Altri 900 focolai, 14 a scuola. “Epidemia in peggioramento”

Quasi la metà dei cittadini della Val Seriana ha contratto il SarsCov2. Il 42,3% degli abitanti di una delle aree più falcidiate della Lombardia ha sviluppato gli anticorpi al virus, secondo l’indagine sierologica promossa dai Comuni della zona con l’Ats di Bergamo e la Regione, cui hanno aderito 22.559 persone, il 26,6% dei maggiorenni che vi risiedono. “Questo dato ci fa vedere di cosa è stato capace il virus libero di circolare senza contenimento per un lungo periodo – spiega Massimo Galli, direttore delle Malattie infettive del Sacco di Milano –. I dati della nostra ricerca su Castiglione d’Adda dicono che lì è stato contagiato il 23,6% della popolazione. Significa che la prima zona rossa, pur essendo stata disastrata, lo è stata meno della Val Seriana. In quell’area è bastata una settimana in più senza interventi per creare un problema molto più serio”.

Un problema con cui l’Italia continua a fare i conti e che, secondo ministero della Salute e Istituto Superiore di Sanità, potrebbe peggiorare. Sono 2.499 i nuovi casi comunicati ieri, a fronte di un altro record di tamponi (120.301), 23 i morti. “In Italia – si legge nel consueto monitoraggio settimanale – si osserva un progressivo peggioramento dell’epidemia da 9 settimane”. I focolai attivi sono 3.266, di cui 909 nuovi. In 14 di questi la trasmissione potrebbe essere avvenuta nelle scuole, la grande incognita dell’autunno. “I dati – dicono ministero e Iss – confermano l’opportunità delle misure adottate e invitano a essere pronti a ulteriori interventi”. Ieri il Lazio ha reso obbligatorie le mascherine all’aperto e il governo non esclude di farlo a livello nazionale. “Un rilassamento delle misure – chiosa il report – in particolare per eventi e iniziative a rischio aggregazione in luoghi pubblici e privati (…) rende concreto il rischio di un rapido peggioramento epidemico”.

Per ora, secondo alcuni, la diffusione del virus potrebbe essere valsa alle Regioni del Nord l’immunità di gregge. “Questa ipotesi – ha detto Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, a La Verità – spiega perché i dati di Campania e Sardegna, Regione che era Covid free prima dell’estate, e altre Regioni del Sud, toccate meno, hanno oggi un grande incremento”. “In quei territori il virus era meno diffuso e quindi adesso ha ancora grandi possibilità di contagio. Nel Nord e in Lombardia ha già toccato settori amplissimi della popolazione, che oggi sono meno vulnerabili”. “Parlare di immunità di gregge quando in Lombardia la percentuale della popolazione che si è infettata si aggira attorno al 7-8% mi sembra prematuro – commenta Galli –. Diversa la situazione di un posto in cui c’è il 40% come la Val Seriana. Ma per la vera immunità si dovrebbe ragionare su percentuali assai più alte. E chi spara cifre tra il 60 e il 75% lo fa sulla base di ipotesi”. E allora come si spiega la sostanziale stabilizzazione dei contagi in regioni come la Lombardia e la curva epidemica che cresce in Campania, Lazio e Sardegna? “Il lockdown ha impedito al virus di diffondersi in maniera capillare al Sud – ragiona Galli –. Alla riapertura al Nord le infezioni sono cresciute in ambito domestico ed è iniziata la coda dell’epidemia, mentre molte Regioni del Sud erano quasi a zero. Con l’estate e il ritorno dalle vacanze, le infezioni sono arrivate in famiglia. In Lombardia la proporzione dei nuovi casi resta alta, quindi da noi i contagi sono ripresi, mentre al Sud si comincia ora”.

Cazzaretti

Oggi inizia dinanzi al gup di Catania l’udienza preliminare del processo a Matteo Salvini per il presunto sequestro di persona di 131 migranti soccorsi nel Mediterraneo il 25 luglio 2019 e bloccati per sei giorni, fino al 31, al largo delle coste italiane sulla nave Gregoretti della Marina militare. Il leader imputato ha convocato a Catania i suoi parlamentari e alleati per fare il martire e buttarla in caciara. E, a leggere o ascoltare certi opinionisti, ci è riuscito: nessuno ha capito perché lo processano. Nemmeno lui. Infatti l’altro giorno ha twittato, restando serio: “La memoria difensiva per il mio processo come ‘sequestratore di persona’ che ho consegnato alla D’Urso è scaricabile qui…”. Figurarsi la gioia dei giudici nell’apprendere che la memoria non è stata depositata in cancelleria, ma a Non è la D’Urso. Il testo, poi, pare scritto da un buontempone che vuol vederlo all’ergastolo. Vi si legge che i migranti sulla nave godevano ottima salute (come se i sequestri di persona fossero leciti purché l’ostaggio sia in gran forma e venga trattato bene). E che non vi fu “alcuna illecita privazione della libertà”, ma una semplice “attesa per organizzare il trasferimento presso la destinazione finale” (cosa che si può sostenere per le imbarcazioni delle Ong straniere, il cui diritto di sbarco sempre e solo in Italia è opinabile, ma non per una nave militare italiana). Ma il capolavoro assoluto è l’insistenza sul “pieno coinvolgimento del governo”. Che in quei giorni non tenne alcun Consiglio dei ministri sulla questione, anche perché il Cazzaro dirigeva il traffico dal Papeete e non parlava più con Conte né con Di Maio (mancavano pochi giorni alla crisi).

