Salone del Libro, Piero Fassino rinviato a giudizio

Un affidamento irregolare per assegnare il Salone del Libro, tra il 2016 e il 2018, alla Lingotto fiere (società di Gl events). E una trattativa ideata per favorire l’ingresso (nel 2016) di Intesa San Paolo come socio unico, con un finanziamento di 500 mila euro. Con queste accuse – il reato è turbativa d’asta – l’ex sindaco di Torino, Piero Fassino, è stato rinviato a giudizio ieri dal gup di Torino, a conclusione dell’udienza preliminare sul procedimento che riguarda la gestione dell’evento letterario. Il gup, che ha rinviato a giudizio altre 16 persone, ha accolto la tesi del pm Gianfranco Colace, che ha puntato la lente sulla gestione della kermesse dal 2010. Tra i rinviati a giudizio ci sono anche Antonella Parigi, ex assessore regionale alla Cultura (turbativa d’asta) e l’ex presidente della fondazione, Giovanna Milella (falso).

“Ho sempre agito con assoluta correttezza e trasparenza – ha dichiarato Fassino – con l’unico obiettivo di evitare che il Salone del Libro potesse essere a rischio e Torino subisse un gravissimo danno”. Fassino, Milella e Parigi sono stati prosciolti dall’accusa relativa all’affidamento diretto della gestione 2015. Rinviato a giudizio anche l’ex presidente del Salone, Rolando Picchioni, che risponde anche di peculato: avrebbe usato in maniera illecita, tra il 2010 e il 2015, 800 mila euro di fondi pubblici. Picchioni nega. Hanno patteggiato a un anno e quattro mesi Regis Faure e Roberto Fantino, manager di Gl Events e di Lingotto Fiere. Per Massimiliano Montaruli e Niccolò Gregnanini (figlio dell’ex capo dei vigili del Comune di Torino, estraneo all’inchiesta), indagati per aver cancellato la memoria del computer di Picchioni durante una perquisizione (su ordine di quest’ultimo) è stata decisa la messa alla prova. Prosciolto Roberto Moisio, ex vicepresidente della Fondazione per il libro. Archiviato il caso per Michele Coppola, ex assessore regionale alla cultura.

Il card. Parolin: “Porta Pia fu un lutto”

“Un evento drammatico, ma al tempo stesso provvidenziale”. Così il Segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin, ha definito la Breccia di Porta Pia che 150 anni fa segnò la fine dello Stato Pontificio, e con essa del potere temporale dei Papi, e permise la proclamazione di Roma come capitale del neonato Regno d’Italia. L’intervento del porporato ha offerto il punto di vista della Santa Sede al convegno organizzato a Roma dallo Stato Maggiore dell’Esercito e dal Pontificio Comitato di scienze storiche per commemorare l’ingresso dei Bersaglieri il 20 settembre 1870. Riprendendo le parole di San Paolo VI che aveva definito la Breccia di Porta Pia “un evento provvidenziale”, il cardinale Parolin ha commentato: “Fu un evento realmente drammatico, fu un evento traumatico, un lutto, ma rappresentò la soglia d’inizio di una nuova epoca che liberò il papato da un impegno civile notevole e favorì il suo impegno per la Chiesa universale”. E ha aggiunto: “È successo esattamente il contrario. Invece di perderne, la missione papale ne acquistò tantissimo, sia nella sua missione universale, sia per quanto riguarda la libertà e l’indipendenza del Papa”. Il porporato ha, inoltre, sottolineato che “la creazione dello Stato della Città del Vaticano e delle zone extraterritoriali permise a Pio XII di mettere al riparo tante persone ricercate dal regime nazista e dalle truppe di occupazione della città di Roma”. Fu, infatti, “con la firma dei Patti Lateranensi che la dimensione pastorale del ministero del Papa è andata sempre più sviluppandosi, da Pio XII a Papa Francesco”. Con Bergoglio, ha aggiunto Parolin, “il problema è definitivamente superato”. Nella sua visita al Campidoglio, Francesco “non accennò neppure minimamente al 1870, non disse una parola sulla sovranità temporale del Papa, ma parlò della dimensione pastorale del ministero del successore di Pietro”.

