La pandemia e la she-cessione

Subito dopo la grande crisi del 1929, uno dei padri dell’economia moderna, John Maynard Keynes, scriveva nel 1931: “Dobbiamo inventare una nuova saggezza per una nuova epoca. Nel frattempo, se vogliamo veramente fare qualcosa di buono, dobbiamo apparire eterodossi, importuni, pericolosi, ribelli nei confronti di chi ci ha preceduto”.

Quella frase torna di estrema attualità oggi, nell’affrontare in ottica “ribelle” e femminista il post Covid-19, guardando al paradigma economico dominante e alle sue ripercussioni. Sfida che coglierò parlando al Festival di Internazionale 2020, a Ferrara, sabato 3 ottobre, per una riflessione “originale” su chi sarà a fare le spese della crisi economica innescata dalla pandemia – con un’attenzione particolare all’universo femminile. Lo farò forte dell’attività svolta negli ultimi dieci anni come componente della redazione del web-magazine inGenere (www.ingenere.it), e del mio ruolo di coordinatrice di “Minerva-Laboratorio di studi sulla diversità e le disuguaglianze di genere” presso la Sapienza Università di Roma.

Molti dati e ricerche ad hoc svolte in questi drammatici mesi ci hanno descritto una situazione definita con il termine inglese Shecession, una recessione che colpisce le donne molto più degli uomini (nel confronto con la crisi del 2008 invece denominata Hecession, a causa della forte perdita di posti di lavoro concentrata nell’edilizia e nell’industria manifatturiera). Sono le donne le principali vittime dello sconvolgimento sociale ed economico causato dalla pandemia. E non solo negli Stati Uniti, dove, nonostante costituiscano meno della metà della forza lavoro, in aprile hanno perso il 55% dei posti di lavoro (con le donne nere e ispaniche colpite in modo peggiore). In Italia, secondo i recenti dati dell’Istat, abbiamo già registrato 470mila occupate in meno rispetto al secondo trimestre del 2019: di queste 323mila in meno tra quelle con contratto a tempo determinato. E così torniamo a confermare un dato che ci caratterizza da tempo: un tasso di occupazione femminile sotto il 50%, per precisione al 48,4%.

Come abbiamo scritto più volte, le donne sono state confinate a casa dal telelavoro più frequentemente degli uomini, e questo ha fatto inevitabilmente aumentare i conflitti tra lavoro retribuito e non. In particolare, tra prima e dopo il periodo di confinamento (lockdown) poco è cambiato nella divisione del lavoro all’interno dei nuclei familiari: il lavoro in casa e per i figli è aumentato per tutti, ma per le donne questo è avvenuto in misura maggiore. Con un’indagine online, promossa nell’ambito del progetto Counting Women’s Work e condotta su un campione di 1.000 persone (uomini e donne maggiorenni), insieme alle colleghe Erica Aloè, Alessandra De Rose e Marina Zannella abbiamo rilevato informazioni sui tempi di vita e di lavoro in casa e fuori casa prima, durante e dopo il lockdown, e chiesto agli intervistati e intervistate di confrontarsi con le proprie sensazioni di (in)soddisfazione, stanchezza, (in)felicità ecc. Nell’articolo che abbiamo pubblicato su inGenere (http://www.ingenere.it/articoli/occasione-per-padri) abbiamo mostrato come le ore giornaliere dedicate al lavoro retribuito sono sensibilmente diminuite per le persone intervistate che risultavano occupate prima dell’emergenza Covid-19. Prima del confinamento, gli uomini dedicavano in media poco più di 6 ore al giorno al lavoro retribuito, mentre le donne circa 5 ore. Durante la fase 1 dell’emergenza sanitaria, il tempo dedicato al lavoro retribuito si è ridotto di circa 90 minuti al giorno negli uomini e di 30 minuti per le donne. Lievi segni di recupero appaiono, per entrambi i sessi, nel periodo immediatamente successivo alla fine del lockdown.

Quando si guarda al lavoro non retribuito occorre tenere distinte le ore dedicate al lavoro domestico in senso stretto (cucinare, lavare, fare la spesa, stirare, ecc.) da quelle impiegate per la cura dei figli e delle figlie, di diverse età. Nel periodo di lockdown il tempo medio giornaliero dedicato al lavoro domestico è passato da poco più di 2 ore a poco meno di 4 per il campione delle donne, mentre l’aumento è stato di circa un’ora per il campione degli uomini, che hanno visto il loro contributo ai lavori domestici salire fino a una media di 2 ore e mezza al giorno. Un aumento decisamente rilevante si riscontra nel gruppo delle madri (da 2 ore e mezza a circa 4 ore e mezza al giorno). Il lavoro domestico è aumentato anche per i padri intervistati (circa un’ora e mezza in più al giorno), seppure in modo meno sensibile delle madri. L’aumento più importante nel tempo dedicato a lavoro non retribuito si registra nella cura dei minori, a seguito della chiusura delle scuole e degli asili nido, e dell’impossibilità di usufruire di aiuto da parte di babysitter e nonne/i. La variazione più rilevante si registra nel caso di bambini in età compresa tra 3-5 anni, per i quali le madri intervistate hanno dichiarato di dedicare circa 7 ore e mezza durante il lockdown (poco meno di 5 ore al giorno prima del Covid-19). Un simile aumento del tempo di cura per i bambini di questa fascia di età è stato riportato anche dai padri, che sono passati dalle 3 ore al giorno a 5 ore e mezza durante la fase acuta dell’emergenza sanitaria.