La responsabilità penale è personale e la Costituzione parla chiaro: “I Ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei Ministri e individualmente degli atti dei loro dicasteri”. Eppure persino Paolo Mieli scrive sul Corriere che Conte “è stato assai fortunato” a non finire imputato con Salvini. Dimentica che, per il blocco di una nave (la Diciotti, un anno prima) deciso da tutto il governo, Conte, Di Maio e Toninelli si autodenunciarono per essere processati con l’allora ministro dell’Interno. E furono indagati anch’essi per sequestro di persona dalla Procura di Catania. Ma poi il Tribunale dei ministri li archiviò, perché ciascun ministro è responsabile dei propri atti e quel blocco l’aveva firmato Salvini. Noi restiamo convinti che il reato di sequestro di persona non si attagli ai blocchi Salvini delle navi Diciotti, Gregoretti, Open Arms, Sea Watch ecc: che restarono, sì, forzatamente al largo delle coste italiane, ma pur sempre libere di muoversi in cerca di altri porti sicuri.

Ma, se continua a difendersi così, il Cazzaro si scava la fossa. Il Senato, autorizzando il processo, ha già escluso le due condizioni di improcedibilità: l’“interesse dello Stato costituzionalmente rilevante” e il “preminente interesse pubblico”. E l’archiviazione di Conte, Di Maio e Toninelli sul caso Diciotti ha già escluso che per ogni atto illecito di un ministro debba finire alla sbarra tutto il governo. Anziché provare a far processare pure Conte&C., Salvini dovrebbe tentare di far assolvere se stesso. E il modo peggiore per riuscirci è quello di raccontare balle ai giudici. Anche perché sono le stesse balle che aveva già rifilato al Senato. Con esiti miserevoli. Preannunciava fantomatiche “carte” che provavano il coinvolgimento del premier, di Bonafede e di Di Maio. Poi si scoprì che Conte non aveva scritto né detto una sillaba sul blocco della nave: si era semplicemente attivato con altri Paesi Ue e col Vaticano per ricollocare i migranti. Bonafede aveva commentato lo sbarco già avvenuto, non il precedente divieto di Salvini. E Di Maio, dopo aver ripetuto che dei migranti doveva farsi carico l’Ue, aveva addirittura criticato il trattamento riservato da Salvini alla Guardia Costiera (“Non si tràttino i nostri militari su quella nave come pirati. Pieno rispetto per le forze dell’ordine”). Idem per i paragoni fra caso Gregoretti e caso Diciotti (per cui fu assurdamente negata, coi voti del M5S, l’autorizzazione a procedere): tutte balle.

Salvini, al processo Gregoretti, risponde di sequestro per aver rifiutato per 6 giorni di indicare alla Guardia costiera un porto sicuro (Pos): e quell’indicazione spettava all’Italia (i migranti erano stati “salvati” in un’operazione tutta italiana), mentre per la Diciotti toccava a Malta (che aveva coordinato il salvataggio prima che la nave italiana rilevasse i naufraghi). Non solo: la Diciotti è una nave adibita ai soccorsi in mare, dunque può ospitare decine di persone sotto coperta, mentre la Gregoretti è destinata alla vigilanza sulla pesca e non garantisce un’adeguata sistemazione (infatti i migranti restarono una settimana sul ponte, sotto la canicola). Dalla Diciotti, poi, furono subito fatti sbarcare dal governo donne e bambini; dalla Gregoretti la gran parte dei minori poterono scendere solo per ordine della Procura minorile. Infine: il blocco della Diciotti (agosto 2018) fu deciso perché prima Malta sul Pos e poi la Ue sui ricollocamenti facevano i pesci in barile; quello della Gregoretti (luglio 2019) fu deciso quando il meccanismo dei ricollocamenti Ue era già collaudato. Chi vuol bene a Salvini dovrebbe avvertirlo che contar balle è la peggiore strategia difensiva. In Parlamento chi mente passa per furbo. In Tribunale passa per colpevole.

