Quando parla Giancarlo Giorgetti si è sempre soliti dar molta importanza alle sue parole. Un po’ tutti lo considerano il volto buono della Lega, l’uomo poco di piazza e molto di governo, il moderato, quello che parla sotto voce e chiede scusa ai convitati mentre Salvini ha appena ruttato a tutto volume. E sia. La sensazione però è che ormai non si possano comprendere le sue uscite senza un imprescindibile presupposto: Giorgetti non fa parte della Lega, oppure soffre di quotidiane amnesie che lo rendono pari ogni giorno a un marziano che atterra sul nostro pianeta. Due giorni fa ha spiegato come sia “da cretini” non confrontarsi “con il Ppe”, cioè i Popolari europei, e in particolare “con la Cdu tedesca”, cioè l’odiatissima Merkel. Poi ha aggiunto che la Lega dovrà “avviare un movimento verso il centro”, pena “il rischio di essere annientata”. Il tutto mentre qualche chilometro più in là il suo segretario si difendeva da un processo che definì “sovietico”, basato sull’accusa di sequestro di persona aggravato nei confronti di 131 migranti. Quando si dice la moderazione e il passo verso il centro, insomma. Ma tutto questo, Giorgetti il marziano – come in quella vecchia canzone – non lo sa.
Casaleggio, addio sfiorato. E ora Di Battista è al bivio
L’erede ora è diventato mani di forbice. Taglia servizi e funzioni della sua piattaforma Rousseau per sabotare i piani di big e parlamentari che ogni giorno urlano di volerlo sfrattare dal cuore del Movimento. Ma Davide Casaleggio è innanzitutto un uomo “molto amareggiato” come assicura chi gli ha parlato ultimamente. E qualche giorno fa ha parlato riservatamente per la prima volta di addio. Ovvero di lasciare il M5S pensato e costruito in buona parte da suo padre, Gianroberto. “Davide lo ha detto, ‘chi me lo fa fare di andare avanti così?’” raccontano. Di dover litigare innanzitutto sui soldi, “come se lui ci guadagnasse qualcosa”. Anche se ora giurano che l’amarezza è in parte sbollita, e che gli è tornata la voglia di giocarsela, in questa guerra tra Milano e Roma dove il fioretto ha lasciato da tempo spazio alle clave.
Per questo ieri un gruppo di deputati ha scritto al capo reggente Vito Crimi chiedendo di togliere la cassa a Rousseau: “Il contributo per il mantenimento della piattaforma che supporta l’attività dei gruppi e dei singoli parlamentari dovrà essere versato su un conto corrente del M5S e non più direttamente su quello dell’Associazione Rousseau”. Nel frattempo i referenti regionali e diversi senatori stanno raccogliendo le firme per chiedere a Casaleggio di formulare una nuova proposta, ufficiale, per un contratto di servizio tramite cui rendere Rousseau un fornitore esterno. Ma la secessione resta difficile. Lo stesso Crimi lo ha detto ai rappresentanti regionali, lunedì scorso: “Lo sapete di quante carte e incombenze si occupa Rousseau?”. Dalla verifica delle liste fino alla tutela legale del M5S. E su questo punta Casaleggio, che fermando i motori “in assenza delle entrate”, cioè dei versamenti degli eletti, può bloccare le assemblee provinciali e regionali che dovrebbero dare il via agli Stati regionali. Un guaio anche per l’esausto Crimi, che vorrebbe nominare quanto prima il comitato organizzativo del congresso, dieci persone a cui affidare la gestione del percorso. Ma è tutto maledettamente complicato. Anche sul piano politico, perché in campo c’è ancora Alessandro Di Battista, l’unico big rimasto vicino a Casaleggio, il solo a non volere una segreteria unitaria. Ma ora l’ex deputato è a un bivio. Ad Accordi&Disaccordi ha detto di essere anche a pronto a lasciare il M5S, se prevarrà la linea “governista” pro Pd. Però ora deve scegliere.
Perché presto gli arriverà di nuovo l’offerta di un posto in segreteria. Il più classico dei metodi per neutralizzarlo, magari dandogli il simbolico ruolo di leader della minoranza. Ma volendo anche una via per l’ex deputato per condizionare da dentro il Movimento. L’alternativa, ossia restare ancora fuori in attesa di tempi più propizi, potrebbe essere rischiosa. “Questo governo può durare fino al 2023, Alessandro dovrebbe aspettare troppo” notano dal M5S. In attesa, di tutto.
