“Salgono i ricoveri al Centro-Sud, ora dipende da noi”

“Abbiamo raggiunto un nuovo massimo a livello nazionale e la Campania ha fatto bingo”, dice al telefono Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dello Spallanzani, istituto di riferimento del governo sul Covid-19, e membro del Comitato tecnico-scientifico.

La Campania ha registrato 401 nuovi contagi con 7.498 tamponi, in crescita dai 392 casi di venerdì quando i test erano stati di più, 7.482.

Appunto. E non solo: oggi il Lazio, la Campania e la Sicilia (rispettivamente 711, 434 e 322, ndr) hanno più ricoverati della Lombardia (293, ndr), che per mesi è stata al centro di una situazione gravissima e che ha avuto finora più di 100 mila casi.

Il Lazio ha più letti occupati in terapia intensiva della Lombardia: 47 contro 42. E in Campania gli ospedali sono già in sofferenza: i letti al Cotugno di Napoli, struttura destinata ai pazienti Covid, sono tutti pieni. Lo stesso nel Covid center del Loreto Mare.

È per evitare la saturazione che bisogna tenera alta l’attenzione. Il monitoraggio di ministero e Iss ci dice che gli indicatori dei decessi e delle rianimazioni a livello nazionale ancora navigano a livelli più che sostenibili. In tutta Italia poi si eseguono 120 mila tamponi al giorno, facciamo cioè una grande ricerca dei positivi. Complessivamente stiamo reggendo. Ora però c’è la necessità che le Regioni lavorino in maniera sempre più stretta e coordinata perché un modello di risposta venga attuato in maniera uniforme in tutta Italia.

Finora, invece, il coordinamento non c’è stato quasi mai. L’Emilia-Romagna di Stefano Bonaccini, Pd, ha aperto al 25% della capienza i palasport di basket e volley e l’Abruzzo guidato da Marco Marsilio, centrodestra, ha autorizzato mille spettatori per gli sport all’aperto e 700 per quelli al chiuso. Una tendenza ad andare in ordine sparso che è trasversale agli schieramenti politici.

Faccio notare che il titolo V della Costituzione (che annovera la tutela della salute tra le materie di legislazione concorrente tra Stato e Regioni, ndr) è ancora in vigore. Queste decisioni andrebbero prese sulla scorta di solidi dati scientifici. Se questi non ci sono è meglio aspettare. I numeri danno ragione a chi raccomanda prudenza. Come ha detto pochi giorni fa Alberto Mantovani (direttore scientifico dell’Istituto Humanitas di Milano, ndr) ci vuole il “rispetto dei numeri”.

Circola l’ipotesi di richiudere gli stadi. Mille spettatori al loro interno sono comunque troppi?

In ballo ci sono diverse variabili, come il fatto che l’impatto di mille persone varia in base alle dimensioni dell’impianto. Ma non è solo una valutazione tecnica. Aspettiamo le decisioni dei ministeri competenti.

Lei si era già espresso contro la riapertura. Non ha cambiato idea.

Mi avvalgo della facoltà di non rispondere.

Il Lazio, che spesso ha avuto un ruolo di apripista per altri territori, ha reso obbligatorio l’uso delle mascherine all’aperto. Lo stesso ha fatto la Basilicata.

Verosimilmente la misura sarà estesa al resto del Paese, perché con una circolazione così elevata del virus non si può pensare di non intervenire.

C’è chi protesta dicendo che se si cammina in strada da soli sul marciapiede non ha senso.

Mi resta difficile immaginare in città una situazione del genere: si incontra sempre un passante, c’è sempre qualcuno che esce da un negozio e incrocia la nostra traiettoria. E poi intendiamoci, se si va da soli in un parco o a potare la vigna in campagna non significa che si debba stare con la mascherina. È una misura pensata principalmente per le aree urbane.

Qual è la prima misura che lei metterebbe in campo?

Bisogna investire sulla responsabilizzazione. Occorre che ognuno di noi ragioni come se fosse infetto e come se lo fossero anche le persone che incontriamo. Bisogna creare un senso generalizzato di prudenza. Chi non si sente responsabile non ha capito la situazione.

Operazione Immuni: la app è da rianimare

Sono 6,6 milioni le persone che finora hanno scaricato l’app Immuni, l’applicazione per il contact tracing creata per allertare i cittadini in caso siano entrati in contatto con qualcuno poi risultato positivo al Covid-19. Per la precisione, al 3 ottobre si contavano 6.757.827 download. Tanto? Poco?

Guardandolo in termini statistici, si tratta del 17 per cento degli smartphone che ci sono in Italia, percentuale che esclude i minori di 14 anni. Lanciata a maggio, l’applicazione da domani apparirà su tutti i media con una campagna pubblicitaria potenziata e annunciata da tempo. I più attenti se ne saranno accorti, nelle ultime settimane c’è stata una sensibilizzazione maggiore sul tema a ogni livello e anche i più scettici hanno iniziato a fare dietrofront.