I risultati della nostra indagine, come quelli di ricerche svolte in altri Paesi europei, suggeriscono la possibilità di una vera rivoluzione, che parta dall’interno delle nostre case, attraverso la definizione di una nuova divisione del lavoro di cura. Fondamentale in tale direzione sarebbe l’introduzione di congedi di paternità obbligatori, sulla base di quanto fissato dalla recente Direttiva europea sul Work-life balance. Il congedo di paternità retribuito in occasione della nascita di un figlio rafforza il legame tra padre e neonato, contribuisce a un migliore sviluppo cognitivo del bambino, diminuisce il livello di stress del padre legato alla nascita e offre un maggiore sostegno alla madre. Questa fase economica che sta per aprirsi potrebbe essere davvero l’occasione per investire le risorse in arrivo in modo da sanare disuguaglianze croniche nel nostro Paese. Disuguaglianze di genere, provenienza, età che in Italia si sommano a un problema di disparità geografica, e che il contagio da Covid-19 ha messo pienamente in luce. Ma senza un nuovo paradigma economico, e un conseguente progetto di società, ogni intervento, anche di grande portata finanziaria, rischia di diventare solo un tampone provvisorio.

I fondi messi a disposizione con il Recovery Fund sono paragonabili alle risorse messe a disposizione con il Piano Marshall dopo la Seconda guerra mondiale. Investire questi fondi per una reale ripresa della nostra economia implica, in primis, puntare sulle infrastrutture sociali, che devono essere potenziate anche attraverso investimenti in tecnologie digitali. Bisogna dare priorità a quei servizi che permettono di soddisfare interessi e bisogni collettivi e liberare il tempo delle donne: scuole a tempo pieno, asili, strutture per anziani, assistenza sanitaria domiciliare. Portare fuori dall’ambito domestico parte del lavoro di cura crea occupazione (femminile, ma non solo), migliora la qualità della vita di chi già lavora e rende possibile accettare un lavoro per chi lo desidera, migliorando la qualità della vita delle persone che ricevono questi servizi (bambini, anziani, malati, persone con disabilità).

 

Petra, l’ispettore “giallorosa”

Abbiamo il governo giallorosa, e ora c’è anche la fiction giallorosa nelle avventure dell’ispettore Petra Delicato, alias Paola Cortellesi (Petra, Sky Cinema 1, lunedì sera).

Difficile dire quanto questa eroina in quota giallorosa sia destinata a durare, vuoi perché di Montalbano ce n’è uno, vuoi perché un traballante funambolismo è nel Dna di certe alleanze cromatiche.

Nei quattro episodi basati su altrettanti best-seller di Alice Gimenez-Bartlett la componente gialla risulta minoritaria; casi piuttosto astrusi come quello di una setta, trapiantata a Genova dalla mafia russa, che evira i ragazzi per restituirgli la purezza e “dargli qualcosa in cui credere”.

Casomai togliergli. Dai, esistono cose più degne di fede del farsi tagliare il pisello; e poi, la mafia russa è come dire il parmigiano tedesco: perché prendere dall’estero ciò di cui tutto il mondo ci riconosce il primato?

La regista Maria Sole Tognazzi ha più sensibilità per il rosa e lo dimostra nel personaggio della Cortellesi, sola e solitaria come ogni investigatore, poco attratta da focaccia e pesto (di Montalbano ce n’è uno), dotata di quel fascino un po’ così di noi che indaghiamo a Genova.

Ma il vero eroe della serie è il viceispettore Monte (Andrea Pennacchi), inseparabile compagno di indagini, anche lui solo e chiaramente innamorato di Petra (ma come lo sarebbe Scajola, a sua insaputa).

Arriva dalla Russia un altro ispettore, un figo da paura, e nel giro di un paio di perquisizioni lui e Petra sono a letto (il duro destino di tanti vice).

La vera occasione perduta è Genova: esterni ovvi, turistici, perfino un po’ pomposi. Diciamo la Genova di Toti.

Peccato per la città segreta, scorbutica, asimmetrica – struggente nell’anima, seppure minoritaria nella percezione – come quella raccontata da Ferruccio Sansa in Fatti di Genova, appena arrivato in libreria.

