Zingaretti deve liberarsi dei “renzismi” dentro il Pd

A dispetto della debacle di Italia Viva e del fallito tentativo di disarcionare Zingaretti, il vecchio sodale di Renzi Luca Lotti (“autosospeso”?) riprende la parola nella veste – dici niente – di capo della corrente di maggioranza nei gruppi parlamentari del PD. Forse è malizioso il sospetto che Renzi, quando ruppe con il PD, abbia lasciato di proposito qualche fedelissimo come presidio. Ma vogliamo essere… ben pensanti. Diciamo solo che sono un buon numero coloro che non hanno seguito Renzi, stanno dentro il PD, ma non la pensano molto diversamente da lui. Né si può escludere che la prospettiva di un renzismo senza Renzi dentro il PD, da taluni, sia coltivata d’intesa con Renzi fuori dal PD. Non decollando nel voto, egli ci riprova per altra via, quella a lui più congeniale delle manovre di Palazzo. Di qui l’esigenza, per il PD, di un franco, aperto confronto di natura congressuale che isoli tre questioni: le politiche (al plurale), la politica, una lettura retrospettiva.

Sulle politiche (policies) solo qualche interrogativo: nella nuova fase della globalizzazione, dentro e dopo la pandemia, si possono riproporre le ricette tardoblairiane ispirate al paradigma neoliberale? nella prospettiva di disegnare la nuova Italia cui orientare l’impiego delle ingenti risorse messe a disposizione dalla Ue, non è d’obbligo ripensare i rapporti tra mercato, società e Stato? nel concepire e praticare il riformismo possiamo contentarci di un anacronistico approccio minimalista e meramente adattivo, senza l’ambizione di innovare invece il paradigma? può un partito di sinistra (?) essere timido nella lotta alle disuguaglianze e nella transizione ecologica, specie dopo la crisi pandemica, e rassegnarsi alla massima tacheriana TINA (“there is no al alternative”)? Confondendo riformismo con moderatismo.

Circa la politica (policy), inutile girarci intorno: decisiva è la politica delle alleanze e segnatamente il rapporto con il M5S. Come si può strologare di vocazione maggioritaria e di ambizione di governo da parte di un partito attestato intorno al 20% rinunciando a stringere alleanze? Chi obietta dovrebbe avanzare in positivo altre proposte strategiche, pena condannarsi a un destino minoritario, a sconfitta certa, a consegnare il paese alla destra. Nessuno nega le difficoltà di un’alleanza politica con i 5 stelle, le cui convulsioni sono un problema, ma anche un’occasione/opportunità. Un partito sicuro di sé dovrebbe ambire a una positiva contaminazione, a un reciproco arricchimento. Con una iniziativa che concorra a valorizzare, del M5S, l’originaria ispirazione civico-ambientalista (di “sinistra”) e a smaltire il suo residuo protestatario e populista. Nonché a dare credito a chi, dentro il M5S, si spende per tale prospettiva. E perché no? Ad aiutare a sua volta il PD a rigenerarsi dopo lunghi anni di governismo, di schiacciamento sul Palazzo, di autoreferenzialità di un ceto politico troppo dedito all’entropia delle lotte di potere interne. Come ha osservato Prodi, non mancano “valori comuni” da trascrivere in un “grande progetto” comune.

Infine, una riflessione retrospettiva. Condivido la tesi di Bettini: il bipartitismo e, di riflesso, la velleitaria presunzione dell’autosufficienza del PD è alle nostre spalle. Oggi si richiedono alleanze larghe, plurali e inclusive, come del resto fu con l’Ulivo. Per inciso, sarebbe bello che Bettini, sul punto, facesse autocritica: furono Veltroni prima (di cui Bettini era consigliere politico) e Renzi poi a imprimere una inopinata accelerazione verso un forzoso bipartitismo che condusse paradossalmente – ma si può spiegare – alla suggestione fallace del “partito della nazione” (l’opposto di una sana democrazia competitiva) subalterno all’establishment e infine all’isolamento del PD, sancito dalla disfatta delle politiche. Facile accampare la scusante dell’incursione del M5S per spiegare la crisi del bipolarismo. Ma merita farsi una domanda ulteriore: ad aprire un’autostrada al M5S non è stato proprio il renzismo? In un tempo nel quale spiravano vigorosi una domanda di cambiamento, un acuto disagio sociale e, diciamolo pure, un vento antipolitico, avere conferito al PD, nato come partito di una sinistra di governo, il profilo del

