Omicidio Vannini, 14 anni a Ciontoli, nove ai familiari. La mamma di Luca: “Giustizia”

La Corte di Assise di Appello di Roma ha condannato a 14 anni di reclusione Antonio Ciontoli, ritenuto responsabile di omicidio con dolo eventuale per la morte di Marco Vannini. L’ex funzionario dei Servizi segreti, come ricostruito già nelle sentenze precedenti, sparò nel bagno al fidanzato ventenne della figlia il 17 maggio 2015 nella sua casa di Ladispoli, sul litorale romano. Ciontoli – secondo le sentenze – pur non volendo uccidere Marco, quando lo colpì ritardò i soccorsi per paura di perdere il lavoro. Nel precedente verdetto di Appello era stato condannato a soli 5 anni per omicidio colposo. Dopo l’annullamento della Cassazione, il processo era tornato in Appello dove ieri Ciontoli, difeso dagli avvocati Andrea Miroli e Pietro Messina, è stato condannato per omicidio con dolo eventuale. Non basta. I due figli di Ciontoli, Martina e Federico, e la moglie, Maria Pezzillo (difesi dal medesimo collegio di legali) vedono aumentare le pene da 3 anni a 9 anni e 4 mesi. Sono stati anche loro condannati in concorso con Ciontoli per il delitto doloso anche se la Corte ha riconosciuto un’attenuazione della loro consapevolezza e quindi della pena: avevano concorso in un reato meno grave di quello che poi si è realizzato. La Corte di Assise di Appello ha recepito le indicazioni della Cassazione che aveva raso al suolo la sentenza di appello precedente. Cade così la semplice colpa ipotizzata per tutti dalla prima sentenza firmata come estensore anche dal giudice-scrittore Giancarlo De Cataldo ed entra ora nel verdetto (come chiesto dai genitori della vittima rappresentati da Celestino Gnazi e dal professor Franco Coppi) il dolo eventuale. Bisognerà attendere le motivazioni, ma di certo per la Corte presieduta da Gianfranco Garofalo, Ciontoli ha agito con dolo eventuale, cioè si sarebbe raffigurato l’evento della morte di Marco quando ritardò i soccorsi con le sue bugie.

I figli e la moglie erano stati condannati alla pena lieve di 3 anni per omicidio colposo in primo e secondo grado. La prima sentenza di Appello aveva esteso addirittura non solo ai familiari, ma anche a Ciontoli senior, la mera colpa. Così era stata ridotta la pena per Ciontoli da 14 a soli 5 anni per omicidio colposo, suscitando l’ira dei genitori di Marco Vannini. Ora la seconda sentenza di Appello fa l’operazione inversa: riporta Antonio Ciontoli (come in primo grado) alla pena di 14 anni, e all’elemento soggettivo del dolo eventuale, e però include in concorso anche i familiari innalzando così la responsabilità e le pene per tutti. Marina Conte, la madre di Marco Vannini, ieri ha commentato: “Finalmente è stato dimostrato quello che era palese fin dall’inizio. Se fosse stato soccorso subito Marco sarebbe qui. La giustizia esiste e per questo non dovete mai mollare”.

Cesare Battisti: “Lo Stato si sta vendicando. I compagni e gli amici sapranno farsi sentire”

In stile anni 70, l’ex terrorista Cesare Battisti ha parlato di “vendetta dello Stato” dopo che il Dap ha rigettato, in accordo con la Procura nazionale antimafia e antiterrorismo, la richiesta di passare dal circuito detenuti alta sicurezza a quello medio. “Ammettendo le mie responsabilità – ha detto – ho accettato il patto sociale, però, in cambio, ho avuto la vendetta dello Stato”. E ha aggiunto, quasi minaccioso: “Anche se dovessero ridurmi al silenzio, i compagni e gli amici, qui e altrove, sapranno adoperarsi, come hanno sempre fatto pubblicamente”. Per Battisti, che dal 2019 sta scontando l’ergastolo per 4 omicidi, dopo 37 anni di “latitanza” tra Parigi e il Sudamerica, non è sufficiente che, per legge, abbia ottenuto i 45 giorni di sconto di pena ogni sei mesi di buona condotta. E non va neppure bene il trasferimento da Oristano, dove era in isolamento diurno, a Rossano. Si rifiuta di andare nel reparto alta sicurezza perché lì ci sono detenuti jihadisti e lui in passato sarebbe stato minacciato dall’isis. L’obiettivo resta quello di avere un regime carcerario attenuato.

