Jonathan Galindo e gli altri: i mostri sul web siamo noi

Un bambino di 11 anni che si lancia da un balcone in centro a Napoli e lascia alla madre una frase di scuse alludendo al fatto di non avere più tempo e di avere davanti un “uomo incappucciato”: si indaga e si segue la pista dell’istigazione al suicidio, probabilmente tramite social network. “Mamma ti amo, non ho tempo, ho un uomo incappucciato davanti” ha scritto in un sms. Poi ha scavalcato la ringhiera e si è buttato. Parte da qui l’ipotesi circolata nelle prime ore sui giornali, ovvero che il bambino fosse finito nella rete di tal Jonathan Galindo, una sorta di Pippo terrificante che starebbe seminando il terrore nelle chat dei più piccoli sfidandoli con gare (le cosiddette “challenge”) che potrebbero condurli anche alla morte. Spaventa i genitori, attrae i piccoli come una moda. O, secondo la narrazione comune, manipolandoli e minacciandoli di morte. Ma quali sono i fatti?

Chi è. Se questo Galindo esiste, ancora nessuno lo ha visto. E per “esiste” s’intende se abbia mai davvero provocato o minacciato qualcuno. Che non ci sia nella realtà è infatti una certezza. Il terribile Pippo altro non è che il travestimento di un artista statunitense che sui social si identifica come Dusky Sam, Sammy Catnipnik o Samuel Canini. Non è la sua unica “maschera”, le realizza per lavoro e qualche settimana fa sul tema ha scritto un post per spiegare meglio le origini del personaggio: “Le foto e i video sono miei – ha detto –. Erano per il mio bizzarro piacere personale (legato pure a contenuti sessualmente espliciti messi onlinendr), non per qualche cacciatore di brivido dei giorni nostri che cerca di spaventare e bullizzare la gente. Se ricevete un messaggio da qualcuno che vuole iniziare qualche gioco, non interagiteci”. Si parte da qui, insomma, per creare quello che viene definito un perfetto creepypasta.

Il creepypasta. Il sito Queryonline.it lo spiega benissimo: “Le creepypasta sono sostanzialmente storie dell’orrore in salsa telematica, l’equivalente moderno delle storie di fantasmi raccontate intorno al fuoco. Spesso partono da immagini inquietanti per costruirci intorno un racconto, via via modificato dagli utenti per renderlo sempre più spaventoso e poi diffuso grazie al copia e incolla (il suffisso ‘pasta’ viene proprio da cut&paste)”.

È quanto accaduto in questo caso: sono nati account a nome e immagine di Jonathan Galindo, gli utenti hanno iniziato magari a nascondercisi dietro per scherzo o per intenti meno ludici. A metà strada tra un meme e un personaggio horror, immagine e nome hanno iniziato a circolare associati all’idea che ci fosse un terribile Pippo cattivo che inseguiva e molestava donne e bambini e proponeva giochi terribili, pena morte e vendetta. Fino a che un influencermessicano, con quasi due milioni di seguaci su Instagram e in fissa con le storie ‘paranormali’ non ha pensato di raccontare di essere stato inseguito, spiato e spaventato da Jonathan Galindo. E così, quello che era un fenomeno strambo laterale, dal 2017 è tornato in auge.

Di chi è la colpa?Ora, si può discutere sull’opportunità di lasciare libero accesso ai social ai bambini (così come sul tema “la società lo impone”), ma ciò che si decide di fare con l’emblema di un immaginario radicato non dipende dalla leggenda in sé né dal mezzo su cui viaggia, bensì delle persone e dai loro scopi. I media l’hanno rilanciato come un fenomeno terrificante, se n’è parlato come se fosse una piaga sociale e gli è stato dato un risalto drammatico che potrebbe aver generato eco ed emulazione (come accadeva per Blue Whale, spinto più dai media che dalla sua reale viralità). Ragazzini avrebbero potuto decidere di usare la copertura di Jonathan per spaventare i compagni, manipolarli, bullizzarli. Adulti per avvicinarli, così come – su un altro livello – esperti di marketing per impostarvi campagne pubblicitarie. Il fenomeno e la sua diffusione non sono per ora colpevoli, quelli devono ancora essere trovati, ammesso che ci siano.

