille euro.” “E questo pastore tedesco?” “Millecinquecento.” “E quel bulldog?” “Duemila” “E quel bassotto?” “Duemilacinquecento”. “E quel chihuahua?” “Tremila”. “Ho capito. Se non compro niente, quanto mi costa?”.

Un tale: “Si dice che san Dionigi decapitato abbia camminato tre chilometri tenendo latesta in mano!” L’amico: “Il difficile è sempre fare il primo passo”.

(24. Continua)

Venezia, sei miliardi e finalmente sentirli. Il Mose ha fermato l’acqua alta a San Marco

Diciassette anni (e 6 miliardi di euro) dopo la posa della prima pietra, il Mose comincia a fare quello per cui è stato progettato. Ieri è riuscito a bloccare la marea che, altrimenti, avrebbe invaso il 52% del centro storico di Venezia. La città tira un sospiro di sollievo, e con essa tutti coloro che hanno lavorato alla realizzazione di un’opera controversa, la cui ideazione affonda nel secolo scorso e la cui realizzabilità ha rischiato di naufragare nello scandalo tangenti del 2014. Le paratoie si sono alzate alle tre bocche di porto della laguna, dopo il via libera dato alle 6 del mattino, vista la previsione di marea di 130 cm. Ed è esattamente il livello che fa scattare le dighe mobili, anche se il Mose non è ultimato, né collaudato. A regime, ovvero dalla fine del 2021, potrà funzionare anche a partire da 110 cm.

Il via libera ha bloccato le navi in ingresso e in uscita dal porto. Poi è stato avviato l’innalzamento, durato un’ora e 17 minuti, dalle 8.35 alle 9.52. A quel punto la laguna era isolata dal mare. Ma mentre il livello dell’Adriatico è cresciuto al Lido fino a 132 cm, quello della laguna è rimasto a 70, con una differenza di 50 cm, quanto è bastato per evitare l’allagamento del centro storico di Venezia. Perfino Piazza San Marco, che è tra le aree più basse, è rimasta all’asciutto, se si esclude qualche pozzanghera. Si tratta ora di verificare, nella fase di rientro delle paratoie, quante siano rimaste rialzate, a causa dei detriti di sabbia.

La prova riuscita ha suscitato reazioni entusiaste. A cominciare da Elisabetta Spitz, Commissario straordinario per il Mose. “Il palese successo rappresenta solo un passaggio fondamentale nella protezione della città e della laguna. Ci tengo ad attribuire il merito ai tecnici, agli operai e a tutto il personale per questo straordinario traguardo”. Poi ha ringraziato “il progettista Scotti, il direttore Ossola e il Provveditorato di Venezia ”. Non è potuto sfuggire il fatto che non abbia citato uno degli amministratori straordinari del Consorzio, Giuseppe Fiengo, e che abbia declassato Francesco Ossola a semplice “direttore”. Entrambi, invece, nominati nel 2015 dall’Anac dopo gli arresti, hanno contribuito a far funzionare il Consorzio. Il provveditore alle opere pubbliche, Cinzia Zincone, ha commentato: “Non filtra acqua e si apprezza una consistente differenza di altezza dell’acqua”. Di giornata storica hanno parlato il sindaco Luigi Brugnaro e il governatore Luca Zaia. Il patriarca Francesco Moraglia: “Una bella giornata, forse attesa da troppo tempo”.

La Carta di Roma: “Le città ripartano dalla cultura”

Nasce la “Carta di Roma”, da oggi affissa in tutti i luoghi simbolo della cultura capitolina. L’obiettivo del documento internazionale è “portare il diritto alla cultura al centro della scena sociale”. La sua pubblicazione è l’atto conclusivo di una tre giorni terminata ieri al Macro, che ha visto un ampio panel di intellettuali, come l’accademico della Normale di Pisa, Salvatore Settis, e amministratori di varie città, come i primi cittadini di Malmö e Bilbao. Il manifesto infatti è stato promosso dalla Uclg, la più grande organizzazione di governi locali del mondo. “Proteggere i diritti culturali delle minoranze” e “integrare donne, bambini e giovani nelle politiche culturali” sono alcuni dei punti dell’atto che il Comune si è impegnato a sottoscrivere. “Se qualcosa di buono può venire dal Covid-19 – ha spiegato il vicesindaco di Roma Luca Bergamo – sarà perché siamo stati abbastanza coraggiosi da immaginare modi di vivere insieme diversi, migliori e più sostenibili. Le città sono centrali in questa sfida”.