Diasorin, Fontana ricorre contro il sequestro chat

Le difese del presidente della Lombardia Attilio Fontana, dell’assessore al Welfare Giulio Gallera e della responsabile della segreteria della presidenza regionale Giulia Martinelli, hanno fatto ricorso al Tribunale del Riesame di Pavia contro l’operazione di acquisizione della Gdf di Pavia, disposta dalla Procura pavese nell’inchiesta sul caso Diasorin-San Matteo, con cui è stata effettuata copia forense dei contenuti e, in particolare della messaggistica, dei telefoni dei tre (non indagati) e di altre persone. “Siamo convinti – ha spiegato il legale di Fontana, l’avvocato Jacopo Pensa – che vi siano state, nelle modalità di ricerca sui telefoni, violazioni di carattere costituzionale e di principi stabiliti dalla Cassazione”.

Sia Fontana che il suo legale avevano già definito “troppo invasivo” il blitz con cui una settimana fa all’alba la Guardia di Finanza di Pavia, che indaga sul caso Diasorin-San Matteo, si era recata a casa del governatore, ma anche di altre persone, per acquisire le chat e i messaggi sul cellulare. Il legale aveva fin da subito contestato l’operazione in quanto è stato copiato tutto il contenuto, anche quello riservato o legato a rapporti istituzionali o personali, in un’inchiesta in cui non Fontana non è indagato. La Procura pavese aveva precisato che l’attività di ricerca sui telefoni rimarrà circoscritta ai temi dell’indagine.

Il giorno dopo le acquisizioni della Gdf di Pavia si era mossa anche la Procura di Milano, anche se in modo diverso. Il Nucleo speciale di polizia valutaria della Gdf, infatti, nell’inchiesta sul “caso camici” che vede il governatore indagato, ha preso i cellulari di Fontana e altre persone, tra cui sempre Martinelli e gli assessori Cattaneo e Caparini, per fare la copia forense, in base a una serie di parole chiave, di sms e Whatsapp. Una ricerca, dunque, mirata e selettiva.

Conte ha detto cose di sinistra

Se uno è povero e disoccupato è un po’ colpa sua. Bisogna lasciar fare al mercato. Il Reddito di cittadinanza crea un esercito di fannulloni. Dobbiamo aiutare le imprese, basta sussidi a pioggia. Quanto vi urtano queste asserzioni? Se poco, è perché ormai le abbiamo introiettate; ce le hanno somministrate per via intramuscolare per quarant’anni.

Il 27 settembre, in collegamento col Festival nazionale dell’Economia civile di Firenze, Giuseppe Conte ha fatto un discorso al cui centro erano invece queste parole: giustizia sociale; sviluppo sostenibile; spesa pubblica; valorizzazione della dignità del lavoro opposta al consumismo individualista. “Negli ultimi decenni – ha detto – il capitalismo si è avviluppato in una prospettiva neoliberale, inadeguata ad affrontare le crisi recenti”. Noi eravamo rimasti che il capitalismo era l’igiene del mondo e il neoliberismo lo Spirito del Tempo, e non bisognava mostrarsi schizzinosi ad abbracciarlo, altrimenti si finiva come in Cina.