 

I numeri italiani e l’ultimo aumento

Lo spettro di un nuovo lockdown ha spinto a valutare come positivo ogni strumento in più che possa aiutare a isolare, contenere e controllare eventuali nuovi focolai e già negli ultimi 30 giorni c’è stata un’accelerazione: 1.285.877 download nel solo mese di settembre rispetto ai 788.049 di agosto. “Dal primo giugno abbiamo avuto 338 utenti positivi che avevano Immuni e hanno caricato le loro chiavi nel backend (in estrema sintesi, hanno attivato il sistema di tracciamento tra dispositivi, ndr) – spiegano dal dipartimento per la Trasformazione Digitale e dal ministero della Salute –. Di questi, 21 sono stati registrati a giugno, 38 a luglio e 96 ad agosto. A settembre sono stati 183 ”. Dal 13 luglio il dipartimento ha iniziato a monitorare anche le notifiche arrivate agli utenti. Finora se ne sono attivate 5.329 con un netto incremento a settembre: 1.109 solo nei primi dieci giorni di scuola. Per 13 utenti, la positività è stata accertata dopo la ricezione dell’avviso di contatto stretto con un altro positivo che aveva immuni. “Si tratta di potenziali focolai contenuti grazie a Immuni”, spiegano dal dipartimento.

 

Le app nel resto d’Europa: bene la Germania

Ma non siamo i soli a utilizzare questo tipo di applicazioni. Nell’Unione europea sono almeno 15 i Paesi che hanno adottato o stanno per adottare un simile sistema di contact tracing, dall’Austria alla Croazia, dalla Danimarca alla Germania passando per Francia, Irlanda, Lettonia, Malta, Olanda, Spagna, Polonia, Portogallo e Repubblica Ceca. Nei prossimi giorni dovrebbero aggiungersene altre anche sotto la spinta di Bruxelles. La Commissione europa ne sta infatti raccomandando l’uso: “Anche un solo download in più può avere un grande impatto in termini di tracciabilità dei contagi e risposta al virus” è il messaggio che è stato veicolato nei giorni scorsi. I dati italiani, rispetto agli altri, sono positivi. La media dei download nel resto d’Europa è infatti intorno al 10 per cento, con picchi di bravura eccezionali come i 10 milioni di download della Gran Bretagna e i 18 milioni della Germania.

 

Interoperabilità: così si parlano le varie “Immuni”

Per fare in modo che l’efficacia non si limiti ai soli confini nazionali, poi, a breve dovrebbe attivarsi anche la cosiddetta interoperabilità tra le varie applicazioni europee (obiettivo già fissato fin dal principio della progettazione di Immuni): in sostanza le applicazioni delle varie nazioni potranno dialogare tra loro anche se diverse. Questo è possibile perché in fase di sviluppo i Paesi Ue hanno concordato uno standard comune su cui basarsi anche per quanto riguarda la tutela della privacy. A questo punto, vale la pena ricordare come funziona la app: si scarica sul proprio smartphone e la piattaforma attiva il bluetooth dello smartphone in modalità a basso consumo di energia. Tramite questo segnale, quando due smartphone stanno in contatto per un tempo sufficiente, si memorizzano l’un l’altro e se uno dei due proprietari dovesse scoprirsi positivo al coronavirus, l’altro riceverà una notifica che lo informa di essere un possibile contatto a rischio. Da lì, si attiva una catena virtuosa della rete sanitaria locale con test sierologici, tamponi ed eventuali quarantene.

 

La reticenza iniziale e qualche criticità

Certo, se si considera che le prime stime (poi più volte riviste a ribasso) prevedevano che per essere efficace Immuni dovesse essere scaricata almeno dal 60 per cento della popolazione, il risultato registrato a oggi dal 15 giugno non è dei migliori. L’accelerazione di questi giorni lascia ben sperare per il futuro.