partito cardine del potere politico ed economico, ha gonfiato le vele del movimento di Grillo. Vuole il PD ripetere gli stessi errori? Esattamente questo dovrebbe essere l’oggetto di un passaggio congressuale – preceduto da una revisione dello statuto figlio di un’altra era – troppo a lungo disatteso dal PD, che ne definisca l’identità e cambi il gruppo dirigente che circonda (e imbriglia) Zingaretti. Ora che si è rafforzato prenda lui l’iniziativa.

 

I guai col test d’italiano di Sultana, la badante uruguaiana di mio zio

L’indagine sull’esame di italiano della badante di mio zio. Secondo una Procura, la badante uruguaiana di mio zio, Sultana (che sarebbe identica a Christina Hendricks, se Christina avesse più tette: ti basta farci sesso una volta e stai subito a rota), conosceva in anticipo le domande dell’esame cui è stata sottoposta per ottenere la cittadinanza italiana. La Guardia di Finanza ha infatti accertato che l’esame è stato molto più facile di quello ordinario, e il punteggio è stato attribuito prima della prova. Le persone sotto indagine sono il rettore e la direttrice generale di un’università per stranieri. ROFL! Dove credevano di essere, alla Link University? Nel decreto di perquisizione, eseguito martedì mattina, la Procura definisce la prova sostenuta da Sultana “un esame farsa”, i cui contenuti erano stati concordati “in modo da blindare l’esito favorevole” (“La Juve è una squadra di calcio”. Questa frase dice: A) che la Juve è una squadra di calcio; B) che la Juve è una squadra di calcio; C) che gli arbitri favoriscono sempre la Juve).

I giornali hanno diffuso alcune intercettazioni in cui il tutor incaricato di preparare Sultana per l’esame chiama l’esaminatore e concorda come si sarebbe svolta la prova. Secondo il tutor, questo accordo era indispensabile visto che Sultana “è una strafiga, ma non spiccica una parola di italiano, ma è una strafiga”. All’esaminatore che, sbavando, gli chiedeva con quale livello Sultana sarebbe potuta passare, il tutor ha risposto: “Non potrebbe: deve, passerà. 650 euro al mese di stipendio non glieli puoi far saltare perché non ha il B1. E poi è una strafiga”. Il tutor ha detto inoltre che Sultana “non coniuga i verbi” e “parla all’infinito”, ma “questa cosa diventa subito secondaria, non appena la vedi ancheggiare nella stanza su tacco 12. È così tanta che ce n’è per tutti!”. In un’altra intercettazione, l’esaminatore informa il rettore che Sultana “si sta memorizzando le varie parti dell’esame insieme al nipote del suo datore di lavoro. Credo se li faccia entrambi, peraltro. Le piace chi ce l’ha grosso e dura a lungo”. Al rettore che manifesta dei dubbi sulle reali competenze di Sultana in lingua italiana, l’esaminatore replica: “Sul verbale non ho problemi a metterci la firma, perché in commissione ci sono io e mi assumerò la responsabilità dell’attribuzione del punteggio. Il mio timore qual è, che poi tirando tirando diamo il livello ed esce, un ficcanaso invidioso le fa due domande in italiano, la badante va in crisi, e parte una denuncia. Quindi un po’ di preoccupazione ce l’ho perché è una gatta da pelare. Come si fa, si fa male”. Sultana aveva sostenuto l’esame per poter ottenere il passaporto italiano (sua nonna era di origini friulane) in vista di un suo possibile trasferimento nella nostra nazionale di twirling (ma la trattativa non si è mai concretizzata, nonostante il suo numero col bastone ti renda afono). Si è mossa dunque anche la Procura Federale, per via dell’articolo 32 del codice di giustizia sportiva riguardante le responsabilità dei dirigenti che tentino, direttamente o indirettamente, di favorire le strafighe che fanno twirling eseguendo un numero col bastone che ti rende afono. Doppia inchiesta quindi, ordinaria e sportiva, che servirà a chiarire in maniera definitiva responsabilità e posizioni (quella di Sultana, in questo momento, è col busto incastrato dentro la lavatrice, il culo in alto). Né Sultana né mio zio risultano indagati.

