Quella sera dorata e buia: Cameron è dark

Un uomo e una donna viaggiano su un treno che attraversa una tundra sconfinata e poi viene inghiottito da una foresta di abeti a stringersi intorno ai binari. Sono partiti dall’America alla volta di un Nord Europa imprecisato dove ogni cosa è buio e neve, per adottare quel bambino che non hanno potuto avere naturalmente perché lei ha un cancro uterino terminale. La donna lo fa per lui, affinché non resti solo, l’uomo, incapace invece di contemplare l’idea della fine, s’illude di poter così ricucire un’unione lacera.

Sulle ginocchia di lei occhieggia The dark forest di Hugh Walpole, opera inquietante e sfuggente ad anticipare l’atmosfera straniante di Cose che succedono la notte, settimo romanzo dello statunitense Peter Cameron, che i più ricordano per Un giorno questo dolore ti sarà utile e Quella sera dorata da cui sono stati anche tratti due film. La foresta di dantesca memoria simboleggia, neanche a dirlo, i recessi dell’anima. Ciò che si apprestano a vivere l’uomo e la donna senza nome non è dissimile da una trasmutazione alchemica, sinonimo di rinascita spirituale, tant’è vero che simboli tipici dell’ultima fase, la rubedo, come oro e uova, compaiono più volte. Intrappolati in un sentimento che oscilla tra odio e amore e che si serve della premura solo per sedare rabbia e insofferenza, schiacciati da una incomunicabilità che la malattia ha contribuito a radicare, tireranno le fila della loro storia nella cornice di un hotel che tanto somiglia a quello di Kubrick in Shining. Hall enorme, distese di moquette, lunghi corridoi, spazi in cui si aggirano, apparendo e scomparendo a intermittenza, personaggi lynchiani cristallizzati in quel luogo come insetti nell’ambra, la cui presenza sembra avere il preciso scopo di ribaltare piani, sgretolare certezze, influenzare che cosa ne sarà di loro, come individui e come coppia. La più intrigante è una donna in là con gli anni ma di imperitura eleganza che tutto pare aver visto e vissuto. Ex circense, ballerina e attrice di teatro, almeno così racconta (il confine che separa realtà e invenzione, verità e menzogna, è sottile, tratto caratteristico di Cameron), ora chanteuse per i pochi avventori dell’albergo, Livia è una figura ipnotica, ammaliante anche nella sua viscerale disillusione esistenziale, spiazzante nei suoi proclami – “Prima o poi vanno tutti a letto. Sono cose che succedono la notte. Le persone spariscono, sempre che ci siano mai state. La vita è orrenda, infame, come e più del tempo” o “Viviamo in un’epoca buia, nessuno riesce a trovare la propria strada. Procediamo a tentoni, come i ciechi. Somigliamo a quegli animaletti sotterranei che scavano la terra fredda e umida nella speranza di trovare una radice commestibile” – e abile a insinuarsi senza sforzo nella coscienza di entrambi, specie di lui.

Lei si lascerà invece sedurre da un sedicente angekok, sciamano guaritore cui si affiderà anima e corpo, senza riserve. Dark e disorientante, questo romanzo ingenera un senso di turbante tensione che tiene desti e alimenta il godimento di essere spettatori di una resa dei conti che potrebbe riguardare anche noi, ma che preferiamo procrastinare lasciando agli altri, o alla letteratura, la fatica di farlo al nostro posto.

 

La ragazza Carla e il suo “Migrando”, in scena su una barca ormeggiata a Parigi

Ci sono Adama e Lanzhim aggrappati al barchino che affonda e ai loro sogni. C’è madame Martinez, l’arcigna consigliera comunale di un paesino sperduto della campagna francese. Una di quelle che “i migranti tolgono il lavoro ai nostri figli”. E c’è Vittoria Azzurra (è nata nel 1982!), sognatrice, emigrata anche lei, che tenta di importare in quel paesino il sogno di Riace: “Quando è stata l’ultima volta che avete potuto cambiare la sorte di 50 persone?”.

Sono le storie vere che Carla Bianchi racconta con acuta ironia in Migrando, per la regia di Francesco Bonomo e con il sostegno di Alain “Papy” Degois, scopritore di talenti. Per vederlo (fino al 30 dicembre) bisogna andare alla Nouvelle Seine, una barca-teatro ormeggiata al quai de Montebello, di fronte a Notre-Dame, a Parigi. È qui che Carla Bianchi, romana, un bagaglio nel cinema (ha debuttato in La vita è breve ma la giornata è lunghissima di Gianni Zanasi e Lucio Pellegrini) e la tv e due anni al Teatro della Tosse di Genova, è arrivata sette anni fa per realizzare quello che per un giovane artista in Italia è spesso una battaglia persa: “Farti ascoltare quando sei uno sconosciuto”.