Ci mancava solo Bentivogli: l’ultimo dei nani centristi
Bisogna essere onesti: si sentiva davvero il bisogno della discesa in campo di Marco Bentivogli. L’ex segretario della Fim è l’ultima minuta statua di gesso che cerca posto – al centro – nel giardino della politica italiana. Bentivogli ha lasciato la guida dei metallurgici della Cisl, dove suscitava reazioni alterne: giusto un’estate fa era arrivata la lettera di scomunica di una quarantina di dirigenti territoriali che mal sopportavano il suo “ego smisurato” e il suo “protagonismo politico”. Ora che ha deciso di fare il salto, si è gettato pure lui in un’area molto affollata. Bentivogli, Matteo Renzi, Carlo Calenda, Emma Bonino e ancora, e ancora. Vanità a doppia cifra che si litigano percentuali da prefisso.
Bentivogli non ha chiarito del tutto cosa voglia fare da grande. Per ora è editorialista a giornali unificati: l’altro giorno le sue idee si potevano leggere contemporaneamente su Repubblica, Sole 24 Ore e il Foglio. Un record. Il Landini di destra in questi giorni ha lanciato – con Carlo Cottarelli e altri liberali – una nuova creatura che si chiama Base Italia. Non è un partito, non è un movimento, allora che cos’è? “Non saremo l’ennesimo think tank – dice serioso Bentivogli a Linkiesta –. Non faremo il club dei competenti. Non moriremo di chat e aperitivi”. Bentivogli va per sottrazione, alla Montale. Resta il più vago possibile: “Una rete, un network, un progetto open source”.
Quanto vale oggi il piccolo centro italiano? Per i più ottimisti attorno al 10%, ma è pura astrazione, una cifra che non corrisponde alla somma dei suoi numerosi protagonisti. Di Renzi si è scritto fin troppo. Italia Viva è già in crisi di ossigeno e persino la proverbiale autostima dell’ex premier sta cedendo il passo alla retorica del declino: “Alcuni di quelli che si sdraiavano quando passavo io, oggi cambiano strada”, ha confessato Renzi a Tiscali News.
I Radicali che fine hanno fatto? La diversità laica e le battaglie per i diritti sembrano lontane, Emma Bonino e i suoi prima si sono schiacciati al centro nell’incontro promiscuo con i cattolici di Bruno Tabacci, poi si sono infilati in alleanze dimenticabili con Italia Viva e altri cespugli moderati. Poi c’è Calenda. Imperturbabile, splendido in televisione, punto di riferimento di una vispa comunità di pensatori riformisti molto attivi su Twitter e in apparenza molto poco consapevoli di quello che succede fuori. Un anno fa, presentando la sua Azione, promise: “Se questo sarà un partitino, avrà fallito. Se valiamo il 2% ci sciogliamo prima delle elezioni”. Si attendono sviluppi.
Nel grande ventre del piccolo centro si agitano pure nuove ipotesi, come la rinascita di un partito finalmente erede della tradizione Dc, “che ponga fine alla diaspora dei cattolici in politica”: è l’idea minacciata da Stefano Zamagni, economista e presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali.
Non si può tacere, infine, degli epici highlander tuttora attivi (da Casini a Mastella, da Lupi a Lorenzin), delle schegge moderate con una residua rendita parlamentare (l’Udc o i socialisti di Nencini) o ancora di sigle oscure e affascinanti, che esistono solo nel variegato gruppo misto delle Camere. Come “Noi con l’Italia-USEI-Cambiamo!-Alleanza di Centro” (c’è pure Vittorio Sgarbi) e “Popolo Protagonista – Alternativa Popolare”, la coraggiosa iniziativa di due ex peones grillini e di un brasiliano eletto nel Pd, Fausto Longo, che hanno riportato in Parlamento Ap, la sigla di Angelino Alfano. Auguri a tutti.
“Mettiamo i soldi su 100 progetti. Non si blocchi tutto per i veti Ue”
L’entrata in vigore del Recovery Fund sta diventando una corsa contro il tempo e i veti incrociati. Il ministro degli Affari europei, Enzo Amendola, è appena tornato dal Consiglio Ue dove ha accompagnato il premier Conte.
Ministro, a che punto è il negoziato sul Recovery Fund?
A luglio abbiamo siglato l’accordo stanziando 1.800 miliardi tra bilancio Ue e Recovery Fund e fissando calendario e obiettivi. Ora sulla condizionalità relativa allo stato di diritto, ossia meno soldi per chi viola i principi dei trattati, è emersa la contrapposizione tra Ungheria e Polonia da un lato e frugali dall’altro. Noi abbiamo lavorato con la presidenza tedesca per una mediazione. Ci siamo visti a Berlino lunedì scorso. Su questo tema si rischiano i veti incrociati e il blocco delle procedure.