Volkswagen, 15 miliardi sulla Cina

Nonostante le vendite Volkswagen in Cina nei primi otto mesi dell’anno, complice la pandemia, siano calate dell’11,5%, il colosso di Wolfsburg continua a puntare sul “campione” asiatico, che tante soddisfazioni in termini economici ha dato negli ultimi vent’anni. E lo fa puntando forte sull’ultima frontiera dell’auto: l’elettromobilità.

L’amministratore delegato di Volkswagen Group China, Stephan Wollenstein, è intervenuto a margine della seconda edizione del World New Energy Vehicle Congress (WNEVC 2020), tenutosi a Haikou, capoluogo della provincia dello Hainan, dichiarando che Volkswagen investirà ben 15 miliardi di euro (di cui 2,1 entro fine anno) in Cina fino al 2024 sulla mobilità a elettroni, in collaborazione coi suoi partner locali a cui è legata da joint venture. Si tratta di Faw, Saic Motor e JAC Motors: in particolare un miliardo di euro, di quelli previsti e stanziati, sarà destinato a aumentare dal 50 al 75% la partecipazione proprio in JAC, e ad acquisire la metà di JAG, che è la società che possiede proprio JAC.

“Rimaniamo un partner attivo nella spinta della nazione verso l’elettrificazione e la carbon neutrality in futuro”, ha poi spiegato il numero uno di Wolfsburg Herbert Diess, di fatto sposando la causa del governo cinese, il cui l’obiettivo riguardo al clima è quello di raggiungere il picco delle emissioni di anidride carbonica entro il 2030 e di azzerare quelle nette prima del 2060.

Un target abbastanza in linea con quanto previsto dalla strategia “goTOzero” del gruppo tedesco, che nel frattempo sta provvedendo a installare 40 stazioni di ricarica rapida a Pechino, Chengdu e Shenzhen e ne costruirà altre 255, dotate di 1.800 poli di ricarica, in 16 città cinesi entro la fine di quest’anno.

Nei giorni scorsi, inoltre, Volkswagen ha fatto sapere che entro i prossimi 5 anni arriveranno 15 nuovi modelli elettrici destinati alla Cina, dove “il Gruppo Volkswagen avrà un fabbisogno annuo di 150 GWh di capacità di batterie”, ha anche specificato Wollenstein, sottolineando come l’azienda abbia già collaborato con produttori di batterie cinesi come Gotion High-tech.

 

C’è una crisi, ma pure voglia e possibilità di riprendersi

Non è un gran periodo per Saloni dell’auto. Praticamente azzerati quelli europei, anche se c’è qualche speranza di rivedere Ginevra in edizione ridotta nel 2021. Cancellati o rischedulati quelli americani, con il “decano” Detroit che da poco ha trovato una nuova collocazione a cavallo tra settembre e ottobre del prossimo anno, lontano dal CES di Las Vegas e dall’auto show di Los Angeles. Tutti, comunque, con formule ripensate e adattate ai tempi di magra che viviamo.

Anche il salone di Pechino doveva tenersi ad aprile scorso, ma data la situazione sanitaria si è reso necessario il rinvio a questi giorni. Tuttavia proprio dalla capitale cinese arriva un segnale importante per l’auto: la pandemia ha colpito forte, ma c’è sia la voglia che la possibilità di riprendersi. Si riparte proprio da dove tutto era cominciato, dunque. Da quell’attenzione per i contenuti ambientali, tecnologici e di business delle quattro ruote, che nel sud-est asiatico cominciano a dare segni di vitalità, così come l’intero apparato produttivo. Non è un caso che la Banca Mondiale abbia rivisto le previsioni di giugno sulla crescita della Cina a fine anno, portandole proprio in questi giorni da +1 a +2%: è la testimonianza che le questioni sanitarie sono sotto controllo, diversamente da quanto accade in Europa o negli Stati Uniti, e che lo sviluppo economico non si ferma. Chissà che non si riesca a sfruttare questo effetto traino anche dalle nostre parti, prima o poi.

Pechino “accende” il Salone che glorifica le automobili di casa

Quella Cina da cui è originata la pandemia che ha messo alle corde l’industria delle quattro ruote e al tappeto i saloni automotive di Ginevra, Los Angeles, Detroit, New York e Parigi, è anche il Paese da cui i motor show tradizionali provano a ripartire. E lo fanno dal Beijing Auto Show, inaugurato lo scorso 26 settembre.