Ultim’ora. Andrea Agnelli incontra in un negozio Salvini e lo prende a scapaccioni dandogli della testa di cazzo: “Te e il tuo B1 di merda!”.

 

Chi sussurra i titoli a Bonomi

Qualche giorno fa abbiamo ricevuto una lettera molto piccata dell’ex segretario Fim Cisl, Marco Bentivogli, offeso da un articolo di Gad Lerner. Il quale aveva semplicemente evidenziato che attaccando il decreto Dignità, voluto dall’allora ministro del Lavoro, Luigi Di Maio, Bentivogli parlava un po’ la stessa lingua di Confindustria. Apriti cielo. L’accusa politica, argomentata ed espressa senza alcuna acrimonia, è stata vissuta come un tentativo di dileggiare l’immacolata carriera dell’ex sindacalista oggi passato nel campo dell’opinionismo politico peraltro distribuito su diversi giornali e forse in quello direttamente politico dopo la nascita dell’associazione Base anch’essa molto pubblicizzata dai giornali. Curioso, allora, sentire il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, pronunciare il termine “Sussidistan” – espressione evidentemente spregiativa di tutto ciò che viene etichettato come elargizione pubblica impropria – lo stesso giorno in cui il termine titolava su Il Foglio un articolo proprio di Bentivogli. Che il termine Sussidistan in realtà lo ha mutuato dall’economista Mario Seminerio autore del blog Phastidio e bocconiano di ferro. Se non è contiguo ai “padroni” come sindacalista, perlomeno lo è come opinionista (e politico). Auguri.

Storie horror: confindustria applaude un 5s

Stentiamo a crederci, eppure è successo davvero. Martedì, a Roma, all’assemblea di Confindustria. Sono brutte storie di cui non vorremmo mai occuparci. Inaudite. Inconcepibili. Un segno inequivocabile del degrado dei tempi. Eppure, la cronaca del Corriere della Sera non lascia dubbi, e a essa ci affidiamo increduli ma, sia ben chiaro, declinando ogni responsabilità per ciò che siamo costretti a riportare. “I primi timidi applausi per Patuanelli sono arrivati quando il ministro ha detto: ‘che un terremoto si è abbattuto sul mondo delle imprese e ora lo Stato deve fare la sua parte’. Una volta rotto il ghiaccio per altre sette volte la platea ha battuto le mani”.