Lo slittamento è concreto? E quando arriveranno i primi fondi?
Il rischio è concreto, ma non si può cambiare un accordo politico con dettagli tecnici. Il cronoprogramma con la presentazione dei piani a inizio 2021 è sempre valido, con l’arrivo dei fondi alla fine del primo semestre 2021. Per superare la controversia sullo stato di diritto ci sarà il negoziato tra Consiglio e Parlamento.
A che punto siete sul Recovery Plan? E davvero serviranno i Commissari?
Da luglio come governo lavoriamo per progettare i 209 miliardi del Recovery più i 100 miliardi del bilancio. Vogliamo concertarlo con Parlamento, regioni, comuni e attori sociali. Non ci siamo affidati ai soliti consulenti privati. Concentreremo tutti i soldi su un centinaio di progetti e con meccanismi attuativi che sono allo studio. Non si tratta di commissari ma di procedure di spesa più veloci. Sono risorse non per il governo ma per cambiare il paese e ricostruire un territorio indebolito dai dissesti idrogeologici, che spreca l’acqua pubblica e ha città con quartieri che generano esclusione sociale. Il digitale dovrà trasformare la PA e le sue procedure lente e non trasparenti. Servono crediti per le imprese e lotta a disoccupazione femminile e giovanile.
Chiederete il Mes?
Sarò testardo, ma non ho cambiato idea sul metodo. Ripeto il mio appello di sempre: sediamoci a partire dalle prossime misure, sulla base delle fotografie della finanza pubblica. Senza sfidarci ogni giorno all’O.K. Corral.
Nelle misure di contrasto al Covid l’Europa procede in ordine sparso. L’Italia va verso misure più stringenti per chi arriva da fuori?
Al Consiglio europeo il premier Conte è stato consultato dai suoi colleghi che temono nei rispettivi Paesi una seconda ondata. Qualsiasi scelta deve essere condivisa a livello europeo, a partire dalla gestione dei confini e dal tracciamento. Serve un lavoro coordinato.
Sul 5G, il Consiglio europeo ha parlato di restrizioni ai fornitori ad alto rischio. È abbastanza?
È un primo passo. È tempo di autonomia strategica europea sia riguardo alla politica estera sia riguardo alle infrastrutture digitali. Con i fondi europei investiremo tutti e 27 su 5 e 6G, cloud europeo, satelliti e intelligenza artificiale. Non si tratta di essere contro nessun competitor globale, ma di controllare la sicurezza e la privacy delle infrastrutture digitali con le procedure tipiche degli Stati democratici.
Pd e M5S si devono alleare strutturalmente nei territori?
Con il M5S abbiamo affrontato la crisi più grave degli ultimi anni. Se continueremo a lavorare bene, l’alleanza nei territori sarà naturale. Per esempio in provincia di Napoli ci sono 3 comuni al ballottaggio dove si sperimenta l’alleanza anche se in Regione eravamo divisi. Il lavoro fatto sui temi europei è la prova che uniti si può fare la differenza. Altro che Gilet gialli. Poi, è evidente che c’è una riflessione sul futuro del Movimento, che noi guardiamo con rispetto. All’orizzonte non c’è né Morte nera né Skywalker.
Che ne pensa della campagna del Fatto per le preferenze e contro le liste bloccate?
Sarò romantico, ma sono rimasto affezionato alla mia prima campagna elettorale da militante e ho sempre preferito la legge elettorale che porta il nome del presidente Mattarella. In molti sistemi elettorali collegi e liste di partito convivono per garantire governabilità e rappresentanza. Vorrei che maggioranza e opposizione lavorassero insieme nell’interesse comune.
“È giusto che Davigo rimanga al Csm. Grave escluderlo dal caso Palamara”
È in corso al Consiglio superiore della magistratura il procedimento disciplinare contro Luca Palamara. Tra i giudici c’è Piercamillo Davigo, che il 20 ottobre compie 70 anni e come magistrato andrà in pensione. Deve lasciare anche il Csm e il procedimento Palamara? Lo abbiamo chiesto a Giuseppe Marra, membro del Csm e appartenente al gruppo di Davigo, Autonomia e indipendenza.
A che punto è il procedimento per Palamara?
La sezione disciplinare del Csm ha già deciso la sua sospensione dalle funzioni e dallo stipendio, confermata dalla Cassazione. Ora è in corso il giudizio di merito, con attività istruttoria compiuta in diverse udienze pubbliche.