Martina Rossi, il pg: “Sul tentativo di stupro la Corte non ha valutato indizi importanti”

La Procura generale di Firenze ha fatto ricorso in Cassazione contro l’assoluzione di Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi, i due aretini assolti dalla Corte di appello per il decesso di Martina Rossi, la studentessa genovese morta precipitando dal balcone della loro camera d’albergo il 3 agosto 2011 durante una vacanza a Maiorca (Spagna). Secondo il pg nella sentenza di appello ci sarebbero “indizi non valutati”, “motivazione contraddittoria”, “valutazione frazionata e priva di logica degli indizi”, “travisazione di circostanze decisive”, elementi che depongono a favore di un ricorso in Cassazione. I due giovani erano stati condannati in primo grado a 6 anni per tentata violenza di gruppo e morte come conseguenza di altro reato. Il tribunale stabilì che Martina era caduta mentre tentava di sfuggire a un tentativo di violenza sessuale. Il 10 giugno il verdetto è stato ribaltato in appello. Tra gli elementi sottovalutati, un video in cui Albertoni e Vanneschi esultano perché l’autopsia sul corpo della ragazza non aveva trovato segni evidenti di violenza a parte i traumi per la caduta dal balcone.

“La guerra non conviene, ha i giornali”

Consigli, suggerimenti. È così che “politici di centrodestra” e “persone ‘vicine’ ad Antonio Angelucci” chiamavano quei messaggi destinati all’assessore alla sanità della Regione Lazio, Alessio D’Amato, e finalizzati a “risolvere la faccenda Velletri”. Messaggi che sarebbero stati veicolati anche dopo il rifiuto della presunta mazzetta offerta, secondo i pm, dal deputato di Forza Italia. Sms, email e telefonate sono state allegate dall’attuale assessore alla Sanità del Lazio nel primo di due supplementi di denuncia presentati nella prima metà del 2018 a rinforzare la querela presentata all’indomani del 19 dicembre 2017. In quell’occasione, a quanto si legge nell’avviso di conclusione indagini che lo vede indagato dalla Procura di Roma per istigazione alla corruzione, il deputato di Forza Italia avrebbe offerto 250.000 euro (di cui 50.000 immediati) all’allora responsabile della cabina di regia della sanità del Lazio, pur di far restituire alla clinica San Raffaele Velletri la convenzione al servizio sanitario regionale che gli era stata revocata “a causa di gravi irregolarità”.

“Cerchiamo di sistemare la faccenda di Velletri. Gioverebbe a tutti. La guerra non conviene. Tonino c’ha i giornali”, è la sintesi delle “esortazioni” denunciate da D’Amato e arrivate, a sua detta, “per interposta persona”. L’attuale assessore, assistito dall’avvocato Alessandro Benedetti, ha poi presentato un secondo supplemento d’indagine, con allegati le inchieste pubblicate dal quotidiano Il Tempo, sempre nel corso del 2018, che a giudizio del denunciante rappresenterebbero “l’effetto” delle “esortazioni” non andate a buon fine. Articoli, viene specificato da più parti, “corretti sia nelle informazioni sia nel diritto di cronaca” ma che, metterebbero in luce la “linea editoriale ostile” nei confronti di D’Amato. Entrambi i supplementi di denuncia non riporterebbero, allo stato, ulteriori specifiche notizie di reato. Il deputato forzista, 76 anni, affiderà la propria difesa allo studio Coppi. Tramite i legali, una volta esaminati gli atti, chiederà di essere ascoltato dal pm Gennaro Varone e dall’aggiunto Paolo Ielo, titolari dell’indagine.

Intanto le schermaglie fra Angelucci e D’Amato proseguono tuttora. L’assessore ha escluso da pochi giorni dalla convenzione al servizio sanitario regionale la Rsa San Raffaele Rocca di Papa, sulla quale la Asl Roma 6 ha rilevato “gravi irregolarità” nella gestione dell’epidemia Covid.