La Ue ci rimprovera sull’informazione (e ha le sue ragioni)

Visto che la stragrande maggioranza dei giornali e delle tv, certamente a causa di un’incolpevole svista, ieri non ve l’ha raccontato, oggi ve lo raccontiamo noi. Quasi fossimo un’Ungheria qualsiasi, la Commissione Ue dice che “l’indipendenza politica dei media italiani” è e “resta un problema”. Ricorda che a 15 anni di distanza dai primi allarmi ufficiali, l’Italia non ha ancora una vera legge sul conflitto d’interessi e, nel suo primo rapporto sullo Stato di diritto nell’Unione, ci colloca tra i Paesi a rischio “medio” in materia di libertà di stampa.

Per Bruxelles, da noi “l’influenza politica continua a farsi sentire in modo significativo nel settore audiovisivo” (vedi Berlusconi) e, sia pure in “misura minore”, in quello “dei giornali, a causa dei rapporti indiretti tra gli interessi degli editori e il governo, a livello nazionale così come a livello locale”.

Traduzione: nel nostro Paese la maggior parte degli editori non stampa quotidiani e riviste perché spinta da una sana capitalistica voglia di guadagnare. In Italia invece i grandi editori sono spesso dei signori che fanno i soldi in altro modo: ad esempio con le costruzioni (Caltagirone), con la sanità privata (Angelucci), con le auto (Agnelli-Elkann). Le loro fortune non dipendono dal numero di copie vendute, ma da altri affari molto più remunerativi che dipendono, quelli sì, dalle scelte della politica. Decidere se rendere edificabili o meno delle aree, se accreditare a livello regionale una clinica o se tassare i veicoli più inquinanti fa parecchia differenza nei loro bilanci. Essere proprietari di mezzi d’informazione permette così di blandire gli amministratori nazionali o locali più vicini ai propri interessi e di stangare gli altri. Come? Non solo con opinioni e commenti, ma anche scegliendo quali notizie pubblicare o non pubblicare, o quale rilevanza dare agli articoli. Nelle scorse settimane, ad esempio, prima Il Tempo e poi Libero (editi da Angelucci) hanno dato ampio spazio a una notizia riguardante l’assessore alla Sanità del Lazio, Alessio D’Amato: l’apertura di un’indagine da parte della Corte dei conti su 275mila euro versati nel 2006 e 2007 dalla Regione a un’associazione a lui riconducibile. Sulla vicenda c’era stata pure un’inchiesta penale per truffa da cui Amato era uscito grazie alla prescrizione.

Attenzione: la notizia era vera ed è giusto che sia stata pubblicata. Quello su cui si deve invece riflettere è la tempistica. La campagna stampa contro D’Amato parte dopo che l’assessore revoca l’accreditamento alla residenza per anziani San Raffaele Rocca di Papa del gruppo Angelucci. Nella Rsa c’erano stati 43 morti per coronavirus e 168 contagiati. E D’Amato, dopo aver constatato che il dirigente sanitario non aveva i titoli per quel ruolo, che le “violazioni dei protocolli”, peraltro redatti da un infermiere, erano state gravissime, era passato all’azione. Un bel danno per il “re delle cliniche romane” Antonio Angelucci, 76 anni, deputato di Forza Italia. In passato, secondo un avviso di chiusura indagini notificato proprio ieri, Angelucci aveva già avuto problemi con D’Amato. Nel 2017, sostengono i pm di Roma, aveva tentato inutilmente di corromperlo con 250mila euro, 50mila dei quali “asseritamente” da consegnare subito, per ottenere l’ok a dei pagamenti in favore di un’altra clinica di Velletri a cui era pure stato revocato l’accreditamento. Vedremo come finirà l’istruttoria. Ma già ora possiamo dire che, con editori così, in Italia tra le mazzette dei giornali e quelle vere è sempre più arduo cogliere le differenze. E in Europa lo sanno.

 

Subito una legge elettorale per una vera rappresentanza

L’Italia ha sperimentato, per circa un trentennio (erano i tempi di Mario Segni, dell’abolizione delle preferenze, prima, e del proporzionale, poi) leggi elettorali che nel segno della “governabilità” hanno in vario modo sacrificato la rappresentanza. Infine, quando anche la governabilità è divenuta un obiettivo praticamente irraggiungibile, si è fatta strada la pessima abitudine delle liste bloccate e delle scelte in capo alla maggioranza dei gruppi dirigenti dei partiti.

Ciò ha provocato, ed è sotto gli occhi di tutti, una forte delegittimazione del ceto politico non disgiunta da una astensione che era sconosciuta nella tradizione politico-istituzionale del nostro Paese.

Ora, come ho già sostenuto dalle colonne di questo giornale, l’occasione di “restituire lo scettro al Principe” è data dall’esito del referendum sulla riduzione dei parlamentari che pare abbia innescato una serie di correttivi opportuni, quando non necessari, per ridare linfa e significato al principio di rappresentanza, ovviamente non nel senso della cura, da parte del candidato o dell’eletto, dell’esclusivo orticello del proprio collegio o della propria circoscrizione: quelli sono casi che più opportunamente trovano collocazione nel vigente codice penale.

