Crisi editoria: Elkann si muove sul Sole

Per rispondere alla crisi innescata dalla pandemia, l’editoria accelera la ristrutturazione. Il gruppo Gedi che raggruppa Repubblica, Stampa e testate locali, controllato dalla Exor della famiglia Agnelli-Elkann, ha messo in vendita il Tirreno di Livorno e le Gazzette di Ferrara, Modena e Reggio Emilia. In corsa ci sarebbero Alberto Leonardis, che nel 2016 acquistò da Gedi Il Centro di Pescara, e il romano Portobello Group. Alla notizia, i giornalisti dei quattro quotidiani sono scesi in sciopero. L’operazione consentirebbe a Gedi di far cassa e di ridurre la propria quota di mercato per poter muovere su una preda più ambiziosa: Il Sole 24 Ore.

Il Sole non è in vendita, replica Confindustria. Ma i ben informati aggiungono “per ora”. I conti del quotidiano economico al 30 giugno si sono chiusi con una perdita di 7 milioni su ricavi in calo del 12,5% su base annua, con il patrimonio netto diminuito di 5,2 milioni a quota 31,4. Il gruppo ritiene verificato il presupposto della continuità aziendale e che “il nuovo piano 2020-23 post-Covid prevede ricavi consolidati in crescita” con un “progressivo miglioramento dei margini operativi” grazie al taglio dei costi, mentre il decreto Liquidità di aprile disapplica fino a fine anno le norme sulla riduzione obbligatoria del capitale sociale. Ma molti temono che la crisi del Covid debba ancora dispiegare appieno i suoi effetti: se le perdite a fine anno supereranno i 31 milioni, Il Sole nel 2021 sarà costretto a un nuovo aumento di capitale.

A quel punto Confindustria, azionista con il 61,5%, dovrà intervenire. Difficile però trovare tutte le risorse, dopo i 50 milioni versati a novembre 2017 nell’aumento per ripianare le perdite emerse al termine della gestione precedente. Nonostante la contrarietà della Giunta di viale dell’Astronomia, si aprirebbero così spazi a un nuovo azionista, inizialmente di minoranza, che potrebbe divenire partner industriale e pubblicitario. Due mesi fa il presidente degli industriali Carlo Bonomi ha incontrato Urbano Cairo, editore del Corriere. Un mese fa è stata invece la volta di John Elkann, presidente di Gedi. Ma alla partita del Sole è interessata anche una cordata di imprenditori che ha chiesto allo studio Borghesi di Milano di valutare il dossier. Voce in capitolo sul futuro del Sole ce l’ha anche Intesa Sanpaolo, che guida il pool di banche finanziatrici del quotidiano e che, dopo averne sostenuto la scalata a Rcs, ora è molto fredda verso Cairo.

A cercare una via d’uscita dalla crisi sono però tutti gli editori: a luglio sono state vendute solo 2,07 milioni di copie, -17% su base annua. Rcs ha avuto contatti con Google per l’iniziativa News Showcase sui pagamenti dei contenuti gestiti online dal motore di ricerca. Trovare nuovi ricavi non è facile, ma occorre voltare pagina.

Più lavoro e più benessere: 2 anni di sussidi in Norvegia

Maggior benessere e meno stress, ma non solo. Anche effetti positivi sul- l’occupazione. Sono i dati che emergono da un esperimento sul reddito di base realizzato dal governo finlandese negli ultimi due anni e appena concluso.

Anche se le prime politiche del genere risalgono agli anni Sessanta, i dati sono ancora pochi. Il progetto sul campo del Paese nordico dà un grande contributo all’evidenza quantitativa sul reddito universale, essendo il primo studio “controllato randomizzato” in materia. Le conclusioni? Un sussidio senza condizioni riesce ad avere molti effetti positivi, sia a livello personale che sociale.

Nello studio finlandese è stato selezionato un gruppo di 2mila disoccupati scelti a caso. È stato dato loro un pagamento senza condizioni di 560 euro al mese (più 330 euro in media di altre indennità). Un livello comunque molto basso rispetto ai redditi medi delle famiglie finlandesi. Tutti gli altri disoccupati hanno continuato a ricevere i sussidi standard e hanno funzionato da pietra di paragone (in gergo tecnico “gruppo di controllo”).

I risultati sono intriganti, come li definisce la società di consulenza McKinsey. La soddisfazione media di vita di chi percepisce il reddito universale è 7,3 su 10, rispetto al 6,8 dei disoccupati “normali”. Un balzo in alto della felicità, quantificabile come l’aggiunta al proprio reddito di una somma compresa fra 800 e 2.500 euro.