Fermiamoci qui per favore e riprendiamo fiato perché, non ci crederete, ma lo Stefano Patuanelli di cui si parla è un grillino. Sì, un ministro dello Sviluppo economico targato 5stelle, e già questo dovrebbe interrogarci sull’enormità dell’episodio. Poiché costui è un componente di quel cosiddetto movimento che non pago di aver fuorviato il settanta per cento degli elettori inducendoli a tagliare il numero dei parlamentari – e dunque a pugnalare al cuore la democrazia – si è reso ultimamente protagonista di comportamenti indecorosi che più che alla politica appartengono alla cronaca nera. Grillino è infatti quel Pasquale Tridico che ha arraffato la poltrona dell’Inps per raddoppiarsi gli emolumenti e incamerare i pingui arretrati (e anche se non è andata così non fa niente, sono cavoli suoi). Purtroppo lo spazio è tiranno e per comprendere di chi stiamo parlando – di una casta ancora più casta di quella casta che essi volevano aprire come una scatoletta di tonno (che poi hanno ingurgitato con tutta la confezione) – citeremo un paio di significativi episodi. La faccia tosta per non dire peggio di quell’Alessandro Di Battista che dopo aver rifiutato a più riprese una poltrona da ministro (ma chi si crede di essere?) apprendiamo che “vestirà i panni di ‘professore’ di giornalismo per la testata online Tpi, previo pagamento di 185 euro”. Previo, e abbiamo detto tutto. E non ci sono parole neppure per commentare quanto accaduto all’agriturismo Cobragor, in borgata Ottavia a Roma, dove al termine dell’allegra tavolata della nuova casta, “i ragazzi del governo un po’ distratti lasciano un totale di 50 euro di mancia. In trenta, 1,6 euro a testa” (Il Foglio). Pazzesco. Alle luce di tutto ciò gli otto applausi confindustriali a un esponente di questa conventicola di tirchi e incompetenti destano ancora più stupore. Ma ’sti industriali chi li paga?

Reddito, un milione di beneficiari senza assegno per un mese

“Ho ricevuto ieri la diciottesima e ultima mensilità del reddito di cittadinanza. Sto per ripresentare la domanda, ma potrò tornare a prenderlo solo dalla fine di novembre. Fino a quel giorno non so come riuscirò a tirare avanti, forse chiederò aiuto ai familiari come facevo prima che arrivasse il sussidio”. Giuliano, nome di fantasia, è stato uno dei primi in Italia a beneficiare dello strumento anti-povertà e oggi si trova in una situazione comune a un milione di persone. Aveva consegnato i moduli all’Inps il 6 marzo 2019 e 40 giorni dopo, a fine aprile, aveva già in mano la carta acquisti. La legge, però, dice che la misura dura al massimo un anno e mezzo. Poi, se restano i requisiti, si può mandare una nuova richiesta, ma bisogna comunque restare fermi un mese. E quell’anno e mezzo è già passato per 410 mila nuclei che ora non potranno ottenere l’accredito di fine ottobre.

Questo è un problema, perché siamo nel pieno della crisi sanitaria ed economica che ha aggravato le difficoltà per molti assistiti dal reddito di cittadinanza. E ora c’è chi, anche tra gli amministratori locali, teme che – sebbene si tratta solo di un mese scoperto – si possa innescare una bomba sociale e chiede di introdurre una proroga. Al ministero del Lavoro, però, per il momento non è stata presa in considerazione questa possibilità. Anzi, si dà per scontato che sarà confermata l’attuale impostazione: una nota dei tecnici ministeriali ha chiarito che i percettori coinvolti nei patti di inclusione sociale non saranno obbligati a proseguire il percorso con i Comuni nel mese in cui non riceveranno i soldi, ma potranno farlo in maniera volontaria. Quanto ai lavori di pubblica utilità, invece, saranno tassativamente interrotti perché verrà meno la copertura assicurativa dell’Inail. Insomma, non sembra palesarsi un intervento ponte che pure in queste ore avrebbe molti sponsor. Anche i più insospettabili.

In Sicilia, dove governa la destra e ad andare “in scadenza” sono 100 mila persone, lo ha invocato l’assessore regionale al Lavoro Antonio Scavone: “Bisogna intervenire immediatamente – ha detto – ci devono essere delle proroghe ed evitare stop ai pagamenti, rischiamo che si vengano a creare situazioni particolari”. Paradossale, se vogliamo, che mentre gli esponenti della destra a livello nazionale si scagliano contro l’assistenzialismo e parlano di flop, quelli locali – costretti a fare i conti con la quotidianità – si spendono addirittura per rafforzarlo. Anche Maurizio Acerbo, segretario nazionale di Rifondazione Comunista, sostiene una toppa: “Le persone che lo hanno ottenuto mesi fa dovranno attendere un mese per rifare la domanda e sottoporsi, per poterlo riottenere, non si sa in che tempi, a una trafila ancor più assurda della prima volta perché prevede l’obbligo di accettare una proposta d’impiego dovunque sul territorio nazionale a partire da 800 euro di salario che in molte parti d’Italia bastano a malapena per l’affitto”. Insomma, nuovi adempimenti e obblighi aggravati.