Il suo è uno spettacolo pieno di umanità, frutto di incontri, prima di tutti con i rifugiati di Caltagirone, e che quando serve punzecchia i francesi sulla loro politica di accoglienza e il passato coloniale. Sola sul palco, energia contagiosa, accento italiano, Carla Bianchi, che ha per modelli il Benigni di La vita è bella e Marco Paolini del Racconto del Vajont, ci fa ridere di un dramma che non tutti hanno il coraggio di guardare in faccia. “Ci interessava mescolare i generi, passando dalla stand up comedy al teatro di narrazione fino al teatro epico, quando Ulisse irrompe nel testo. Con Francesco ci siamo detti: facciamo questo trip e stiamo a vedere – racconta l’autrice –. L’ironia è un’arma: quando si ride, le lacrime scendono più in profondità”.

La versione italiana esiste già. Cercasi teatro.

 

Mrs. America, qui nasce il trumpismo

Alla vigilia delle elezioni americane, rileggere la storia degli anni Settanta è un esercizio utilissimo per capire come si è arrivati agli Stati Uniti di oggi. Mrs. America (dall’8 ottobre su TimVision Plus) mette al centro della scena Phyllis Schlafly, la conservatrice che guidò la campagna Stop ERA e riuscì a fermare l’Equal Rights Amendment, la proposta di emendamento alla Costituzione che avrebbe dovuto rafforzare l’uguaglianza fra uomini e donne. “Si può disegnare una linea che va dagli anni Settanta a oggi, passando per Phyllis Schlafly, e comprendere davvero come siamo diventati una nazione così divisa”, ha detto la creatrice della serie Dahvi Waller.

Interpretata dal premio Oscar Cate Blanchett, presidente di giuria dell’ultimo Festival di Venezia, la protagonista è una casalinga dell’Illinois, madre di sei figli, scrittrice, esperta di difesa e sicurezza nazionale. Il suo libro A Choice not an Eco, in cui criticava dall’interno l’ala più tenera del Partito Repubblicano, negli anni Sessanta ha venduto centinaia di migliaia di copie. Qualche tempo dopo, siamo all’inizio dei Settanta, Phyllis approfitta della notorietà acquisita per impegnarsi in un’altra battaglia: quella contro l’Emendamento per la parità dei diritti, che è stato approvato da entrambe le Camere ma dev’essere ratificato da almeno 38 Stati.

Sull’altro fronte della barricata ci sono le femministe della seconda ondata, dalla fondatrice di Ms. Magazine Gloria Steinem a Shirley Chisholm che fu la prima nera candidata alla presidenza degli Stati Uniti, impegnate e sostenere l’ERA e i diritti delle donne. Ogni episodio di Mrs. America è dedicato a una di loro, ma il perno attorno a cui ruota la serie rimane Phyllis. Che alla fine riuscirà a vincere la battaglia, combattuta attraverso le pagine del suo bollettino mensile e senza rinunciare a qualche fake news ante litteram, tipo sostenere che l’ERA avrebbe portato ai bagni pubblici unisex. Grazie alla sua campagna l’emendamento fu ratificato soltanto da 35 Stati e non venne introdotto nella Costituzione.

Mentre alcune donne combattevano per l’emancipazione, altre si battevano per dedicarsi alla casa e ai figli. Due mondi agli antipodi, come sono agli antipodi la provincia in cui vive Phyllis (Alton, Illinois) e il centro nevralgico della politica (Washington). La serie insiste sugli opposti e sulle contraddizioni degli anni Settanta per suggerire che bisogna tornare proprio a quel periodo per ritrovare il germe degli Stati Uniti di oggi. E forse non è un caso se proprio Phyllis Schlafly, scomparsa nel settembre 2016, è stata tra le sostenitrici di Donald Trump alle primarie repubblicane: “È l’ultima speranza per l’America” disse.

La showrunner di Mrs. America è Dahvi Waller, già sceneggiatrice di alcuni prodotti di successo come Desperate Housewives, Mad Men e Halt and Catch Fire. La serie ha ricevuto cinque nomination agli Emmy Awards e un premio come Miglior attrice non protagonista per Uzo Adube nella parte di Shirley Chisholm (Orange is the New Black). Ma tutto il cast femminile è di altissimo livello: oltre a Blanchett e Aduba ci sono Rose Byrne (Damages), Elizabeth Banks (Hunger Games), Sarah Paulson (Ratched) e Margo Martindale (The Americans). James Slattery, famoso per il ruolo di Roger Sterling in Mad Men, interpreta il marito di Phyllis.