L’evento, inizialmente programmato in aprile, “va in onda” in formato ridotto per via delle limitazioni imposte agli stranieri. Al fine di evitare rischi per il personale, quindi, colossi come Volkswagen, GM, Toyota, Nissan, Ford, PSA, Volvo, BMW e Mercedes hanno lasciato a casa i loro manager.

Complici le suddette assenze, il Beijing Auto Show appare, come non mai, una consacrazione dei giovani marchi locali, pronti a fronteggiare senza complessi di inferiorità quelli storici. Del resto i vantaggi dei costruttori di vecchia data, dal blasone alla tecnologia, sono stati azzerati dalla rivoluzione elettrica e dagli illimitati investimenti cinesi nell’auto a batteria. Un assunto confermato dalla californiana Tesla, che è percepita dal pubblico al pari di premium brand come Audi e Mercedes pur avendo una frazione della loro tradizione.

Due marchi di cui sentiremo parlare presto in Europa? Polestar e Lynk&Co. Il primo è nato da una costola di Volvo ed ha confermato l’entrata in produzione della Precept, sedan 100% elettrica dal piglio sportivo e futuristico: un concentrato di tecnologia digitale e materiali sostenibili, derivati dal recupero di bottiglie in Pet riciclate, reti da pesca rigenerate e sughero vinilico riciclato.

Lynk&Co, invece, ha svelato la concept Zero, che anticipa il primo modello full electric della marca cinese, atteso nel corso del 2021 e capace di 544 Cv di potenza e 700 km di autonomia. Valori che fanno impallidire la Tesla Model3 di Elon Musk. In comune Polestar e Lynk&Co hanno il padrone, il miliardario cinese Li Shufu, che nel 2018 si è accaparrato il 10% della Daimler, diventandone azionista di punta.

Sono loro le punte di diamante di un sottobosco di grossi costruttori locali che ambiscono a monopolizzare il mercato dell’auto cinese – il più grande del mondo – e a espandersi in Europa e Usa, forti di prezzi concorrenziali e prodotti d’avanguardia, che gettano nel dimenticatoio una poco lusinghiera epopea fatta di plagi automobilistici “Made in China”.

A Beijing è presente pure una sparuta minoranza di dirigenti di marche a noi note, come Honda, Mazda e Hyundai: sono loro la piccola partigianeria dei costruttori tradizionali, chiamata a fronteggiare un gigante pronto a riscrivere la geografia dell’automobile.

L’eterno urlo blues di Janis

“Non dare il mio numero a quell’idiota!”, grida Janis a Paul Rotschild, anfitrione della villa di Hidden Hills. Il party è finito in malora. Rothschild è il produttore discografico dei Doors e della Joplin. L’idiota è steso per terra nel vialetto, si chiama Jim Morrison. Ha la testa spaccata da un colpo di bottiglia della formidabile blues singer, che per liberarsi dalle moleste avance del collega ha sacrificato il Southern Comfort. E dire che Rothschild aveva pregato le due star di presentarsi sobrie alla festa. Morrison si era dimostrato gentile, poi aveva sbroccato, facendo picchiare la fronte a Janis contro un comodino. Lei si era chiusa in bagno a piangere, scolando whisky. Esausta, aveva chiesto a Rothschild di portarla a casa, ma quell’animale li aveva inseguiti, afferrandola per i capelli. C’è chi dice che Jim e Janis non si rividero mai più, altri garantiscono su una burrascosa love story, tossica in tutti i sensi: la ragazza alluse spesso a Morrison come uno dei “due sfigati che non mi hanno dato niente in cambio”. In cambio di cosa? Della sua totale disponibilità sessuale. Nel tempo fluido dove il corpo era l’altare di una liturgia libertaria, Joplin non faceva distinzioni tra uomini e donne, la predatrice che si innamorava di tutti quelli che incontrava sfinendoli in riti dolorosi. Era tormentata dall’ossessione di non saper cantare, il trauma di una operazione alla tiroide da bambina. Eppure il destino le aveva donato la Voce, proprio a lei, la goffa bianca cresciuta a Port Arthur, città di raffinerie, lontana dai campi di cotone, lei che nella generazione delle masse allucinate e avventurose incarnava la Solitudine e la Disperazione, come nessun’altra mai con le stregonerie profane del rock e del blues.