Massoneria, mafia e Stato: trame di un’altra Trattativa

La massoneria trapanese ebbe un ruolo nelle trattative Stato-mafia a cavallo delle stragi del 1992 e 1993 ovviamente sotto l’ala di Matteo Messina Denaro, oggi 53 anni e latitante proprio dal ’93. È il convincimento della Procura di Caltanissetta anche conseguentemente alle parole di Paolo Bellini, “pentito” con un passato nell’estrema destra di Avanguardia nazionale, tanto da essere indagato per la strage di Bologna del 2 agosto 1980, ma anche mafioso al soldo della ’ndrangheta in Emilia. Il più pericoloso latitante italiano al mondo, Messina Denaro, è l’unico imputato in questo processo a Caltanissetta, la cui sentenza è attesa nelle prossime settimane.

Bellini ha parlato a lungo (il verbale è pubblicato integralmente in un pezzo di Rino Giacalone sul numero 128 del mensile S in uscita) di quanto gli riferì il boss palermitano Nino Gioè, morto suicida a Rebibbia nel luglio 1993 lasciando una lettera per invitare a chiedere conto proprio a Bellini dei contatti tra Cosa Nostra e “settori” dello Stato.

Ma qual era il legame tra Bellini e Gioè? Il pentito al pm Gabriele Paci risponde così: ci siamo incontrati “prima delle stragi di Falcone e Borsellino, parlavo con lui che avevo avuto la possibilità di recuperare i famosi quadri della Pinacoteca di Modena (…), che io avevo avuto l’incarico dal maresciallo, mi scusi, no Tempesta, dall’ispettore Procaccia di darmi da fare per recuperare queste cose”. Il riferimento è al furto delle opere d’arte della Pinacoteca di Modena nel 1992 attribuito alla mafia del Brenta di Felice Maniero. Roberto Tempesta, carabiniere del Nucleo tutela beni artistici, si rivolge a Bellini – secondo il racconto dell’ex estremista di destra – per recuperare il bottino, incontrandolo anche in giorni in cui Bellini era impegnato in omicidi per conto della ’ndrangheta. “Tempesta rappresenta il viatico per cui mi potevo infiltrare, cioè le opere d’arte, è uno del settore”, che poi “mi disse che ne avrebbe parlato con le persone adatte”, “i Ros me lo dice lui nel 1992”. E poi, in Emilia, l’incontro con qualcun altro ci fu: “Era allarmato che io scendessi in Sicilia e che si sarebbero fatti risentire, che lui era Aquila Selvaggia, non mi ha fatto vedere tesserini. Ho avuto l’ordine di non dire niente a nessuno”. Un’altra specie di trattativa, insomma, per usare Bellini da infiltrato per recuperare le opere d’arte di Modena. E a sua volta Bellini si rivolge al boss Gioè. Che gli consegna una busta con le foto dei quadri da consegnare ai carabinieri. Bellini non vede le foto ma un elenco con nomi di mafiosi detenuti da “aiutare”, usando le opere d’arte per creare un canale di dialogo tra Stato e Cosa Nostra: tra gli altri il cassiere della mafia Pippo Calò, Bernardo Brusca, Luciano Liggio e Giuseppe Gambino.

E si arriva a Trapani e alla massoneria, cioè all’ombra di Messina Denaro, che potrebbe aiutare nel recupero delle opere d’arte come avrebbe spiegato Nino Gioè. Ecco al riguardo le parole di Bellini: “Nino mi disse io ci posso arrivare con la massoneria di Trapani, noi siamo addentrati. Una discussione che è stata fatta quando iniziamo con la trattativa dei quadri”. Nell’ottobre 1992, però, qualcosa s’inceppa: Bellini e Gioè s’incontrano di nuovo e il primo gli dice che non c’è nulla da fare per i nomi dei boss della lista. Gioè diventa furente e afferma che sarà distrutta con un attentato la Torre di Pisa.