 

Un “road movie” di Soldati per il ritorno della Sandrelli

Bradley Cooper recita a Los Angeles nel nuovo film di Paul Thomas Anderson ambientato negli anni70 nella San Fernando Valley di cui si conosce solo il titolo in codice, Soggy Bottom. Interpretato anche da Alana Haim e Benny Safdie racconterà le vicende di un giovane allievo delle scuole superiori che diventa una star grazie all’intuito di un estroso produttore musicale.

In attesa di girare Mandrake The Magician di Etan Cohen in cui darà vita al celebre illusionista dei fumetti, Sacha Baron Cohen è stato diretto da Jason Woliner nel sequel del suo celebre Borat in cui si ripropone nei panni del folle e irriverente reporter kazako protagonista del fortunato prototipo. Lanciato da Amazon Prime dal 23 ottobre il film ha come titolo completo Borat Subsequent Moviefilm: Delivery of Prodigius Bribe To American Regime For Make Benefit Recently Diminished Nation of Kazakhstan.

Inizieranno il 6 ottobre le riprese di L’uomo di fumo, un road movie agrodolce in cui Stefania Sandrelli tornerà a essere diretta dal suo compagno Giovanni Soldati, autore anche della sceneggiatura con Giacomo Scarpelli e Marco Tiberi. Prodotto da Quality Film e Cinemusa con Rai Cinema è il romanzo di formazione di Silvia (Selene Caramazza), una ragazza orfana di 22 anni turbolenta e insoddisfatta cresciuta da una nonna che con le sue bugie rassicuranti ha sempre cercato di preservarla da una verità angosciante e pericolosa.

Toni Servillo, Silvio Orlando e Fabrizio Ferracane saranno da novembre in poi a Sassari sul set in Dall’interno, una coproduzione italo-svizzera diretta da Leonardo Di Costanzo realizzata da Tempesta, Amka Films Productions e Rai Cinema. Il film è ambientato in un carcere in cui improvvisamente i detenuti vivono una sospensione irreale per motivi di natura burocratica.

Desplechin diventa un po’ Dostoevskij e un po’ Simenon. Roubaix, una luce nell’ombra

Una pietà non sconosciuta ma rara, non affrancata dalle responsabilità però quasi indifferente alla colpa: un abbraccio spalancato nel buio, una scommessa sulla luce. Ambientazione notturna e toni lividi sullo schermo, nel titolo indicazione geografica ed epifania: Roubaix, une lumière non è il film che ci saremmo aspettati dal colto, raffinato e cerebrale Arnaud Desplechin, non interamente almeno, nella misura in cui all’esibita cinefilia preferisce comunque l’afflato umanista, il lascito morale, la presa in carico della proverbiale fiammella di speranza. Il polar è memore, da Jean-Pierre Melville a Maurice Pialat, la detection riconoscente, Alfred Hitchcock su tutti, ma l’assonanza, e la risonanza, prevalente è letteraria, è Georges Simenon, è Fëdor Dostoevskij, è Delitto e castigo: Desplechin scopre il thriller sociale e ci si trova maledettamente bene. È la prevalenza della realtà sul dispositivo, che pure è dirimente (basti pensare al connubio messa in scena e mise en scène): il regista e sceneggiatore adatta il documentario Roubaix, commissariat central di Mosco Boucault, ed è proprio qui che trova l’urgenza, e la misura, per forzare il genere, per infettare l’artificio cinematografico della miseria qui e ora. Senza salvagente né sfollagente, un affaccio sull’ignoto, alla mercé di tutti: “Per la prima e unica volta nella mia vita ho solidarizzato con due criminali: ho voluto riconsiderare le parole crude delle vittime e delle colpevoli come la più pura delle poesie”.

