La tangente di Angelucci E i pm volevano arrestarlo

La tegola giudiziaria che cade sulla testa del deputato di Forza Italia, Antonio Angelucci, porta la firma di Alessio D’Amato. È l’assessore alla Sanità della Regione Lazio che ha denunciato una presunta offerta da parte dell’editore dei quotidiani Libero e Il Tempo, di una mazzetta (rifiutata) da 250mila euro. Così Angelucci ora rischia il processo per istigazione alla corruzione e per un episodio di corruzione. Accuse che il deputato respinge, dichiarando la propria totale estraneità ai fatti contestati. L’indagine intanto è stata chiusa, atto che di norma prelude a una richiesta di rinvio a giudizio.

Ma a Roma il deputato ha anche un’altra grana da risolvere: nei suoi confronti c’è stata, nei giorni addietro, anche una richiesta di rinvio a giudizio per un’ulteriore vicenda, quella che lo vede indagato di associazione per delinquere finalizzata alla omessa dichiarazione. È questa un’altra vicenda per la quale, come ricostruito dal Fatto, più di un anno fa la Procura aveva addirittura chiesto gli arresti domiciliari per Angelucci, rigettati dal gip dopo molti mesi. Ma procediamo con ordine.

Partiamo dunque dall’accusa di istigazione alla corruzione. La vicenda rientra nell’ambito di un “tavolo di conciliazione” avviato dell’allora prefetto di Roma alla luce di una “crisi occupazionale minacciata dal Gruppo San Raffaele, che non vedeva riconosciute le proprie pretese economiche”. Secondo i pm, il deputato “in quanto esponente della famiglia Angelucci, proprietaria di numerose strutture sanitarie accreditate con la Regione Lazio facenti capo al ‘Gruppo San Raffaele’”, nel 2017 durante un incontro in Regione, ha promesso a D’Amato il pagamento di 250mila euro, di cui 50mila “consegnati subito” qualora il dirigente avesse avallato la sua richiesta. Ossia quella di sbloccare il pagamento di pretesi crediti del San Raffaele di Velletri al quale la Regione aveva revocato l’accredito “a causa di gravi irregolarità”, “cui era conseguito – riporta il capo di imputazione – un procedimento penale, allora pendente”. Una richiesta che D’Amato riteneva “infondata e irricevibile”. Ed è proprio l’assessore che denuncia la presunta tangente promessa: “Sono convinto – spiega D’Amato – che quando un pubblico ufficiale viene a conoscenza di una notizia di reato, peraltro di tale gravità, debba sempre rivolgersi alle autorità”.

In questo caso la corruzione quindi non si concretizza. A differenza, secondo i pm, di un altro episodio contestato ad Angelucci. Stavolta sotto accusa ci è finito pure Salvatore Ladaga, indagato per corruzione per l’esercizio della funzione. Si tratta del coordinatore di Forza Italia a Velletri, suocero, tra l’altro, di Gabriele Bianchi (dal quale ha preso le distanze), il giovane accusato assieme ad altri tre dell’omicidio di Willy Monteiro Duarte. Per i pm, Ladaga, allora consigliere comunale di Velletri, in attesa di riconferma alle elezioni del 2018, avrebbe agito per “favorire le iniziative imprenditoriali di Angelucci e in particolare la riapertura della casa di cura San Raffaele Velletri”.

A Roma però Angelucci risulta indagato anche per un’altra vicenda, per la quale la Procura più di un anno fa ha chiesto i domiciliari, rigettati dal gip Maria Paola Tomaselli. In questo caso i pm prospettano l’esistenza di “una associazione per delinquere transazionale promossa e capeggiata da Antonio Angelucci finalizzata a commettere reati (…) in relazione alla omessa dichiarazione in Italia dei redditi delle società denominate Spa di Lantigos Sca e T.h.S.A”. Si tratta di società di diritto lussemburghese che, secondo i magistrati, avrebbero “il carattere di capogruppo della holding Angelucci” e che non dispongono di “un’autonoma organizzazione ” e che “consentirebbero di occultare il patrimonio di Angelucci operando all’occorrenza, – come ricostruisce il gip – tramite un complesso meccanismo, il finanziamento delle società del gruppo secondo le decisioni assunte dall’indagato”.

Il deputato non risulta avere ruoli in nessuna società né in Italia né all’estero. In ogni modo, secondo i magistrati, l’evasione risalirebbe agli anni di imposta dal 2008 al 2013 “sia in relazione alla omessa dichiarazione dei redditi” delle società lussemburghesi “sia in relazione alla dichiarazione delle persone fisiche”. Ma per il giudice non ci sono elementi per dimostrare la reiterazione del reato e quindi la richiesta di domiciliari è stata rigettata.

“Proporzionale con collegi e premio Serve una Bicamerale sui fondi Ue”

Rafforzare il ruolo del Parlamento e restituire valore alla rappresentanza. Per questo, il capogruppo del Pd alla Camera Graziano Delrio lancia la proposta di una Commissione bicamerale per controllare il Recovery Plan. E pensa a una legge elettorale proporzionale con collegi uninominali e premio di maggioranza alla coalizione che raggiunga il 40%.

Onorevole, il Pd ha presentato una proposta di riforme costituzionali, che ricorda la riforma Renzi bocciata nel 2016. Non trova?