Palamara è sotto giudizio penale per corruzione a Perugia. E la sezione disciplinare del Csm che cosa deve giudicare?
Al momento gli è contestata la partecipazione, insieme a ex consiglieri del Csm e ai parlamentari Cosimo Ferri e Luca Lotti, a una riunione del maggio 2019 durante la quale, secondo l’accusa, si sarebbero realizzate condotte scorrette nei confronti di alcuni candidati alla nomina di procuratore di Roma, nonché dei magistrati Giuseppe Pignatone e Paolo Ielo, finalizzate a condizionare le scelte del Csm nella nomina dei dirigenti di diversi uffici giudiziari tra cui la Procura di Roma.
Il procedimento potrebbe fermarsi, per la presenza di Davigo?
Contro Davigo è stata presentata istanza di ricusazione, già rigettata. La presenza di Davigo non solo è legittima, ma anche doverosa, poiché è stato eletto dal plenum del Csm nella sezione disciplinare, la cui composizione non può essere modificata, se non nei casi previsti espressamente.
Quindi Davigo non deve lasciare il Csm, e dunque il procedimento Palamara, con il raggiungimento del settantesimo anno d’età?
La questione è controversa perché non vi sono precedenti nella storia del Csm. È stato chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, emesso ma non ancora noto. La Costituzione dice: “I membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili”. Idem la legge istitutiva del Csm, senza alcuna eccezione nel caso di raggiungimento dell’età pensionabile dei componenti, togati o laici.
È vero che la disciplinare sta accelerando sul caso Palamara in vista della “scadenza” di Davigo?
Palamara è sottoposto a una misura cautelare molto afflittiva, la sospensione dalle funzioni e dallo stipendio, per cui è il primo ad avere interesse a un giudizio veloce. Non entro nel merito della decisione del collegio di non ammettere gran parte dei testimoni richiesti dalla difesa di Palamara che, trattandosi di decisione giudiziaria, potrà essere impugnata nelle sedi competenti. In termini generali ritengo però che sia il processo penale, sia quello disciplinare possono avere a oggetto solo singoli fatti, contestati puntualmente in relazioni a fattispecie precise. Il processo al “sistema” degenerato non spetta ai giudici, ma alla politica e, per quanto riguarda la magistratura, anche all’Associazione nazionale magistrati.
Chi chiede che Davigo lasci e se ne vada?
Nessuno ha formulato alcuna richiesta ufficiale. È lo stesso Davigo ad aver segnalato alla commissione competente sulla verifica titoli il raggiungimento dell’età pensionabile e credo lo abbia fatto per fugare qualsiasi ombra.
Non è automatica la decadenza di Davigo dal Csm, al compimento dei 70 anni d’età?
Assolutamente no, ogni decisione dovrà essere presa dal plenum del Csm dopo una discussione pubblica. Io credo però che, in assenza di una norma precisa, non la si possa pretendere in via interpretativa, in forza di argomentazioni opinabili. Il diritto elettorale, che è il cuore dei sistemi democratici, è fondato sul principio di tassatività delle ipotesi di incandidabilità, ineleggibilità o decadenza dei membri eletti: in questo caso, in un organo di rilevanza costituzionale come il Csm. Ipotizzare che sia la maggioranza di turno a integrare a livello interpretativo le norme sulla decadenza, mi sembra un precedente molto grave. Immaginare poi che ciò avvenga nei confronti di Davigo, che anche come presidente dell’Anm aveva già denunciato pubblicamente la degenerazione del sistema delle correnti, rappresenterebbe davvero un epilogo molto triste per la magistratura tutta.