Dopo il passo falso de I fantasmi d’Ismaele (2017), Desplechin cerca colpe e trova tare, insegue il crime e incontra la pietà (Oh Mercy! il titolo internazionale), spingendoci al fermo-immagine finale: dai blocchi, cavalli e umani che siano, si esce tutti insieme, e poi che succede? Prima succede che nella meta della classica di ciclismo, dove è arrivato dal Maghreb a sette anni, l’ispettore capo Daoud (Roschdy Zem, super) indaga su auto incendiate per incassare l’assicurazione, rapine in panetteria dal bottino di venti euro, anziane strangolate a letto: di che colore è il nero, di quale viraggio il noir? È la notte di Natale, Daoud è assistito dal nuovo arrivato Louis Cotterel (Antoine Reinartz), che scommette ai cavalli e forse altrove, le indiziate sono le amanti Claude (Léa Seydoux) e Marie (Sara Forestier), alcolizzate, derelitte, marginali: qual è l’anamnesi, c’è cura? Interrogativi a cui Desplechin non si – e ci – sottrae, facendo della propria ammalorata città natale un microcosmo universale, una palude febbricitante, un palcoscenico delittuoso: superbi gli interpreti, ambigua, come dev’essere, la storia, elegante il racconto, se per andare al cinema di questi tempi serve un surplus di interesse Roubaix, una luce nell’ombra lo garantisce. Dostoevskij sosteneva che “il criminale, nel momento in cui compie il delitto, è sempre un malato”, Desplechin illumina la malattia: virale e virulenta, lascia scampo?

 

Il male non è solo Sud dei Santi

È cominciata subito dopo la pubblicazione online del mio pezzo sul delitto pugliese. Non prima, ovvio, quando l’articolo era già da ore in edicola, perché scorrere i titoli su uno schermo facilita la condivisione indignata, mentre aprire le pagine di un giornale e mettersi a leggere magari un po’ meno.

Mi è arrivata dapprima una mail carica di insulti. Poi un messaggio inspiegabilmente irato. Poi un altro un filo più minaccioso. E intanto sui social la ridda dei commenti si scatenava con crescente acrimonia: “Ma non si vergogna?”, “Sa che lei è un infame?”, “Traditore!”.

Con mio grande stupore, scopro che il mio contributo sull’agghiacciante caso di Lecce – una riflessione narrativa più che un approfondimento – ha urtato un’ampia fetta della comunità salentina. Post, stories e commenti al vetriolo inondano in poche ore il web, ed è un delirio. Nel turbinio di strali che passano dall’anonimo leone da tastiera a rispettati esponenti della vita culturale di quella parte della mia regione – cui sono legatissimo – mi si contesta l’eccessivo ricorso agli stereotipi, ma soprattutto l’aver ascritto la fonte di tutti i mali alla collocazione geografica in cui si è consumato l’omicidio. E pertanto di aver minato così, reietto tra i reietti, il lavoro di amministratori e operatori di settore che in questi anni hanno faticato per restituire un’immagine diversa del nostro Sud, un Sud non più arretrato e criminale ma finalmente produttivo, turistico e proiettato nel domani. In definitiva, un Sud risolto.

Ora, a parte lo scoramento per la pressoché totale distorsione del messaggio di partenza, l’intera faccenda credo si presti a evidenziare con efficacia la micidiale esuberanza dei social nelle nostre vite e la correlata fruizione – fugace, mai debitamente ragionata – delle informazioni oggi. Posto che i cecchini del web avranno già nuovi bersagli, vorrei provare a mostrare l’inconsistenza del biasimo rivolto alla mia narrazione. Se gli odiatori avessero letto il pezzo, infatti, avrebbero scoperto che sono anch’io fieramente “terrone” e nelle mie parole l’ubicazione geografica non c’entra davvero niente con il Male (a chiare lettere scrivo che esso è “privo di coordinate”). Semmai rilevavo una discrasia tra il teatro in cui il misfatto si è consumato – la splendida Lecce – e l’efferatezza dello stesso. E uso il Sud (dove vivo, di cui scrivo da decenni, e che amo) come epitome di realtà in cui queste cose possono succedere, ma da nessuna parte scrivo che altrove non avvengano. Anzi. La mia aspirava a essere una riflessione sull’annidarsi del Male laddove le autorità competenti latitano (e qui, nel mio Sud, al di fuori del bel quadretto oleografico che ci ostiniamo a raccontarci, latitano spesso: devo elencare forse gli sfaceli di Ilva, Cerano, Xylella, abusivismo, sanità, ecc?).

L’intera Casarano pare sia insorta. Una città che conosco e apprezzo. Ma in quali termini l’avrei offesa? “La terra del Male”, di cui si parla nel titolo e nell’occhiello, è quella zona di quiete ovattata di qualsiasi posto del mondo: “La quiete delle esistenze tranquille”, scrivo. Nel pezzo si discute di un fatto accaduto al Sud, e io sottolineo che nella apparente serenità di questo Sud (che è lo stesso di Manduria in cui abito – altro posto quieto dove si è consumato un atroce delitto, quello degli “orfanelli”) il Male si è insinuato, è maturato e infine è deflagrato. Ho definito la città “villaggio dimenticato da Dio”, ma era l’ottica del giovane assassino che se la lascia alle spalle. E comunque Dio dimentica l’intero Sud. Chiedete alla miriade di disoccupati costretti a delinquere per raggranellare il pasto, ai nuovi schiavi della raccolta dei pomodori, alle ditte che le multinazionali assorbono per dislocare.