“Distruzione del valore d’impresa, massimizzazione del profitto di breve periodo, l’uomo ridotto a una visione economicistica”, ha proseguito, impongono di “rimeditare il nostro agire in politica economica e sociale”, per rompere il “fallace incanto del benessere” secondo “l’obiettivo della giustizia sociale”. Sono parole da tempo impronunciabili, anche a sinistra; a parte Bersani, che infatti dal Pd è uscito, governanti e oppositori del centro(-)sinistra, dal D’Alema di Nanni Moretti in poi, si sono ben guardati dal dire “cose di sinistra”, convinti dai guru della comunicazione che ogni idea radicale fosse “massimalismo” e “pregiudizio ideologico” (del resto già De Gasperi, nel 1958, veniva accusato dai liberali e dal Sole 24 Ore di aver concesso all’opposizione, in nome della giustizia sociale e del solidarismo cristiano, troppe restrizioni all’economia di mercato); parimenti, i politologi spiegavano che “si vince al centro”, e intanto vinceva la Lega. Berlusconi ha insegnato a generazioni di servitori dello Stato che l’elettore appena sente l’espressione “giustizia sociale” pensa alla patrimoniale, e non bisogna spaventare il ceto medio produttivo, sennò poi quello si offende e porta i soldi all’estero (intanto i ricchi lo facevano lo stesso, impuniti o condonati, e la politica servile e cieca creava 8 milioni di poveri assoluti). Eravamo abituati a sentire “premier” che, citando a vanvera La Pira e vantandosi di guidare “il governo più di sinistra degli ultimi 30 anni”, parlavano col vocabolario della banca d’affari JP Morgan e del Centro Studi Confindustria e flirtavano coi magnati e gli squali apolidi della finanza, mentre la destra additava ai poveri i poverissimi quali causa della loro miseria, così da spezzare ogni solidarietà tra disgraziati. Non era solo questione di linguaggio: secondo alcuni leaks stranoti, la nostra Costituzione andava rivista in senso meno “socialista”, manovra peraltro tentata e per fortuna fallita. Norberto Bobbio, in Destra e Sinistra (1994), scrisse che la diade destra/sinistra va vista nell’ottica della dicotomia tra eguaglianza e diseguaglianza; per ironia crudele della sorte, l’edizione del 2014 uscì con un commento di Matteo Renzi, che dichiarava “superati” i confini stabiliti da Bobbio e li sostituiva con altri: “Aperto/chiuso”, come “dice oggi Blair. Avanti/indietro, chissà, innovazione/conservazione, movimento/stagnazione”. E invece no: la pandemia ha reso vieppiù chiaro che esiste una destra, nazionalista, individualista, antiscientifica, che difende il profitto a ogni costo ed è tarata sul singolo (persino sulla sua presunta libertà di infettare), e una sinistra che tutela la collettività e i diritti sociali, prevede l’intervento dello Stato in economia e a soccorso dell’indigenza e valuta le autonomie regionali nell’ottica di un’amministrazione pragmatica e funzionale, non di un’egemonia monetaria su questioni fondamentali di salute pubblica. Ci voleva un evento mondiale di portata catastrofica per demolire le farneticazioni su terze vie e “problemi né di destra né di sinistra”, perché se è vero che il virus non fa distinzioni di ceto, i suoi effetti sono diversi su fasce diverse della popolazione (e per fortuna il Reddito di cittadinanza dei “grillini” ha attutito il colpo per 3 milioni di cittadini), e le soluzioni per contenerlo e limitare i danni economici del lockdown sono eccome di destra o di sinistra. Ci sono gli squinternati, i minimizzatori devoti al Pil, Bolsonaro e Trump, Gallera e Fontana, “Milano non si ferma” e “Bergamo non fermarti”; oppure c’è la soluzione di Speranza e Conte di ascoltare gli esperti e adottare misure d’emergenza e di Sanità pubblica mettendo in secondo piano il Pil. Ogni terza via ambigua, come quella di Macron in Francia, si è rivelata non efficace. L’ha capito pure il premier inglese Johnson: “Non risponderemo a questa crisi con ciò che la gente chiama austerità”, e ha specificato: “Non sono un comunista”. Ci voleva tanto, per pronunciare l’indicibile: esiste un problema di distribuzione della ricchezza, di sfruttamento schiavistico del lavoro, di erosione del welfare e quindi dell’uguaglianza e della dignità umana. Questo perché la sinistra ha fallito proprio nell’interpretazione nel suo ruolo dentro la globalizzazione, omettendo di rappresentare la sua base d’elezione – i poveri, gli operai, i disoccupati, i precari, gli insegnanti – e consegnandola allegramente agli aguzzini dei finti contratti e dell’indegno salario, condividendone e ricalcandone pedissequamente il lessico e i non-ideali. Così la giustizia sociale, sotto la scure di una manipolazione progressiva, è diventata “invidia sociale”, mentre il lavoro è (ri)diventato una concessione dei padroni e il mero luogo della riproduzione della loro ricchezza, in una sudditanza psicologica che gli elettori hanno fatto pagare, da ultimo, al Pd di Renzi, il più alacre nel rinforzo ai forti col sacrificio dei deboli (vedi Jobs Act). La Lega di Salvini, che aveva preso i voti come forza di aggregazione dei popoli contro le élite e i poteri forti, si è rivelata invece una propaggine neoliberista del potere a guardia dello status quo, con, in più, innesti di furbo provincialismo finanziario. In un momento in cui i soliti rottweiler competitivisti (spesso “progressisti”) attaccano quotidianamente e con ferocia i lavoratori, il settore pubblico, il blocco dei licenziamenti e le misure di sostegno al reddito (anche con volgari spiritosaggini da bar, come fa il dottor Bonomi) e assolvono bonariamente gli imprenditori che hanno finto la Cassa integrazione per rubare soldi pubblici, Conte ha pronunciato parole-tabù, liberandole da decenni di interdizione; sarebbe bene che il M5S e il Pd le facessero proprie e le traducessero in politica vera, invece di allontanare sempre più il popolo con astratti bizantinismi identitari.