Le differenze ci sono. Il cuore della proposta è il superamento del bicameralismo perfetto, attraverso il rafforzamento del Parlamento in seduta comune. Ma non si tratta di una riforma organica come quella del 2016, fa parte di una strategia complessiva, che va avanti per passi successivi. Ho votato convintamente Sì al taglio dei parlamentari, perché sapevo che era l’inizio di un percorso, che si sta svolgendo in un clima di lealtà con M5s e gli alleati.

L’approvazione della legge elettorale slitterà?

È un processo che si conclude nel momento in cui si verificano le condizioni. Tutto dipende dal clima in maggioranza e dal dialogo con l’opposizione.

Che legge volete?

Siamo un partito con molte idee. Ma la nostra proposta ufficiale è un proporzionale con la soglia di sbarramento al 5%. Per ora abbiamo definito i confini. Ora si può lavorare sul tema della governabilità e su quello del rapporto eletti/elettori.

Zingaretti ha parlato di collegi e non di preferenze.

Anche io sono più innamorato dei collegi che della competizione sulle preferenze. L’importante è il tema della riconoscibilità elettore/eletto. Io sono stato eletto in un collegio uninominale nella mia città, senza la rete dei listini bloccati. Come in Germania servono collegi in cui l’elettore vede la faccia del candidato sulla scheda e la può rifiutare.

E le tentazioni nel Pd per il maggioritario?

In questo caso il tema è giustamente la governabilità. Ma il premio di maggioranza lo puoi prevedere anche con il proporzionale: lo vedrei per una coalizione che raggiunge il 40%.

Un sistema così favorirebbe il Pd, e il centrodestra. O magari spingerebbe voi e M5s ad allearvi?

Il tema in questo momento è teorico. Ora il punto è come si costruisce la governabilità e una trasparente proposta agli elettori.

E le liste bloccate?

Vanno superate o ridotte come peso. Questa è un’istanza fondamentale.

La maggioranza di cui lei faceva parte approvò l’Italicum e poi il Rosatellum. Li difenderebbe?

L’Italicum aveva un pezzo che non ha resistito al vaglio della Corte e questo mi basta. Comunque, già allora, ma soprattutto quando si è varato il Rosatellum, noi ministri eravamo impegnati a governare.

Lei ha fatto della centralità del Parlamento la sua battaglia. Come si può recuperare?

Soprattutto partendo da come e su cosa lavora. Per esempio, se il Parlamento è costretto a lavorare sui decreti del governo e solo una Camera li esamina è umiliante. Vada per il Covid, ma i decreti devono essere usati con grande parsimonia. E poi deve avere nuove e più approfondite funzioni. Per esempio il Parlamento deve dare indirizzi e potenziare molto la sua attività di controllo, come accade in Inghilterra. Un’occasione è il Recovery Plan: il Parlamento emanerà le linee guida, poi l’esecutivo le rielaborerà. Si può partire con una Bicamerale che possa controllare il Recovery Plan, attraverso un’attività di monitoraggio. Il che non vuol dire che può decidere su un progetto piuttosto che su un altro. Questo restituirebbe centralità e autorevolezza al Parlamento che è il vero rappresentante del popolo.

Il “Pastrocchium” di Zinga sembra la riforma di Renzi

Tanti saluti alle riforme puntuali della Costituzione come il taglio dei parlamentari. Anzi: sì alla riproposizione di alcune – le peggiori – modifiche volute dalla coppia Renzi-Boschi nel 2016 e già bocciate dagli elettori. Sta tutta qui la riforma costituzionale presentata ieri al Nazareno dai vertici del Pd. Ma di nuovo nella proposta ispirata da Enzo Cheli e Luciano Violante c’è solo il ruolo del Parlamento che si riunirà in seduta comune sia per dare e togliere la fiducia al governo, sia per votare il Bilancio che per le comunicazioni del premier prima e dopo il Consiglio Europeo. Sul resto la grande riforma Pd è una minestra riscaldata di proposte ripescate dal ddl Renzi-Boschi e nuove regole per rafforzare il ruolo del governo legando di fatto le mani al Presidente della Repubblica con il meccanismo della sfiducia costruttiva à la tedesca.

Dalla riforma Renzi questo progetto ripesca un Senato depotenziato e che dovrebbe fare da collegamento con le Regioni. In primo luogo, con un nuovo “bicameralismo temperato”, le due Camere avranno un potere diverso sul processo legislativo: la supremazia spetterà all’aula di Montecitorio che avrà l’ultima parola sulle leggi ordinarie, mentre resta il bicameralismo paritario per le leggi elettorali e costituzionali. I senatori avranno il potere d’inchiesta e sulle politiche pubbliche con impatto sui territori, mentre nel processo ordinario saranno praticamente inutili: potranno esaminare le leggi approvate a Montecitorio entro 15 giorni e fare delle modifiche, ma la parola finale spetterà comunque alla Camera. Al Senato tornerebbe anche il dopo-lavoro per i consiglieri regionali: ai 200 senatori si aggiungono 21 consiglieri eletti dalle assemblee locali che dovrebbero fare la spola tra Rome e i capoluoghi. Ma ancora una volta il loro mandato sarebbe legato a quello dei consigli regionali (creando molta confusione).