Proprio nella fase in cui il reddito di cittadinanza subisce attacchi da ogni lato dell’arco costituzionale, c’è il timore che persino un solo mese di stop possa avere un impatto forte. Nel frattempo, però, continua a tenere banco il dibattito su possibili correttivi. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che era titolare del Lavoro quando è stato approvato il Reddito di cittadinanza , è disposto a un “aggiornamento” per rendere lo strumento in linea con lo scenario che si è delineato con la pandemia. L’attuale ministra del Lavoro Nunzia Catalfo ritiene però sia inutile tutto questo polverone sollevato dalle dichiarazioni del presidente del Consiglio, il quale negli scorso giorni ha chiesto una stretta su chi rifiuta le proposte di lavoro, cioè l’aspetto che finora ha rappresentato il vulnus della misura. Catalfo si è un po’ spazientita perché già da marzo, insieme con la ministra per l’Innovazione Paola Pisano, ha sottoscritto un protocollo d’intesa per realizzare il sistema informativo sul reddito di cittadinanza. Ritiene di essere già al lavoro con l’obiettivo di mettere in comunicazione centri per l’impiego, agenzie private per il lavoro e imprese per far finalmente funzionare l’incrocio tra domanda e offerta e rendere più facilmente tracciabili le proposte non accettate dai percettori del Reddito. “Questo percorso – spiegano dal ministero – sarà portato avanti insieme alla Presidenza del Consiglio”.

Il “sussidistan” è il paese della confindustria

Più o meno 70 anni fa, Antonio Gramsci ci spiegò il “cretinismo economico” degli industriali, che “non hanno mai compreso i loro veri interessi e si sono sempre comportati antieconomicamente”. Carlo Bonomi ce la sta mettendo tutta per provare a dargli ragione. Nonostante un crollo del Pil senza precedenti, in tempo di pace il neo presidente di Confindustria martedì, all’assemblea 2020 degli industriali, alla presenza del premier Giuseppe Conte, ha avvertito che i 209 miliardi del Recovery fund “non risolvono niente se se ne dà una goccia a tutti” e ha chiesto una “visione diversa dai sussidi” per “sostenere i settori in difficoltà” dopo il lockdown. “Non vogliamo diventare un Sussidistan”, ha avvertito. Il vicesegretario dem, Andrea Orlando, lo ha fulminato: “Quando li prendono gli altri si chiamano sussidi. Quando li prendi tu, contributi alla competitività…”. “Sono serviti a tutelare l’efficienza produttiva e il tessuto sociale”, ha spiegato Conte nel suo intervento. Bonomi, evidentemente, si porta avanti per intermediare la prossima tornata di sussidi previsti nella prossima manovra in cui, come al solito, la parte imprese la farà da padrona.

A ogni modo, la critica del leader degli industriali appare quantomeno ingenerosa. Una rapida rassegna è sufficiente a mostrare che alle imprese è infatti andata la fetta più grossa del “sussidistan”, senza che Bonomi se ne dolesse, anzi. Per settimane, per dire, ha chiesto (e ottenuto) il taglio dell’Irap, anche ad aziende che non avevano avuto cali di fatturato.