Karabakh, Parigi ora accusa Ankara

Non arrivano buone notizie dal Caucaso e, ancora una volta, la Francia accusa la Turchia di fomentare anche questo conflitto sopito nel 1994, ma riaccesosi domenica scorsa. Il presidente francese Macron, dopo aver denunciato Ankara di attività illegali nel Mediterraneo Orientale e in Libia, ora la ritiene responsabile dell’escalation nel Nagorno Karabakh (Artsakh, in lingua armena). Il presidente turco Erdogan si è subito messo al fianco dell’Azerbaijan contro l’enclave indipendentista armena che ha un proprio governo e un presidente, essendosi proclamata repubblica presidenziale. Da ieri i bombardamenti delle forze militari azere hanno preso di mira non solo il territorio separatista ma alcuni villaggi e la città di Vardenis, che si trovano nel territorio della Repubblica Armena al confine con l’Azerbaijan. A Vardenis è stato colpito anche un autobus carico di civili. Fonti locali accreditate hanno dichiarato al Fatto che a preoccupare è il coinvolgimento diretto dell’aviazione militare turca: già due giorni fa un caccia F-16 ha abbattuto un Su-25 armeno nello suo spazio aereo.

Inoltre è un dato di fatto (attestato anche da più testimoni) che in Azerbaijan siano arrivati un migliaio di miliziani jihadisti siriani di Idlib, finanziati dalla Turchia per combattere contro i soldati del Nagorno Karabakh, a loro volta sostenuti militarmente da Erevan e da Mosca. Proprio la Russia, ufficialmente alleata dell’Armenia (Collective Security Treaty Organization) per ora rimane cauta nei toni, pur avendo già inviato addestratori e armi, perché è parte con la Francia e gli Stati Uniti del gruppo di Minsk, creato nel 1992, allo scopo di incoraggiare una soluzione pacifica e negoziata. Pace che per ora è tornata a essere una chimera.

Visita a sant’egidio. La “guerra fredda” fra Usa e Vaticano

“Pompeo strumentalizza il Papa per la campagna elettorale di Trump”. A dirlo è il segretario per i rapporti con gli Stati della Santa Sede, Gallagher. L’affermazione sancisce la tensione diplomatica altissima tra il Vaticano e il Segretario di Stato Usa. Era già alta dopo la richiesta di Pompeo al Papa di non rinnovare i vescovi in Cina al Papa e poi la decisione di Bergoglio di non incontrarlo. Si è alzata alla stelle quando l’americano al Simposio sulla libertà religiosa ha dichiarato che “in nessun luogo la libertà religiosa è sotto attacco più che in Cina”. Oggi Parolin, Segretario di Stato della Santa Sede, che si dice “stupito” dalle parole di Pompeo, lo incontrerà. Ma lui prima è atteso alla Comunità di Sant’Egidio. In un momento di scontro, la cosa desta curiosità. L’iniziativa era già in agenda e si inserisce in una tradizione di incontri naturale per Sant’Egidio, fanno sapere dalla Comunità. Non solo: loro sono una realtà autonoma, ma il Vaticano era informato. Si parlerà di Sud Sudan, Mozambico, pace, libertà religiosa, Covid. E Pechino? Non è in programma. Ma chi sa se Pompeo la tirerà fuori lo stesso. Nel suo giro in Europa, l’americano – anche a fini elettorali – ha stressato il più possibile la questione Cina. E incontrando Sant’Egidio cerca sponde in mondi cattolici non assimilabili a Papa Francesco.

Pompeo pensa alla Cina, l’Italia spera per la Libia

La campagna elettorale statunitense aleggia anche sulla visita italiana del Segretario di Stato, Mike Pompeo, ieri a Palazzo Chigi e alla Farnesina, oggi in Vaticano. Nei primi scambi informali avuti con gli esponenti vaticani, Pompeo ha già enfatizzato lo squilibrio che, a suo avviso, rappresenta il processo diplomatico tra la Santa sede e Pechino. E gli avvertimenti sulla Cina hanno caratterizzato i due colloqui con Giuseppe Conte e Luigi Di Maio.

Sia nella conferenza stampa congiunta con il ministro degli Esteri sia nel lungo statement redatto dal Dipartimento di Stato, gli Stati Uniti hanno voluto far capire quanto la polemica anti-cinese sia cruciale. “Come la crisi del Covid-19 ha portato alla luce – si legge nella dichiarazione ufficiale – la comunità internazionale deve considerare la Cina responsabile per il suo comportamento”. Un segno della propaganda trumpiana che poi, in conferenza stampa, Pompeo arricchisce avvertendo che “Pechino sta cercando di investire in Italia solo per scopi strategici e quella partnership non è sincera”.