 

Il “filone” di Bonomi e il Recovery Fund

Dunque,dove eravamo rimasti? Qui dove non fummo mai, direbbe il poeta, oppure nel luogo in cui siamo stati mille volte: alla scrivania coi giornali, cioè quel manufatto che spesso è “il bollettino di un gruppo di potere che fa un discorso a un altro gruppo di potere” (U. Eco). Motivo per cui oggi forniremo a gratis, grazie ai bollettini di cui sopra, il vero discorso fatto lunedì dal presidente di Confindustria Carlo Bonomi. Dice che qualche tempo fa “Bonomi era apparso tra i più speranzosi che il governo andasse a sbattere sui risultati delle Regionali e potesse forse essere sostituito da un bel governo tecnico, magari guidato da Mario Draghi. Ma ora che le elezioni sono andate come sono andate (…) anche Confindustria prende atto che forse è meglio considerarlo come interlocutore, cercando in qualche modo di scendere a patti” (La Stampa). Niente, gli tocca tenersi il Caro Leader: e ora? “Occorre avere capacità di visione, occorre saper guardare lontano (…) L’appello di Bonomi è importante perché l’Italia ha un’occasione storica: la possibilità di utilizzare un fiume di denaro, i fondi europei, per voltare pagina” (Il Sole 24 Ore). Certo, per carità, ma in pratica? Ecco, dice Il Corriere della Sera che insomma, alla fine, tolti i prestiti che non si sa se useremo, ’sto Recovery Fund è più un torrente che un fiume e “lo Stato oggi non solo fatica a spendere i soldi europei” ma “anche a formulare progetti credibili per somme troppo vaste”: fortuna che “un punto fermo c’è: nuovi ammortamenti per beni tecnologici delle imprese, sul modello Industria 4.0, partono da gennaio per essere scontati fiscalmente nel 2022”. E pure un altro: una bella fetta dei fondi green “andranno a stabilizzare il superbonus al 110%” (Il Sole). Insomma, i visionari si sono già presi un bel pezzo del fiume, ma non basta: Conte “ha sminuzzato il pane, non ha offerto alla platea degli industriali, che pure lo avevano accolto con favore, un filone intero” (CorSera). Vogliono tutto il filone, per così dire. E i giornali? “C’è l’idea di allargare all’editoria gli incentivi di Industria 4.0” (il sottosegretario Martella). A norma Evelyn Waugh, avranno le briciole e potranno continuare a sognare la torta (o il filone).

Abbiamo pensato male il futuro

Uno dei peggiori errori che hanno commesso tutti i Paesi è quello di non pensare al futuro con un orizzonte ampio e con misure adattabili alle necessità. Ciò ha generato un sistema sociale inadeguato all’evolversi dei tempi e non adattabile a necessità improvvise. Infatti, si fonda su economie di mercato, strategie politiche e, in particolare, sanitarie, che sono pensate per una società statica, al di fuori dagli eventi catastrofici che, invece, sono la “normalità” in un’ottica globale e temporale a lungo termine. In ambito sanitario, il gap è ormai insostenibile.