Con il reddito universale alla finlandese migliora la salute, scende lo stress, c’è meno rischio di depressione, tristezza e solitudine. Inoltre, ricevere una somma non condizionata alla ricerca di un lavoro (come invece avviene nei tradizionali sussidi di disoccupazione) aumenta la sicurezza di sé e la fiducia nel futuro, nelle istituzioni e negli altri.

Una dinamica non catturabile con l’analisi costi-benefici, perché il reddito di base innesca circoli virtuosi. Il primo è a livello individuale: serenità e sicurezza maggiori incoraggiano i percettori del reddito a cercare nuove opportunità. A loro volta queste attività rinforzano le emozioni positive.

Forse è anche per questo che il reddito universale in Finlandia ha portato a un (piccolo) aumento dell’occupazione. Niente effetto divano. Un duro colpo per chi sostiene che un sussidio senza condizioni riduce l’incentivo a lavorare. Viene così messa in dubbio l’intera teoria dietro i sussidi di disoccupazione, per la quale bisogna dimostrare continuamente la propria idoneità al sussidio e non si può rifiutare più di un certo numero di offerte di lavoro (funziona così anche il Reddito di cittadinanza in Italia).

Mentre i sussidi di disoccupazione rischiano di creare una burocrazia ipertrofica e opprimente e di esasperare il disoccupato, un meccanismo del genere non ha ragione di esistere con un sussidio incondizionato.

Anzi, le persone che nell’esperimento hanno ricevuto un reddito di base avevano più probabilità di trovare un lavoro rispetto agli altri. Certo, nei due anni dello studio sono avvenuti anche altri cambiamenti. Ma secondo i consulenti di McKinsey la struttura del sussidio (senza condizioni e di importo modesto) ha spinto i percettori a cercare e accettare lavori che forse non avrebbero scelto. Dunque, sembra quasi che il reddito universale possa favorire i meccanismi di mercato.

E questo può avvenire anche in maniera indiretta, attraverso il secondo circolo virtuoso innescato dal reddito di base. Un sussidio senza condizioni incoraggia la fiducia negli altri e nelle istituzioni, pietra d’angolo delle società ben funzionanti. E così fa funzionare meglio anche il mercato, se prendiamo per buona l’idea di Adam Smith secondo cui l’empatia ne è un ingranaggio fondamentale.

Ovviamente il reddito universale deve essere ben congegnato: bisogna decidere come deve interagire con la tassazione, la protezione sanitaria e altri sussidi. Ma lo studio finlandese è un esempio da seguire. E quantomeno ci mostra che, forse, nel “Sussidistan” può funzionare bene anche il mercato.

Giorgia reginetta di Catania, città di catene ai politici

Catania, melonizzata solo pochi mesi fa, abbraccia stamane la sua Giorgia che a sua volta abbraccia Matteo intento a spezzare le catene incatenandosi alla sua gente al grido di “libertà”. Per una serie di sfortunate circostanze in catene, per ora solo in senso figurato, è intanto finito il sindaco della città, Salvo Pogliese, a cui i giudici hanno rifilato questa estate una condanna di 4 anni e tre mesi per peculato.

Pogliese, golden boy di Fratelli d’Italia, era a un bivio: dimettersi o resistere. “Mica mi chiamo Francesco Schettino? Non abbandono la barca che affonda, non mi dimetto, voglio troppo bene a questa città che mi sta tributando a ogni ora del giorno segnali di affetto incredibili”. Ardimentoso e tenace, ancorché dimissionato dalla legge Severino e dunque fuori dal municipio, Pogliese aspetta che l’appello gli conceda l’innocenza che avanza e finalmente lo assolva. Catania, abituata a ben altre disgrazie, accetta di non avere il sindaco e Fratelli d’Italia di consolare il suo amato condannato, il suo portabandiera siciliano, il giovane di razza cresciuto nel Fronte della gioventù e che dopo una piccola fuitina con Forza Italia è tornato nella casa paterna, tra la fiamma ardente della Meloni.

Catania è dunque la perfetta città delle catene. La location dove il centrodestra, riunito nel nome di Matteo, si stringe e fa insieme forza per spezzarle, e liberare il capo leghista dall’ “ingiusto” processo per la vicenda della nave Gregoretti. “Processate anche me” è scritto e stampato sulle magliette dei fan chiamati a raccolta in quella che però non deve apparire come un’adunata anti giudici: “Noi non facciamo pressioni al tribunale, non ci permettiamo”, spiega Salvini. Lui non accerchia il palazzo ma promuove l’isola: “Siamo qui per parlare di cultura, di arte, di bellezza”. Matteo stamane si presenterà alla corte ma non profferirà parola: “Non parlerò”. Chinerà il capo e dimostrerà la sua innocenza col silenzio. Una Giovanna d’Arco in pantaloni, new edition di questa emergente strategia del sorriso, “contro la cattiveria di coloro che si definiscono buoni”. Se i buoni sono i cattivi, lui – l’odiatore – è pronto a cambiare seggiola e mostrarsi all’Italia col volto rinnovato, più piacione, più comprensivo, più in linea col lifestyle che ha fatto grande chi solo ieri sembrava piccolo come Giuseppe Conte.