Secondo gli esperti, a pesare di più sulla circolazione della app è stata prima di tutto la campagna di disinformazione iniziale con la quale Immuni è stata “accusata” di spiare e controllare i cittadini nonostante l’attenzione con cui in fase di scelta e sviluppo si sia cercato di spiegare perché non fosse così (è stato scelto di proposito il bluetooth che garantisce che i telefoni non siano tracciati attraverso la geolocalizzazione) e come i dati fossero criptati e stoccati. Per ora lo scoglio sicurezza dovrebbe essere stato superato, anche se nelle scorse settimane è stato scoperto (e sanato) qualche bug di sistema: il primo, relativo a Immuni, ha riguardato la sospensione del rilevamento contatti per almeno dieci giorni e su diversi modelli di telefono. Il secondo, invece, ha riguardato il sistema realizzato da Google e Apple su cui “poggiano” tutte le applicazioni che, in mano a un malintenzionato, potrebbe favorire il tracciamento. Entrambi i casi, però, rientrano nel normale processo di revisione di una applicazione nel tempo e anche dopo che è entrata in funzione. Resta poi il fatto che molti sistemi operativi non sembrano essere in grado di sostenere la app, o meglio il sistema Google-Apple su cui si sviluppa. Sta trovando problemi soprattutto chi ha smartphone o iPhone più vecchi e sui quali non si può effettuare l’aggiornamento del sistema operativo (per Apple ad esempio tutti i device precedenti a iOS 13.5, quindi iPhone 6 del 2014 mentre per Android, la versione richiesta è quella dal 2015 in poi, quindi almeno Android 6). Su questo punto, purtroppo, non sembra esserci ancora una soluzione. Come non c’è per l’incoscienza di chi decide consciamente di non scaricarla per non rischiare di essere tracciato e di dover rispettare una eventuale quarantena.

Dai “fratelli tutti” del Papa ai fratelli coltelli in Curia

Mentre il Papa, per la prima volta dopo il lockdown, lascia il Vaticano per firmare ad Assisi la sua terza enciclica, Fratelli tutti, nei sacri palazzi il clima è da resa dei conti finale. Le indagini dei pm della Santa Sede sull’acquisto del palazzo di Sloane Avenue da parte della Segreteria di Stato, non solo hanno scoperchiato un giro di affari di centinaia di milioni di euro, ma hanno infiammato lo scontro tra le varie fazioni in Vaticano.

Il caso Becciu. Ad accendere la miccia è stato l’improvviso licenziamento del cardinale Angelo Becciu dal ruolo di prefetto della Congregazione delle cause dei santi. Ma soprattutto la decisione di Bergoglio di privarlo anche dei diritti connessi al cardinalato, impedendogli così di votare nel prossimo conclave. Una mossa che ha spiazzato i seguaci dell’ex sostituto della Segreteria di Stato. È evidente, infatti, che Becciu avrebbe giocato un ruolo fondamentale nella Cappella Sistina tra i due principali e attuali contendenti italiani alla successione di Bergoglio. Da un lato il cardinale Segretario di Stato, Pietro Parolin, e dall’altro il cardinale arcivescovo di Bologna, Matteo Maria Zuppi, cresciuto nella Comunità di Sant’Egidio. Sicuramente Becciu non potrà rappresentare in conclave lo schieramento degli scontenti di Francesco tra cui ci sono ben tre nostalgici cardinali curiali: Gerhard Ludwig Müller, Raymond Leo Burke e Robert Sarah. Ai quali si possono aggiungere anche Angelo Comastri, commissariato e messo sotto inchiesta nelle indagini sugli appalti della Fabbrica di San Pietro, e Fernando Filoni, predecessore di Becciu in Segreteria di Stato, che il Papa ha rimosso anzitempo da prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli.

Parolin il papabile. Nel momento in cui la Segreteria di Stato è travolta da uno scandalo finanziario senza precedenti è inevitabile la ripercussione su Parolin. Da sempre è considerato un perfetto papabile, anche a motivo della sua carriera curiale fatta prima di ritornare a Roma dal Venezuela, dove era stato spedito nunzio da Benedetto XVI per volontà del suo diretto predecessore, il cardinale Tarcisio Bertone. Apparentemente il suo profilo non ha subito smagliature, ma è chiaro che la troppa mitezza di Parolin, che non ha nascosto di aver appreso dal telegiornale della defenestrazione di Becciu, gli si può ritorcere contro.

S’avanza Zuppi. Cresce il peso di Zuppi che, pur avendo criticato il modo in cui è stato licenziato Becciu, appare sempre più come un uomo di mediazione. L’episcopato italiano già lo vede al suo vertice quando il cardinale arcivescovo di Perugia-Città della Pieve, Gualtiero Bassetti, ormai 78enne, deciderà di lasciare. Zuppi presidente della Cei e poi Papa è lo scenario che in molti nei sacri palazzi accreditano come possibile. A favore del porporato giocano principalmente due carte: la notorietà internazionale in un momento in cui molti cardinali non si conoscono, e il suo essere un battitore libero, al di là della sua appartenenza alla Comunità di Sant’Egidio.

Il peso di Ratzinger. Non bisogna, però, sottovalutare il ruolo del cardinale Luis Antonio Gokim Tagle che Bergoglio ha chiamato da Manila come prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli. Il porporato filippino, pupillo di Ratzinger che lo volle nominare cardinale nel suo ultimo concistoro, è stato considerato un papabile anche nel conclave che poi ha eletto Bergoglio. È sicuramente un uomo che può rappresentare una sintesi tra le diverse anime della Chiesa, soprattutto all’interno del Vaticano. La defenestrazione di Becciu ha, infatti, improvvisamente ricompattato la Curia romana contro il Papa. Un’avversione che va avanti da quando, nel Natale del 2014, Francesco puntò il dito contro i suoi più stretti collaboratori parlando di 15 malattie curiali.