Le economie mondiali hanno perseguito l’obiettivo di un’economia contingente, inducendo decisioni politiche che si sono tradotte in tagli e non in investimenti nei due settori trainanti della società, sanità e cultura. Che sia stata una strategia sbagliata ce lo dimostra la pandemia. Le spese superano di gran lunga i risparmi e le conseguenze socio-sanitarie sono evidenti, nonostante non mancasse chi cercava di avvisare, invitare a cambiare rotta, prepararsi alle emergenze. Basti pensare alla distanza tra Oms, gruppi G7, decine di Ong che si interessano di piani pandemici e i ministeri della salute dei vari Paesi. Se non fosse accaduto, la pandemia, forse, sarebbe stata solo una limitata epidemia e avremmo risparmiato migliaia di morti. In un mondo globalizzato non possiamo più permetterci questi errori. Purtroppo alla minaccia pandemica, dobbiamo anche aggiungere i disastri naturali. L’Italia, in particolare, è a rischio idrogeologico e, per esempio, le terapie intensive servono anche in occasione di terremoti. Non dimentichiamo poi l’invecchiamento della popolazione. L’approccio, indicato anche dalla Commissione Ue deve essere quello della “resilienza trasformativa”. Abbiamo bisogno di politiche che preparino, promuovano, proteggano, prevengano, trasformino. Quando cominciamo?

 

Mail Box

 

Dopo 41 anni di sacrifici è giusta la pensione

Ho 60 anni e da 40 lavoro versando i relativi contributi. Con la prevista abolizione di Quota 100 sarebbe auspicabile fare una riforma pensionistica che preveda l’uscita dal lavoro, non obbligata, con 41 anni di contributi, a prescindere dall’età anagrafica e senza penalità. Credo che 41 anni di lavoro siano un traguardo ragionevole per una pensione meritata, soprattutto se si è iniziato a lavorare da giovane, come è successo a me. Ritengo ingiusto entrare del mondo del lavoro con determinati parametri contrattuali e che nel corso degli anni tali parametri vengano completamente stravolti, condizionando la vita di milioni di lavoratori. Occorre prepensionare i dipendenti che hanno i requisiti sufficienti, sia del comparto pubblico che del comparto privato, agevolando le assunzioni di tanti giovani disoccupati, dando loro il diritto di lavorare come garantito dalla Carta costituzionale, e farsi una famiglia. Ritengo sia una delle soluzioni auspicabili per la ripresa dell’Italia. Un’opportunità in tempi di emergenza Covid.

Angelo Cirulli

 

Ho capito come fanno a vendere certi giornali

Leggo il vostro giornale dal primo giorno che è uscito e mi sono sempre chiesto come mai quando citate i cosiddetti giornali Libero, la Verità e il Giornale non precisate che stiamo parlando di “giornali umoristici” che non legge quasi nessuno. Qualche tempo fa, nel vedere nella hall di un albergo di Bologna tre pacchi di Libero che nessuno aveva sfogliato, ho chiesto come mai mancassero i quotidiani più accreditati e mi è stato risposto che tali copie venivano recapitate gratis e puntualmente conferite, ogni giorno, nel contenitore dei rifiuti differenziati. E pensare che tale meccanismo viene finanziato con soldi pubblici!!!

Biagio Passalacqua

 

Facebook mi censura: dov’è finita la libertà?

Poco fa ho tentato di pubblicare sul mio profilo Facebook un articolo che parlava delle numerose vendite di esercizi commerciali a Venezia. La pubblicazione è durata un secondo, perché Facebook ha eliminato l’articolo immediatamente, anche se il contenuto era puramente economico. Una censura inspiegabile.

Vincenzo Magi

 

I Dem americani non accettano Trump

Perché i Democratici americani non hanno mai accettato la nomina di Donald Trump a presidente? È vero che la loro politica e le loro idee sono diverse da quelle di Trump che tuttavia è stato eletto in modo democratico e nel rispetto delle regole da sempre in uso negli Usa. Se la differenza di idee politiche giustificasse la contestazione del presidente eletto negli Stati Uniti e in qualsiasi altro Paese, qualsiasi presidente regolarmente eletto potrebbe essere contestato dal partito che ha perso le elezioni.

Pietro Volpi

 

Il presidente Usa e le sue spese pazze

Verosimilmente, con il fisco americano Donald Trump è stato sovente inadempiente. Sulla dichiarazione dei redditi del presidente degli Stati Uniti risulta un conto del parrucchiere di decine di migliaia di dollari. Tra il 2007 e il 2012, lo stramilardario spendeva addirittura 70mila dollari l’anno (almeno, così dichiarava lui) per curare la sua capigliatura. Ovviamente, alla dizione “spese aziendali deducibili”. Certo, quei capelli avevano e hanno bisogno ancora oggi di una rigorosa aggiustatina.