Se qualcuno si sente toccato da un discorso che tenta di farsi complessivo posso solo provare a fare ammenda per l’inefficacia della mia prosa, ma ribadisco il concetto per cui il Male si annida ovunque chi debba vigilare – anche culturalmente – si distrae: in questo caso è successo qui, nel cheto tacco d’Italia. Punto.

Infine, sui vecchi che giocano a carte del mio racconto: sono un coro greco, la voce di un Sud arcaico, idealizzato, di chi prima guarda un ragazzo come sangue del proprio sangue e poi non lo riconosce più. E in un racconto siffatto ho sentito di poter attingere senza remore a una dimensione rurale che nessuno può negare esista ancora quaggiù, vivida e plausibilissima, e che stranamente sembra andare bene a tutti quando si tratta di vendere un prodotto, ma che offende e denigra in un articolo se contiguamente non si ricorda che il Sud è anche progresso, futuro, modernità. Ma figuriamoci: sono decenni che le due cose da noi convivono complici o stridenti: maciàre e wireless, friselle e microchip: è la nostra forza: perché vergognarsene?

Nessuno è esentato dal provare a chiamare le cose col proprio nome. Anche se può risultare indigesto. A Sud come a qualsiasi altra latitudine, s’intende.

“Il mio violentatore che fece uccidere Teresa, mia madre”

Quella di Teresa Buonocore è una vicenda quasi dimenticata, sepolta dagli anni, declassata a storia di serie b, come certe storie gigantesche di cui nessuno sembra accorgersi finché non si soffia sulla polvere. E a soffiare sulla polvere viene fuori il volto di una donna, Teresa, che nel 2008, a Portici, denunciò l’uomo che per anni aveva abusato di sua figlia Alessandra, a quel tempo tredicenne. Quell’uomo, Enrico Perillo, fu condannato a 15 anni di carcere e per vendetta, incaricò due giovani sicari di uccidere Teresa, 51 anni, raggiunta da 4 colpi di pistola mentre andava al lavoro. Era il 20 settembre 2010, Teresa lasciò due figlie e il ricordo di una donna che non aveva paura. Oggi, quella bambina che andò in un tribunale a testimoniare con coraggio, è una donna di 23 anni. Una donna che ha deciso di raccontare la sua storia e quella di una mamma che ha creduto nella giustizia, e che la giustizia non ha saputo proteggere.

Chi era Enrico Perillo?

Era il papà di due mie amichette gemelle. Loro si erano appena trasferite con i genitori in una nuova casa, io avevo 7 anni. Lui mi molestò la prima volta che andai a trovarle.

Come accadevano le violenze?

La prima violenza avvenne sul terrazzo. Poi in camera da letto.

E le sue figlie?

Lui mi prendeva e mi portava in camera sua, loro rimanevano zitte nella loro cameretta.

Non avevi paura di andare in quella casa?

Sì, infatti dopo la prima violenza ho detto che non ci volevo andare più e per un mese è stato così. Poi non so cosa succede nella testa di una bambina, pensavo di aver esagerato, le mie amiche mi mancavano. E sono tornata.

Perché non lo dicevi a tua mamma?

Mi aveva mostrato delle pistole nel cassetto. Mi aveva minacciata: se parli io ammazzo tua madre.

Siete andati anche in vacanza al mare insieme. Abusò di te anche lì?

Sì, la moglie la mattina andava a fare la spesa, noi bambine facevamo a gara per accompagnarla e non rimanere con lui.

Poi?

Per un po’ alle medie non vedo più le mie amiche. Finché un giorno chiama il consultorio a casa e chiede di presentarci lì per un’indagine sui figli di stranieri, mio padre vive a Santo Domingo.

Il motivo era un altro.

Restai sola con la psicologa, mi chiese se fosse successo qualcosa con Perillo. Piano piano, raccontai tutto.

Chi denunciò Perillo?

Ci dissero una telefonata anonima.

Come reagì tua mamma?

Mi chiese “Perché non me l’hai detto?”, ma non volle mai sapere i particolari, credo si sentisse molto in colpa per non aver capito, anche perché noi non avevamo un padre e quella famiglia sembrava perfetta.

Ti sei sentita finalmente liberata?

Ebbi un crollo, finii anche all’ospedale. Non volevo andare a scuola, mi vergognavo. Andai da uno psicologo.

La moglie di Perillo?