Tre giorni, nove animati dibattiti, molta identità e cultura (Borgonzoni: non ce l’abbiamo con Netflix ma con ciò che vorrebbe farla diventare il ministro Franceschini, una piattaforma dell’élite) una pizza per la fanteria leghista (in verità duecento pizze per duecento giovani leghisti isolani, la next generation del movimento) e una cena per i grandi (500 invitati ieri sera a consegnare nelle mani di Salvini la testimonianza d’affetto e anche di gratitudine).

In effetti qualche problema di assembramento che però la nuova e severa organizzazione gestirà con efficienza.

La rinuncia più grande e più sofferta del capo, quella dei selfie post comizio, la lunga fila dei flash sudaticci ma emozionanti, si aggiunge alla perfetta mascherinizzazione in omaggio al rito anti Covid.

La Lega sta cambiando, invece di urlare sibila e in terra di Sicilia, dove l’aspetta l’assonnato e pingue ceto medio politico rimasto senza padrini, la prova è quella di federare gli autonomisti, renderli satelliti al Carroccio. Operazione che stenta ad andare in porto per l’opposizione del governatore Nello Musumeci.

Salvini ha bisogno di garantirsi l’unità del suo gruppo (il veneto Zaia, che dà i maggiori pensieri, ha dato forfait alla trasferta siciliana) e per difendere la leadership del centrodestra. E non è cosa semplice anche perché l’insidia della Meloni è quotidiana e non smette di dare ansia.

Cosicché oggi lei è qua, incatenata insieme a lui, ma si sa che ha la testa di là.

Pd e associazioni in piazza, Matteo in tribunale e poi al comizio

Una città blindata per quella che, con ogni probabilità, sarà solo un’udienza interlocutoria in cui non si deciderà sul rinvio a giudizio di Matteo Salvini per il caso Gregoretti. Oggi in campo sono schierate 500 persone tra polizia, carabinieri, Guardia di finanza e vigili urbani. Obiettivo: presidiare l’area del porto e la cosiddetta zona rossa, ossia il perimetro del palazzo di giustizia di piazza Giovanni Verga. Il tribunale è off-limit da venerdì notte, per un’udienza che dovrebbe svolgersi a porte chiuse.

Salvini si presenterà per l’udienza intorno alle 10. Stesso orario in cui in piazza Trento, meno di trecento metri dal tribunale, è stata organizzata una manifestazione di protesta. In prima linea la rete regionale “Mai con Salvini”, che racchiude associazioni anti-razziste, centri sociali, movimento No Mous, rete No Ponte e i Cobas. All’appuntamento ci saranno anche il Pd, Liberi e Uguali, la Cgil e alcune rappresentanze delle Ong. Assente, invece, Italia Viva.

A quanto appreso dal Fatto, la questura ha autorizzato il concentramento in piazza e, in base al numero di persone, in un spazio di circa 150 metri in direzione tribunale. All’incrocio con via Giuffrida ci sarà però un massiccio cordone di protezione delle forze dell’ordine per blindare l’ingresso in piazza. Terminata l’udienza, Salvini tornerà al porto per un comizio a chiusura dei tre giorni della Lega a Catania. Insieme a lui sono attesi Giorgia Meloni e Antonio Tajani.

Salvini come Schettino: abbandonò la Gregoretti

Sara M. di Roma lo ha fatto a notte fonda, alle 3 passate, probabilmente dopo la discoteca. Nottambulo o mattiniero per lavoro, anche Roberto A. da Sant’Antioco, in Sardegna, ha firmato prima che facesse giorno, come Vincenzo M. di Livorno o Giorgia P. di Vico del Gargano in provincia di Foggia: è l’esercito dei 30mila fan che hanno trovato un minuto di tempo – o anche meno – per sottoscrivere l’appello #iostoconsalvini e far sentire la loro vicinanza al leader della Lega. Che stamattina, dopo aver fatto presidiare Catania per due giorni dallo stato maggiore del Carroccio, con gli alleati di centrodestra Giorgia Meloni e Antonio Tajani a dare man forte, è atteso in Tribunale (dove ha già detto che però non parlerà) per l’udienza del procedimento in cui è accusato di sequestro aggravato di persona per la gestione dei migranti della nave Gregoretti. La prima vera grana giudiziaria del leader leghista, che aveva scampato il processo per i fatti della nave Diciotti risalenti a due anni fa, solo grazie all’immunità accordata dal Senato quando era alleato con i 5Stelle.