Il ritorno di Pell. Tra i vincitori del momento c’è sicuramente il cardinale George Pell, ex prefetto della Segreteria per l’economia, assolto dalle accuse di pedofilia e rientrato recentemente a Roma per essere riabilitato. Ma la sua età e i suoi modi da ranger non gli hanno mai fatto avere un seguito, soprattutto in Curia.

Non bisogna, infine, dimenticare due importanti outsider come il cardinale vicario di Roma, Angelo De Donatis, e il patriarca di Baghdad, Louis Raphaël I Sako. Due figure attorno alle quali si potrebbe presto registrare un notevole consenso.

Il giudice rinvia: sentirà Conte e gli ex ministri

Alla fine l’avvocato Giulia Bongiorno è “moderatamente soddisfatta”, anche se la giornata non è finita come pensava: il suo cliente, Matteo Salvini, non è stato rinviato a giudizio ma non è stato nemmeno disposto l’immediato non luogo a procedere, come sperato, rispetto all’accusa che gli pende sul capo di sequestro aggravato di persona per la gestione dei migranti trattenuti a bordo della nave Gregoretti tra il 27 e il 31 luglio 2019.

In più il legale, entrata nel Tribunale di Catania con le sue gambe, ne è uscita qualche ora dopo in sedia a rotelle, vittima di una lastra di marmo che si è staccata da una parete dell’aula e l’ha colpita a una gamba. “Tra il tendine e la caviglia”, ha precisato Salvini, che ha ripreso tutto con il cellulare e ora spera che il Guardasigilli Alfonso Bonafede la paghi cara. Ora che è diventato un nemico, almeno quanto gli altri suoi ex colleghi del governo gialloverde Giuseppe Conte, Luigi Di Maio e Danilo Toninelli. A cui, in qualità rispettivamente di premier, vicepremier e già ministro dei Trasporti, toccherà invece presentarsi nell’aula bunker di Catania il prossimo 20 novembre di fronte al giudice per l’udienza preliminare Nunzio Santopietro, chiamato a decidere sulle sorti processuali del leader leghista.

Conte ha già fatto sapere che ci sarà: “Certo che andrò dal giudice. Quando la magistratura chiama, anche un responsabile politico deve rispondere. Riferirò tutte le circostanze di cui sono a conoscenza, in piena trasparenza come ho sempre fatto e come sempre farò”.

Il 4 dicembre sarà poi la volta dell’ex titolare della Difesa, Elisabetta Trenta, e dell’ambasciatore italiano in Europa Maurizio Massari. Ma anche dell’attuale ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, convocata su richiesta dell’avvocato-senatore Giulia Bongiorno “per accertare se le procedure di sbarco indicate nel capo di imputazione sono tuttora seguite dal governo Conte-2”.

La difesa di Salvini punta a dimostrare che la procedura seguita per 131 migranti trattenuti sulla Gregoretti non è mutata rispetto all’epoca del governo gialloverde. E che la scelta di attendere prima di farli sbarcare non fu una iniziativa estemporanea da parte di Salvini, ma una pratica “prevista dal contratto di governo e dal Consiglio europeo del 2018”, in vista del loro ricollocamento.

Il gup ha disposto che prima del 20 novembre vengano acquisiti i documenti sugli altri sbarchi avvenuti nel periodo in cui Salvini era al Viminale, ma anche dopo, quando è cambiata la compagine di governo. Per arrivare a una decisione di merito su una vicenda processuale che – ha evidenziato l’ordinanza emessa ieri a margine dell’udienza preliminare – “sorge da un manifesto contrasto di giudizi tra la Procura distrettuale e il Tribunale dei ministri di Catania”.

Il gup Santopietro si riferisce al contrasto di valutazioni tra il Tribunale dei ministri di Catania – che aveva chiesto l’autorizzazione a procedere al Senato contro Salvini, con l’accusa di essersi adoperato per impedire arbitrariamente lo sbarco dei migranti, minori compresi – e la Procura di Catania, che aveva chiesto prima e dopo le indagini preliminari l’archiviazione, per infondatezza della notizia di reato.

Ieri la Procura è tornata a chiedere il non luogo a procedere, come il leader della Lega. Che pare aver fatto pace con la magistratura, cui fin qui non ha risparmiato critiche, per usare un eufemismo. “Era la mia prima volta in tribunale da potenziale colpevole e imputato, sono assolutamente soddisfatto di aver sentito da parte di un giudice che quello che si è fatto non l’ho fatto da solo. Era parte di una procedura”.