Non c’era mai quando accadevano le violenze, ma non metterei la mano sul fuoco sul fatto che non sospettasse.

Al processo per gli abusi ha testimoniato anche un’altra ragazzina.

Sì, anche lei veniva abusata.

Perillo venne condannato a 15 anni, ma lui era pregiudicato, già ai domiciliari perché avevano trovato un vero e proprio arsenale in casa sua.

Sì. In realtà scoprimmo che da giovane aveva avuto anche una condanna a 15 anni per omicidio.

Quindi fammi capire: aveva precedenti per omicidio, due per detenzione illecita di armi, stava scontando 3 anni e 4 mesi sempre per le armi, si aggiungeva una condanna per abusi su minori di 15 anni, ma lo lasciarono ai domiciliari?

Sì, assurdo. E mentre aspettavamo l’appello fu incendiata la porta della nostra casa.

Poi fece un passo falso.

Sì, ai domiciliari violò il divieto di incontro con le figlie. Ma prima di essere arrestato, fu ricoverato per sospetto calcolo renale.

La moglie era medico, ricordiamolo.

Sì, lo portò lei in ospedale. Ci rimase un mese poi andò in carcere.

Un calcolo resistente. Come fece a pianificare l’omicidio di tua mamma?

Lo fece mentre era in ospedale, dove avrebbe anche consegnato l’arma a uno dei due killer, Amendola.

Qualche mese dopo, il 20 settembre 2010, tua mamma viene ammazzata.

Io e mia sorella quel giorno eravamo a scuola. Fui portata a casa di mia zia, quella sera mi disse che mamma era stata uccisa, mi fece il nome dei due killer, Avolio e Amendola. Io la notte mi svegliai ricordando che uno dei due nomi – Amendola – lo conoscevo, era un amico di Perillo. Capii tutto.

Hai avuto sensi di colpa?

Tantissimi. Anche perché mia mamma si è dedicata molto a me dopo le violenze e ha forse trascurato un po’ mia sorella. Lei ha sofferto anche più di me, aveva rabbia.

Tu e tua sorella siete state risarcite?

No, Perillo si è liberato di tutti i suoi beni. Non li hanno congelati e grazie a un notaio che è andato a trovarlo in carcere, ha ceduto tutto ai parenti.

Siete state affidate a vostra zia Pina.

È stata meravigliosa. E sapeva che sua sorella – mia mamma – era speciale, ogni tanto mi diceva che non si sentiva alla sua altezza.

Non ci sono uomini nella vostra famiglia.

No, mio nonno era morto, mia zia non ha un compagno, mio padre esiste ma è un estraneo, ci siamo fatte forza noi donne.

Chi vi è stato vicino?

Il governatore De Luca, che all’epoca era il sindaco di Salerno. Ci ha dato una casa a Salerno sul lungomare e un lavoro a mia zia. Non l’ha mai pubblicizzato.

E poi un anno fa avete ricevuto una telefonata inattesa.

Sì, del giudice Carlo Spagna, colui che mi aveva fatto le domande al processo e aveva condannato Perillo all’ergastolo. Ha chiesto di poterci vedere.

Quanti anni erano passati?

Nove.

Che ti ha detto?

Che voleva scrivere un libro sulla nostra storia, ma mi voleva chiedere il permesso. Io ho detto sì e poi lui mi ha regalato la prima copia (“Teresa B.” ndr).

Te lo ha dedicato.

Sì, ci siamo visti più volte. Dice che per lui sono una figlia. È la prima figura maschile di riferimento per me.

I proventi della vendita andranno a te e tua sorella.

Ci ha detto che in qualche modo dobbiamo essere risarcite.

Cosa provate tu e tua sorella per l’assassino di vostra mamma?

Niente. Mia zia ci ha insegnato a non odiare.

L’ultimo ricordo di tua mamma?

Lei che stava per uscire quella mattina in cui l’hanno uccisa e sulla soglia, sorridente, dice a mia nonna “Mi raccomando, a pranzo fa’ i bastoncini di pesce alle ragazze”. Un ricordo piccolo, ma così nitido.

Sanzioni, ma non verso Lukashenko

Dal 9 agosto scorso, non hanno mancato un appuntamento. In special modo il sabato, tocca alle donne: oggi sui calendari bielorussi si cerchierà di rosso il 56° giorno in cui, imperterriti, senza temere né manganelli né manette, né divise né passamontagna delle forze dell’ordine, i ragazzi di Minsk torneranno ad occupare le strade per protestare contro Lukashenko, il presidente al potere dal 1994.