Marcello Buttazzo

 

Caso Becciu, la decisione del Papa è evangelica

Ho molto apprezzato il suo editoriale sulla decisione di Papa Francesco riguardo al suo “ministro” Giovanni Angelo Becciu. La decisione di Papa Francesco non è punitiva ma è un atto di compassione che nasce non da valutazioni politiche o tecniche, ma dal Vangelo. Essere cristiani non è seguire una prassi o un sistema concettuale ma rispondere in coscienza alla domanda: “il discorso della montagna è valido per l’uomo di oggi?”. Se la risposta è Sì i comportamenti seguono necessariamente, e quindi naturalmente, morale e etica, se è No nel cuore dell’uomo risponde solo l’egoismo di una cultura tecnica e mercantile che ormai tutti respiriamo e che non può lasciare spazio a nessun tipo di con-mozione o compassione.

Roberto Giagnorio

 

È il momento di tagliare anche le Regioni

L’altro giorno il signor Marco in “Piazza Grande”, ha proposto l’abolizione delle regioni e dei loro ‘sgovenatori’ e di tutti i danni che provocano, nonché dei loro costi. Mi sento sollevato, non sono solo io a pensarla così. Veramente anche il Fatto Quotidiano non è tanto favorevole a questo tipo di istituzioni. In passato una politica centrale suicida finanziava i singoli Comuni per opere colossali, cosiddette di pubblico interesse, ma spesso di nessuna utilità. Penso che adesso sia venuto il momento delle Regioni. Quasi tutte si danno “la zappa su i piedi” approfittiamone per creare un movimento d’opinione per portare avanti la loro abolizione.

S. Di Giuseppe

Campionato e Covid. Una farsa, magari alla fine vince il Sassuolo

 

Caro Fatto, non vi sembra una farsa questa del campionato di calcio? Come può essere regolare visto quanto successo a Napoli?

Lucio Persi

 

Il campionato italiano fa già ridere per conto suo, figuriamoci se ci si mette anche il Covid: se non fosse che c’è di mezzo la salute, saremmo alla farsa. Ormai fa ridere tutto. Ricapitolando. Il Napoli batte il Genoa 6-0, nelle pagelle del giorno dopo i 4 e i 5 sul conto dei giocatori genoani si sprecano salvo poi scoprire che il Napoli ha in realtà battuto una squadra di zombi: sei o sette hanno giocato da contagiati, roba da rischiare il coccolone in campo. Chi aveva scommesso sul pari o sull’under (meno di 3 gol segnati) vorrebbe indietro i suoi soldi, chi gioca al Fantacalcio e aveva in squadra Zappacosta o Goldaniga, Marchetti o Lerager urla all’ingiustizia e chiede l’annullamento del match. E la Figc? La Figc, a distanza di quattro giorni, è ancor’oggi in dubbio se rimandare ad altra data Genoa-Torino di sabato (con 11 rossoblù contagiati e gli altri in quarantena, Preziosi può mandare in campo solo i Gormiti) e lo stesso dicasi per Juventus-Napoli di domenica. Già, perché anche se nessuno lo dice i giocatori del Napoli rischiano di recitare, a Torino, la parte degli untori toccata ai genoani al San Paolo: giocare senza alcuna sicurezza sul proprio stato di salute per scoprire magari l’indomani – Dio non voglia – di avere perso 4-1 sotto i colpi di CR7 e Covid-19, la nuova coppia-gol dell’autunno made in Italy. Napoli secondo anello di una catena infinita, perché dopo il Genoa che lo contagia e il Ciuccio che contagia la Juventus, mentre le mummie federali meditano nei loro sarcofagi su quel che bisogna fare per il bene del pallone italico, ecco la Juventus che va a contagiare il Crotone (4ª giornata), poi il Crotone che va a contagiare il Cagliari (5ª), quindi il Cagliari che va a contagiare il Bologna (6ª) fino a che non accade il miracolo da millenni atteso: l’ultima squadra rimasta, la ventesima, l’unica immune e che potrebbe essere il Sassuolo oppure l’Hellas Verona o perché no il Benevento, si aggiudica lo scudetto 2020-21 per comprovata mancanza di avversari. Dalla Serie A è tutto: linea al coronavirus.