Nel frattempo la massoneria a Trapani ha continuato a protendere i propri tentacoli, come scritto sulla relazione della commissione Antimafia presieduta da Rosy Bindi, e Messina Denaro, secondo ultimissime indagini, sarebbe non solo capo incontrastato del Trapanese, ma avrebbe messo anche definitivamente le mani su Palermo attraverso il mandamento di Brancaccio (Filippo Guttadauro è il cognato di Messina Denaro) e creato due strutture parallele: “Nella prima ci sarebbero imprenditori apparentemente puliti attraverso i quali il boss intrattiene collegamenti con i politici e quindi controlla gli appalti; nell’altra vi è la manovalanza mafiosa”. L’inchiesta del pm Paci di Caltanissetta riconduce a Messina Denaro la strategia stragista cara a Totò Riina, ma anche la capacità di sposare ed emulare la “sommersione mafiosa” poi scelta da Bernardo Provenzano.

Film Commission, confermato l’avvocato che ignorò le anomalie

Da una parte i revisori contabili di Regione Lombardia, che nel luglio scorso invocano un’azione di responsabilità nei confronti dei vertici di Lombardia Film Commission (Organismo di vigilanza compreso), per non aver vigilato sulla compravendita del capannone di Cormano. Dall’altra, l’attuale presidente di Lfc, Alberto dell’Acqua (nominato dal Pirellone) che sempre a luglio riconferma l’incarico all’avvocato Alessio Gennari, cioè alla stessa persona che aveva gestito l’Odv nel triennio precedente.

È l’ennesimo colpo di scena nella vicenda Lfc, una spina sempre più sanguinante nel fianco del presidente Attilio Fontana e della Lega. Per comprendere la schizofrenia della riconferma di Gennari (estraneo all’inchiesta che ha portato agli arresti i tre commercialisti del Carroccio, Michele Scillieri, Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni), si deve tornare a maggio 2020, quando i tre revisori contabili del Pirellone iniziano a interessarsi dell’operazione Cormano. A maggio chiedono tutte le carte alla Fondazione e nella seduta del 24 luglio certificano l’irregolarità di quella compravendita che la Procura di Milano ritiene gonfiata, proponendo all’unanimità a Regione Lombardia di avviare un’azione di responsabilità nei confronti dei vertici di Lfc e dell’Odv, ovvero anche di Gennari. La sua colpa, secondo i revisori del Pirellone, sarebbe stata quella di non aver mai riscontrato alcuna anomalia nella compravendita orchestrata – sostengono i pm – da Di Rubba e Scillieri, al tempo, rispettivamente, presidente e consulente della Lfc. Nello stesso periodo, però, si muove anche Dall’Acqua, che promulga un avviso pubblico per trovare il “nuovo” Odv. Un bando velocissimo, aperto il 7 luglio e chiuso il 14. Vincitore, l’avvocato Alessio Gennari. Una scelta che ha suscitato le ire dell’assessore alla Cultura del Comune di Milano, socio della Lfc, Filippo del Corno, che ha apertamente contestato la nomina. A pesare sul nome di Gennari, anche le evidenze investigative (anche se lui non risulta indagato) che hanno dimostrato come l’avvocato e sua moglie già dal 2012 avessero svolto incarichi professionali retribuiti per Di Rubba. Rapporti economici non dichiarati al momento della prima nomina a capo dell’Odv della Fondazione.

Oltre a Del Corno, sono in molti anche al Pirellone a non aver digerito il nuovo incarico: “Con la rinomina di Gennari siamo davanti a un caso di forzatura tecnico-amministrativa e di inopportunità politica”, commenta la presidente della Commissione antimafia di Regione Lombardia, la grillina Monica Forte, “da una parte, infatti, la Regione dimentica il principio della rotazione degli incarichi, ancora più importante se riguarda organismi di vigilanza. Dall’altra riconferma colui che non aveva individuato alcuna incongruenza nell’operazione Cormano… Nella migliore delle ipotesi parliamo di una grave disattenzione da parte dei vertici della Regione. Martedì in Consiglio chiederò alla giunta di dare corso alle richieste dei suoi stessi revisori e avviare l’azione di responsabilità”. Intanto ieri il Tribunale del Riesame ha confermato gli arresti domiciliari per Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni e adesso la Procura potrebbe chiedere per i due il giudizio immediato.