Il presidente del Consiglio poi sarà rafforzato: avrà il potere di proporre al capo dello Stato la revoca di un ministro, ci vorrà la maggioranza assoluta per la sfiducia e viene introdotto il meccanismo della sfiducia costruttiva come in Germania indicando nella mozione chi dovrebbe guidare il prossimo governo. Problema: questa modifica rischia di esautorare i poteri del Capo dello Stato di nomina del premier visto che nella forma di governo italiana, rispetto a quella tedesca, il presidente non ha solo un potere formale ma sostanziale. La proposta non piace al M5S: “No alle riforme monstre e agli annunci di parte” dice il capogruppo alla Camera Davide Crippa e lo scontro continua anche sulla legge elettorale. Zingaretti ha detto che la soglia del 5% “non è in discussione” facendo arrabbiare LeU e che alle preferenze preferisce i “collegi uninominali sul modello delle province” incontrando l’ostilità di Italia Viva: “Sì alle preferenze, no al Provincellum” dice Maria Elena Boschi. Risultato: per il primo voto si dovrà aspettare il 2021.

La vigilia del processo tra “froci, rutti e Netflix”

“Sono ricchione alla vecchia maniera, cattolico devotissimo e leghista”. Grazie a Nino Spirlì, irregolare e pirotecnico assessore salviniano alla Cultura della Calabria, la kermesse catanese, immaginata per dare al movimento giacca e cravatta e finalmente berlusconizzarlo, si fa assai friccicarella intorno alla difesa dell’identità e della lingua: “Ci stanno togliendo la parola, ci stanno rubando l’identità. Non si può più dire zingaro, negro oppure ricchione”, lamenta l’assessore, giornalista, uomo di teatro e autore tv, mandando all’aria il bon ton della riunione dall’arredo confindustriale che Salvini aveva commissionato a Stefano Candiani, già sindaco di Tradate e segretario a Varese, e ora segretario della Lega siciliana. L’efficientissimo Candiani ha speso 100mila euro per garantire fin dalla scenografia quell’aplomb centrista che ancora un pochettino manca quando, per un vile attentato a questa grande opportunità, Spirlì – tra gli applausi – ha lamentato di patire la costrizione linguistica dell’élite progressista. “Non mi piegherò mai alla lobby frocia che mi impedisce di dirmi ricchione, di usare questa parola giacché sarei omofobo”. Avanzando nella ricerca antropologica Spirlì aveva anche contestato il divieto di dire “zingaro allo zingaro” e “negro al negro”. “Noi calabresi li chiamiamo nigri e non abbiamo altra parola”.

Parterre solidale e partecipe per questo coming out collettivo che ha spinto i testimonial sul palco a liberare le proprie energie creative. Quando è toccato a Lucia Borgonzoni, quella che doveva fare la presidente dell’Emilia Romagna e che a ogni costo sarebbe rimasta a Bologna per guidare l’opposizione, l’istinto trasgressivo ha avuto la meglio. E così anche lei è sbuffata: “Scherzi su un gay e non va bene. Scherzi su una donna e non va bene”. La libertà incatenata dal nuovo conformismo egemone, da questo bon ton culturale che non ammette alcuno sbrego linguistico. “Ma come? Il rutto è stato valorizzato come elemento distintivo”, accusa Spirlì esponendo agli amici il crocifisso (“perché il cuore di Gesù ci aiuta sempre”). E la Borgonzoni: “Le élite vanno al cinema, al teatro. Chi può permettersi di spendere anche cento, duecento euro, sceglie cosa vedere, dove andare. E il popolo?”. Al popolo viene somministrato Netflix. La singolare teoria sulla tirannia audiovisiva di Netflix, “che condiziona e seleziona, ci fa vedere solo quello che lì si decide” conduce gagliardamente la Borgonzoni sul punto della discussione leghista: come difendere gli italiani dalle libertà che questa maggioranza sta restringendo anche nel telecomando. E Maria Giovanna Maglie, la conduttrice tuttofare (un po’ presentatrice, un po’ commentatrice, e anche intervistatrice), rivela che malgrado il berlusconismo, Mediaset, dove lei è di casa, è ancora “piena di comunisti”.

Materialismo storico, laicismo lassista, egemonia dei social. La Lega di Salvini, e presumiamo che Matteo non ne sapesse niente, si era data appuntamento a Catania per raccogliere i pezzi del bel mondo democristiano, l’assonnato e pingue ceto medio della politica siciliana, e avanzare come centro di gravità permanente dei sans papier, i nuovi senza casa di Palazzo dei Normanni.

Si ritrova, in questo cortocircuito culturale, inchiodata al tema di sempre e con nuove virtù cardinali: l’orgoglio di dire zingaro allo zingaro, negro al negro e frocio al frocio.

Riecco i furbastri: Salvini non li caccia e i 2 fanno comizi

Ufficialmente sono ancora “sospesi”, come da comunicato stampa della Lega dello scorso 12 agosto. Eppure Andrea Dara ed Elena Murelli, i due deputati salviniani che hanno ottenuto il bonus Covid da 600 euro destinato alle partite Iva, sono ancora al loro posto nel gruppo parlamentare e in questi giorni hanno ripreso a fare attività politica come se nulla fosse successo. Giusto il tempo che si calmassero un po’ le acque e tutto sembra esser tornato alla normalità, coi due onorevoli di nuovo indaffarati tra comizi e impegni istituzionali proprio mentre Marco Rizzone, il terzo deputato coinvolto, veniva cacciato dal gruppo M5S.