Ora Salvini dovrà invece difendersi in tribunale dell’accusa di aver abusato delle sue funzioni di ministro dell’Interno, sia per i migranti della Gregoretti sia di quelli dell’Open Arms: due casi politici della calda estate del 2019, inframmezzati dallo showdown del governo gialloverde dopo i fasti del Papeete. In entrambe le circostanze il Senato ha dato via libera (per la nave Gregoretti all’inizio di quest’anno, per Open Arms a luglio) all’autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini. Che anche per il caso della Gregoretti dice di aver fiducia nella magistratura, ma senza crederci troppo: nelle piazze ha definito il procedimento a suo carico “sovietico e di stampo ideologico”. E persino nella memoria difensiva acquisita agli atti ha fatto riferimento alle intercettazioni di Luca Palamara&C. da cui, a suo dire, si evincerebbe se non la chiara volontà di certi giudici di farlo fuori, almeno un pregiudizio nei suoi confronti. Nel dubbio, ieri Salvini ha chiarito che non interverrà in aula: “Non parlerò al Gup. abbiamo salvato vite, non si è fatto male nessuno e non si è ferito nessuno, abbiamo dato l’onore all’Italia, rispettato le leggi e svegliato l’Europa”.

L’accusa. Il reato che gli viene contestato in realtà è quello di sequestro di persona aggravato dall’abuso di potere e dall’essere stato commesso anche in danno di minorenni: non consentendo al Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione (articolazione del ministero dell’Interno) di esitare tempestivamente la richiesta di P.O.S. (place of safety, porto sicuro) presentata formalmente da I.M.R.C.C. (Italian Maritime Rescue Coordination Centre) il 27 luglio 2019, avrebbe di fatto bloccato la procedura di sbarco dei 131 migranti trattenuti a bordo fino al 31 dello stesso mese. Di qui l’accusa di uno “strumentale e illegittimo utilizzo di una potestà amministrativa” da parte dell’allora responsabile del Viminale.

Per il Tribunale dei ministri di Catania, fin dal 27 luglio vi le erano condizioni oggettive per far sbarcare i migranti. Furono invece costretti a restare a bordo, in condizioni precarie e note a Salvini, su una nave del tutto inadatta a ospitare un numero così elevato di persone. Dalle indagini era infatti emerso che non c’erano “ragioni tecniche” ostative alle autorizzazioni allo sbarco: l’intera macchina organizzativa era da subito pronta a procedere ai controlli sanitari (in parte già effettuati a bordo), all’identificazione e al trasporto dei migranti all’hotspot di prima accoglienza. Il veto di Salvini sarebbe stato dunque illegittimo e arbitrario, anche per quel che riguarda i minori, fatti sbarcare il 29 non spontaneamente, ma solo a seguito di formale richiesta del Tribunale dei minorenni di Catania.

La difesa. Salvini invece ha sempre sostenuto di aver agito secondo la legge. In vista dell’udienza preliminare che deciderà sul suo eventuale rinvio a giudizio, ha contestato l’interpretazione fatta dai magistrati delle norme internazionali che, a suo dire, non escludono che la nave Gregoretti potesse essere considerata come P.O.S., dal momento che i migranti non erano in pericolo di vita ed erano stati accuditi in maniera appropriata in vista della loro destinazione finale. In questo quadro, la loro permanenza a bordo sarebbe stata giustificata dal legittimo svolgimento di una fase interna al procedimento di accoglienza dei cittadini di Paesi terzi nell’ambito dell’Unione europea. A ogni buon conto il ritrovamento a bordo di un Gps – ossia un dispositivo di tracciamento in mare usato dagli scafisti – “imponeva massima cautela nello sbarco”. Un particolare non emerso dalle indagini dei magistrati e non esplicitato neppure nella memoria sottoposta da Salvini alla Giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato.

i rapporti con conte. In questo documento il leader della Lega, per tentare di assicurarsi l’immunità, aveva piuttosto enfatizzato la corresponsabilità degli altri membri dell’esecutivo gialloverde (nato all’inizio della legislatura grazie a un contratto di governo molto esplicito sulle politiche di contrasto all’immigrazione clandestina). Corresponsabilità esclusa invece dalla Presidenza del Consiglio, che in una nota di risposta ai magistrati aveva fatto mettere agli atti che tra il 25 e il 31 luglio del 2019 il caso della nave Gregoretti non era stato mai trattato nelle riunioni del Consiglio dei ministri. Il nodo della collegialità delle scelte era stato uno degli elementi più dibattuti nel corso dell’esame della domanda di autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini. Il presidente della Giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato, il forzista Maurizio Gasparri, aveva evocato il coinvolgimento del presidente del Consiglio Giuseppe Conte per rafforzare le ragioni dell’immunità da accordare a Salvini. Ma la sua relazione era stata bocciata solo per ragioni squisitamente elettorali. La Lega aveva operato perché il Senato concedesse l’autorizzazione a procedere a ridosso delle elezioni regionali in Emilia-Romagna, tentando di regalare a Salvini la carta vincente: quella della persecuzione da parte degli avversari, via magistratura, finalizzata alla sua eliminazione politica.