“Solo i codardi picchiano le donne!” è lo slogan che gli uomini urlano agli Omon, la polizia antisommossa, quando le ragazze bielorusse, sollevate per gambe e braccia, vengono trascinate prima nei blindati e poi in cella. Non si conosce la cifra precisa delle donne rinchiuse nelle prigioni di Lukashenko, ma le ong parlano di numeri record. Secondo il gruppo Viasna, sarebbero centinaia e centinaia nelle maggiori città del Paese. Da lodare è il coraggio delle donne di Minsk che “hanno giocato un enorme ruolo nelle manifestazioni per una vita libera dalla corruzione: io le ammiro”. Gli omaggi sono arrivati anche dal capo di Stato donna più potente dell’Unione: Angela Merkel. Come ha fatto già una settimana fa con l’oppositore di Mosca, Aleksey Navalny nella clinica Charitedi Berlino, la cancelliera ha annunciato ieri, durante un incontro al Bundestag, che incontrerà martedì prossimo anche Svetlana Tikhanovskaya: lei stessa ha confermato che arriverà a Berlino tra due giorni.

Sanzioni ai responsabili dei brogli elettorali e delle violenze esercitate ripetutamente sui manifestanti: l’Europa ha finalmente stilato la lista nera dei colpevoli del regime, dichiarati “persona non grata” all’unisono anche da Gran Bretagna e Tesoro Usa, secondo cui “le aspirazioni democratiche del popolo a scegliere i propri dirigenti si stanno scontrando contro l’oppressione”. Diventano noti – dopo la pubblicazione in Gazzetta ufficiale – i 40 nomi degli uomini vicini a Lukashenko – ma lui non c’è – tra cui svetta il ministro dell’Interno Juri Karaeu, sottoposti a misure punitive: a tutti sarà vietato viaggiare per l’Unione, dove i loro beni sono stati congelati.

Ieri intanto senza una spiegazione ufficiale, è stato negato l’imbarco da Fiumicino a Laura Boldrini, Lia Quartapelle, Emanuele Fiano, che avrebbero voluto raggiungere Minsk. Agli esponenti del Pd non è stata fornita alcuna giustificazione, resta l’impressione che il regime non gradisca osservatori stranieri nel momento in cui alza il livello della sua repressione. Sono invece riusciti a prendere l’aereo per la capitale bielorussa Andrea Orlando e Barbara Pollastrini.

Ue, chiacchiere e distintivo Erdogan non si intimorisce

Come previsto, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan anziché ringraziare i leader dell’Unione europea per la loro benevolenza (seppur obtorto collo e per questioni commerciali) ha reagito alle conclusioni della riunione straordinaria di Bruxelles ribadendo di volere procedere nella direzione intrapresa. Erdogan, appreso l’esito ‘morbido’ dell’incontro Ue nei confronti della Turchia, non ha dunque cambiato idea bensì ha ripreso una sua dichiarazione riportata anche nella lettera inviata ai leader europei : “Ci troviamo in questa situazione non per colpa della Turchia, ma perché Grecia e Cipro sud si comportano come se non esistesse la parte turca di Cipro”.

L’iperattività in ambito estero è diventata centrale nell’agenda del Sultano già da anni. La riunione straordinaria della Ue era stata indetta principalmente per decidere come reagire alle violazioni dei diritti di esplorazione della piattaforma continentale (sottomarina) greca e cipriota da parte delle navi-trivella di Ankara in cerca di idrocarburi. Le esplorazioni illegali, attualmente sospese per la manutenzione ordinaria delle navi, lo scorso mese avevano alzato al massimo la tensione tra Grecia e Turchia tanto da richiedere il meeting fuori programma di Bruxelles. Che però ha partorito un topolino.

I leader dell’Unione hanno infatti deciso di non imporre sanzioni, come ventilato prima del loro incontro, ma solo di “avvisare” la Turchia affinchè si astenga dal continuare a spadroneggiare nel Mediterraneo dell’Est e incoraggiare allo stesso tempo il dialogo tra i contendenti, Cipro compreso. Il pressing nei confronti della Ue e del nostro paese su questo tema è stato fatto ieri anche dal ministro degli Esteri, Mevlut Cavusoglu in visita di Stato alla Farnesina. Il capo della diplomazia turca ha detto nel colloquio avuto con il ministro degli Esteri Luigi Di Maio che “Grecia e Cipro tengono in ostaggio l’Unione europea per quanto riguarda i rapporti con la Turchia. Se l’Ue vuole diventare un’istituzione affidabile deve dire ai suoi Paesi membri quando hanno torto, ma abbiamo visto che non è possibile”.