Per i due leghisti sembra invece esserci una seconda possibilità. Andrea Dara nei giorni scorsi è tornato a Castiglione delle Stiviere, il paese in provincia di Mantova dove è vicesindaco. La minoranza aveva presentato una mozione per chiederne le dimissioni, bocciata con ampio margine dalla Lega e dal resto del centrodestra. Segno che, nonostante la sospensione, il partito non ha di certo scaricato l’onorevole, sostenuto per l’occasione da decine di attivisti del Carroccio arrivati anche da fuori Comune per assistere alla seduta del Consiglio.

Un onore che Dara ha gradito parecchio, festeggiando poi lo scampato pericolo sui social: “Prima di tutto grazie, ai consiglieri comunali e soprattutto ai Castiglionesi. Adesso andiamo avanti a lavorare per la nostra città e per il bene della nostra comunità”.

L’agenda di Dara ultimamente è tornata piena di appuntamenti pubblici: dieci giorni fa, ad esempio, la consegna di alcuni premi, poi un evento in favore dell’ecosostenibilità. Eventi istituzionali cui potrà presenziare ancora, con la legittimazione politica appena confermata dalla Lega e dagli alleati.

E chissà che adesso non arrivino giorni sereni anche per la Murelli, silente per oltre un mese dopo lo scoppio dello scandalo e già riaffacciatasi alla vita pubblica. Pure lei, come il collega, ancora iscritta al gruppo della Lega e attiva soprattutto sul proprio territorio in questi tempi difficili. Appena dopo il referendum sul taglio dei parlamentari ha espresso il proprio disappunto: “Queste riforme fatte con il voto del 30 per cento degli aventi diritto sono il segnale di una democrazia che sta scricchiolando. Il Parlamento sarà delegittimato”.

Poi ecco il primo evento politico, in occasione dei festeggiamenti per l’elezione a sindaca di Carlotta Oppizzi nel Comune di Ferriere, Piacenza. Anche per lei grande accoglienza, come testimoniato dalle parole del vicesindaco Paolo Scaglia: “Voglio ringraziare una persona che ultimamente è stata coinvolta in qualche polemica, però ci ha sempre aiutato e ci è stata vicino: l’onorevole Elena Murelli”. Con tanti rallegramenti da parte dell’interessata: “Sono onorata di essere qui, questa vittoria è frutto del lavoro di squadra. Siete delle persone perbene che ci mettono impegno con tanta onestà, e la gente ha saputo riconoscerlo”. Un complimento che somiglia a un augurio per sé stessa, visto il clima di redenzione in salsa leghista.

Fondi Lega: i pm indagano su operazioni per 29 mln

La Procura di Milano indaga su operazioni finanziarie “sospette” per 29 milioni dove il nome di Alberto Di Rubba, commercialista vicino alla Lega arrestato nell’ambito dell’inchiesta sui presunti fondi neri del Carroccio a partire dal caso Lombardia Film Commission (Lfc), ricorre spesso come quello dell’imprenditore bergamasco Marzio Carrara, leader a livello europeo nel settore tipografico. Carrara, va detto subito, non risulta indagato. Delle segnalazioni dell’Unità di informazione finanziaria (Uif) della Banca d’Italia, messe agli atti dell’indagine coordinata dal procuratore aggiunto Eugenio Fusco e dal pm Stefano Civardi, tre sono ritenute decisive. A partire dalla vicenda dell’immobile di Cormano acquistato con denaro della Regione Lombardia, i magistrati stanno seguendo i soldi dei professionisti vicini al partito di Salvini. Al netto dell’entità economica delle operazioni, ciò che interessa ora sono i collegamenti tra chi vende e chi compra, in uno schema, secondo l’accusa, simile a quello visto su Lfc. A ciò si aggiunge, scrive la Uif, l’ipotesi che “i fondi ricevuti” come corrispettivo delle vendite “sospette” siano “collegati ad attività di finanziamento illecito alla Lega Nord”. Un titolo di reato che a oggi non è contestato nell’inchiesta di Milano. Marzio Carrara, annota la Uif, tra il 2015 e il 2018 ha incassato dalla Lega per “pagamento fatture” 837mila euro e ha intrattenuto rapporti economici con Francesco Barachetti, l’elettricista di Casnigo, tra i fornitori privilegiati della Lega, oggi indagato per peculato. Barachetti, come raccontato dal Fatto, nel 2018 acquisterà da Carrara la Immobiliare Mediterraneo pagando le quote 380mila euro “a fronte di un valore nominale delle stesse di 10mila euro”. Tra le società che tengono le scritture contabili c’è la Stp, riferibile anche al tesoriere della Lega, Giulio Centemero, e al senatore Stefano Borghesi.