Il punto ruota sempre attorno alla rete 5G, nella convinzione che il governo italiano “deve considerare la minaccia alla sua sicurezza nazionale e alla privacy dei suoi cittadini posta dal dare alle aziende legate al Partito Comunista cinese l’accesso alle trasmissioni di dati attraverso le reti italiane”. Di Maio ha mostrato di ascoltare la “ramanzina” americana, ma ha replicato che sebbene l’Italia consideri gli Usa come alleati, quindi con un grado di rapporti da serie A, tuttavia non esclude “rapporti economici che hanno occasioni di sviluppo” con altri interlocutori. La Cina non sta in serie A, ma al momento non si abbandona del tutto. La via d’uscita si chiama Ue, perché ormai il governo punta su una gestione europea del dossier come ha ribadito ieri il ministro degli Esteri.

L’altro punto al centro dei colloqui è la Libia. Di Maio vi si è soffermato a lungo, sottolineando la centralità dell’apporto statunitense al dialogo intra-libico, contando molto sul ruolo che gli Usa potranno avere per andare avanti nel processo di pace. Soprattutto, Di Maio ha dato ampia disponibilità a un rapporto positivo con la Turchia, il cui ruolo definisce “imprescindibile” e che ormai è un attore inaggirabile in Libia. L’asse con la Turchia è il lascito di questo viaggio, non a caso, in mattinata, Pompeo lasciando Atene ha parlato di “finestra di opportunità” che si sarebbe aperta nella crisi tra Grecia e Turchia nel Mediterraneo. La Turchia, quindi, come attore inaggirabile e con cui l’Italia farà i conti soprattutto per i riflessi libici.

Ma se Pompeo ha detto in conferenza stampa che sulla Libia “l’ultima settimana ha visto importanti miglioramenti sul campo”, nel documento ufficiale del Dipartimento di Libia non si parla. Resta lo spazio per una bacchettata sul Venezuela: Pompeo ricorda infatti che il “governo legittimo” è quello di Guaidó, ma Di Maio non replica.

Ieri si è avuto l’assaggio dei rapporti tra Usa e Vaticano. Il Segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin, ha infatti avallato la lettura secondo la quale il viaggio di Pompeo rappresenta un tentativo di trascinare la Santa sede nella campagna elettorale, mentre l’esponente Usa ha rilanciato le sue accuse sulla Cina. Resta il mancato incontro con il Papa, segno di una distanza tra Vaticano e Stati Uniti che forse non c’è mai stata prima.

Dalla Cnn ai Proud Boys, ognuno ha il suo vincitore

Joe Biden ha vinto, fra quelli che hanno guardato il suo primo dibattito televisivo con, anzi, contro Donald Trump. In un sondaggio per conto di Cnn, il 60% degli intervistati gli assegna il successo; in uno analogo di Cbs, Biden vince, ma meno nettamente. Attenzione, però: la platea dei dibattiti è prevalentemente democratica, tanto che, prima che il confronto iniziasse, il 56% degli intervistati diceva di preferire Biden a Trump. Nel 2016 Hillary Clinton, al primo dibattito, prevalse su Trump per il 62% dei telespettatori; e sappiamo tutti come andò a finire. I titoli dei media pronunciano lo stesso verdetto, mettendo, però, in rilievo la confusione e gli insulti che hanno caratterizzato una brutta serata della politica statunitense. Dai social, invece, vengono fuori percezioni diverse: la performance di Trump, che non condanna suprematisti bianchi ed estrema destra, galvanizza gruppi e milizie. I Proud Boys, organizzazione tutta maschile neo-fascista, che propugna la violenza politica, promuove a proprio motto una frase del presidente: “Proud Boys? They stand back and stay by”: sono leali e affidabili, “qualcuno doveva fare qualcosa contro antifa e la sinistra”.

Biden se ne va in campagna in Ohio e Pennsylvania, forse lo Stato determinante di questo voto, mentre suoi collaboratori mettono in dubbio la sua presenza ai prossimi dibattiti, che saranno il 15, a Miami, e il 22, a Nashville. La diserzione, però, appare improbabile: suonerebbe come fuga, lascerebbe traccia sugli elettori più di quanto non ne lascerà il dibattito di Cleveland.