Sì, ma l’altro sfigato? Leonard Cohen. Qui siamo sulla 23ma strada, New York. Il Chelsea Hotel. È l’estate catartica del ’68, Janis è in città per registrare l’album Cheap Thrills, il capolavoro con la copertina psico-hippie del cartoonist Robert Crumb che per parcella pretende “solo” una strizzatina alle tette. Alle quattro del mattino Cohen è davanti all’ascensore dopo deludenti vagabondaggi. La sua stanza è la 424. Una voce gli grida “Aspetta!”. È Janis, che alloggia alla 411. I due fingono di non riconoscersi. “Cerchi qualcuno?”, chiede sornione Cohen. “Sì, Kris Kristofferson!”, risponde la Joplin, alludendo al prestante cantautore, uno dei suoi amanti, che le scriverà la struggente ballata-epitaffio Me & Bobby McGee. Leonard prende la palla al balzo: “Sono IO Kristofferson!”. Lei decide che il gioco delle bugie la intriga. Ma Cohen, ferito dall’evidenza di essere solo uno di passaggio, commetterà l’errore di dedicarle una canzone, Chelsea Hotel #2, in cui descrive brutalmente la gratificazione concessagli da Janis. Se ne pentirà, chiedendole scusa in ogni concerto, ma fu tardi sin da subito: quel brano venne ideato quando JJ era già morta.

Scivolò nel nulla il 4 ottobre 1970. Un’altra camera d’albergo, di nuovo a Los Angeles. La sera prima aveva cercato George, pusher di fiducia, che però le aveva passato una dose di eroina troppo potente. L’ultima performance di Janis era stata, alla vigilia, l’incisione buona-la-prima di Me & Bobby McGee, il gioiello country-blues del sontuoso disco postumo, Pearl. Quel titolo, perla. Le era stato suggerito a New York da una giovane che si era comprata una chitarra per entrare nel giro del Village. Patti Smith. Janis si ritrovò a piangere con Patti dopo un ricevimento in cui un giovanotto l’aveva respinta. “Perché nessuno mi ama?”. “Che dici?”, la consolò la Smith. “Sei una perla di ragazza!”. E strimpellò qualcosa per la stella. Ma Janis sapeva bene che questo è il mondo dove quelli come Cohen sperano di veder comparire davanti all’ascensore Brigitte Bardot, non una fattona texana con i segni dell’acne. I compagni di scuola la bullizzavano per la ciccia, e peggio andò all’Università di Austin, dove fu eletta “Uomo più brutto del campus”. Inevitabile cominciare a bere a 14 anni, unirsi ai teppisti che la trattavano come un maschio, sperimentare la parte lesbica. Finiva sotto le lenzuola con chiunque, perché, parafrasando Rita Hayworth, faceva “l’amore sul palco con 25mila persone e poi tornavo a casa da sola”. Divenne però presto la principessa beatnik del blues cosmico di San Francisco, grazie anche alla prodigiosa esibizione al Festival di Monterey del ’67, dove si innescò un flirt con Hendrix, un altro troppo violento con le partner. A Woodstock, invece, fu un fiasco: non si reggeva in piedi. Adorava Bessie Smith, la regina nera dalla voce etilica scomparsa prematuramente: Janis le comprò una lapide. Quando toccò a lei, a 27 anni, dopo Brian Jones e Jimi Hendrix, Jim Morrison profetizzò: “Io sarò il quarto”.

Parolin-Pompeo, l’incontro è in cinese

La photo opportunity con Papa Francesco è mancata. Sarebbe stata preziosa per ostentare un infondato sostegno del Vaticano alla ricandidatura di Donald Trump. Alla fine il Segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, si è dovuto accontentare di incontrare solo il suo omologo Oltretevere, il cardinale Pietro Parolin. Un gelido faccia a faccia di 45 minuti nel quale il porporato ha ascoltato le critiche di Pompeo al rinnovo dell’accordo con la Cina. Ma dal Vaticano nessun passo indietro: “La Santa Sede, come ha ripetutamente dichiarato il cardinale Parolin, è intenzionata a proporre il rinnovo dell’accordo ancora in forma provvisoria, sottolineandone il carattere genuinamente pastorale, finalizzato soltanto a far sì che i vescovi cinesi siano in piena comunione con il Successore di Pietro”. Un accordo che il Papa vuole sia siglato entro la fine di ottobre per altri due anni. Il Segretario di Stato Usa ha espresso anche la preoccupazione della Casa Bianca per un possibile intervento a gamba tesa del Pontefice durante la campagna elettorale come avvenne quattro anni fa. Nel 2016, infatti, parlando del candidato repubblicano, Bergoglio non esitò a dire che “una persona che pensa soltanto a fare muri, sia dove sia, e non a fare ponti, non è cristiana”. Allo staff di Trump ora preme evitare il bis. Parolin gli ha assicurato che non ci sarà alcuna presa di posizione del Vaticano e che, proprio per evitare che il Papa venisse strumentalizzato nella corsa alla Casa Bianca, non c’è stata l’udienza con Pompeo a differenza di un anno fa. La Santa Sede lascerà ai vescovi Usa la possibilità di intervenire nel dibattito elettorale. Un messaggio tutt’altro che rassicurante per Pompeo, visto il sostegno che Biden ha incassato dal cardinale arcivescovo di Newark, Joseph William Tobin, vicinissimo a Bergoglio. Dallo staff di Parolin è trapelata anche irritazione per il gesto di Pompeo di lasciare il simposio sulla libertà religiosa prima del suo intervento.