Per andare oltre il caso Lfc, la Procura riparte così dalle tre segnalazioni e da maggio 2018. C’è però un prologo a gennaio. Tre società si riuniscono sotto la Arti Group Holding (Agh): sono la Cafin di Carrara, la Dirfin riferibile a Di Rubba e la Advancy Holding di Alessandro Bulfon. Obiettivo: acquisire le quote della società Nuovo istituto italiano d’arti grafiche e della Eurogravure detenute dal fondo tedesco Bavaria. L’acquisto viene perfezionato per 5,5 milioni. In “ambiente anagrafe tributaria”, segnala Banca d’Italia, i documenti di questa compravendita “non sono stati rinvenuti”. A maggio, le quote vengono rivendute da Agh. Compra la Elcograf del gruppo Pozzoni pagando 29 milioni. A questo punto il denaro riparte, bonificato da Agh sul conto della Cafin di Carrara. Nel mese di maggio con causale “finanziamento soci”, Cafin riceve 25 milioni. A novembre, Agh e Cafin saranno incorporate nella Cpz di Carrara. Da questa provvista, 15 milioni ripartono: 1,1 milioni finiscono a Di Rubba. Altri 6 vanno alla Boost di Carrara, dove Di Rubba risulta “procuratore di sportello”. I restanti 8,2 milioni vanno alla Esperia servizi fiduciari. Quest’ultimo bonifico è relativo all’acquisito da parte della Cafin delle quote della Advancy Holding di Bulfon.

Il filo del denaro si lega a una terza segnalazione: protagonisti, Carrara e Di Rubba. Sul piatto, l’acquisto da parte della Boost delle quote della Lebit Holding che controlla l’italiana Lediberg spa (società che fa agende) collegata alla tedesca Lediberg Gmbh. L’84% di Lebit è detenuto dalla Iris Capital Fund di Curacao nelle Antille olandesi e della quale, tranne un cittadino libanese, non si conoscono i beneficiari finali. Annota la Finanza: “Oltre alla società acquirente anche la società acquisita, la sua controllata e la sua collegata tedesca sono riconducibili a Carrara e Di Rubba”. Il “sospetto” prosegue dopo che dall’anagrafe tributaria “non sono emersi” i documenti della compravendita delle quote tra Boost e il fondo Iris. “Parimenti ignota è la data dell’operazione”. Vi è però la conferma, secondo gli atti, che il fondo Iris risulta tra i soci fondatori della Lebit Holding. Dalle “formalità notarili” emerge che della Lebit Carrara è stato presidente del Cda, e Di Rubba, tra maggio e luglio 2018, ha ricoperto la carica di consigliere. La caccia ai soldi dei professionisti della nuova Lega prosegue.

Reddito di demenza

Gli storici chiamati fra cent’anni a raccontare l’Italia del 2020 si arrenderanno subito, in preda a terribili emicranie, e cederanno il passo agli psichiatri. Solo un esperto in patologie mentali potrà tentare di spiegare il dibattito pubblico del nostro manicomio quotidiano. Appena sopita, per manifesta demenzialità, la polemica sullo stipendio del presidente dell’Inps, che guadagnava un quarto di decine di suoi dirigenti e ora va a prendere poco più della metà, s’è riaccesa quella sul Reddito di cittadinanza, che dà da mangiare a 3 milioni di persone alla fame più alcune migliaia di ladri e truffatori che risultano sul lastrico e invece guadagnano benissimo in nero e aggiungono pure i 500 euro al mese del Rdc ai loro introiti clandestini. Le perdite per lo Stato, che vanno comunque recuperate con controlli a campione (chi sgarra rischia fino a 6 anni di carcere), sono irrisorie: una manciata di milioni. Nulla al confronto dei danni fatti da altri furbastri, come gl’imprenditori che potrebbero riaprire l’attività, ma preferiscono arraffare i soldi pubblici della cassa integrazione: l’Inps ne ha già beccati 2.700, per un costo complessivo di 2,6 miliardi di euro (un quarto della spesa annua del Rdc). Ma di questi non si parla mai perché sono amici e colleghi dei padroni dei giornali. Molto meglio continuare a riempire paginate sul tal ladrone o assassino o mafioso col Reddito e dedurne che “i controlli non ci sono o non funzionano” (“Verifiche mancate. La bandiera della legalità sacrificata per il consenso”, Carlo Nordio, Messaggero). Oh bella: ma se i controlli non ci fossero o non funzionassero, non sapremmo mai che il tal ladrone o assassino o mafioso percepiva il reddito. Ogni caso che finisce sui giornali è un controllo che ha funzionato e per giunta è già chiuso: con la sospensione del sussidio e la restituzione del maltolto.

Siccome poi la madre dei cretini è sempre incinta, la polemica si concentra su altri aspetti, ovviamente negativi anzi nefasti, del Reddito: “Non fa trovare lavoro” (Pietro Garibaldi, La Stampa) e lo prende “chi non lavora” (Messaggero). Oh bella: ma, se uno lavora, si suppone che guadagni, dunque non ha diritto all’assegno. Il guaio è che il lavoro non c’è, o è scarso, e proprio per questo esiste il Rdc: per chi il lavoro non ce l’ha e non lo trova. Siccome però ci sono pure quelli che non ce l’hanno perché non lo cercano, il Rdc è stato studiato anche per collegare i disoccupati ai centri per l’impiego, assistiti dai navigator, per “attivarli” con proposte di lavoro (quando ce n’è) e, se le rifiutano, escluderli dal sussidio. I sabotaggi di molte Regioni e i ritardi dell’Anpal, dell’Inps, delle Regioni e degli ex-uffici di collocamento sono noti.