Niente folla, comizi e martirio. Salvini al processo resta solo

Una lastra a ciel sereno, solo un caffè con gli amici, e un saluto dal Gup: arrivederci in tribunale al prossimo 20 novembre.

Il processo a Matteo Salvini si chiude in ortopedia per via del marmo di una parete dell’aula di giustizia che collassa sulla caviglia di Giulia Bongiorno, la donna che lo difende in Parlamento e davanti ai giudici. L’adunata siciliana finisce così, col finale amputato in ragione dell’imprevisto e ridotto carico emozionale che ha spompato un po’ il finale della kermesse leghista. Doveva giungere il popolo da ogni luogo d’Italia e duemila erano i posti prenotati nell’arena del porto dove il leader leghista avrebbe dovuto celebrare la cerimonia sotto il titolo “Processate anche me”. T-shirt, manifesti, video propulsivi per una chiamata di popolo, per dare al Capitano ciò che gli spetta: il leader più perseguitato d’Italia dopo Silvio Berlusconi.

C’è da dire che Silvio, causa Covid, ha mandato Antonio Tajani in solidale vicinanza, anche se ben altra fu la risposta dei parlamentari di Forza Italia, e lì la Lega mancò, che si strinsero al loro Capo occupando le scale del Tribunale di Milano dentro cui i giudici, colpevoli di volerlo processare, erano asserragliati. Altri tempi e altre Procure. Questa di Catania infatti non voleva neanche mandare a processo Salvini, anzi ha chiesto anche ieri l’archiviazione. Ma il Gup, come ha raccontato la Bongiorno dopo le cure mediche al pronto soccorso, vuole capire e approfondire. Ha accolto le richieste della difesa e saranno ascoltati anche il premier Conte, l’allora suo vice Di Maio e l’attuale ministro dell’Interno Lamorgese.

“Gli faccio perdere solo mezz’ora, poi tornano al loro lavoro”, ha detto Salvini dopo una mattinata che doveva essere gagliarda e si è rivelata moscia. Giorgia Meloni è venuta a Catania, come anticipato, ma subito ha escluso che potesse parlare dal palco insieme a lui. Processate lui, non me.

Stando così le cose, anche Tajani si è convertito all’idea, più sparagnina, di un caffè da prendere in piazza. Una photo-opportunity con il buongiorno che si sarebbe visto fin dal mattino.

L’idea non è piaciuta alla questura e per motivi di ordine pubblico il caffè con allegato selfie di stringente amicizia è stato bevuto sulla terrazza dell’albergo di Salvini. Cinque minuti e via. Camicia bianca e cravatta blu. Salutati gli amici, ecco il tribunale. Il marmo cascato sui piedi della Bongiorno (immediata interrogazione parlamentare della Lega sulle condizioni dei palazzi di giustizia in Italia) ha ravvivato una giornata che, in assenza, si sarebbe accorciata molto.

Tant’è che sul palco leghista l’attesa del leader, che poi purtroppo nessuno ha visto, ha prodotto un surplus oratorio. I dirigenti hanno iniziato ad allungare il brodo, e a furia di allungarlo il comizio si è sfilacciato, i pensieri si sono doppiati e anche le parole hanno perso di smalto.

“Sono stanchissimo, vado a Milano dai miei figli”, ha detto Salvini, che è parso di un umore appesantito per via della defaillance di popolo che non era attesa. Sulle spalle del povero Stefano Candiani, il varesino mandato in Sicilia a fare il capo dei siciliani leghisti, tutto il peso di un’organizzazione che fino a due sere fa si era dimostrata all’altezza delle attese. Centomila euro spesi per allestire la grande sala dove la Lega, riunita in assise, avrebbe salutato il processo facendosi un po’ anche processare.

“Processate anche me”, era e doveva restare il filo conduttore della resistenza. Invece la tre giorni, che come detto si è ridotta a due, ha preso la piega solita: molte parole, pochi fatti. Nessuna federazione con gli autonomisti isolani, principalmente col movimento del governatore Nello Musumeci che ha invece continuato a nicchiare, e qualche proposta in controtendenza. Giorgetti, che guida l’ala moderata, ha spiegato che Salvini o si butta al centro o rimane fregato.

C’è da dire che da un po’ di tempo Matteo si mostra meno ardimentoso e anzi persino più compassionevole con gli avversari: “Non odio nessuno”. L’ex odiatore è ora certo che “la cattiveria sia dei buoni, di quelli che voi definite buoni”.

Il tribunale non è perciò stato circondato dai leghisti, come pure nelle scorse settimane pareva possibile, e nessuna parola di fuoco, ma mille di amore. Certo, l’accusa di sequestro di persona (il reato per il quale è sotto processo) conduce a pene che, se inflitte, travolgerebbero la sua leadership. Ha chiamato il suo popolo alla resistenza, trovandosi egli nella parte del perseguitato, parendogli il minimo. Perciò la precettazione a Catania. Tutti si sono annunciati. Anche Giorgia, anche Silvio, seppure per interposta persona. Ma sul più bello, cioè nell’ora esatta del processo, se la sono squagliata.