I nodi al Vertice: sanzioni a Londra, altolà a Erdogan

È un vertice straordinario tutto incentrato sui principali dossier di politica estera quello convocato dal presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, e in corso a Bruxelles. Questi i temi di discussione ieri.

Ultimatum Brexit: arrivano le sanzioni

“La Commissione europea ha inviato ieri al Regno Unito una lettera di messa in mora per aver violato i suoi obblighi ai sensi dell’accordo di recesso sulla Brexit. Questo segna l’inizio di un procedimento formale di infrazione contro il Regno Unito. Che ha un mese per rispondere alla lettera di oggi”.

Ursula von der Layen lo annuncia ieri a metà mattina: la Commissione europea, di cui è presidente, inizia le procedure legali contro il Regno Unito, che il mese scorso, con l’Internal Market Bill, ha sfidato Bruxelles ignorando nella legislazione nazionale gli impegni presi nel trattato internazionale di divorzio dall’Ue. Cronaca di una mossa annunciata: Bruxelles aveva chiarito la sua posizione all’indomani del voltafaccia britannico. “Avevamo invitato gli amici britannici a rimuovere gli articoli problematici dell’Internal Market Bill entro la fine di settembre” ha continuato Von der Leyen. Il tempo è scaduto ieri”.

La legge della discordia è intanto passata alla Camera dei Comuni e andrà all’esame dei Lords, che potrebbero ostacolarne l’approvazione. Se ne parla comunque in dicembre. La scadenza di un mese da ieri va oltre il limite del 15 ottobre indicato da Boris Johnson per trovare un’intesa. E non è ancora chiaro a nessuno se Johnson stia tirando la corda per ragioni di consenso domestico, ma sia pronto a cedere a Bruxelles all’ultimo minuto, o se davvero ci sia il rischio di un naufragio delle trattative.

Dal punto di vista di Bruxelles, vista la lunghezza e complessità dell’iter legale, l’iniziativa servirebbe a prendere tempo mantenendo però la presa su Londra. Malgrado tutto, il tavolo per ora non è saltato e i negoziati continuano.

Turchia: fronte comune contro il Sultano

In un imprevisto cambio di agenda, Michel ha anticipato a ieri pomeriggio la discussione, prevista per cena, sulle relazioni con Ankara e gli sviluppi geopolitici nel Mediterraneo orientale. È uno dei dossier più controversi, con posizioni molto distanti fra gli Stati membri, tentati dall’imposizione di sanzioni alla Turchia per la sua politica aggressiva nei confronti di Grecia e soprattutto di Cipro. Proprio Cipro spinge per misure punitive, mentre altri paesi europei, fra cui la Germania, hanno bisogno di tenere aperto un canale di comunicazione con il presidente turco Erdogan, specialmente sul tema dell’immigrazione. Durissima invece la posizione del cancelliere austriaco Kurtz, che propone sanzioni e la fine dei negoziati per l’adesione della Turchia all’Ue. Per il momento, il Consiglio ribadisce la solidarietà con la Grecia e Cipro.

Bielorussia: complicazioni da Cipro

A imbrigliare ulteriormente la matassa c’è la determinazione di Cipro a vincolare alle sanzioni anti-turche il suo sì a quelle verso il regime autoritario di Lukashenko in Bielorussia, su cui però non intendono cedere i Paesi di Visegrad (Polonia, Ungheria, Slovacchia, e Repubblica Ceca).

Nagorno-Karabakh: altro nodo gordiano

Anche il conflitto in Nagorno-Karabakh tra armeni e azeri si intreccia con il dossier di Ankara che sostiene i secondi. Emmanuel Macron ha lanciato un appello a un immediato cessate il fuoco, indicando però l’Azerbaigian come responsabile dell’escalation militare. Erdogan ha replicato perentorio: “Continueremo a sostenere i nostri fratelli azeri con tutti i nostri mezzi e con tutto il nostro cuore. La strada per la pace permanente passa per il ritiro degli armeni da ogni centimetro della terra azera”.