Soldi agli uomini della Lega. Si indaga sulla scuola di Siri

La Procura di Milano sta indagando sulla “Scuola di Formazione Politica” ideata dal senatore leghista Armando Siri. Secondo quanto ricostruito dal Fatto, per ora non ci sono indagati né è stata formulata un’ipotesi di reato. I magistrati milanesi hanno però acquisito alcune segnalazioni di operazioni sospette redatte dall’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia. Segnalazioni che raccontano chi ha finanziato la scuola politica, e soprattutto come sono stati utilizzati i fondi raccolti.

La Scuola di Formazione Politica fa capo all’Associazione Spazio Pin, basata a Milano e fondata nel 2013 da Siri. Come ogni associazione può ricevere donazioni private, ma ciò che interessa ai magistrati è capire come sono state usate queste donazioni nel periodo in cui la Lega Nord aveva i conti bloccati a causa del decreto di sequestro emesso dal tribunale di Genova nel settembre del 2017. In sostanza, l’obiettivo è capire se i conti dell’associazione sono stati utilizzati per incassare finanziamenti che in realtà erano diretti alla Lega, ma che se fossero arrivati direttamente sui conti del partito sarebbero stati sequestrati.

Tra i donatori più generosi dell’Associazione Spazio Pin, come ha rivelato il programma Presadiretta, ci sono il gruppo Cremonini (18mila euro) e il gruppo Psc (15mila euro). La lista dei finanziatori però è più lunga. I documenti di Banca d’Italia analizzati dal Fatto raccontano che, solo prendendo in considerazione il periodo che va da gennaio a ottobre del 2018 ed escludendo i bonifici d’importo inferiore ai 1.000 euro, l’associazione ha ricevuto in totale 101.500 euro: quasi tutte donazioni effettuate da privati.

Tra questi, la cifra più alta (15mila euro) è stata sborsata da Sanità Futura, fondazione creata dall’Associazione Italiana Ospedalità Privata, che rappresenta oltre mezzo migliaio di cliniche in Italia. La fondazione Sanità Privata ha motivato il bonifico da 15mila euro come “erogazione liberale per borse di studio”.

Il bonifico da 2500 euro alla figlia e il denaro per i vestiti

Come detto, un’associazione è libera di ricevere soldi da chi vuole, il punto è come vengono spesi. Su questo i documenti di Banca d’Italia al vaglio dei magistrati milanesi mettono in evidenza alcune operazioni. Come ad esempio un bonifico da 2.500 euro incassato da Giulia Siri, figlia del senatore della Lega, e un altro bonifico da 5 mila euro accreditato sul conto di Marco Perini, rappresentante legale di Associazione Spazio Pin, ma anche collaboratore dell’ex sottosegretario alle Infrastrutture e consigliere economico di Salvini.

Se queste spese vengono segnalate senza considerazioni particolari, ce ne sono altre che i detective di Banca d’Italia definiscono “verosimilmente non ascrivibili all’Associazione Spazio Pin”. Vengono messi in fila cinque pagamenti effettuati con il bancomat dell’associazione, tutti in data 24 dicembre 2018.

Nel giorno della vigilia di Natale, l’Associazione Spazio Pin ha speso in tutto 2.530 euro per comprare capi d’abbigliamento in alcuni negozi di Verona, da Falconeri alla Camiceria Sabo fino alla storica vetrina di scarpe Principe.