Rendere uniforme l’elettorato attivo e passivo per le due Camere, intervenire sui Regolamenti e sulle procedure interne, dare un senso concreto alla locuzione che vede il Senato eletto su “base regionale” sono segnali importanti di una volontà riformatrice che con senso della misura mette mano alla Costituzione, manca tuttavia la madre di tutte le riforme che non ha rango costituzionale (eppure potrebbe averlo come in altre esperienze europee) che sarebbe urgente approvare: una legge elettorale proporzionale, con una soglia di sbarramento ragionevole (come sostiene l’amico e collega Mauro Volpi dell’ordine del 3%) e, soprattutto, la doppia preferenza di genere. Ciò consentirebbe agli elettori di scegliere in maniera consapevole i candidati (rafforzando il senso di responsabilità di chi vota) e, nel contempo, di perseguire l’obiettivo della parità di genere anch’esso sancito dalla Costituzione repubblicana. Le altre soluzioni, che pure hanno dato ottima prova in altri contesti istituzionali, mi paiono poco consoni al nostro Paese che vede nella esigenza di una rappresentanza ampia e frammentata un valore politico irrinunciabile. Chi pensa che sia venuto il tempo di eleggere il Sindaco d’Italia o, peggio, un “uomo della Provvidenza (magari dotato di pieni poteri) farebbe bene a ricredersi e ad alimentare quello spirito democratico e pluralista che ha consentito al nostro Paese, nei primi quarant’anni di vigenza della Costituzione, di raggiungere traguardi economici, politici e sociali straordinari e inaspettati.

 

 

Così la Meloni si mangia la leadership di Salvini

L’omaggio che Giorgia Meloni, volando a Catania, si appresta a rendere all’alleato Matteo Salvini, prefigura un ribaltamento in corso: se non commetterà errori nei prossimi due anni, sarà lei la candidata della destra al governo del Paese.

Certo, nel giorno del processo all’ex ministro degli Interni, lei saprà accontentarsi del ruolo di comprimaria, aderendo al festival del vittimismo anti-immigrati in difesa dei sacri confini della nazione; ma appare sempre più probabile che sotto l’Etna si celebri non l’apoteosi bensì il canto del cigno dell’imputato. Tanto che la Lega farebbe bene a cambiare di nuovo nome, rinunciando all’improbabile dizione “per Salvini premier”.

Tra le varie ragioni che convergono nell’indicare Giorgia Meloni come la più credibile candidata alla guida di un eventuale futuro governo di destra non c’è solo la sua recente elezione a presidente del partito dei conservatori europei. A favorirla contribuiscono la sua figura moderna, il suo essere donna, la coerenza con cui nel 2018 evitò di allearsi con il M5S e, non ultimo, il profilo che solo lo snobismo di certi commentatori li ha portati a definirla coatta. Cioè la fisionomia di comunicatrice e di formidabile comiziante che fa di lei un’erede legittima della tradizione populista illiberale del Novecento italiano, non a caso battistrada di tutti i futuri movimenti fascisti e nazionalisti europei. Non va sottovalutata la forza derivante da quest’ultimo requisito, per quanto la diretta interessata abbia convenienza a dissimulare il retroterra post-fascista trincerandosi dietro alla sua giovane età. Se Fratelli d’Italia può contare su una presenza ramificata sul territorio e attrarre nuove adesioni di transfughi da altri partiti della destra, pur non disponendo di sindaci di città importanti e di soli due presidenti di regione (Sicilia e Marche), è grazie alla tradizione cui, implicitamente, si richiama. Per intenderci, alle spalle della leadership di Meloni, nell’apparato, conta ben di più il neofascismo di Ignazio La Russa che non la presentabilità sociale del suo abile suggeritore Guido Crosetto. E se lei può avvalersi di entrambi, presentarsi fascista con i fascisti e afascista con gli afascisti, è perché nel dna di questa destra italiana aderente ai malumori popolari vi è una rivendicata, addirittura teorizzata disinvoltura.

Verrebbe qui da citare il Mussolini del 1921: “Noi ci permettiamo il lusso di essere aristocratici e democratici: conservatori e progressisti; reazionari e rivoluzionari; legalitari e illegalitari a seconda delle circostanze”.

Più modestamente oggi Giorgia Meloni, nel suo discorso di insediamento alla testa dell’Ecr Party (alla parola “conservatori” hanno aggiunto “riformisti”, non costa nulla e non guasta) può rivendicare il sovranismo abbinandolo al progetto di un’Europa confederale, sorvolando sulla loro incompatibilità. E infilarci astutamente, in nome “della nostra storia e della nostra cultura”, la condanna “di un antirazzismo strumentale”.