Ma Ankara è finita sotto la lente di ingrandimento della Ue anche per la forte presa di posizione a favore dell’Azerbaijan nel conflitto in corso da una settimana nel Nagorno Karabakh – l’enclave armena che si era proclamata repubblica indipendente nel 1988 – dopo un’instabile pace firmata nel 1994. Il Consiglio europeo ha chiesto la cessazione immediata delle ostilità ed espresso il proprio sostegno ai copresidenti del gruppo di Minsk dell’Osce e chiesto all’alto rappresentante Borrel di esaminare la possibilità di un ulteriore sostegno dell’Ue al processo di risoluzione. Anche sul versante caucasico però Erdogan ha tirato uno schiaffo ben assestato all’Unione, affermando che il Gruppo di Minsk – creato nel 1992 allo scopo di incoraggiare una soluzione negoziata e composto da Stati Uniti, Russia e Francia – “non è titolato per chiedere la tregua nel Nagorno Karabakh”. In realtà il Sultano non riconosce l’autorevolezza del Gruppo di Minsk a causa della Francia, l’unico paese dell’Unione Europea che fa parte del gruppo. Da mesi Parigi e Ankara si accusano a vicenda per la Libia, essendo entrambe su fronti opposti: la Francia al fianco del generale Haftar, la Turchia sponsor del premier dimissionario Sarraj. Per questa ragione la Francia si è schierata con Atene mandando navi militari a scortare le navi greche durante le esplorazioni delle navi-trivella turche. La dimostrazione che Erdogan snobba la Ue e i suoi moniti tutti teorici è il fatto che abbia mandato il suo ministro degli Esteri a incontrare il suo omologo russo, Sergey Lavrov per discutere del nuovo conflitto, essendo Mosca stretta alleata dell’Armenia. La Turchia ormai considera come unico interlocutore la Russia. Ankara si mostra spavalda con la Ue, ma tenta di non arrivare ai ferri corti con Putin.

“Date la colpa allo Stato”: la giornalista si dà fuoco

“Ti chiedo di incolpare la Federazione Russa per la mia morte”. Questo l’ultimo messaggio su Facebook della giornalista Irina Slavina, che ha perso la vita ieri dopo essersi data fuoco davanti alla sede del ministero degli Interni di Nizhniy Novgorod, la città più importante della regione del Volga. Secondo i media locali, la polizia giovedì ha perquisito il suo appartamento alla ricerca di indizi della sua adesione al gruppo pro-democrazia Open Russia, sequestrandole pc e hard disk. Si tratta dell’organizzazione per i diritti umani fondata nel 2001 dall’oligarca in esilio Mikhail Khodorkovsky e classificata come indesiderata dal servizio federale di sicurezza dei media: il sito web è stato oscurato in Russia. È emerso un video – non ancora verificato – dell’estremo gesto di Irina, in cui si vedrebbero un uomo e una donna correrle in soccorso per spegnere le fiamme e lei che li respinge prima di cadere a terra e morire per le ustioni. Slavina era uno dei fondatori nonché il caporedattore del sito giornalistico KozaPress, il cui motto è “notizie e analisi” e “nessuna censura”. L’editore, l’anno scorso, era già stato multato per “mancanza di rispetto alle autorità” in uno dei suoi articoli. Il sito ieri apriva con la notizia della morte della cronista con una sua foto in primo piano. Nel pezzo, il racconto delle perquisizioni rilasciato da Irina stessa. “Hanno preso quello che hanno trovato – il mio laptop, il laptop di mia figlia, il computer, i telefoni – non solo il mio, ma anche quello di mio marito, un mucchio di taccuini su cui ho scarabocchiato durante le conferenze stampa. Sono rimasta senza mezzi per scrivere”, aveva detto Slavina.

Il giornale online ha confermato che le perquisizioni sono state effettuate nell’ambito di un’indagine contro l’uomo d’affari Mikhail Iosilevich. Secondo il quotidiano, in un’intervista a The Insider, la giornalista avrebbe detto che le forze di sicurezza le hanno intimato di consegnare materiale di propaganda dell’organizzazione Open Russia, che secondo loro finanzia le proteste contro lo sviluppo di un parco a Nizhny Novgorod. “È chiaro che non ho potuto in alcun modo aiutare le indagini, dal momento che non ho nulla a che fare con Open Russia”, avrebbe sottolineato Slavina. Sulla pagina Facebook del KozaPress campeggia lo status condiviso dalla pagina di Slavina con il suo ultimo messaggio. Questo succedeva ieri, il giorno in cui, un sondaggio del centro demoscopico Levana, svelava che un terzo dei russi (33%) crede che l’oppositore Alexei Navalny sia stato avvelenato, ma il 55% no.