Il giorno dopo Trump non abbassa la cresta: “Nessuno vuole Sleepy Joe come leader – twitta – inclusa la sinistra radicale, che ha perso. Biden manca di rispetto a Bernie Sanders, dandogli del perdente… La sinistra lo sta scaricando: zero entusiasmo per i democratici, leadership debole”. E si lamenta dell’ ‘arbitro’, il moderatore Chris Wallace: “Erano due contro uno, non è stata una sorpresa, era divertente”.

A Biden mancherà forse l’entusiasmo, ma non mancano, almeno per ora, i soldi: la sua campagna raccoglie 3,8 milioni di dollari in un’ora a margine del dibattito, un record. Soldi versati non tanto per mandare lui alla Casa Bianca, quanto per cacciarne Donald il bullo, che nessun analista ritiene abbia corroborato ieri sera le sue chance di rielezione.

Trump, Biden e la rissa tv. Il peggior show d’America

“Uno spettacolo deprimente” (Wall Street Journal), “Trump, il disrupter (il disgregatore) non è più una sorpresa” (Washington Post), “Un brutto match a suon di urla” (The New York Times), “Una serata triste per il paese” (Nancy Pelosi) e, addirittura, “Un dibattito che evidenzia i problemi interni del Paese” (Hassan Rohani, presidente iraniano). Dunque, il primo dibattito elettorale tra i due sfidanti presidenti, Donald Trump e Joe Biden, ha messo d’accordo almeno gli spettatori: si è trattato di un concentrato di insulti, esagerazioni, bugie e interruzioni. Ecco i passaggi più memorabili, fra cui Biden che definisce Trump “il cagnolino di Putin”.

“Vuoi stare zitto?”

Joe Biden tira in ballo la questione della sostituzione di Ruth Bader Ginsburg alla Corte Suprema. “Gli elettori dovrebbero avere il diritto di decidere chi occupa quel seggio. Bisogna aspettare il risultato di queste elezioni”, sostiene l’ex vicepresidente, che aggiunge: “Non è appropriato fare la nomina prima delle elezioni”, sostiene Biden che chiarisce “niente di personale”, Amy Coney Barrett (la giudice scelta da Trump, ndr) sembra una persona molto in gamba”. Alla domanda sull’opportunità di nominare Barrett prima delle elezioni, Trump risponde secco: “Le elezioni hanno conseguenze. Un presidente viene eletto per quattro anni”. Biden da parte sua chiarisce che se facesse ostruzionismo sulla nomina, gli si ritorcerebbe contro. Ma Trump continua a interromperlo prima che Biden termini il concetto. “Vuoi stare zitto, amico?” intima Biden all’avversario.

“Che sta facendo questo pagliaccio?”

A proposito di Corte Suprema, cosa succederebbe se i giudici cancellassero l’Obamacare? Il moderatore del dibattito, Chris Wallace, coglie l’occasione e introduce il tema Sanità con Biden. Cosa propone? L’ex vicepresidente afferma di volere soltanto l’estensione dell’Obamacare. Trump in sottofondo ribadisce più volte il concetto: “Vai verso una sanità socialista”, commenta il presidente interrompendo l’interlocutore e accusandolo di voler cancellare l’assistenza sanitaria per 180 milioni di persone che hanno una copertura privata. Wallace, già irritato per le prime interruzioni, tenta di chiedere a The Donald perché non abbia presentato un vero piano per abolire l’Obamacare. “Se posso fare la mia domanda, signore”, insiste il giornalista di Fox News, mentre Trump continua a interromperlo. “Prima di tutto, immagino che sto discutendo con lui, non con te”, lo accusa Trump. “Ma non sono sorpreso”, chiosa il presidente scaldando sempre di più il dibattito. Biden chiude, rivolto a Wallace: “Hai idea di cosa stia facendo questo pagliaccio?”.

“Sei il peggior presidente d’America”

Il conduttore chiede a Trump se è vero che ha pagato solo 750 dollari di tasse da quando è alla Casa Bianca. Lui risponde: “Ho pagato milioni di tasse”. Biden attacca: “Facci vedere le dichiarazioni dei redditi. Hai approfittato del sistema fiscale degli Stati Uniti. Sei il peggior presidente che l’America abbia mai avuto”, affonda il democratico. Trump ribatte: “Ho fatto di più in questi 47 mesi di quanto tu abbia fatto in 47 anni”. È il momento più alto della campagna per lo sfidante: dal suo account Twitter parte il messaggio “Donald Trump è il peggior presidente che abbiamo mai avuto”.