Aldo Storti, “figura vicina al Grande Oriente”

Le carte della Uif segnalano poi altri due pagamenti sospetti. Uno riguarda Aldo Storti, descritto come “figura vicina al Grande Oriente d’Italia e responsabile della regia tecnica del primo anno di formazione della scuola politica della Lega Nord”. Storti, che secondo Banca d’Italia ha ricevuto 25mila euro dall’Associazione Spazio Pin, nel 2017 faceva da consulente per la Lega in vista delle elezioni del 2018, come dimostrano alcune email scritte dallo stesso Storti e lette da Il Fatto.

L’ultimo pagamento ritenuto sospetto dagli investigatori riguarda infine un bonifico da 1.178 euro in favore di Federico Arata. È il figlio di Paolo Franco Arata, ex consulente della Lega per l’energia, accusato dalla Procura di Roma di aver promesso una mazzetta da 30mila euro a Siri (che per questo è indagato per corruzione). L’aspetto interessante si trova nella causale del bonifico: “Rimborso spese viaggio Usa”.

Perché l’associazione fondata da Siri, formalmente scollegata dalla Lega, il 3 dicembre 2018 ha rimborsato un viaggio negli Usa a Federico Arata, il giovane banchiere autodefinitosi “spin doctor della Lega”, accompagnatore di Steve Bannon nei suoi viaggi europei, molto attivo tra il 2016 e il 2017 nel creare collegamenti politici tra il partito di Salvini e l’entourage di Donald Trump? Domande a cui i magistrati milanesi stanno cercando una risposta: per capire se i soldi donati dalle imprese alla scuola di Siri sono in realtà serviti per finanziare la Lega e i suoi consulenti.

E se fosse una sindrome e non una pandemia?

Richard Horton, il 26 settembre, ha pubblicato su Lancet un articolo che non rimarrà inosservato. Il titolo è già eloquente, COVID-19 is not a pandemic (“il Covid-19 non è una pandemia”). L’autore sostiene che l’approccio nella gestione della diffusione, ma soprattutto della patologia sia sbagliato, perché la crisi sanitaria è stata affrontata come determinata dalla malattia infettiva. Affermazione scioccante che mina alla base otto mesi di gestione del fenomeno. Horton non è un matto, è uno degli editorialisti più quotati di Lancet. Con qualsiasi altra firma avremmo abbandonato l’articolo con una smorfia sarcastica. Invece è Horton. Certamente non è un “negazionista”, ma uno che ha un orizzonte sempre “più in là”. Condanna i governi che hanno gestito la crisi solo come una catena di contagio virale da interrompere. Sostiene che, in realtà, interagiscono due categorie di malattie: l’infezione dovuta a SARS-CoV-2 e una serie di malattie non trasmissibili. Queste condizioni si raggruppano all’interno dei gruppi sociali secondo modelli di disuguaglianza profondamente radicati nelle nostre società. Secondo Horton non è una pandemia, ma una sindrome (più elementi patologici).

Significa che è necessario un approccio più sfumato. Limitare il danno richiederà un’attenzione maggiore alle malattie non trasmissibili e alla disuguaglianza socioeconomica. Le sindemie sono caratterizzate da interazioni biologiche e sociali tra condizioni e stati, interazioni che aumentano la suscettibilità di una persona a danneggiare o peggiorare i loro risultati di salute. Da qui la deduzione logica che, piuttosto che esclusivamente tracciare il virus, bisogna agire sulle condizioni che lo favoriscono. Eliminare, ove possibile (esposizione degli anziani e dei malati cronici), migliorare le condizioni sociali. Detto così, ci stupisce meno, visto che molti di noi abbiamo affermato che si tratta di un opportunista. Dobbiamo, lo fa intendere anche Horton, eliminare le opportunità che rendono facile al virus di colpirci.

 

In rianimazione tanti under 50. Ma si muore meno di prima

Siamo lontanissimi dai picchi raggiunti all’inizio dello scorso aprile, quando i ricoveri superarono la quota di 4mila. Ma sulle terapie intensive Covid sta nuovamente aumentando la pressione. Ieri i pazienti sono saliti a 294, contro i poco più di 40 dei primi di agosto. E la curva, dalla fine delle vacanze, continua progressivamente a crescere. Solo che non parliamo più quasi esclusivamente di persone anziane.