I penta-tafazzi

Giuro che mi sto leggendo, per dovere professionale, tutte le cronache, le interviste, i retroscena, i sussurri e le grida che precedono i fatidici stati generali 5Stelle (e me la pagheranno). Ma confesso di continuare a non capire perché mai dovrebbero scindersi. Nella gara a chi spara l’immagine più autoflagellatoria – siamo come l’Udc; anzi, come l’Udeur; mannò, come la Costa Concordia; altro che scatoletta, noi siamo il tonno – manca qualcuno che trovi quello giusto: una via di mezzo tra Fantozzi e Tafazzi. Mi spiego: i 5Stelle, stando alle cronache, erano morti ancor prima di nascere. Eppure, dopo 11 anni, sono ancora lì. Le elezioni regionali, a causa delle liste civetta e del maggioritario secco, le perdevano anche quando vincevano le Politiche. Le Comunali le han vinte nelle città distrutte da destra&sinistra (Parma, Livorno, Roma, Torino). Le Politiche, grazie al proporzionale, le han vinte due volte su due: nel 2013 e nel ’18. La prima volta tutti gli altri si sono coalizzati contro di loro. La seconda l’ammucchiata non aveva i numeri e ha dovuto fare i conti con loro. Con la Lega è andata com’è andata. Col centrosinistra, fra alti e bassi, sta funzionando. In due anni e mezzo, i 5Stelle hanno sperimentato cosa vuol dire governare con Salvini (che li ha traditi ogni giorno per 14 mesi e poi una volta per tutte l’8 agosto 2019); e cosa vuol dire governare col Pd (che li rispetta e sta ai patti). Intanto, dall’una e dall’altra alleanza, han portato a casa un bel pezzo del loro programma: molto più di quanto abbiano ottenuto Lega e Pd. Eppure han perso consensi: ma sono più importanti la Spazzacorrotti, la Bloccaprescrizione, le manette agli evasori, il reddito di cittadinanza, il dl Dignità, il blocco delle trivelle, il taglio dei parlamentari e dei vitalizi, o qualche punto percentuale? Non era Grillo a dire che, esaurito il programma, il M5S si sarebbe estinto? Il programma è tutt’altro che esaurito: tutta la parte green, che 11 anni fa pareva la solita chimera del comico-utopista, irrisa e osteggiata da destra e sinistra, avrà dal Recovery Fund le risorse per diventare realtà.

Di questo dovrebbero parlare in vista del congresso, anziché guardarsi l’ombelico, spararsi sui piedi e ammorbarci con chissenefrega come Rousseau, i rapporti con Casaleggio, i 2 o 3 mandati. Di Battista dice che se passa l’alleanza organica col Pd, lui prende e se ne va (dove?). Ma il Pd non è più quello che prendeva ordini da Re Giorgio o dal Giglio Magico, governava con Monti, B., Alfano e Verdini, copiava le ricette di Confindustria e delle banche d’affari, tentava di scassare un terzo della Costituzione e affogava negli scandali.

Ha accettato Conte premier, votato il taglio dei parlamentari, ingoiato la bloccaprescrizione e il Rdc. È cambiato, anche grazie all’alleanza con i 5Stelle. Ed è naturale che siano cambiati anche loro. È vero, l’estate scorsa il Pd a trazione renziana pose il veto su Dibba ministro: ma lui aveva appena chiesto di “riaprire il tavolo con la Lega senza Salvini” (pura utopia: la Lega è Salvini) e si era reso inaffidabile. Peccato, perché al governo avrebbe conosciuto meglio gli ex nemici e fatto l’esperienza che ha condotto i suoi (ex?) amici Di Maio, Patuanelli, Bonafede&C. ad auspicare una prospettiva organica con questo centrosinistra: a Roma e – dove possibile – sui territori. Auspicio condiviso dagli iscritti, che hanno approvato la possibilità (non l’obbligo) di alleanze regionali e comunali. E dalla maggioranza degli elettori che, quando c’è una minaccia, come Borgonzoni in Emilia-Romagna, Fitto in Puglia e Ceccardi in Toscana, votano disgiuntamente o direttamente Pd turandosi il naso.