“Hunter Biden? Un cocainomane”

Joe Biden difende i militari caduti in guerra. “Non sono perdenti”, come ha detto Trump poco prima, e cita l’esempio di suo figlio Beau, morto in Iraq. “Ti riferisci a Hunter?”, lo interrompe Trump. “Ha preso soldi da Mosca ed è stato cacciato dall’esercito perché era un cocainomane”, continua Trump impassibile.

“Sei un razzista”

Trump risponde alla domanda sul taglio della formazione per le minoranze nelle agenzie statali: “Pagavamo per farci dire che il nostro Paese è un posto orribile”. Biden contrattacca: “Nessuno hai mai detto questo. Sei tu il razzista”.

“Dillo a lui di non interrompere”

Trump litiga anche con Wallace, il moderatore che lo supplica di lasciare parlare Biden senza interromperlo: “Devi dirlo anche a lui”, replica il presidente, indicando Biden. “Francamente è lei che sta interrompendo”. “No, anche lui lo fa spesso”, dice Trump. “No, lo ha fatto meno di lei”, è stata la conclusione di Wallace.

Casaleggio chiama gli eletti, Grillo in difesa

Il Garante ha paura dello scontro finale. Sa che tra gran parte del Movimento e Davide Casaleggio potrebbe finire malissimo, nei tribunali. Così nelle ultime ore Beppe Grillo lo ha detto ad alcuni big del M5S: “Non abbandonate Rousseau”. Una sorta di appello in via riservata, dopo la difesa in pubblico della piattaforma web, la creatura dei Casaleggio che il M5S vorrebbe ridurre a mero fornitore esterno di servizi. “Ma quella piattaforma rappresenta anche la nostra storia” ha (in sostanza) teorizzato Grillo nei colloqui.

Il Garante ha riaffermato la centralità della democrazia diretta per i 5Stelle, come aveva fatto la scorsa settimana da Bruxelles, facendo notare che “su Rousseau si può fare un referendum a settimana”. Per questo Grillo predica una tregua, che porti a un punto di caduta. “E poi ho risolto tutto con le cause, Rousseau non deve più tutelarmi dal punto di vista legale” ha aggiunto il Garante. Lo stesso Di Maio, come raccontato dal Corriere della Sera, lo ha detto davanti agli altri ministri nella riunione di lunedì con il reggente Vito Crimi (“Grillo non ha più bisogno della tutela legale”).

Non era invece ancora emerso un altro punto centrale nel discorso dell’ex capo, quello dei soldi: “Se vogliamo dare al Movimento una struttura radicata sui territori serviranno risorse”. Ovvero c’è bisogno di soldi, e molti, per costruire un sistema alternativo a quello attuale, tutto incentrato sul web e quindi su Rousseau. Molti grillini vorrebbero sedi fisiche per il nuovo M5S. Ma come pagarle? Una difficoltà di cui Casaleggio è perfettamente consapevole. Come sa che molte delle funzioni svolte ora da Rousseau, come la verifica delle liste, sarebbero una rogna pesante da ereditare per il M5S. Per questo attende i grillini al varco, e intanto porta avanti la sua controffensiva.

Tra Martedì e ieri è il manager è stato Roma, dove va sempre più spesso per incontrare parlamentari. L’erede di Gianroberto fa proselitismo nel gruppo. Chiama e incontra eletti, manda loro email offrendo spazio sul portale e discutendo di possibili proposte. E qualche risultato lo sta ottenendo, come dimostrano i comunicati a favore di Rousseau di martedì sera. Da Raphael Raduzzi, leader dell’ala No Mes, a Francesco Berti e Davide Aiello, alcuni deputati si sono mossi in difesa “della democrazia diretta”. Ma non solo. Perché nelle note hanno ribadito l’importanza del vincolo dei due mandati per i parlamentari. Regola intoccabile per Casaleggio come per Alessandro Di Battista, l’unico big rimasto dalla parte del manager, con cui ha fatto il punto ieri. Anche l’ex deputato sta incontrando parlamentari, esortandoli a stare dalla parte di Casaleggio e del Movimento “delle origini”. Diverso da quello della cosiddetta nomenclatura, pronta a cancellare il vincolo dei due mandati. Di certo già decisa a cambiare lo Statuto, così da varare una segreteria al posto del capo politico. “Sanno che se gli iscritti dovessero scegliere un leader Alessandro vincerebbe di netto” sibila un 5Stelle vicino a Casaleggio. Di certo neppure Grillo vuole più un solo leader al comando. E questa è una notoria, rumorosa differenza con Casaleggio che invece vorrebbe come capop olitico Di Battista, al lavoro da settimane su un suo documento politico. Quello per gli Stati generali, il congresso: dove si faranno i conti, in ogni senso.