La Lega e i 49 milioni: i server del broker sono stati “ripuliti”
I server della lussemburghese Pharus Management Lux Sa, la società attraverso cui la Lega avrebbe riciclato una parte dei famosi 49 milioni di euro, sono stati ritrovati a Bergamo, in via Angelo Maj. Allo stesso indirizzo presso cui era domiciliato fino a poco tempo fa lo studio dei commercialisti del partito, Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni. La scoperta è stata fatta durante una perquisizione della Finanza di Genova, che indaga sul presunto riciclaggio del tesoro padano. Ma le Fiamme gialle hanno avuto sfortuna: quei server sono quasi inutilizzabili. Qualcuno, prima del loro arrivo, ha cancellato tutto. Questa storia inizia quando i magistrati della Procura di Genova avviano una rogatoria per mettere le mani su quella che potrebbe essere la scatola nera dell’inchiesta sulla Lega: i computer della Pharus, appunto, la società lussemburghese attraverso cui, secondo l’accusa, nel 2016 sarebbero stati esportati 10 milioni, quasi un quinto del tesoro leghista frutto della truffa ai danni dello Stato italiano. L’investimento sarebbe partito dalla Sparkasse di Bolzano. La banca ha sempre negato che fossero soldi del partito, spiegando che quell’operazione riguardava “la normale operatività del portafoglio di proprietà della banca stessa”. I 10 milioni partiti nel 2016 dalla Sparkasse sono arrivati sui conti della Pharus. E a gennaio del 2018, due mesi prima delle elezioni parlamentari, 3 milioni di euro sono tornati in Italia. Le autorità del Granducato segnalano l’operazione all’Antiriciclaggio di Bankitalia: il sospetto è che quei soldi siano un finanziamento elettorale alla Lega. Denaro uscito dalle casse del partito, alle prese con il sequestro ordinato dal Tribunale di Genova, e tornato indietro dopo essere stato ripulito.
Per verificare l’ipotesi gli inquirenti italiani cercano quindi i server della Pharus. Vogliono leggere le email e i documenti utili per capire se quel denaro è in qualche modo collegato ai 49 milioni della truffa leghista. I server dovrebbero essere in Lussemburgo, e invece vengono ritrovati a Bergamo, in un ufficio di via Angelo Maj. Come detto, a quell’indirizzo per anni, proprio quelli dei 10 milioni finiti in Lussemburgo, ha avuto sede lo Studio Dea Consulting, di proprietà di Di Rubba e Manzoni (arrestati per l’inchiesta sulla Lombardia Film Commission). Non solo. Presso il loro studio, nello stesso periodo, erano domiciliate anche 7 società italiane controllate, attraverso un sistema di scatole cinesi, dalla lussemburghese Ivad Sarl, una holding fondata nel 2008 da Angelo Lazzari. Secondo la GdF, Lazzari – che non risulta indagato – è sempre stato il dominus della Pharus. Per questo gli inquirenti lo reputano una figura centrale in questa storia. Bergamasco come Di Rubba e Manzoni, si descrive in Rete come ingegnere ed ex promotore finanziario, oggi manager con base in Lussemburgo. È indagato a Milano per truffa e autoriciclaggio in un’altra vicenda. La questione più importante, per i magistrati genovesi che indagano sul presunto riciclaggio dei 49 milioni, riguarda i suoi rapporti con Di Rubba, Manzoni e le sette società domiciliate presso il loro studio.
Impero San Donato, il mistero Kamel Ghribi
Èil più grande gruppo italiano della sanità privata, con i suoi 19 ospedali e cliniche, 5 mila posti letto, 4,3 milioni di pazienti curati ogni anno, 16 mila addetti, fatturato di oltre 1 miliardo e mezzo. Ma il Gruppo San Donato della famiglia Rotelli, il cui ospedale più famoso è il San Raffaele di Milano, è anche una formidabile macchina di relazioni politiche ed economiche. I consigli d’amministrazione delle sue società sono zeppi di uomini dei partiti, ex ministri e perfino ex agenti segreti. Presidente della holding San Donato è Angelino Alfano, ex segretario di Silvio Berlusconi ed ex ministro dell’Interno, della Giustizia, degli Esteri. Consigliere d’amministrazione degli Istituti clinici Zucchi, una delle strutture sanitarie del gruppo, è Roberto Maroni, ex ministro dell’Interno e del Lavoro e fino al 2018 presidente della Regione Lombardia. Consigliera d’amministrazione del San Raffaele e della holding è Augusta Iannini, ex magistrato di Roma, già capo dell’Ufficio legislativo del ministero della Giustizia e poi vicepresidente dell’Autorità garante per la privacy (nonché moglie di Bruno Vespa). Sovrintendente sanitario del Gruppo è Valerio Fabio Alberti, fratello del presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati. Nel 2019 è entrato per qualche mese nel cda del San Donato anche Ernesto Maria Ruffini, che aveva appena terminato il suo incarico di direttore generale dell’Agenzia delle entrate, dove è poi tornato a inizio 2020.
Del sistema Rotelli, come capi della Security, fanno parte anche due agenti segreti d’esperienza come Claudio di Sabato e Giuseppe Caputo, ex generali della Guardia di finanza e poi ufficiali dell’Aise (l’agenzia di sicurezza per l’estero).