L’altra sera, in un bel duello con Scanzi e Sommi ad Accordi & Disaccordi, Di Battista dipingeva ancora il Pd come quello di Napolitano e dell’Innominabile. Ma poi ricordava che, potendo, sarebbe entrato nel governo col Pd e auspicava che il Conte-2 arrivi a fine legislatura. Precisava che i 5Stelle devono restare terza forza equidistante da destra e sinistra, ma poi ammetteva che con Salvini il discorso è chiuso. Perciò, come gli ho detto in pubblico e in privato, la minaccia di andarsene in caso di alleanza organica col Pd non ha senso. Perché quell’alleanza organica non è all’ordine del giorno: il Conte-2 è nato sul comune impegno per una legge elettorale proporzionale. E in quel sistema nessuno è obbligato a sposare nessuno: ciascuno esalta la propria identità per avere più voti e poi, in Parlamento, costruisce le alleanze. Se a capo del Pd tornasse un similrenzi, il M5S dovrebbe starne alla larga. Ma se rimane Zingaretti e quello della destra rimane Salvini, con chi deve allearsi il M5S lo dice lo stesso Di Battista, quando elogia il governo Conte e chiude le porte al Cazzaro. Il quale, se andasse al governo, cancellerebbe tutte le conquista targate 5Stelle sulla Giustizia e il Welfare. Senza dimenticare che, al governo con Salvini, i 5Stelle si sono dimezzati, mentre col centrosinistra l’emorragia s’è fermata e la nuova leadership potrebbe innescare una risalita. Che vuol fare Di Battista: continuare a fare il Tafazzi, segnalando giustamente gli errori ma tacendo i successi del M5S e contribuendo alla narrazione autoflagellatoria che piace tanto ai giornaloni per non contaminare le sue idee? O vuole riprendersi il posto che gli compete nel nuovo vertice collegiale per far contare le sue idee?

Giocare ma a distanza: mosca cieca ai tempi del Covid

Giocare in gruppo ai tempi del covid. Sembrerebbe impossibile, tuttavia come scrivono Pierdomenico Baccalario, Marco Cattaneo e Federico Taddia, autori di Giochi di gruppo (anche) a 1 metro di distanza (edito da Mondadori), “il bello dei giochi è che hanno delle regole e il bello delle regole è che si possono cambiare”. A un metro di distanza, meglio se due, è ancora possibile divertirsi.

Il libro, pensato per i bambini dai sei anni in su, riscrive i grandi classici dell’infanzia e dello sport, adattandoli alle necessità sopraggiunte. Il distanziamento ne è una prerogativa. Così come la sanificazione degli oggetti, il pallone ad esempio. Il divertimento è comunque garantito, attraverso l’uso della fantasia che ricorre a corde, nastri e spaghi per prendere le dovute precauzioni.

All’aperto e al chiuso, in pochi o addirittura in 22, sono trenta le idee messe in campo. Ci sono i giochi intramontabili, gli sportivi e gli stanziali. Un due tre stella, i quattro cantoni, la grattugia, palla prigioniera e anche le bocce, il calcio. Persino la mosca cieca che, in quest’epoca, è diventata sorda.

Un libro dalle idee resilienti, che assicura svago e socialità per i più piccoli e anche per i grandi.

 

 

Oltre la depressione e la pandemia potrebbe venire fuori la nuova generazione

E se dalla crisi da Covid ne uscisse alla fine “una generazione”? Che magari riprende a battersi politicamente? È l’auspicio appuntato in coda al libro di Christian Raimo che non è un romanzo, non è un saggio, piuttosto un “ibrido” letterario.

Raimo ci mette la propria vita di professore di liceo, quella di precario del lavoro culturale o di attivista sociale, di anima nomade che ha amato “i miti” del ’68 e del ’77, ne ha assaggiato le bruciature esistenziali, ma che non si è arreso. Oggi fa l’assessore alla Cultura nel III municipio di Roma, si è inventato “Grande come una città”, un progetto di autoeducazione popolare, ma anche Maturadio, lezioni in podcast per i maturandi realizzate con il ministero dell’Istruzione. Consapevole che una volta c’era la coscienza di classe, ma oggi va di moda il “miserevole”, il disoccupato che piange in tv, il precario come figura debole, anch’egli “miserevole”. Così si compone un quadro in cui “è politica”, scriveva Mark Fisher, anche la depressione. Ed è un quadro costellato di godibili citazioni tratte da film, libri, serie tv. L’immaginario poliedrico dei nostri adolescenti, schiacciati a scuola dall’ansia della prestazione competitiva, che corrono quotidianamente il rischio di rimanere esclusi dall’uguaglianza. Anche per questo irrompe il tema del suicidio, quello di Alex Langer, di Mark Fisher o di David Foster Wallace. “Una crisi esistenziale estrema”? Una sorta di fenomenologia dello “sfigato”? Oppure anche nel suicidio si nasconde una “soggettivazione politica”?

La depressione del nostro tempo, accelerata dalla pandemia, non impedisce di darsi una speranza. Quella di “riparare il mondo”, se non altro, come disse Albert Camus, “per impedire che il mondo si distrugga”.