Paolo Ziliani

Sala vuole essere corteggiato e Milano è senza candidato

E Giuseppe Sala non ha ancora sciolto la riserva. Si ripresenterà alle elezioni, a giugno, per tentare il secondo mandato come sindaco di Milano? Mancano meno di nove mesi e il centrosinistra non ha ancora un candidato certo. E i cittadini, più in generale, ancora non sanno chi potranno scegliere per dare una guida amministrativa a Milano. Chi gli parla ogni giorno racconta di vedere un Sala dubbioso, perplesso, indeciso a tutto. Che cosa aspetta a dire chiaramente se intende provare a continuare il faticoso lavoro di sindaco, o se vuole andare a fare altro? Non può lasciare l’impressione che, se dirà sì, sarà soltanto perché non ha trovato niente di meglio. Il Fatto aveva rivelato il suo interesse per un ruolo manageriale nella nuova società che dovrà completare e gestire la digitalizzazione della rete telefonica italiana. Il progetto è però lungo e complesso, e sarà realizzato non costituendo una società autonoma, una Terna della telefonia, ma resterà sotto l’ombrello di Tim. Difficili da realizzare anche i sogni politici nazionali di Sala: dopo gli esiti elettorali, è improbabile un rimpasto di governo in cui si sarebbe fatto coinvolgere volentieri e impensabile il fantagoverno Draghi. Sono ancora troppo lontane anche le prossime elezioni per scegliere il presidente della Regione Lombardia, in cui Sala potrebbe tentare l’azzardo di battere un Fontana azzoppato dalle inchieste e da una pessima gestione dell’emergenza Covid.

Insomma: potrebbe anche finire con il doversi ricandidare a Palazzo Marino. Per mancanza di alternative. Ma vorrebbe almeno essere corteggiato, rincorso, pregato, implorato, come quelle fidanzate scontrose che aspettano i corteggiatori e pretendono la loro adorazione. Anche perché sa che la prossima tornata elettorale non sarà per lui senza rischi: il vento di Expo da tempo non soffia più e dopo la pandemia la situazione è più difficile anche a Milano, poiché si è spezzata la narrazione vincente e un po’ tronfia della città e del suo sindaco. Potrebbe anche finire con una sconfitta di misura: e Sala sa che questa sarebbe la fine ingloriosa della sua carriera manageriale e politica. Dunque aspetta, pensieroso, di decidere che cosa fare nei prossimi mesi.

Attorno a lui si stanno già scaldando a bordo campo i due Pier, l’assessore all’urbanistica Pierfrancesco Maran e il parlamentare europeo Pierfrancesco Majorino, che in pubblico dicono di tifare perché Sala si ricandidi, ma in privato sarebbero felici di poterlo rimpiazzare. Altri nomi circolati di candidati possibili – buoni più per arricchire le primarie del centrosinistra che non per vincere le elezioni vere – sono quelli di Paolo Limonta (sull’ala sinistra), ottimo maestro e assessore alla scuola, e di Anna Scavuzzo (sull’ala destra), vicesindaco di Sala e assessore alla sicurezza. Tra gli “indipendenti”, Ferruccio Resta, rettore del Politecnico, è accreditato come candidato (!) sia per il centrosinistra sia per il centrodestra. Tito Boeri, economista ed ex presidente dell’Inps, ripete come un mantra: “Io sindaco di Milano? Non è la prima volta che lo sento dire e sicuramente posso dire che mi fa piacere sentirlo, ma non c’è assolutamente nessuna riflessione seria su questo argomento”. In attesa di una riflessione seria a sinistra, a destra non sanno che pesci pigliare per cogliere l’attimo di crisi a sinistra che potrebbe riportarli al governo della città. A Matteo Salvini piacerebbe il suo amico Gianmarco Senna, l’inventore del ristorante “Bianca”, del “Brando Bistrot”, del “Suri” nippo-meneghino, della catena “Fatto Bene Burger”. A Silvio Berlusconi piacerebbe il suo medico, il professore del San Raffaele Alberto Zangrillo. A Fratelli d’Italia (debolucci a Milano) piacerebbe Flavio Cattaneo, ex Rai, ex Telecom, ex Italo, ex Terna. Sarebbe da vedere, uno scontro Boeri-Cattaneo. Tra nove mesi sapremo.