E tutt’altro che scandalosi: la misura è in vigore da 17 mesi appena. Eppure hanno già trovato lavoro – stabile o precario – 196mila percettori del Reddito. Mica pochi, vista la stagnazione del mercato del lavoro (-500mila posti in un anno). Ma non passa giorno senza che qualcuno chieda di abolire il Reddito perché qualcuno ne approfitta. Come se lo Stato fosse un negozietto e potesse affiggere il cartello: “Per colpa di qualcuno non si fa credito a nessuno”. Ma, se la logica (si fa per dire) è quella, abolire solo il Rdc sarebbe riduttivo.

Un mio amico la mattina accompagna sulla sua Smart la figlia alla scuola materna, per cui paga la retta intera, e viene regolarmente sorpassato da altri genitori col Suv, a cui vorrebbe tanto forare le gomme perché la retta non la pagano, risultando nullatenenti. Per non indurlo in tentazione, io abolirei il bonus-asilo per i non abbienti.

Il bonus di 80 euro al mese inventato dall’Innominabile andava a tutti i lavoratori con redditi inferiori ai 28mila euro annui e ora va fino a 40mila. Ma siccome un conto è quanto guadagni e un altro quanto dichiari, milioni di evasori lo intascano senza diritto. Quindi aboliamo gli 80 euro.

Siamo pieni di gente in cassa integrazione o in disoccupazione che arrotondano con lavoretti da idraulici, elettricisti, carpentieri, falegnami ecc. Dunque aboliamo Cig e sussidio di disoccupazione.

I falsi invalidi con pensione ad hoc non si contano: ergo cancelliamo le pensioni di invalidità e non ne parliamo più.

Ospedali, scuole, strade, autostrade, caserme, posti di polizia, autobus, discariche ecc. sono finanziati dalle tasse. Ma molti non le pagano e beneficiano ugualmente dei servizi pubblici: chiudiamoli tutti.

Le truffe più diffuse sono quelle sui fondi europei: quindi l’Italia li rifiuti, compresi i 209 miliardi del Recovery Fund (per non parlare del Mes, che andrebbe alla sanità, gestita dalle Regioni: brrr), e il problema è risolto alla base.

E le truffe alle assicurazioni? Via anche le assicurazioni, mica si può andare avanti così.

E la corruzione negli appalti, nelle nomine e nei concorsi? Via, aboliamo tutto: appalti, nomine e concorsi.

Gli sportelli bancari sono spesso teatro di rapine a mano armata: chiudiamoli tutti, così i rapinatori imparano.

Alla fine, quando avremo abolito tutto, con la stessa logica di Angelina Jolie che si amputa i seni per fregare il cancro alla mammella, ci accorgeremo che il problema non sono questa o quella norma: siamo noi italiani, popolo più avvezzo di altri all’illegalità per la certezza dell’impunità. E a quel punto avremo due strade: o combattere finalmente l’illegalità e l’impunità; o abolire l’Italia.

“Carrère non ha avuto il mio consenso per citarmi nel libro”: la ex moglie è furiosa

Dopo aver dichiarato al quotidiano francese Le Point “Sì, sono geloso di Houellebecq”, lo scrittore francese Emmanuel Carrère torna a far discutere. Ma stavolta è l’ex moglie Hélène Devynck a parlarne, anzi a lamentarsene su Vanity Fair.

È da poco uscito in Francia Yoga e, qualche giorno prima, Hélène riceve il manoscritto con una lettera dell’ex: “Che io scriva libri autobiografici non sarà una sorpresa per te”, e aggiunge, “questo racconto sarebbe incomprensibile se non raccontassi anche il contesto”. Una vera e propria accusatio perché, spiega Devynck, “Il contesto sono io”. Nell’incipit Carrère si presenta così: “Il racconto di questi quattro anni in cui ho provato a scrivere un libello sorridente e sottile sullo yoga e affrontare cose davvero poco sorridenti e sottili”. Dentro, c’è un po’ di tutto, il terrorismo jihadista, depressione e tanto sesso. Il vizio di riportare il talamo sulle pagine dei propri libri, Carrère lo ha sempre avuto. L’acme lo ha raggiunto con Facciamo un gioco (2002) un racconto erotico sulla sua fidanzata di allora che fece pubblicare da Le Monde proprio mentre lei si trovava su un treno per andare a casa sua. Nel racconto i lettori del giornale sul treno con lei venivano coinvolti nel gioco. Risultato? Lei lo molla all’istante!

Hélène, quando stavano insieme, non si è mai curata della propria presenza nella (auto)fiction di Emmanuel perché l’amore tra loro rappresentava un patto e lui “poteva tuffarsi nei miei dolori e nella mia sessualità”. Ma dopo il divorzio nel marzo scorso “siamo legati da un contratto che lo obbliga a ottenere il mio consenso per rappresentarmi nei suoi libri”. Così per Yoga non è stato, ma sarebbe tutto legale perché Carrère ricorre a una citazione di un’opera pubblicata prima del contratto in cui “il mio personaggio – dice Hélène – era al centro di una fantasia sessuale”.