I suprematisti in Rete pronti a moltiplicare la parola di Trump

Dopo il DeepFake di Joe Biden che s’appisola durante un’intervista, ecco la storiella che l’ex vice di Barack Obama, candidato democratico alla Casa Bianca, aveva un auricolare con cui riceveva input su come rispondere alle domande durante il dibattito di martedì con Donald Trump. Nulla lo prova, ma la voce gira in Rete da prima del duello in tv di Cleveland e vien pure rilanciata dagli spot della campagna di Trump, che invita la gente a “controllare le orecchie di Joe” e s’interroga “perché Sleepy Joe non accetta un’ispezione anti-auricolari”, oltre che il controllo anti-dumping – questa è un’idea tutta del magnate presidente –.

Nella ricostruzione del Washington Post, tutto è partito dal tweet di un giornalista del New York Post: citando una fonte anonima, ipotizzava che Biden volesse dotarsi di un auricolare durante il dibattito, per non restare letteralmente “senza parole”. Il quotidiano osserva che la storia di Biden con l’auricolare, per quanto falsa, continua a essere popolare su Facebook dopo il dibattito. Fino alla mezzanotte di mercoledì, lo spot della campagna di Trump, indirizzata principalmente a persone di età superiore ai 55 anni in Texas e Florida, era stato visto tra le 200 e le 250.000 volte. Non è l’unico esempio di fake news su salute e prontezza del candidato dem. Su TikTok, quattro video sgranati in cui si afferma che Biden aveva indosso durante il dibattito un filo per “imbrogliare” hanno avuto mercoledì oltre mezzo milione di visualizzazioni, dice Media Matters, gruppo di sinistra che monitora i media. Uno dei video mostra Biden con la mano dentro la giacca, un altro mette una freccia sulla cravatta di Biden, ma nessuno fornisce alcuna prova visiva dell’ipotesi che l’ex vice presidente indossasse un dispositivo elettronico. L’app dei mini-video, contattata dal Wp, s’è impegnata a rimuovere il post. Il social di Mark Zuckerberg, che a inizio campagna pareva meno attento di Twitter a non veicolare contenuti politicamente sensibili e falsi, sta intensificando i controlli e gli interventi e ha appena annunciato che, il 3 novembre, a urne chiuse, oltre a vietare post con dichiarazioni di vittoria premature, vieterà inserzioni che mirino a delegittimare il risultato elettorale, ad esempio adducendo brogli. Sarà vietato partire da frodi isolate per contestare l’esito globale o sostenere che un metodo di voto legale – tipo quello per posta – è “intrinsecamente fraudolento o corrotto”. Come fa, sistematicamente, Trump. In un altro articolo, il Washington Post documenta il contributo che media di destra via Facebook diedero nel 2016 alla elezione di Trump e constata, dati alla mano, che “il controllo della destra sulla piattaforma s’è ulteriormente accresciuto”: dopo il dibattito di martedì notte, nove dei dieci post più visti su Facebook – e 20 dei primi 30 – erano di destra. Nel 2016, la situazione era l’opposto: solo otto su 30 erano di destra. “Moltissimi americani che ricavano principalmente le loro notizie da Facebook – scrive il Wp – vivono in un ecosistema mediatico in cui l’esito del dibattito è chiaro: Trump ha schiacciato Biden”. I dati su cui si basa il quotidiano vengono da CrowdTangle, uno strumento analitico di Facebook. E nonostante Zuckerberg si sia impegnato fin dal 2018 a meglio gestire i contenuti falsi, post con la storia dell’auricolare di Biden erano ancora presenti sulla piattaforma all’inizio del dibattito, al quarto e ottavo posto come numero di contatti, mentre un terzo era stato rimosso. Nel primo sondaggio pubblicato dopo il duello televisivo, quello di YouGov per l’Economist, Biden ha il 50% delle intenzioni di voto e Trump il 42%, otto punti meno. Il sito RealClearPolitics, che fa la media dei principali sondaggi, dà Biden avanti di 6,6 punti, mentre il New York Times gli dà un vantaggio di sette punti. La posizione di Biden è molto migliore di quella di Hillary Clinton nel 2016 dopo il primo dibattito. Secondo FiveThirtyEight, che fa capo al guru dei sondaggi Nate Silver, l’ex vice di Obama ha circa l’80% di possibilità di vincere il collegio elettorale, conquistandone 352 voti su 538. Le chances di successo del magnate sono scese dal 21,3 al 19,7%. Quanto al voto popolare, che però non conta, le possibilità di vittoria di Biden sono al 90%. Sondaggi e previsioni stimolano il magnate a ‘giocare sporco’: l’ultima polemica riguarda l’invio alle famiglie bisognose in epoca Covid di pacchi alimentari ‘elettorali’, con tanto di lettera firmata dal presidente Trump “Il vostro benessere è una mia priorità”. La commissione responsabile per i dibattiti presidenziali ha deciso che si cambierà format per evitare che gli sfidanti si interrompano come martedì (77 volte).