Ma il personaggio più misterioso della galassia Rotelli è un ex petroliere tunisino diventato finanziere in Svizzera: Kamel Ghribi, amico della vedova del fondatore, Giuseppe Rotelli, che è scomparso nel 2013, lasciando la guida al figlio Paolo. Una vecchia foto di Ghribi lo ritrae con vistosi pantaloni blu elettrico, camicia di seta in tinta e giacca a quadrettoni. Oggi Ghribi indossa più sobri abiti scuri di buon taglio ed è vicepresidente del Gruppo San Donato, nonché global advisor della famiglia, di cui cura gli investimenti. Da dove spunta Ghribi? Sappiamo che nasce a Sfax, città nel sud della Tunisia, padre commerciante (“Da lui ho ereditato il senso degli affari”) e famiglia con nove tra fratelli e sorelle. Poi è difficile distinguere biografia e agiografia. Racconta di essere diventato, già a 29 anni, vicepresidente a New York di una compagnia petrolifera statunitense, la Olympic Petroleum Corporation, e presidente della Olympic in Italia. Nel 1994 diventa presidente della Attock Oil Company, una compagnia attiva soprattutto in Pakistan, fondata dall’uomo d’affari saudita Ghaith Pharaon, che fu per un periodo ricercato dall’Fbi in seguito allo scandalo internazionale della banca Bcci. Dal 2005, Ghribi si concentra sulla sua holding personale, la Gk Investment, basata in Svizzera, a Lugano, che dichiara di dedicarsi “a nuove opportunità di business” e di investire soprattutto “in Africa e in Medio Oriente”. Nel suo sito web si definisce finanziere e filantropo, dichiara che “l’obiettivo principale di Kamel Ghribi continua a essere quello di incoraggiare un riavvicinamento tra Occidente, Medio Oriente e Nord Africa”. A Roma lavora con lo studio legale di Vittorio Emanuele Falsitta, ex deputato di Forza Italia. Ma si dice attivo con i suoi affari finanziari soprattutto nel mondo arabo e in Russia. Sostiene di aver fornito servizi di consulenza a importanti leader di aziende private internazionali e a non meglio specificati uomini di governo. Racconta “di essere entrato in contatto, durante la sua carriera di imprenditore internazionale di grande successo, con leader mondiali e luminari del mondo politico, industriale e culturale. Le primi incontri si sono rapidamente sviluppati in conoscenze consolidate, tanto che è stato poi in grado di sviluppare stretti rapporti con alcune delle figure più importanti della storia moderna”. Nientemeno.
Al San Donato è diventato vicepresidente, gestore del patrimonio della famiglia Rotelli e ambasciatore dell’espansione in Africa e nel Medio Oriente. Con il governo del Botswana ha firmato nel 2019 un memorandum d’intesa per offrire formazione del personale medico locale. Ma quello a cui punta il gruppo San Donato è attirare i ricchi clienti arabi e russi che vanno a curarsi nei grandi ospedali degli Stati Uniti. Già aperta una sede a Dubai, negli Emirati, dove il San Donato si occupa di formazione dei medici locali. Paolo Rotelli promette: “Vogliamo attirare nei nostri ospedali i turisti che già vengono in Italia perché apprezzano il nostro stile di vita e le bellezze del nostro Paese”.
L’effetto del Covid su scarpe e paillettes
Uno dei modi di reagire alla crisi innescata dal Coronavirus nel comparto della moda è stato provare a recuperare un po’ di normalità partendo dalla fashion week milanese: sfilate metà fisiche e metà digitali, collegamenti a distanza, influencer assoldate per spingere i nuovi capi via social, show digitali in diretta e non, la città più vuota di quanto accade di solito in questa occasione.
A osservare l’approccio di imprenditori e categorie di settore si potrebbe dire che il comparto “barcolla ma non molla”. È infatti un ramo d’eccellenza dell’industria e della cultura italiane che ora prova a rialzarsi, non senza fatica e inciampi. Come nel caso di una famosa casa di moda di Barberino del Mugello. Qualche giorno fa, il Tribunale di Firenze ha dichiarato il fallimento di Rifle, uno dei nomi storici del jeans italiano fondata nel 1958 da due fratelli che in North Carolina, nella fabbrica della Cone Mills, avevano scoperto una tela che gli avrebbe fruttato ottimi utili per tutti i decenni in cui il tessuto jeans è stato protagonista indiscusso. Poi, pian piano, sono cambiati i modelli di distribuzione, l’azienda è andata in difficoltà e già il bilancio del 2018 si era chiuso con 16 milioni di fatturato e 3,3 di perdite. Con il Covid è arrivato il colpo di grazia e ora i sindacati e i 96 dipendenti sperano nei risultati di un’asta che potrebbe dare una boccata d’ossigeno, ammesso che qualcuno sia interessato a rilevare l’azienda.