Rapinare la vita di un partner e trasfigurarla su pagina è un’abitudine inveterata degli scrittori. Nessuno dei sensualissimi romanzi di Lawrence, primo L’amante di Lady Chatterley, sarebbe stato possibile senza la moglie Frieda von Richthofen. Così come lo scandaloso La fine di Chéri, in cui Colette racconta l’epilogo della sua relazione con il giovane Bertrand, o lo spintissimo A Disgraceful Affair in cui Luise Védrine (alias Bianca Lamblin) rivela il triangolo sessuale con Sartre e de Beauvoir. Più di recente, Andrew Sean Greer ha vinto il Pulitzer con Less, che narra la sua storia d’amore con uno dei fondatori della Beat generation. Se, poi, si tratti di imperituro amore o di vendetta di penna è questione assai ardua da dipanare.

Grazie Quino per aver creato quella “rompina” di Mafalda

“A un certo punto mi sono veramente stancato. Non ce la facevo più a dire tutto quello che non andava, a passare il mio tempo in un continuo atteggiamento di denuncia”. Così Quino nel 1973 sulla sua decisione, dopo dieci anni di successo, di non disegnare più Mafalda. Contribuì l’arrivo dei Colonnelli, affabili umanisti che sganciavano gente dagli elicotteri. La decisione di Quino ne fu solo rafforzata, l’aveva presa prima. Finiva lì una delle più amate saghe di denuncia sociale (grazie, Linus, a nome di tutti i pischelli dell’Italietta asfittica di allora, o Topolino o niente, affamati di altre immagini, altri mondi, altri umorismi, come Quino). Una strip, Mafalda, su cui si sono formati tanti disegnatori satirici, compreso il sottoscritto, un po’ più tifoso di B.C. di Johnny Hart, ma ugualmente accanito lettore delle storie della ragazzina ribelle, arguta e spaventosamente rompicoglioni, una che avercela per figlia rischiavi la dermatite da stress, dovevi stare attento a respirare perché ti faceva subito un sermoncino sull’inquinamento atmosferico e guai se replicavi, la battuta migliore era invariabilmente la sua.

Sì, mi era un po’ antipatichella, Mafalda. Così politically correct, diremmo oggi, così pronta a fare la morale al mondo e le bucce ai discorsi degli altri, i grandi, corrotti da compromessi, cinismi e indifferenza. Saccentina, diciamocelo, Mafalda. Solo che Mafalda aveva ragione. Solo che Mafalda faceva ridere. Solo che Mafalda erano disegni magistrali nella loro essenzialità. Come deve essere, secondo la mia modesta, ma anche no, opinione, una vera striscia satirica, quelle di cui la gente si innamora e si ricorda a vita: niente affreschi caravaggeschi , una strip di satira è soprattutto scrittura e pochi e semplici tratti, massima espressività al servizio di un testo forte. E così, il me anarcoide di allora davanti a Mafalda storceva il nasino ribelle di fronte alle battute edificanti, annusandoci perfino un alito degli stremanti ammonimenti paterni (comportati bene, sii rispettoso, non picchiare per primo, studia e tieni il mondo in ordine); mentre invece il me meno intriso di pirotecnie generazionali (comprenderete, i Rolling Stones cantavano Street Fighting Man e a Parigi succedeva il ’48, anzi il ’68), il me equipaggiato con un decente tot di maturità vedeva con chiarezza l’altissima qualità di quelle vignette, riconoscendoci l’inconfondibile mano di un Maestro, di quelli che ne nascono come i capelli sulla testa di un semicalvo, ricavandone strutturanti lezioni tecniche mai più dimenticate, spesso esercitate, sì, anche un po imitate, grazie, Quino l’argentino, mi hai dato molto, specie un originale con dedica. E vai con l’aneddotica: tavolata di autori a Treviso, allora i Comuni avevano quattrini, organizzavano Festival della Satira da cui tornavamo gratificati nell’Ego, ruttando e con ceste piene di salumi e olio tartufato. Quinoquellodilinus ma proprio lui era seduto di fronte a un semisconosciuto disegnatore romano emozionato. L’emozionato romano ce prova, appena Quinoquellodilinus smette di masticare, si incunea nel tempo morto e chiede il disegnino. E Quino gli fa tre Mafalde. Cioè una (non era contento delle prime due). Mi chiede pure se mi piace (e che dovevo dì?). Con un gran sorriso mette la dedica dopo che l’ho approvato. Il refrain è già sentito lo so, ma sempre valido: i veri grandi non se la tirano mai. Ho iniziato questo scritto messo giù di getto (il fattaccio è appena successo) con la dichiarazione di fine corsa di Quino. Non ce la faceva più a “passare il suo tempo in un atteggiamento di denuncia”. Questo me lo ha reso più vicino. So di cosa parla. Stare sempre con la baionetta innestata in difesa dell’etica quando vorresti solo andare a fare i tuffi. Sono belli, i tuffi. Ma, come si dice alla fine dei film, è uno sporco lavoro ma qualcuno lo deve fare. Quinoquellodilinus lo ha fatto benissimo.