Ecco l’inganno dei collegi: il Pd vuole ancora indicare gli eletti

Al momento le posizioni sulla legge elettorale tra maggioranza e opposizione sono le più diverse. Il M5S vuole a ogni costo il ritorno delle preferenze (“Dobbiamo assolutamente reintrodurle” ha insistito ieri il presidente della Commissione Affari costituzionali Giuseppe Brescia), Italia Viva è d’accordo mentre il Pd dice no e propone i collegi uninominali come quelli per eleggere il Senato nella Prima Repubblica, con l’appoggio di LeU. Ma i due partiti di centrosinistra litigano sulla soglia di sbarramento: “Il 5% non è in discussione” sostiene Nicola Zingaretti mentre il deputato Federico Fornaro definisce la soglia “irragionevole”. Nel mezzo, le preferenze piacciono a molti tra cui il sindaco di Pesaro, Matteo Ricci, l’europarlamentare Pd, Elisabetta Gualmini, e la capogruppo di Forza Italia, Mariastella Gelmini, che al Festival delle Città di giovedì si sono detti d’accordo all’appello dei 10 costituzionalisti rilanciato dal Fatto. Nel centrodestra anche Fratelli d’Italia e la Lega non sono contrari alle preferenze ma si oppongono al sistema elettorale proporzionale e quindi non voteranno mai il “Brescellum” che arriverà in aula il 26 ottobre. Questo profluvio di posizioni diverse, anche all’interno della maggioranza, potrebbe portare all’ennesimo rinvio addirittura al 2021 perché da inizio novembre si apre la sessione di Bilancio. Nel frattempo Pd e M5S litigano sul modo per ridare scelte agli elettori: i grillini optano per le preferenze mentre i dem, per evitare l’aumento dei costi della campagna elettorale e la corruzione, propongono i collegi uninominali con base proporzionale sul modello del Senato della Prima Repubblica: nel primo caso deputati e senatori vengono eletti in base alle preferenze che ottengono nel proprio collegio, nel secondo in base alla somma dei voti di ogni partito a livello regionale. In questo modo i candidati dei piccoli e medi partiti nei collegi hanno possibilità di essere eletti anche in caso di sconfitta nel proprio collegio ma soprattutto, con questo sistema i partiti avrebbero comunque il potere di decidere i propri candidati in lista senza eliminare il fenomeno dei paracadutati.

“Basta nominati: ora gli elettori devono scegliere i parlamentari”

Dell’esito del referendum il professor Ugo De Siervo, presidente emerito della Corte costituzionale, è soddisfatto: “Anche se adesso chi era contrario cerca di sminuirne il risultato, non è certo frequente che un referendum ottenga il 70 per cento dei voti a favore. Significa che c’è forte sintonia tra il legislatore e i cittadini”. Ora, però, voltiamo pagina.

Professore, lei è uno dei giuristi che ha sottoscritto l’appello per la nuova legge. Perché chiedete di tornare a poter scegliere i parlamentari?

Il dibattito sul sistema elettorale è stato ridotto da tempo al solo tema della governabilità, sostenendo l’interesse degli elettori ad avere un quadro il più possibile chiaro. Il cittadino-elettore viene chiamato a indicare quale sarà la maggioranza, senza però poter scegliere davvero i suoi rappresentanti. Si è così dimenticato che la funzione primaria della legge elettorale è quella di eleggere i parlamentari: il voto serve ai cittadini per scegliere i propri rappresentanti e solo in seconda battuta, sulla base delle alleanze, serve a formare il governo.

In questa campagna elettorale si è finalmente tornati a parlare della rappresentanza come un principio da valorizzare.

E con quanta enfasi se n’è parlato! Ma l’autorevolezza delle classi dirigenti non esiste se gli eletti al Parlamento sono degli sconosciuti scelti solo dai vertici dei partiti. Bisogna quindi riuscire a garantire meccanismi che riducano i poteri dei capi delle forze politiche nella elezione di deputati e senatori, già da loro selezionati nel momento delle candidature. Altrimenti non meravigliamoci se i parlamentari sono persone di scarsa autorevolezza e ridotta autonomia, in prevalenza attenti solo a rispettare le indicazioni dei capi.