Catania, Salvini sfida i pm. Raduno da 100mila euro

Saranno tre giorni di fuoco quelli che iniziano oggi a Catania e culmineranno sabato con l’udienza preliminare davanti al Gup che dovrà decidere se mandare o no a processo Matteo Salvini per il caso Gregoretti per sequestro di persona e abuso d’ufficio. Perché, oltre ai leghisti, ci saranno iniziative, flash mob e una manifestazione (sabato) proprio davanti al tribunale da parte di forze di sinistra (tra cui il Pd senza bandiere), centri sociali e rappresentanti delle Ong. “Leghisti not welcome”, lo striscione comparso due giorni fa in una Catania già blindata, con parecchie strade chiuse e centinaia di uomini delle forze dell’ordine.

La Gregoretti è la nave della Guardia costiera italiana con 131 persone a bordo cui l’allora ministro dell’Interno, era il 25 luglio del 2019, impedì si sbarcare nonostante le pessime condizioni igienico-sanitarie e la presenza di una ventina di minori. La nave riuscì poi a sbarcare il 31 luglio, dopo un braccio di ferro durato una settimana.

Ora Salvini ha deciso di spettacolizzare l’udienza in tribunale chiamando a raccolta il suo popolo. “Tutti a Catania. Processateci tutti!”, lo slogan, con tanto di merchandising fatto di tazze e magliette. L’iniziativa nell’immaginario collettivo è subito diventata la “Pontida del Sud”, tanto più che Pontida quest’anno non c’è stata. Così da oggi fino a sabato in città sono attesi circa 5 mila leghisti, provenienti da tutta Italia, alla Dogana Vecchia, nel porto di Catania. Anche se la maggior parte delle truppe cammellate arriveranno presumibilmente dal resto dell’isola. Sul sito ufficiale della “Lega per Salvini premier” fino a qualche giorno fa campeggiava l’invito a fare i biglietti aerei il prima possibile, perché “con 80 euro si va e si torna da Catania”. Ora però le tariffe sono aumentate. “Le persone arriveranno per conto loro, noi non siamo la Cgil che paga il viaggio e anche il panino col salame”, avverte subito Stefano Candiani, senatore di Busto Arsizio paracadutato a fare il commissario in Sicilia, organizzatore della kermesse. “Parleremo di politica e non attaccheremo i giudici. A far casino saranno gli altri”, dice. Per il comizio del leader, sabato, potranno essere però solo in mille, causa distanziamento. “Metteremo dei mega-schermi, ma io spero che il numero possa aumentare”, dice il senatore. La spesa per ora sembra contenuta: intorno ai 100 mila euro. Ma guai a parlare dei 49 milioni o dei denari passati dalle mani dei tre commercialisti nella bufera. “Chiederemo un contributo ai nostri parlamentari, che verranno in massa…”, dicono dal Carroccio. Ci saranno anche gli alleati: con maggior entusiasmo Giorgia Meloni, quasi costretto Antonio Tajani, qui a far presenza per i berluscones.

Del resto il protagonista assoluto sarà Salvini, che domani pomeriggio verrà intervistato da Maria Giovanna Maglie, ormai speaker ufficiale delle kermesse leghiste, e il giorno dopo uscito dal tribunale farà un comizio. Previsti poi dibattiti e tavole rotonde che potranno essere seguite da un massimo di 400 persone, sempre causa Covid.