 

Com’erano contemporanei gli Scapigliati

Da Lacan e Freud in poi, ribellione e desiderio sono intimamente avvoltolati. Non è proprio lo psicoanalista viennese a parlare di “uccisione del padre” come atto identitario da parte dei figli ribelli? È tutt’altro che casuale, allora, che all’indomani dell’Unità d’Italia, come in risposta alla celebre frase del generale Massimo D’Azeglio “Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani” – a fronte della parcellizzazione geografica e dunque culturale della neonata nazione –, si sviluppò il movimento letterario e artistico della Scapigliatura milanese.

Cugini dei bohémiens parigini, anche gli “scapigliati” subivano il fascino della vita maledetta (tutto sesso, droga e ritmo da caffè-concerto) e devono il loro nome allo scrittore Cletto Arrighi, che li fotografa come “pieni d’ingegno, più avanzati del loro secolo” e “inquieti, travagliati, turbolenti”. Per questo, è così azzeccato il titolo della mostra al Palazzo delle Paure di Lecco La Scapigliatura. Una generazione contro (a cura di Simona Bartolenao) come azzeccata è la selezione di opere che narra alla perfezione il ventennio di rivolta ai canoni accademici, al romanticismo, al rigore tecnico e soprattutto alla rappresentazione, preferendo la soggettività delle passioni, delle pulsioni dell’anima e cercando il sodalizio tra materia fisica e materia psichica.

Si inizia con il caposcuola, Tranquillo Cremona, che per primo abbandona le stesure cromatiche attente e infonde una specie di scioltezza, di evanescenza nella trattazione dei soggetti. In Idillio pompeiano (1868), un delicato giovane bacia sulle guance una fanciulla (la strizzata d’occhio è a Hayez) che tra garbo e turbamento si offre a lui, mentre fluttuano in uno sfondo senza contorni. L’uso vibrante delle pennellate, come possiamo vedere in La farfalla (1877-78) – una ragazza sorridente in giardino –, crea un’atmosfera vaporosa fatta di giochi di luce.

Accanto a Cremona, sfilano i ritratti di Daniele Ranzoni: l’intimo Ritratto di bambina (1865), l’estatica La cantante Ravené o la maliziosa Giovinetta inglese (1886); lo scultore Giuseppe Grandi, che abbandona le pose ieratiche e lavora su naturalezza e vitalità, come possiamo ammirare nella spontanea Donna discinta o in Ritratto di Alessandro Volta a braccia conserte; e infine la pittura sfrangiata di Luigi Conconi, che apre idealmente le porte ai macchiaioli di Fattori e ai divisionisti di Segantini. Nessuno forse più degli scapigliati fu – nell’accezione che ne dà Giorgio Agamben come di chi non coincida col proprio tempo – contemporaneo al concetto di identità culturale di una nazione.

 

Un Venerdì Santo di omicidi: indaga Colasette, moralista anti-Sistema

Che bel tipo il commissario Colasette. Folgorante. Un poliziotto che da ragazzo sottolineava Sherlock Holmes (in lingua originale) e lustri dopo il disincanto è tale che non crede più “alla democrazia della realtà, a disposizione di chi ha occhi per vederla”. E così, a Colasette, non resta che il moralismo (ma in funzione anti-Sistema e anche anti-populismo) e soprattutto un’inchiesta con due omicidi e mezzo, sul pianerottolo di un condominio. La scena si apre la mattina del Venerdì Santo, nell’immaginario paesino di Colle Ventoso, in Lombardia.

In una palazzina incellofanata da impalcature per lavori di ristrutturazione, gli inferi si spalancano alla vista del commissario come un affresco horror, carico di allegorie: un crocifisso a misura d’uomo imbrattato di cacca, appoggiato a una parete; un uomo colpito alla testa e che resterà in coma per un po’; il cadavere di un ragazzo nudo, biondo e depilato, con due ali disegnate sulle spalle; infine una donna morta nel suo appartamento e altra “merda spalmata su due quadri”, uno che raffigura la Vergine, l’altro San Rocco con il suo fedele cane. Il terzo giorno è il nuovo romanzo di Paolo Nelli, scrittore italiano che vive e lavora a Londra, l’autore del Trattato di economia affettiva. Stavolta Nelli usa il giallo (e lo fa con risultati eccellenti dal punto di vista della trama) per vivisezionare la quotidianità segnata dalla sofferenza e in cui la felicità da raggiungere non è altro che la normalità. Colasette si muove in un triangolo di tre donne: la collega Bercalli; la fidanzata-compagna Luna che lo lascia da solo per andarsene in montagna con un altro; infine Irene Iannone, che in passato fu salvata dal commissario per gli abusi subìti dal padre e indaga per conto suo sugli omicidi del Venerdì Santo. Sullo sfondo la scelta, appunto, di raccontare un giallo nei tre giorni che portano alla Pasqua. Senza alcuna resurrezione. O forse sì.