La disinvoltura, appunto, di donna emancipata che difende l’idea di famiglia cattolica senza bisogno di sposarsi col convivente. Che elogia sui social la “bellissima Vanessa Incontrada” contro chi vorrebbe “imporci pure i canoni di bellezza” e poi non manca di lanciare l’ennesima frecciata contro le manifestazioni del 25 aprile. O di riferirsi a George Soros definendolo “usuraio”, ben sapendo a quale pregiudizio alluda quel richiamo.

Le origini di tale ambivalenza sono ancor più antiche e radicate, nel nazionalismo italiano, della matrice socialrivoluzionaria fascista. Era il 1910 quando un poeta come Giovanni Pascoli così descriveva la sua missione: “Introdurre il pensiero della patria e della nazione e della razza nel cieco e gelido socialismo di Marx”.

Il nazionalismo che sulla bocca del padano Salvini risuona inautentico trova invece fondamento nell’atavica convinzione che l’Italia sia un Paese depredato dalle scorribande di potenze straniere, intente oggi a manovrare anche la leva delle migrazioni.

Se questo è il retaggio culturale di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni ha interesse a coltivarlo senza cadere nella trappola dell’abiura del fascismo che i suoi aderenti ancora rimproverano a Gianfranco Fini. Continuerà a lasciarlo sottotraccia, fingendo che si tratti solo di un innocuo retaggio del passato, così come strizzerà l’occhio ai partner europei che teorizzano il superamento della democrazia liberale pretendendo che la cosa non la riguardi. Così, senza rinunciare ai suoi tratti popolareschi, è già riuscita a imporsi come personaggio del momento, assai più autorevole dello scamiciato Salvini, dunque più attrattiva agli occhi degli elettori della destra moderata e post-berlusconiana. Una nuova destra che somiglia più di quanto sembri alla vecchia.

 

Reddito Navigator, giudizi sommari. Serve potenziare i Centri del lavoro

Se c’è una cosa che il mio senso etico di ex Prof. di Latino e Greco non riesce a tollerare è l’immoralità dei cittadini che un’intollerabile furbizia e una mancanza assoluta di senso dello Stato spinge ad approfittare indegnamente di risorse pubbliche. Vengo al punto: quella dei cosiddetti navigator è un’anomalia di proporzioni colossali. Parlo perché so di casi di cui potrei fare nomi e cognomi. Questi signori, senza vergogna, non facendo assolutamente nulla e standosene a casa, percepiscono 1.700 euro. E questa cuccagna vergognosa si protrarrà fino a marzo 2021! Preciso, per onestà che parlo della situazione in Campania, non so altrove, ma la circostanza non cambia il problema, perché per me è una questione di etica sociale, fosse pure limitata, ma non credo, alla mia Regione. Poiché vedo martellare sull’argomento quotidianamente i giornali di destra, in questo caso giustamente, non avverto la vostra implacabile condanna di tale andazzo. Recentemente mi è capitato di leggere le incredibili, inaccettabili dichiarazioni di Domenico Parisi, presidente Anpal: l’immorale protervia di costui ha superato quella di certi personaggi craxiani. Io sono assolutamente d’accordo sul reddito di cittadinanza, ma non su questo obbrobrio. Si obietterà che il compito di questi navigator di procacciare lavoro è venuto meno perché il lavoro non c’è, ma allora perché istituirli o almeno, una volta istituiti, perché non revocarne l’istituzione?

Santolo Sica

 

Gentile Sica, questi casi vanno senz’altro condannati, ma trovo ingiusto emettere giudizi tranchant su migliaia di lavoratori sulla base dell’aneddotica personale. Lei solleva però un punto giusto. Il Rdc ha, come seconda gamba, le politiche attive, e i navigator servivano a potenziare i Centri per l’impiego. Lo scontro tra Regioni e Stato, rappresentato dall’Anpal, ne ha depotenziato il ruolo (oggi di mero supporto tecnico). Sono stati assunti con contratti precari e forse non saranno stabilizzati ma “revocarli”, per me, non ha senso. L’Italia era spaventosamente indietro nei servizi per le politiche attive. In Germania contano 110mila impiegati, da noi erano 8mila. Berlino investe 11 miliardi, noi, pre-Reddito, 750 milioni. Non va vanificata la formazione che i navigator hanno fatto e vanno integrati nei Centri per l’impiego. Casomai la vera sfida è migliorare questi ultimi.

Carlo Di Foggia

Mail box

 

Dopo la riforma adesso è giusto un cambiamento

Dopo l’esito del Referendum e la vittoria del “Sì” ritengo assolutamente fondamentale la creazione di una legge elettorale proporzionale. Una legge elettorale maggioritaria, connessa al taglio del 37% della rappresentanza, produrrebbe una “situazione” parlamentare molto pericolosa…

Marco Scarponi

 

Caro Marco, condivido la prima parte della lettera, non la seconda: nel nostro Parlamento 2 eletti conteranno esattamente come 3 in quello vecchio

M. Trav.

 

Su Tridico ci sono polemiche strumentali

Mi sto divertendo a leggere le polemiche sull’aumento di stipendio a Pasquale Tridico. Trovo tutto molto assurdo: in Lombardia i compensi per un direttore generale di azienda sanitaria si aggira intorno ai 153mila euro l’anno. Inoltre, in base a quanto riescono a risparmiare non fornendo più servizi possono avere premi dai 30mila ai 60mila euro l’anno: gestendo un bilancio di 100 milioni di euro circa. Tridico dirige l’ente più grande in Europa, che dovrebbe garantire che i versamenti delle aziende e dei lavoratori siano correttamente gestiti. Sarebbe opportuno pagarlo almeno il doppio di quanto prendono i prezzolati direttori generali di salute pubblica.