 

Con il reddito di cittadinanza salvate ben 1,3 milioni di famiglie

Il Reddito di Cittadinanza (RdC) è stato, dopo l’importante primo passo del Reddito di Inclusione, un traguardo decisivo per il contrasto alla povertà. Va dato atto al M5S di aver incluso nell’agenda politica una fascia sociale senza voce. Gli effetti del Covid-19 sarebbero stati devastanti per 1,3 milioni di famiglie in assenza di tale strumento. È evidente e fisiologico che vi siano miglioramenti da fare. Il versante dei controlli va potenziato, sebbene siano da pesare in termini statistici i “numerosissimi” casi riportati dai media: anche se fossero migliaia o una decina di migliaia le famiglie di truffatori, saremmo comunque sotto o intorno all’1% dei nuclei beneficiari. Come ha chiesto la prof.ssa Granaglia, “aboliamo il Servizio Sanitario Nazionale perché lo usano pure gli evasori?”. Ma va soprattutto affrontata con maggiore senso della realtà la parte connessa al lavoro. È bene riaffermare che l’intervento avviato nel 2019 ha la sua funzione fondativa e primaria nel contrasto della povertà. È anche utile ricordare che la povertà ha un’elevata correlazione con altri fattori. Imponenti ostacoli all’inclusione sociale e lavorativa sono, tra gli altri, le condizioni di salute; le dipendenze; la scarsa scolarizzazione. Infatti, circa metà della platea dei percettori del RdC viene affidata ai servizi sociali, da noi però boccheggianti.

Tuttavia, nella nostra Costituzione (art. 4), per chi è “abile”, il lavoro è diritto e dovere. Pertanto, l’offensiva contro il RdC non pecca in “lavorismo”, ma in liberismo, virus contratto da tempo anche dalla sinistra sedicente riformista. Soltanto un’ortodossia liberista fuori fase o miopi interessi di classe possono spiegare l’insuccesso del RdC sul versante lavoro con l’attaccamento al divano dei disoccupati assistiti, con un welfare eccessivo in quanto generatore di un salario di riserva vicino al compenso da lavoro povero (la vera patologia del lavoro, rimossa dai nostri lavoristi) o con l’incapacità delle amministrazioni di incrociare offerta e domanda di lavoro (nonostante l’inadeguata Presidenza dell’Anpal e la difficile operatività dei ‘navigator’, innestati a freddo in Centri per l’Impiego spesso cronicamente carenti di personale e mezzi tecnologici).

La spiegazione degli scarsi risultati occupazionali del RdC è, invece, prevalentemente keynesiana, ancor più nella pandemia, dato il crollo del 10% dell’attività produttiva. È nella carenza di domanda di lavoro da parte delle imprese, a sua volta dovuta al deficit di domanda interna, soprattutto nel Mezzogiorno, ossia nei territori dove è più diffuso il RdC. Quindi, anche ai fini del RdC, dobbiamo innanzitutto rianimare la domanda interna attraverso gli investimenti pubblici (ma il nostro esecutivo sembra ancora dentro la fase mercantilista, sbilanciato verso la competizione di costo, illuso sugli effetti della decontribuzione e della fiscalità di vantaggio).

Nel merito delle correzioni al RdC, è necessario, come ai tempi del New Deal di Roosevelt, l’intervento pubblico per creare direttamente lavoro. A tal fine, va data centralità alla funzione dei Comuni, prevista ma rimasta ai margini. I “Progetti utili alla collettività”, da predisporre insieme al Terzo Settore, devono diventare lo sbocco primario per impiegare i percettori del RdC. In sintesi, dobbiamo far diventare il Reddito di Cittadinanza ‘Lavoro’ di Cittadinanza. ‘Lavoro’ inteso come “attività o funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.” Un ‘lavoro’, quindi, non sostitutivo delle urgenti assunzioni nel settore pubblico, dove l’Italia è all’ultimo posto nell’Eurozona nel rapporto tra dipendenti pubblici e popolazione. È ora di una svolta per dare lavoro, reddito e dignità alle persone in difficoltà, rinsaldare legami di comunità e sostenere la ricostruzione morale, economica e sociale della Repubblica.