 

Il ricordo
“Ciao amico, non ti stai perdendo niente…”

Se ne è andato anche Quino. Tutti scriveranno il padre di Mafalda. Del resto i padri se ne vanno, ma i figli rimangono e Mafalda rimane. Perciò non mi va di salutarlo disegnando una banale Mafalda con la lacrima. Non disegnerò niente. Solo gli dico “addio compagno di matita”. D’altronde te ne sei andato al momento giusto. Temo sia rimasto poco spazio in questo tempo crudo e ferocemente conformista, banale come una Mafalda che piange, per la fantasia, il sorriso e pure per il ghigno allegro. Caro Quino, temo tu non ti stia perdendo niente. Ciao.

Vauro

 

 

La favola di madame Voltaire. Émilie traduce Mandeville

“È morto un grand’uomo, con l’unico difetto di essere donna”, così lo spiritoso Voltaire si congeda dalla sua storica amante, la marchesa du Châtelet, spirata nel settembre del 1749, a neanche 43 anni, per le conseguenze di un parto.

Che ingrato il filosofo: tutto quello che sa di matematica e fisica lo deve proprio alla sua “Madame Pompon-Newton”, all’anagrafe Gabrielle Émilie Le Tonnelier de Breteuil, parigina, altolocata, classe 1706. Ora, finalmente, più di 300 anni dopo, la signora viene ricordata e riabilitata, non solo come The Divine Mistress, “l’amante divina” di Voltaire, Richelieu et al., ma soprattutto come Femme des Lumières, donna dei Lumi, intellettuale, matematica, fisica e pure letterata.

Di lei traduttrice è appena uscita – in anteprima mondiale, grazie a Marietti 1820 – La favola delle api, il suo primo lavoro letterario del 1735, rimasto fino a oggi manoscritto e conservato nella Biblioteca nazionale di San Pietroburgo (a cui furono venduti tutti i testi di casa Voltaire): questo adattamento francese della Fable of the Bees di Bernard Mandeville è un’opera acerba e incompiuta; alla marchesa non interessa tanto la satira sociopolitica quanto le idee “proto-femministe” del pensatore olandese. Per questo, il valore dello scritto sta più nelle note e nella prefazione che nella traduzione in sé, anche perché manca del tutto l’Alveare scontento, il poema che costituisce il nucleo primitivo del saggio. Questa insomma è una Favola delle api senza api.

Poco importa, l’eccentrica du Châtelet regala riflessioni non scontate per l’epoca: “Per quanto mediocre sia la letteratura, si troverà che sia troppo azzardato per una donna ambirvi. Avverto su di me tutto il peso del pregiudizio che esclude così universalmente le donne dalle scienze… Vi sono grandi nazioni la cui legislazione permette a una donna di reggerne le sorti, ma non ve ne è alcuna in cui siamo educate a pensare”.

A lei, invece, andò decisamente meglio: bambina prodigio, Émilie è avviata sin giovanissima, proprio come i fratelli, allo studio delle lettere classiche, della matematica, della fisica, della musica e delle lingue moderne (in particolare tedesco e spagnolo). All’età di diciannove anni sposa il marchese Florent-Claude du Châtelet – da lì il blasone nobiliare –, da cui ha tre figli. Frivola e volitiva, abbandona presto il nido familiare per frequentare il bel mondo dei salotti parigini, compreso il gioco d’azzardo. Il colpo di fulmine con Voltaire scatta proprio durante una serata mondana, all’opera, nel 1733. Dopo appena due anni i due vanno a convivere, o meglio lei offre ospitalità e rifugio a lui (censurato e perseguitato per le sue idee rivoluzionarie) nel castello di Cirey: “Mi sono meravigliata di aver dedicato un’attenzione estrema ai miei denti e ai miei capelli, trascurando invece il mio intelletto”, scrive la marchesa nella sua Favola. E che favola, con il filosofo: amore, studio, cenacoli e spettacoli. All’interno del maniero, infatti, la coppia allestisce anche un laboratorio di fisica e un teatro, oltre alla sala dei ricevimenti che ospita intellettuali e scienziati da tutta Europa.

Non ancora trentenne, Émilie si cimenta con la traduzione di Mandeville: è lo stesso Voltaire a passargli l’opera e a incoraggiarla, benché la canzoni spesso come “la più colta delle donne, ma la più frivola delle colte”. Deliziosi, in tal senso, sono i commenti all’originale, tra parentesi quadre, della traduttrice, più spesso imperiosa commentatrice: “Questo è totalmente falso… Questo è un po’ tirato per i capelli… La metà di ciò che l’autore dice non è che un continuo paralogismo… Bisogna fare attenzione a non abusare dell’ironia…”.

È serissima, la marchesa, lei che ha studiato geometria e fisica coi più grandi maestri, come Maupertuis, e sui più grandi classici, come quelli di Leibniz, entrambi detestati dall’amato Voltaire: ah, i matematici; l’illuminista non sempre illuminato stenta a capirli. Per i numeri, lui, ha scarso talento: la sua più grande impresa scientifica è infatti la liaison con Émilie, lei, sì, scienziata, passata alla storia soprattutto per la sua traduzione e divulgazione dei Principia di Newton. Altro che il Candido di Voltaire: “Non ho perso un’amante, ma una metà di me, il sostegno della mia triste vita”, sussurra lui nel settembre del 1749, quando ormai è troppo tardi pure per canzonarla.