Per quanto si provi a contenere gli allarmismi, quest’anno il settore prenderà una mazzata notevole: in generale per il manifatturiero a fine 2020 si prevede un crollo del 21,4 per cento (secondo uno studio presentato a Cernobbio e realizzato con la collaborazione dalla fondazione Ambrosetti) e parallelamente anche il retail soffre, con un calo degli investimenti nei centri commerciali del 25 per cento. Le ripercussioni sono a cascata. La filiera del tessile, della moda e dell’abbigliamento italiana in questo scenario vale in media 90 miliardi l’anno e dà lavoro, già solo in modo diretto, ad almeno 600mila persone con una percentuale maggiore in Lombardia (almeno 90mila addetti), regione che rischia di sentire questa crisi più delle altre. A questo si aggiunge l’indotto: tessile, maglieria, calzature, pelletteria e ancora trasportatori, grossisti, designer, negozianti e così via.
Il comparto moda traina poi anche l’export del manifatturiero con un valore che quest’anno si assesta a quota 21 miliardi rispetto ai 27,8 miliardi dello scorso anno: di questi, 5,2 miliardi arrivano dalla Lombardia (erano 6,9 miliardi del 2019), ma le maggiori criticità si avvertono in Toscana dove si è passati da 6,9 miliardi del 2019 a 4,5 . La patria della Refle, appunto.
Nel complesso, le stime non fanno ben sperare: a maggio, il Cerved ha previsto che nel biennio 2020-2021, le imprese che operano nella filiera potrebbero subire perdite dei ricavi dai 39 ai 52 miliardi. Le contrazioni più importanti, tanto per cambiare, si registrerannonella distribuzione al dettaglio e per lo più nel ramo abbigliamento e maglieria. I sistemi produttivi regionali più esposti sono quelli toscani, marchigiani e veneti, dove le imprese generano rispettivamente il 14,8, il 12,3 e il 10,7 per cento del fatturato totale di filiera. Come dire: di fronte a una pandemia e ad una crisi globale dei consumi, neanche l’e-commerce, può compiere il miracolo.
A rischio 90 mila imprese: commercio e turismo ko
Grandi marchi, piccole botteghe, ristoranti storici o innovativi B&B: non c’è differenza. Non tutti sono riusciti a riemergere dallo tsunami Covid. L’emergenza sanitaria ha frantumato i redditi e mandato in fumo oltre 115 miliardi di consumi degli italiani nel 2020, prolungando l’onda lunga della crisi economica e mettendo a rischio 90.000 imprese che da qui a fine anno potrebbero chiudere per sempre. Senza contare – avverte Confesercenti – che ci sono anche 20mila strutture che non hanno mai aperto nel 2020 per l’improvvisa impossibilità di sostenere nuovi investimenti. Poi c’è lo spettro dei nuovi contagi che minaccia anche quelle attività che hanno retto ai contraccolpi del lockdown in attesa di una ripresa che tarda ad arrivare. Sono le drammatiche premesse di autunno che vira verso il nero, mentre si contano i danni in termini economici e occupazionali soprattutto nel commercio e nel turismo.
Dopo averlo annunciato nei mesi scorsi, H&M ha ufficializzato la chiusura del 5% dei propri negozi nel 2021: 250 sugli attuali 5.000 nel mondo. Il gigante svedese dell’abbigliamento low cost, già alle prese con la problematica dei resi e degli smaltimenti di magazzino, ha deciso di concentrare il proprio business sull’e-commerce, tagliando il costo del personale e quello degli affitti dei grandi store che affollano i centri storici delle grandi città. In decine di capitali nel mondo sono ancora numerosi i punti vendita chiusi a causa delle restrizioni sanitarie, mentre lo shopping online non conosce crisi (+36% sul 2019). Tanto da aver permesso al gruppo di chiudere l’ultimo trimestre con 220 milioni di euro di profitti, anche se con un calo del 21% dei ricavi sul 2019 e un rosso di 150 milioni di euro. L’annuncio delle chiusure ha fatto crescere il titolo di H&M alla Borsa di Stoccolma dell’8%. In Italia, l’allarme per i lavoratori è già scattato ad aprile quando il colosso al termine del lockdown ha deciso di non riaprire 8ostore, di cui due a Milano.