L’età media dei pazienti, che per il 90% dei casi sono intubati, si sta decisamente abbassando. Un numero sempre più crescente ha meno di 50 anni. Ci sono quarantenni, trentenni. Cosa che contribuisce a spiegare il minor tasso di mortalità. “Siamo passati da oltre il 20% a circa il 7%: cinque decessi su 70 ricoverati”, spiega Alessandro Vergallo (nella foto), presidente nazionale di Aaroi-Emac, il sindacato che rappresenta, dal Nord al Sud del Paese, oltre undicimila tra anestesisti, rianimatori e medici dell’emergenza-urgenza.

Pazienti giovani che molto meno frequentemente presentano patologie croniche come cardiopatie, insufficienze respiratorie o renali capaci di aggravare notevolmente il quadro clinico. “Fattore a cui si somma il fatto che è notevolmente migliorato l’approccio terapeutico – prosegue Vergallo –. Oggi, rispetto alla primavera scorsa, possiamo far leva sulle conoscenze scientifiche che abbiamo accumulato in questi mesi, con una corsa contro il tempo”, prosegue Vergallo –. E non siamo più nelle condizioni di un tempo, quando l’accesso alle cure intensive era spesso tardivo e le persone venivano prese in carico in condizioni già disperate. Adesso, ai primi sintomi, ci si rivolge subito al medico, la diagnosi è più precoce”. Con il risultato che si è anche ridotto il tempo medio di permanenza in terapia intensiva: dalle circa due settimane di pochi mesi fa, fino a prima dell’estate, a dieci-dodici giorni. Anche se dopo, per chi ce la fa, scatta la lunga fase della riabilitazione, che mediamente dura circa un mese.

Le situazioni più critiche, per la diffusione dei contagi e il rischio che aumenti la necessità di ricorrere alle cure intensive, appaiono per ora in Lazio (dove ieri si sono contati 264 nuovi casi) e in Campania (392). In quest’ultima regione, su 85 posti letto Covid totali, adesso sono 36 quelli occupati da pazienti in gravi condizioni. Anche qui, però, tutti esposti al pericolo di un repentino peggioramento.

Sembra sotto controllo la situazione in Lombardia (39 ricoverati in tutta la regione, 32 intubati), dove la Regione ha predisposto un piano per aprire 17 nuovi reparti. “Abbiamo già 57 posti letto in più, altri 6 o 8 li attiveremo nei prossimi giorni – dice Antonio Pesenti, coordinatore dell’unità di crisi regionale e primario del reparto rianimazione del Policlinico di Milano –. Tutti i giorni abbiamo un nuovo ricovero, ma il sistema è attrezzato per fare fronte a un aumento delle necessità. E poi c’è sempre l’ospedale allestito alla Fiera di Milano che può entrare in funzione: la decisione spetta alla Regione”.

La corsa del governo per aumentare il numero dei posti letto nelle terapie intensive è iniziata. L’obiettivo è quello di portarli a 11mila. Anche se già adesso rispetto alla base di partenza (prima dell’epidemia erano poco più di cinquemila a livello nazionale) sono aumentati del 35%. Il piano del commissario all’emergenza Domenico Arcuri, per far fronte a una eventuale seconda ondata epidemica, è quello di raggiungere 3.443 posti letto per le cure intensive, oltre 4mila per quelle sub-intensive. “La strategia adottata da tutte le Regioni – spiega Vergallo –, è quella di individuare degli ospedali super-hub, che oltre ad avere reparti di pneumologia e malattie infettive abbiano anche rianimazioni avanzate. Questo permetterebbe di ottimizzare l’organizzazione della logistica e del personale sanitario. Anche se a nostro parere sarebbe bene aumentare la dotazione con posti letto eventualmente convertibili, non strutturali”.