Il Brescellum, attualmente incardinato alla Camera, è su base proporzionale. Ma c’è chi vorrebbe il maggioritario: lei che ne pensa?

Personalmente sono favorevole al proporzionale con la reintroduzione di una preferenza, non di più. Bisogna evitare che le preferenze diventino uno strumento clientelare, ma bisogna al contempo garantire la possibilità dell’elettore di scegliere tra i candidati. Questo dovrebbe stimolare coloro che vogliono essere eletti a essere più autonomi e autorevoli.

Secondo il professor Azzariti, una strada potrebbe essere il collegio uninominale con il proporzionale, sistema con cui si è votato per il Senato fino al ’92.

Il sistema ha qualche controindicazione, come tutti i sistemi elettorali, meccanismi molto complicati. L’importante è che gli elettori non si vedano imporre parlamentari sconosciuti. Quindi, in questo senso, va bene anche il maggioritario con i collegi uninominali. Tutti parlano, a volte con troppa retorica, della Costituente. Ebbene: per eleggere l’Assemblea costituente c’era un sistema proporzionale puro, con preferenze. Ma come hanno fatto i partiti a garantire l’elezione di esperti e vertici politici ? Con il collegio unico nazionale. Cioè una piccola, piccolissima lista bloccata nazionale con pochi candidati, che vengono eletti secondo l’ordine di graduatoria. Si può pensare a una soluzione del genere ma, beninteso, con quelle stesse minuscole proporzioni.

E lo sbarramento al 5%? Secondo alcuni è troppo alto, essendosi già alzata la soglia implicita con la riduzione del numero dei parlamentari.

Il problema è garantire che la soglia sia calcolata su scala nazionale, e non nei singoli collegi, magari anche dando un’interpretazione adeguata alla Costituzione.

Sarà la volta buona per una legge elettorale che duri più di un gatto in tangenziale o di un sondaggio?

Finché il potere legislativo in materia elettorale appartiene alla legislazione ordinaria, non si può garantire la stabilità della legislazione. Ma costituzionalizzare la legge elettorale ha delle controindicazioni. Diciamo che le forze politiche potrebbero sottoscrivere, sul tema, un solenne patto di stabilità.

Dopo Di Battista, tocca a Casaleggio: “Stop servizi web”

Mezzo M5S gli urla contro, ma “l’eretico” insiste. Ad Accordi&Disaccordi Alessandro Di Battista indica il burrone: “L’alleanza strutturale con il Pd indebolisce il Movimento, riporterebbe il bipolarismo che è nemico del cambiamento, e poi esiste un mondo fuori dei Palazzi”. E avverte: “Se passasse una linea diversa dalla mia farei altro”, cioè fuori dal M5S (“ma niente scissioni, io sono del Movimento”). Invece Davide Casaleggio, il patron di Rousseau che lo voleva e lo vorrebbe capo politico, pensa alla sua guerra con i big, e dal blog delle Stelle spara forte: “Con enorme dispiacere siamo costretti a procedere alla sospensione di alcuni servizi e all’annullamento di attività e iniziative programmate per questo trimestre”.

Pensieri e parole da un giorno tossico per il Movimento. Con l’erede di Gianroberto che dà corpo alla minaccia contenuta nella lettera agli iscritti di una ventina giorni fa, quella di fermare i motori della sua creatura per i mancati versamenti degli eletti alla piattaforma. “In assenza delle entrate previste non risultano ovviamente più sostenibili le spese” verga Casaleggio. E le famigerate fonti del M5S rispondono col sarcasmo: “Stop ai servizi? Ne sentiremo la mancanza”. Ostentano indifferenza di fronte al Casaleggio che annuncia la chiusura di una parte degli uffici e lo stop a vari servizi: dalla gestione delle liste elettorali (un siluro con vista sulle Comunali del 2021), locali al portale Lex Iscritti fino allo slittamento del Villaggio Rousseau previsto il 4 ottobre.