A. M.

 

Necessario un cambio di passo in casa Rai

Dopo l’esclusione di Maurizio Corona, ci auguriamo che la nota trasmissione tv prosegua con personaggi di diversa fattura e sicuramente più graditi al pubblico. Giustamente un giornalista che ha partecipato alla trasmissione ha precisato che la situazione della Rai è “drammatica se non ridicola” e siamo quindi in attesa di conoscere quale sarà la nuova forma strutturale dell’Ente con la speranza che venga messo ordine anche ai conduttori delle reti televisive i cui poteri, almeno per alcuni di loro, sono in pratica assolutamente sproporzionati per il ruolo assegnato.

Nicodemo Settembrini

 

La proposta di Fornaro sui collegi uninominali

Il deputato Federico Fornaro nell’intervista al Fatto dice finalmente che le liste bloccate vanno superate perché hanno fallito. Aggiunge però che la fine delle liste bloccate non coincide con l’introduzione delle preferenze., Ci sarebbe l’alternativa come il collegio uninominale proporzionale utilizzato per il Senato fino al 1992. Ho letto che anche Azzariti sostiene quella stessa proposta. Vorrei motivare la mia contrarietà. Tale proposta prevede che: 1) Si dovrebbe dividere il territorio (nazionale o regionale?) in collegi uninominali(400 alla Camera e 200 al Senato?). 2) I seggi sono attribuiti con metodo proporzionale sull’intero territorio (nazionale o regionale?) 3) All’interno di ogni lista vengono eletti i candidati che hanno ottenuto la migliore percentuale di voti nel collegio? A parer mio il collegio uninominale con il candidato deciso dal partito non offre alcuna possibilità di scelta all’elettore perché lo vincola alla lista: se io non voglio quel candidato non posso votare per il mio partito. Questo era uno dei limiti più gravi del Rosatellum che verrebbe in tal modo riproposto. Un eventuale voto disgiunto tra lista e candidato (voto alla lista e non voto al candidato) assegnerebbe ad altri elettori la possibilità di scelta. In questo modo avremmo due liste nazionali, rispettivamente di 400 e di 200 candidati, se saltano le pluricandidature, ordinate secondo le cifre elettorali di ciascuno. Non è difficile comprendere che l’ordine in queste liste viene deciso a priori da chi sceglie e colloca i candidati nei singoli collegi. La situazione attuale delle liste bloccate non cambia molto a meno che non si voglia prendere sul serio il sorteggio, non tanto dei candidati quanto dei collegi. Di fronte a questo scenario è sicuramente da preferire quello delle liste di collegio proporzionali plurinominali con preferenze.

Osvaldo Roman

 

Per il prossimo futuro vorrei il voto alternativo

Vorrei dare anche io il mio contributo sulla legge elettorale. la mia proposta la rivolgo a te Marco, il voto alternativo: la procedura è molto simile al voto di ballottaggio a doppio turno, ma l’elezione avviene in turno unico. L’elettore con questo metodo esprime il suo voto sulle liste presenti 1-2-3-4-5 per i candidati in ordine di preferenza A-B-C-D. supponiamo che il candidato A riceva 25mila voti, B 20mila, C 15mila mentre D 10mila, se nessuno raggiunge la maggioranza assoluta nel collegio restano in competizione i due meglio votato, le preferenze espresse per gli eliminati vengono attribuite ai candidati sulla base della seconda preferenza espressa.

A. S.

 

Con primarie di collegio si risolverebbero le cose

Vorrei i collegi uninominali, meglio se con candidati prescelti attraverso “primarie di collegio”. Sì alle liste di circoscrizione con le preferenze, ma a patto che i candidati si presentino con curriculum vitae, richiesto per l’assunzione in qualunque aziendina, con foto formato tessera. Vietati tassativamente i primi piani, seriosi o ammiccanti, corredati da slogan accattivanti e banali.

Valentino Ballabio

A Milano l’esperimento dei “cani” per rilevare la presenza di cretini

Monopattino senza regole a Milano: 136 incidenti in 108 giorni. Chi lo usa in due, chi contromano, sul marciapiede o a tutta velocità tra la gente. Il sindaco Sala: “Comportamenti da cambiare” (Corriere della Sera, 18.9.2020).