All’iniziativa, dal titolo “Gli italiani scelgono la libertà”, ci sarà quasi tutto lo stato maggiore del Carroccio: Edoardo Rixi, Claudio Borghi, Lucia Borgonzoni, Nicola Molteni, Massimiliano Romeo, Gianmarco Centinaio, Alberto Bagnai e Riccardo Molinari. Presente anche l’ex sindaca leghista di Lampedusa, Angela Maraventano e Vittorio Sgarbi, ma il confronto più interessante sembra essere quello di domattina tra Giancarlo Giorgetti e l’ex forzista Gianfranco Miccichè. Luca Zaia, invece, non ci sarà. “Quando un tribunale si permette di giudicare la scelta di un intero governo è un precedente pericoloso. Spero che i giudici mi dicano: grazie, arrivederci e buon lavoro”, ha detto ieri Salvini. Che viene attaccato pure dal redivivo Luca Casarini, da qualche tempo impegnato nel salvataggio dei migranti in mare con la barca Mare Jonio. “Salvini è un bullo, finora è scappato dai tribunali, ma il problema è il governo che finanzia i lager libici”, ha detto l’ex leader del movimento No Global. Anche lui sabato sarà in piazza contro l’ex ministro.

Acea, indagati Donnarumma e Gatti

Per la Procura di Roma si tratta di corruzione. Per il gip Daniela Caramico d’Auria – che in aprile ha rigettato la richiesta di misure cautelari – non siamo di fronte a un reato ma a un “rapporto senza dubbio distorto tra controllori e controllati”. Il contesto è l’Acea (la municipalizzata dell’energia di Roma) e gli indagati sono l’ex amministratore delegato Stefano Dommarumma (oggi ad di Terna), Corrado Gatti, ex membro del collegio sindacale, e Giuseppe Del Villano, ex direttore del dipartimento Affari e Servizi (anch’egli oggi in Terna). Nomi di grande rilievo se pensiamo che Gatti, giusto per fare un esempio, è stato nel cda di Banca Intesa fino al marzo scorso. Proprio per Gatti i pm Rosalia Affinito, Gennaro Varone e Fabrizio Tucci coordinati dal procuratore aggiunto Paolo Ielo, avevano chiesto gli arresti domiciliari. Per Donnarumma e Del Villano, invece, erano state chieste due misure interdittive.

Secondo l’accusa – tre giorni fa è stata notificata la chiusura delle indagini – l’ex ad di Acea Donnarumma “per remunerare l’asservimento funzionale alle proprie esigenze manageriali e personali” di Gatti, membro del collegio sindacale, “concorreva nella designazione di Pamela Petruccioli come presidente del collegio sindacale di Acea Ato – 2 e promuoveva” presso il sindaco di Roma Virginia Raggi (il Comune è socio di maggioranza di Acea, ndr) la designazione a sindaco di Francesca Talamonti”. Sia Petruccioli sia Talamonti (non indqagate, ndr) sono collaboratrici di Gatti che ne avrebbe “sollecitato” le nomine. Donnarumma concordava con Gatti di agire “come una squadra” ed “esautorava il controllo di quest’ultimo”. A sua volta “Gatti garantiva un esercizio delle proprie funzioni conforme agli interessi” di Donnarumma. In che modo? “Promuoveva personalmente – continua l’accusa – la decisione (…) di concedere un compenso straordinario a Donnarumma di 80mila euro”.

La sindaca Raggi è stata sentita come persona informata sui fatti. Ha riferito “di non avere una memoria precisa dei fatti”, che “della vicenda si era occupata il gabinetto presieduto dal consigliere Stefano Castiglione” e di “ricordare che Donnarumma le aveva caldeggiato la nomina di una donna, di cui non ricordava il nome, come una persona molto valida”. Secondo il gip “le nomine delle due collaboratrici non appaiono in rapporto di corrispettività con la corresponsione del premio straordinario” ottenuto da Donnarumma. E ancora: “Al fine di valutare la sussistenza dei gravi indizi, occorrerebbe verificare un’ingerenza di fatto esercitata da Donnarumma sul socio pubblico (…). Le dichiarazioni rese da Virginia Raggi sono del tutto generiche (…)”. Dalle intercettazioni non risulta che Donnarumma “abbia esercitato interferenze sul capo di gabinetto”.

Acea ritiene “infondate le contestazioni”. La vicenda provocò nel marzo 2019 frizioni in Procura tra Stefano Fava – uno dei pm titolari dell’inchiesta, oggi giudice a Latina, determinato a chiedere delle misure cautelari – e i vertici dell’ufficio. Misure, come abbiamo visto, successivamente richieste dalla Procura e respinte dal gip.