Un rosario di avvertimenti che un paio di big leggono così: “Vuole crearci problemi operativi”. Nel dettaglio complicare, e parecchio, la convocazione delle assemblee regionali e provinciali con cui dovrebbero prendere il via gli Stati generali, tra il 15 e il 18 ottobre: perché l’elenco degli iscritti lo ha lui, Casaleggio. L’obiettivo del reggente Vito Crimi e del “caminetto” del M5S sarebbe tenere le riunioni e poi, a stretto giro, votare sul web la scelta tra un nuovo capo politico o di una segreteria, formula per cui spingono i maggiorenti e il Garante, Beppe Grillo. Ma di mezzo ci sono Casaleggio e Di Battista. Il dardo lanciato due giorni fa da Piazzapulita (“Così facendo diventiamo l’Udeur”) vale all’ex deputato la replica di diversi grillini, tra cui Stefano Patuanelli: “Faccio difficoltà a comprendere perché voglia di indebolire il M5S, il governo e il premier”. Mentre Luigi Di Maio è feroce: “Non dobbiamo pensare al passato”. Ma ieri sera in tv Di Battista non ha arretrato: “Non sono contro questo governo, Conte deve andare avanti, ma dico no a un’alleanza organica con i dem. Ci indebolirebbe, ed è ciò che vuole il Pd. Sono entrato nel M5S per scardinare il bipolarismo e la logica dell’alternanza, non per scegliere il meno peggio. Si va verso una legge elettorale proporzionale, va rafforzata l’identità”. L’ex deputato giura di averlo detto anche a Grillo: “Ci siamo sentiti recentemente”. E a Scanzi che gli rinfaccia di essersi tirato indietro rispetto ai 5Stelle “che si sporcano le mani”, rivela: “Quando si è fatto il governo con il Pd mi dissero che se io fossi entrato nel governo allora avrebbero fatto entrare anche la Boschi. Rimasi fuori, e Di Maio mi disse che questa scelta mi faceva onore”. Poi ricorda che il Pd “denigra Virginia Raggi e Lucia Azzolina, ma noi dovremmo difenderle”. E aggiunge: “Chiedo da oltre un anno un momento di confronto, un congresso”. E se passasse la linea governista pro Pd? “Posso anche fare altro. Ma niente scissioni, io sono del M5S”. Un Movimento che è tutto una trincea.

Il test giallorosa nei ballottaggi. Urne da Pomigliano a Corsico

Al primo turno il centrosinistra aveva vinto di misura: 3 a 2, ottenendo le riconferme dei propri sindaci a Trani, Mantova e Trento contro Venezia e Macerata al centrodestra. Ma era solo il primo tempo. Domenica e lunedì si saprà come finirà la partita di buona parte dei 18 capoluoghi di provincia al voto in questa tornata elettorale (in tutto sono 54 città): 9 di questi che andranno al ballottaggio. Dopo i 6 in cui è già stato eletto un sindaco (c’è anche Fermo conquistata dal civico Paolo Calcinaro), occhi puntati sulle sfide di Reggio Calabria, Matera, Andria e Arezzo. Nel capoluogo calabrese si sfidano il 37enne sindaco uscente sostenuto dal centrosinistra Giuseppe Falcomatà che dopo l’exploit del 2015 (ottenendo il 61%) ha quasi dimezzato i propri voti prendendo il 37% al primo turno contro il 34% dell’ex dirigente della città metropolitana Antonino Minicuci, scelto dalla Lega. Su Reggio, Matteo Salvini punta molto e una sconfitta del suo uomo sarebbe l’ennesima batosta del leader del Carroccio dopo i risultati non certo positivi delle Regionali. Sfida tra centrodestra e centrosinistra anche ad Arezzo dove il sindaco uscente Alessandro Ghinelli non è riuscito a farsi rieleggere al primo turno con il 47%: ora rischia il ribaltone dal centrosinistra del medico Luciano Ralli(35% al primo turno) appoggiato in campagna elettorale dal neo-governatore toscano Eugenio Giani. Sul risultato finale sarà decisivo il voto degli elettori dell’ex boschiano Marco Donati che al primo turno ha ottenuto un discreto 9% con la sua lista “Scelgo Arezzo” e non ha dato indicazioni di voto.

A Matera e Andriasi gioca tutto il M5S. Il capoluogo pugliese è il terreno dell’inedito scontro tra alleati di governo: si sfidano Giovanna Bruno per il centrosinistra che ieri ha chiuso la campagna elettorale con Nicola Zingaretti, Michele Emiliano e i ministri Giuseppe Provenzano e Francesco Boccia; dall’altra parte con l’avvocato Michele Coratella è sceso in campo direttamente Luigi Di Maio. Si parte dal 38-20% per il centrosinistra del primo turno. A Matera invece il M5S va all’assalto del centrodestra partendo dallo svantaggio iniziale: Domenico Bennardi ha strappato un 28% contro il 30% del leghista Rocco Luigi Sassone. Una spinta al grillino Bennardi potrebbe arrivare dagli elettori di centrosinistra visto che il candidato Pd Giovanni Schiuma, forte del suo 19%, ha invitato i suoi sostenitori a votare per il M5S perché il loro programma è “quello più vicino al nostro progetto di città”. Il centrodestra invece parte avanti a Lecco, Crotone e Chieti mentre il centrosinistra è in lieve vantaggio a Bolzano dove il sindaco Renzo Caramaschi parte dal 34% contro il 33% di Roberto Zanin. Ad Aosta invece si sfidano Gianni Nuti dell’Union Valdotaine contro Giovanni Girardini della lista civica “Reinassance Vallèe d’Aoste”.