I cani che annusano le teste di cazzo. Negli ultimi mesi, molte città europee hanno adottato i sistemi più diversi per rilevare l’eventuale presenza di teste di cazzo tra i conducenti di monopattino. A Milano hanno deciso di sfruttare il fiuto dei cani. Il test dura meno di un minuto, e non richiede prelievi di saliva o di sangue. I cittadini con monopattino vengono fermati, e poi invitati a passarsi una salvietta sulla fronte sudata. Un operatore provvede quindi a inserire la salvietta in un recipiente di latta, che viene collocato su un tavolino insieme ad altri recipienti di forma uguale, ma con dentro sostanze profumate. Una volta allestito tutto, è il turno del cane, che, annusate le varie lattine, segnala se in una è presente l’odore che hanno di solito le teste di cazzo. Nel caso di esito positivo, il conducente di monopattino viene invitato a raggiungere un pulmino poco distante, dove dovrà sottoporsi a un test psicologico per confermare l’indicazione data dal cane, nel qual caso gli verrà sequestrato il monopattino, con diffida dal noleggiarne/comprarne altri. Utilizzando più cani si possono effettuare verifiche su centinaia di conducenti di monopattino ogni ora. Come è noto, i cani hanno un olfatto estremamente sensibile e sono impiegati da decenni negli aeroporti, per esempio per rilevare la presenza di esplosivi, oppure di sostanze stupefacenti e altri materiali di contrabbando (contorsioniste cubane). Alcune ricerche hanno inoltre messo in evidenza come alcuni cani siano anche in grado di rilevare la presenza nell’uomo di alcune patologie (tumore, prurito anale causato da cani che sniffano). Partendo da questi presupposti, dei ricercatori lombardi si sono chiesti se non fosse possibile sfruttare questa dote canina anche per rilevare la presenza delle teste di cazzo, semplificando almeno in parte le attività di controllo del territorio e il Daspo urbano. Presso l’Università Cattolica, la ricercatrice Eugenia Pistoni ha ideato un progetto per sperimentare questa soluzione, iniziando da teste di cazzo notorie (alcuni prof indicati dagli studenti). Nel complesso, i cani hanno mostrato di riuscire a rilevare bene le teste di cazzo. Così, la dottoressa Pistoni ha addestrato dieci cani seguendo il metodo classico del rinforzo positivo, con la somministrazione di croccantini ogni volta che i cani identificavano correttamente la salvietta usata da un prof testa di cazzo. Quattro cani hanno iniziato a svolgere i loro turni in città da questa settimana, gli altri sei invece non hanno superato l’addestramento, perché si sono rivelati poco attratti dai croccantini (volevano il macinato con manzo e verdure, ma era fuori budget). L’esperienza di Milano è la più avanzata nel suo genere, però i ricercatori ammettono di non avere ancora le idee molto chiare su quali composti chimici presenti nel sudore delle teste di cazzo siano effettivamente riconosciuti dai cani. Comunque, se i nuovi dati dovessero confermare le esperienze positive condotte finora, i cani potrebbero essere impiegati in numerosi contesti per contribuire alla difesa delle metropoli dalle teste di cazzo che le infestano: per esempio nelle case di riposo, dove non sono rare le infermiere sadiche e i vecchi stronzi. Unica precauzione: non affaticare i cani con turni olfattivi troppo lunghi. Tendono a stancarsi, con il rischio di diventare meno precisi man mano. In ogni caso, il programma non comporta rischi per loro: i pit bull non vengono presi a calci facilmente, neppure dalle teste di cazzo (segnalato solo qualche caso isolato).

 

Il non-reato che Matteo ha già commesso

Come dare torto a Paolo Mieli quando, sul Corriere della Sera, a proposito del processo Salvini e del dramma irrisolto dell’immigrazione (con l’incessante catena di sbarchi e naufragi), s’interroga sulla latitanza delle “manifestazioni di sostegno alla causa dei fuggiaschi da parte del mondo della cultura e delle arti”? O quando causticamente nota che oggi “ancor meno sono gli scrittori che, sul modello di quel che loro stessi fecero nelle estati 2018 e 2019, abbiano preso la via del mare per portare un pur minimo sollievo ai disperati in fuga dalle coste africane (così da aver poi modo di scrivere libri su quelle loro sofferte esperienze)”.

Siamo d’accordo, il doppiopesismo di una certa intellighenzia di sinistra “impegnata” nella difesa degli ultimi a giorni alterni è imbarazzante. Ma la tesi di chi sostiene (numerosi esponenti radicali, il pd Matteo Orfini, l’ex M5S Gregorio De Falco) che dai tempi di Salvini in Italia non è cambiato niente, solo che adesso nessuno o quasi ne parla più, si presta a qualche considerazione aggiuntiva. Soprattutto alla vigilia dell’udienza preliminare davanti al Gup di Catania che dovrà decidere se mandare a processo l’ex ministro degli Interni per il caso Gregoretti. Chi conosce la materia dubita che l’imputazione di sequestro di persona contro il leader della Lega possa reggere, mentre sull’abuso di ufficio esisterebbero più margini per l’accusa. Vedremo. Ma c’è qualcosa nel comportamento di Salvini che sfugge alle sentenze e alle aule di giustizia, poiché offendere il senso di umanità e ferire le coscienze non è un reato.