Ma la crisi più grave – spiega la Fondazione studi consulenti del lavoro – la paga il settore turistico con una perdita occupazionale nel corso degli ultimi 12 mesi di oltre 246 mila unità, di cui 158mila nei servizi di ristorazione e 88mila negli alloggi. Da Venezia a Torino, da Firenze a Milano, da Bologna a Roma è un colpo senza precedenti anche per i locali storici delle città d’arte che registrano un calo del fatturato tra il 50% e l’80% negli ultimi sei mesi. “Il nostro patrimonio fatto di alberghi, ristoranti, confetterie, pasticcerie o caffè letterari – racconta il presidente dell’associazione Locali storici, Enrico Magenes – sono tra le principali vittime del virus: gli aiuti stanziati non bastano. Senza la ripresa del turismo rischiamo di compromettere 40 anni di storia della nostra tradizione”.
E ora il mix tra la crisi del distretto territoriale e quella generata dagli effetti della pandemia si trasforma in un colpo senza precedenti per la tenuta dell’occupazione. Secondo l’Istat, i più colpiti restano alberghi e ristoranti: sei su 10 rischiano di non sopravvivere nei prossimi mesi mettendo in pericolo oltre 800mila posti di lavoro. Dati allarmanti anche per il settore alberghiero. “Su 30 mila strutture presenti in Italia, circa 5.000 quest’anno non hanno riaperto, soprattutto nelle città d’arte”, afferma il presidente di Federalberghi Bernabò Bocca. Senza turisti e con spese da capogiro, a fine settembre oltre 20 dipendenti della cooperativa che gestiva i servizi dell’Hotel Bernini di Roma, storico cinque stelle, da oltre 140 anni punto di riferimento dell’alta hôtellerie della Capitale, sono stati licenziati. Anche a Milano è crisi nera: Halldis, il colosso degli affitti brevi, ha chiesto il concordato preventivo.
Con il timore di un disastro sociale in arrivo se a dicembre non verrà rinnovata la cassa integrazione. “I licenziamenti – avverte Confesercenti – saranno inevitabili e la situazione si farà molto critica”.
Orari dei locali, mascherine, mini-lockdown: arriva il decreto
La decisione non c’è ancora, il governo sta discutendo dell’estensione dell’obbligo di mascherine all’aperto già in vigore in alcune Regioni (Calabria, Campania, Sicilia, Basilicata, da ieri il Lazio dove solo a Roma la polizia locale fa sapere di aver fatto tremila multe, vanno da 400 a 3.000 euro, cui si è aggiunta la Puglia) e in alcune città e porzioni di città, come i caruggi del centro di Genova. Come è ormai noto la mascherina serve quando non è possibile stare a distanza, coprirsi naso e bocca a decine di metri dagli altri non ha senso, ma anche quest’imposizione simbolica servirebbe a mantenere alta l’attenzione. Il governo potrebbe mettere in campo un dispositivo variabile a seconda della circolazione del virus e dell’indice di trasmissione Rt, con possibilità di mini lockdown locali: chiusure anticipate di ristoranti e locali nelle zone particolarmente colpite, divieti di feste anche private, tetto massimo per le cerimonie. Non dovrebbero cambiare le regole per il calcio e gli eventi sportivi: mille spettatori al massimo in Serie A, porte chiuse altrove. Resterà il limite dell’80% alla capienza dei mezzi pubblici.
Il nuovo decreto del presidente del consiglio (Dpcm) sarà emanato mercoledì 7, alla scadenza del vecchio le cui misure saranno per lo più confermate. Dovrebbe contenere anche la proroga dello stato d’emergenza che scade il 15 ottobre: arriverebbe così a fine gennaio, cioè a dodici mesi dall’introduzione. Vuol dire mantenere i poteri della Protezione civile, quelli del commissario Domenico Arcuri che può agire in deroga a tutte le norme non penali e il ruolo consultivo del Comitato tecnico scientifico. Martedì il ministro della Salute, Roberto Speranza, riferirà alla Camera. L’aumento dei casi era previsto e tuttavia preoccupa: ieri 2.844 nuovi contagi registrati su 118.932 tamponi processati che sono tanti ma 1.400 in meno rispetto a venerdì; 23 morti; 63 ricoverati in più nei reparti ordinari per un totale di 3.215, tre pazienti in più nelle terapie intensive dove in tutto sono 297. Gli attualmente positivi in Italia sono 55.566, nel momento migliore, a luglio, erano 12 mila. La Regione con più contagi è ancora una volta la Campania, con 401 nuovi casi in 24 ore, segue la Lombardia con 393.