I ballottaggi di domenica e lunedì saranno un test importante anche per l’alleanza giallorosa: dopo i due sindaci già portati a casa al primo turno – Massimo Isola a Faenza (Ravenna) e Vincenzo Falco a Caivano (Napoli) – restano le sfide importanti a Giugliano dove Nicola Pirozzi, che ha chiuso la campagna con Roberto Fico, parte indietro rispetto a Antonio Poziello (33-38%), sostenuto da liste civiche e Italia Viva. A Pomigliano d’Arco, la città natale di Luigi Di Maio, invece il papirologo sostenuto da Pd e M5S Gianluca Del Mastro ha un piccolo vantaggio rispetto alla vicesindaca uscente Elvira Romano (41-39%). Nei due comuni la chiusura della campagna è avvenuta senza comizi in piazza per l’aumento di contagi in Campania. Nelle ultime ore Pd e M5S hanno raggiunto l’accordo in altre tre città con appoggi esterni o apparentamenti. Sostegno ufficiale è arrivato a Casavatore (nel Napoletano) dove i grillini hanno deciso di appoggiare il sindaco Luigi Maglione mentre a Corsico (Milano), dove al primo turno Italia Viva correva con Forza Italia, il M5S sosterrà il Pd Stefano Ventura contro Filippo Errante. A Cascina, feudo di Susanna Ceccardi in provincia di Pisa, i giallorosa sperimenteranno l’apparentamento con il M5S Fabio Poli che appoggia Michelangelo Betti (Pd) contro il fedelissimo dell’ex sindaca leghista Leonardo Cosentini. Dopo l’alleanza, i renziani hanno lasciato la coalizione.

Libertà di scelta in salsa piemontese: Ru486 mai nei consultori e i “pro-vita” in ospedale

La questione, diciamolo, è squisitamente politica. Da un lato le linee d’indirizzo ministeriali che ad agosto sono state aggiornate, con l’ammissione finalmente dell’uso della pillola abortiva RU486 nei consultori, in day hospital e fino alla nona settimana di gravidanza; dall’altro le regioni, che possono decidere o meno di seguire le indicazioni del ministero. E infatti la Regione Piemonte, guidata dal forzista Alberto Cirio, ha emanato ieri una circolare alle Asl con cui si vieta la somministrazione del mifepristone nei consultori. Garantendo – si legge – “la piena libertà di scelta della donna”, si demanda al medico la valutazione dell’eventuale ricovero ospedaliero di tre o di un giorno (“Questa l’unica novità”, secondo Silvio Viale, responsabile del Servizio Unificato Ivg dell’Ospedale Sant’Anna). Non solo: “In attuazione della Legge 194” – prosegue la nota regionale – si prevede “l’attivazione di sportelli informativi all’interno degli ospedali piemontesi, consentita ad idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita”. La legge in realtà prevede che i colloqui avvengano nei consultori, prima che le donne entrino in ospedale. E poi, “a titolo esemplificativo”, vengono citati “il Progetto Gemma avviato da Movimento per la vita e Centri di aiuto alla vita”. “Nessuno distribuirà volantini pro vita all’ingresso degli ospedali”, sottolineano dalla Regione, e però gli esempi riportati troppo “laici” non ci sembrano. La questione, si diceva, è politica. Però nel nostro Paese esiste anche una condizione fattuale, che consente ai presidenti delle Regioni di emanare divieti trincerandosi dietro l’alibi della salute femminile. A differenza di quanto accade negli Stati in cui la RU486 viene somministrata da anni non solo negli ospedali (con le donne seguite telefonicamente nei giorni successivi), in Italia si è smesso di investire nei consultori molti anni fa. “Al momento – spiega al Fatto la ginecologa Elisabetta Canitano dell’Associazione Vita di donna – soltanto la Toscana, l’Emilia Romagna e il Veneto potrebbero seguire le linee ministeriali”. Nelle altre regioni, invece, i consultori sono privi di personale e di formazione adeguata. Non è un caso che nell’Umbria guidata dalla leghista Donatella Tesei, dove non è ancora stata cancellata la direttiva che prevede il ricovero di tre giorni, le donne stiano rivendicando soprattutto questo. Se allora la questione è politica e il ministero può limitarsi alle linee di indirizzo, la soluzione per allontanarci dal Medioevo e rispettare davvero la libertà di scelta della donna potrebbe essere quella di investire non solo sulla digitalizzazione dei consultori per rendere realistica una bella idea.