 

Assolto, ma non troppo: cosa manca al Cosentino “pulito”

Fa bene Nicola Cosentino ad esultare per la seconda assoluzione in Appello, dopo due pesanti condanne in primo grado, da accuse varie di complicità con il clan dei Casalesi che si trascinavano da quasi dieci anni intorno a un centro commerciale mai realizzato a Casal di Principe. È giusto, legittimo e umano. Fanno meno bene i cosentiniani e gli amici dell’ex sottosegretario di Berlusconi a provare a dipingerlo come una vittima “di un uso politico della giustizia” (Annamaria Bernini, capogruppo di Forza Italia al Senato), e di “gogne mediatiche, sbattuto in un tritacarne giudiziario, letteralmente massacrato ed emarginato” (Amedeo Laboccetta, ex parlamentare Pdl). Non rendono un buon servizio alla gioia, tutto sommato composta, di Cosentino che dopo il verdetto che ha cassato una condanna di cinque anni e mezzo, ha lamentato “nove anni di inferno” e si è detto felice “per la fine di un incubo”. Parole che chiunque di noi avrebbe pronunciato al suo posto. Ma quando Bernini posta sui social che Cosentino “è stato assolto in appello da tutte le accuse di collusione con la camorra” scrive una cosa inesatta. La situazione giudiziaria dell’ex coordinatore campano di Forza Italia è ancora aperta e il bilancio complessivo non è affatto positivo. Il 28 ottobre infatti riprenderà il processo di secondo grado della madre di tutte le inchieste che lo riguardano. È l’appello alla condanna del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere a nove anni di reclusione per concorso esterno in associazione camorristica. Una sentenza dell’autunno 2016 arrivata al termine di 141 udienze iniziate nel 2011, durante le quali sono stati ascoltati circa 110 testimoni, di cui 16 collaboratori di giustizia collegati in videoconferenza da luoghi protetti, tra cui l’ex reggente del clan Bidognetti Luigi Guida, Gaetano Vassallo, Anna Carrino, Franco Di Bona, ha messo nero su bianco che Cosentino fu il “referente politico nazionale” del clan.

Furono sentiti anche alcuni tra i leader della politica campana e nazionale, tra cui l’ex governatore della Campania Antonio Bassolino, in aula nel febbraio 2012 per rispondere a domande sulla gestione del commissariato per l’emergenza rifiuti. Il tutto è stato trasfuso in 648 pagine di motivazioni tra le quali spicca un passaggio chiave: le “specifiche risultanze probatorie – nonostante la difficoltà di ricostruire i fatti per il tempo decorso – sono particolarmente ricche e indicano il sostegno elettorale offerto all’imputato (Cosentino, ndr), sia dal gruppo Bidognetti, sia dal gruppo Schiavone”. Secondo i giudici “l’esito della verifica probatoria ex post non consente di dubitare che l’imputato abbia offerto un contributo concreto, specifico, consapevole e volontario e casualmente efficiente al rafforzamento delle capacità operative del sodalizio (il clan dei Casalesi, ndr). Tale contributo si desume già dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia riferibili a epoca successiva al 1995 (le elezioni regionali, ndr) che indicano nel Cosentino un sicuro e affidabile riferimento politico e un punto di forza del clan”.

Per carità, la sentenza non è definitiva e gli avvocati di Cosentino, Agostino De Caro e Stefano Montone, forti anche delle ultime due pronunce favorevoli, che minano la solidità delle presunte collusioni tra l’ex sottosegretario e la camorra, sono fiduciosi di avere ottimi argomenti per cancellarla. Ma fino ad allora le accuse più pesanti restano in piedi.

Altra lamentela ricorrente tra i cosentiniani: il presunto eccesso di carcerazione preventiva. Cosentino, perso nel 2013 lo scudo parlamentare, ha trascorso quattro anni tra prigioni e domiciliari. Un bonus che però si è giocato con la condanna, definitiva, a 4 anni per la corruzione di agenti di polizia penitenziaria che ne gestivano la custodia cautelare nel 2014 e gli concessero beni e favori di nascosto. Quella volta Cosentino era in cella per accuse di estorsione aggravata nell’inchiesta sul business dei carburanti nel Casertano. Condannato a 7 anni e 6 mesi in primo grado, Cosentino è stato assolto in appello e in Cassazione. Lo misero in galera per reati rivelatisi infondati, e qui ne avrebbe commessi altri, accertati. Una beffa. Ognuno ne tragga le riflessioni che crede.