Infatti, se pure il giudice dovesse proscioglierlo sulla base del codice penale (come gli auguriamo) ci sono parole e atteggiamenti a lui riferibili difficili da dimenticare, e da assolvere. Quando, per esempio, il 25 giugno 2019, a proposito di un altro dramma del mare, l’allora inquilino del Viminale nonché vicepremier dichiarava: “La Sea Watch in Italia non ci arriva, possono stare lì fino a Natale”. Parlava di 42 naufraghi da 14 giorni ammassati sotto il sole rovente nella nave Ong di Carola Rackete. Non certo una frase sfuggita per caso, ma il manifesto politico di quella destra sovranista che già si sentiva padrona assoluta dell’Italia e dunque legittimata all’accanimento persecutorio nei confronti dei disperati giunti dall’Africa. Coloro che nei loro spot elettorali incarnavano l’“invasione”. La materia prima per quella politica dell’odio, del rancore e della rabbia di cui non ci siamo ancora liberati, anche se l’attuale ministro Luciana Lamorgese appare, come visione e linguaggio, mille miglia lontana dal suo predecessore. Quanto al ripensamento del governo Conte sui decreti Sicurezza, forse potrà cambiare le norme, non il cuore degli uomini.

Altro che blocco, licenziamenti già partiti

I l piccolo passettino in avanti che il mercato del lavoro italiano ha compiuto ad agosto si traduce in 83 mila occupati in più rispetto a luglio. Dalle tabelle diffuse ieri dall’Istat, però, emerge pure che mancano ancora 360 mila posti per tornare ai livelli raggiunti a febbraio, cioè prima che scoppiasse l’emergenza Covid. E non è finita qui perché ora si aggiungerà un nuovo rischio all’orizzonte: a partire dal 18 agosto, i licenziamenti economici non sono più vietati categoricamente, ma concessi in alcuni casi, per esempio per le aziende che dichiarano la chiusura. Questo potrebbe sparigliare le carte a partire dai dati di settembre, in arrivo tra un mese, poiché finora i dipendenti a tempo indeterminato sono stati gli unici a reggere all’onda anomala della crisi. E questo proprio grazie a quella norma rigida del decreto Cura Italia, entrata in vigore il 17 marzo. Per la verità, già in questi mesi non tutte le imprese sembrano averla seguita alla lettera: tra aprile e giugno, i lavoratori allontanati per motivi economici ammontano a 47.543, come si legge nel report trimestrale dell’Inps. E si tratta di un numero che è cresciuto progressivamente. Mentre ad aprile, quindi pochi giorni dopo l’entrata in vigore del decreto, i licenziamenti si sono fermati a 9.924, a maggio sono diventati 15.283 e a giugno sono saliti fino a 22.336.

Insomma, con l’aggravarsi delle difficoltà, sembra che molti datori abbiano smesso di resistere. A meno che non si tratti di semplici cambi d’appalto con riassunzione presso la nuova azienda, questi addetti sono stati messi alla porta in violazione delle norme. Tuttavia, l’Inps non aveva il potere di rigettare le lettere di licenziamento ricevute durante il periodo di blocco, perché è un compito che spetta ai giudici del lavoro. Quindi, chi viene cacciato è costretto a fare causa, ha chiarito l’istituto di previdenza con una circolare, e finché non si pronuncia il Tribunale i licenziamenti restano efficaci.

Ora che la moratoria si è affievolita, i numeri potrebbero peggiorare. Non è un mistero che le aziende mal sopportassero il divieto e non vedessero l’ora di liberarsene. Nelle ultime settimane è partita una corsa all’interpretazione della nuova disciplina, per individuare tutte quelle situazioni nelle quali i licenziamenti saranno ora ammessi. Ecco perché gli occhi sono puntati sui numeri che leggeremo da settembre in poi. Abusi a parte, il decreto ha finora avuto un ruolo fondamentale nel fare da tappo e i risultati si leggono nei numeri. Ad agosto i dipendenti a tempo indeterminato sono risultati addirittura superiori a quelli di febbraio, mentre quelli a termine (che possono essere messi alla porta a fine contratto) sono crollati di 315 mila.

Confrontando i trimestri, in quello che va da giugno ad agosto abbiamo avuto meno occupati rispetto a marzo-maggio, periodo caratterizzato dal lockdown, ma nei mesi estivi c’è stato una grossa riduzione dell’inattività e un grosso aumento della disoccupazione: è il segno che gli italiani, dopo aver passato i mesi più duri nella rassegnazione, sono tornati a cercare un lavoro dopo le riaperture. Continua a crescere il tasso di disoccupazione soprattutto per gli under 24 (32,1%) e under 34 (15,6%).