Il calcio è al verde: niente stipendi per altri due mesi

Disperati per il Covid che ha causato perdite per centinaia di milioni, e adesso ha pure messo nel mirino il Genoa con un vero e proprio focolaio. Furiosi col governo che non permette di riaprire gli stadi. Pronti a tutto pur di salvare la baracca, persino a vendersi un pezzettino di campionato ai fondi stranieri. Poveri presidenti della Serie A. Ma poveri per davvero: le società non hanno più un euro in cassa. Tanto che la Federcalcio ha concesso di non pagare gli stipendi per almeno un altro mese e mezzo, sperando in tempi migliori.

La Lega calcio ieri si è riunita per decidere che fare con l’emergenza Genoa e rimediare a un suo errore (una norma generale andava stabilita prima dell’inizio del campionato, non dopo). È passata la linea dura, con un compromesso: la Serie A sposa la direttiva Uefa per cui si deve giocare sempre, basta un minimo di 13 titolari, altrimenti sconfitta a tavolino. Con un’eccezione: in caso di 10 infetti in una settimana, il club potrà chiedere il rinvio una sola volta in tutta la stagione (perciò non si gioca Torino-Genoa). Bisognerà vedere, in caso non interverranno altri stop di istituzioni o Asl, se davvero la Lega avrà la forza di imporre di giocare a squadre decimate dal virus (domenica c’è Juve-Napoli e ancora non si sanno le reali condizioni degli azzurri, di nuovo sottoposti a tampone).

Nei giorni scorsi, però, i patron avevano incassato un altro provvedimento, più prezioso. Mercoledì e scadeva il termine per saldare le mensilità di giugno e luglio, pena sanzioni in classifica. Quasi nessuno l’ha fatto. Una scadenza che di solito spaventava la Serie C (dove le penalizzazioni sono all’ordine del giorno), non la A, in grado di onorare i suoi impegni con tutti i soldi dei diritti tv. Stavolta è diverso: il calcio italiano, già messo male di suo, è in ginocchio per il Coronavirus, dopo le perdite del lockdown ha dovuto rinunciare pure alle campagne abbonamenti, che in questo periodo portavano liquidità in cassa. Le società sono davvero al verde, molto più di quanto dica l’ostentata normalità tra partite e mercato. Così la Serie A ha chiesto e ottenuto la deroga.

Nel silenzio generale la Figc del presidente Gravina ha posticipato al 16 novembre il termine per saldare gli arretrati (poi potranno essere sottoscritti “accordi privati” con i tesserati per rinviare ulteriormente fino a febbraio). Vale per tutte le categorie, e soprattutto per la Serie A, visto che sono esclusi i calciatori sotto i 50mila euro, cioè la maggior parte della Serie C. La richiesta infatti veniva proprio dalle big, che di stipendi in un mese possono spendere anche 15-20 milioni. Nessuno ha detto nulla, nemmeno il sindacato dei calciatori, che non voterà nel prossimo consiglio federale (sperando di strappare uno stipendio in più, almeno in Serie B). Si allargano le maglie di paletti fin qui considerati imprescindibili per la tenuta del sistema, ma non c’era molto da fare: senza soldi, l’alternativa sarebbe stata una strage di penalizzazioni. Pare che 18 squadre su 20 fossero a rischio.

Se neppure l’AssoCalciatori protesta significa che la situazione è davvero grave. Ed è la stessa ragione per cui in Lega avanza il progetto di fondare una “media company” della Serie A e venderne il 10% ai private equity: il presidente Dal Pino e l’ad De Siervo lo fanno per rilanciare il pallone e rivoluzionare la governance, la maggior parte dei patron solo per salvare i bilanci. Le resistenze non mancano, i dubbi legali nemmeno. Quei soldi – 1,5 miliardi – comunque non arriverebbero prima di inizio 2021 e così l’idea migliore che è venuta è stata quella di spostare di un mese il pagamento degli stipendi. I club sperano per novembre di vedere la luce del tunnel imboccato a inizio epidemia. A ottobre arriveranno i soldi di Sky e Dazn della seconda rata della stagione 2020/2021, un centinaio di milioni. Magari riapriranno gli stadi, torneranno gli incassi dei tifosi. E poi ci sono le pendenze per i diritti tv non pagati dello scorso campionato, che prima o poi dovrebbero entrare. Intanto si continua a giocare. Magari pure gratis.