“Se i numeri salgono perdiamo il controllo: salta il tracciamento”

“Spero continui così per settimane, a questi livelli la nostra capacità diagnostica è adeguata. Se però la trasmissione aumenta rischiamo di non controllarla più”. Così il professor Andrea Crisanti, ordinario di Microbiologia a Padova, il primo a testare gli asintomatici in Veneto quando i tamponi si facevano solo a chi aveva la polmonite e neanche sempre. Il discorso è semplice: “Più casi, più contatti da testare, più tamponi da fare”.

Sono 2.500 contagi al giorno da giovedì. L’indice di trasmissione Rt supera 1, in una settimana 909 focolai in più. I numeri più alti in Campania, nel Lazio difficoltà negli ospedali e tempi lunghi per i tamponi. Perché è cambiata la geografia del virus?

Il virus sfrutta i contatti tra le persone e stiamo parlando di Regioni estremamente popolose, non mi sorprende. Qui nel Nord in Veneto, in Lombardia, in Emilia-Romagna, il virus ha lasciato tracce emotive profonde, la popolazione ha oggi un’attenzione molto maggiore.

Nella Val Seriana, l’area più colpita della Lombardia, un’indagine sierologica dice che il 42,3 per cento, quasi una persona su due, ha gli anticorpi. Nino Cartabellotta della Fondazione Gimbe parla di immunità di gregge, per questo il virus attaccherebbe poco al Nord.

Per l’immunità di gregge ci vuole il 70 per cento, non il 50, sempre che l’immunità protegga davvero e non lo sappiamo ancora. Ma se anche fosse significherebbe che la si raggiunge, o la si sfiora, solo dopo aver pagato un prezzo enorme in termini di vittime.

Il Veneto la preoccupa? Giovedì c’è stata un’impennata di casi.

Può essersi trattato di una cosa sporadica, diversi casi risalivano ai giorni precedenti, oggi (ieri, ndr) il dato è sceso di nuovo.

Lei ha detto che i casi nelle scuole li vedremo dopo la metà di ottobre, ma si parla già di almeno 900 scuole toccate dal virus. In coda per i tamponi ci sono anche i genitori con i figli e il tracciamento va in sofferenza.

Con 8 milioni di ragazzi a scuola c’era da aspettarselo, 900 scuole saranno 2-3 mila casi. Era prevedibile che il tracciamento andasse in sofferenza, infatti avevo proposto un piano per aumentare la capacità diagnostica, per arrivare a fare 3-400 mila tamponi al giorno (ora siamo appena sopra i 100 mila e non tutti i giorni, ndr) con un maggior numero di laboratori. E l’avevo detto già un mese fa.

L’ha proposto anche al governo, ma il governo ha scelto i test rapidi.

I test rapidi sono importanti, ma da soli non ci consentono di bloccare la trasmissione. Non hanno la sensibilità giusta. Possono identificare se in una comunità c’è trasmissione di virus, non di più. Se in una comunità di 1.000 persone ce ne sono 30 infette, col test rapido ne individuo 24 e li isolo; gli altri sei probabilmente contageranno altri. L’efficacia dei test rapidi dipende dagli obiettivi che si hanno. Per lo screening vanno bene, per il tracciamento no. Perché nei contatti dei positivi troviamo spesso piccole quantità di virus che il test rapido non vede.

Però allora per i sintomatici va bene, anche nelle scuole, dove le aziende sanitarie potrebbero intervenire quando un alunno ha i sintomi e testarlo lì, senza costringere tutta la famiglia al tampone e alla quarantena nell’attesa, spesso lunga, del risultato.

Per i sintomatici sì.

Ha più sentito esponenti del governo? Che fine ha fatto la sua proposta di aumentare i tamponi?

No, evidentemente hanno deciso di fare diversamente.

Professore, cosa si aspetta?

Spero che continuiamo su questi livelli per diverse settimane, significa che controlliamo il virus. La capacità diagnostica è adeguata alla trasmissione di oggi.

E se aumenta?

Se aumenta avremo problemi, rischiamo di non controllarla più.