Vediamo i numeri. Dall’inizio della pandemia il governo ha destinato oltre 100 miliardi per contrastare gli effetti del virus, cifre divise tra i tre decreti: “Cura Italia”, “Rilancio” e “Agosto”. Se si contano anche le misure di sostegno alla liquidità, il conto sale. Secondo l’Ufficio parlamentare di Bilancio, il costo totale delle misure dirette a sostegno delle imprese come “saldo netto da finanziare”, qui con un impatto sul deficit, è stato di circa 38 miliardi. Secondo le elaborazioni dell’Ufficio studi della Uil, il conto è però ben più alto. Alle imprese in senso stretto è andato il 48% dei 112 miliardi di euro messi in campo, pari a 53 miliardi, sotto forma di agevolazioni ed esenzioni fiscali, contributi a fondo perduto e garanzie pubbliche ai finanziamenti bancari. La lista è lunga: si va dall’esenzione per tutti del versamento dell’Irap, che costa 4,4 miliardi, ai 2 miliardi di euro di crediti d’imposta fino a 4 miliardi dati in dotazione al Fondo patrimonio Pmi, che deve aiutare a ricapitalizzazione le imprese di medie dimensione. C’è poi il capitolo dell’accesso al credito: sono stati rifinanziati il Fondo Sace, il Fondo Centrale di Garanzia Pmi e il Fondo Ismea che consentono di ottenere un finanziamento con la garanzia dello Stato. La garanzia pubblica non è detto che si trasformi in un costo effettivo, dipenderà dal debitore, ma lo Stato ha rifinanziato questi fondi con 35 miliardi, attraverso una stima di quanto può essere il tasso di insolvenza dei prestiti. A questi accantonamenti vanno aggiunti i 44 miliardi a valere sul Fondo patrimonio destinato della Cassa Depositi e Prestiti, messo in piedi per ricapitalizzare aziende di grandi dimensioni in difficoltà.

Fin qui parliamo delle misure a sostegno diretto delle imprese. Ci sono però anche gli stanziamenti per interventi “ibridi”, cioè destinati sia alle imprese che ai professionisti con attività di impresa. La Uil calcola che questo capitolo valga altri 13 miliardi: si va dalla rateizzazione dei versamenti fiscali sospesi con i primi due decreti ai contributi a fondo perduto per persone giuridiche e fisiche titolari di partita Iva al credito di imposta per i canoni di locazione e adeguamento dei luoghi di lavoro. Considerati questi, il totale arriverebbe a 67 miliardi, pari al 60% delle risorse stanziate, quota che fa impallidire il 10% destinato ai lavoratori dipendenti e autonomi, e il 26% dedicato alla Cassa integrazione e alle misure di sostegno al reddito. Quest’ultimo capitolo vale 29 miliardi come stanziamenti, anche se il tasso di utilizzo effettivo è stato inferiore al previsto e ha prodotto risparmi. Se si contassero anche queste risorse, il capitolo sussidi alle imprese sale ancora. È vero che le aziende non hanno potuto licenziare per via del blocco varato dal governo (fatta eccezione per il mancato rinnovo dei contratti precari), ma è altrettanto vero che circa un terzo delle ore Cig autorizzate è stato chiesto da imprese che non avevano registrato un calo dei ricavi, al punto che il governo nel decreto Agosto è dovuto intervenire imponendo un contributo a quelle che hanno avuto una minima riduzione del fatturato. I vari decreti contengono poi gli sgravi contributivi, destinati a incentivare nuove assunzioni, per chi non usa la Cig, o a ridurre il costo del lavoro già a carico del datore. Anche questi sono sussidi alle imprese (secondo l’Upb valgono almeno 13 miliardi nel 2020).

Tirate le somme, al comparto imprese sono state destinate più della metà delle risorse messe in campo. Secondo l’Upb, se si considerano anche gli accantonamenti per gli interventi della Cdp, “l’impatto sul saldo netto da finanziare ammonta a 104,5 miliardi nel 2020”.

Bonomi, a ogni modo, è in buona compagnia. Ai tempi di Giorgio Squinzi, per dire, la Confindustria dettava proprio le riforme (il Jobs Act è stato anticipato da un documento di lavoro dell’associazione, di cui ne riprese i capisaldi), mentre il governo Renzi destinava quasi 20 miliardi agli sgravi per le assunzioni in modo da gonfiare i dati e vendere meglio l’eliminazione dell’articolo 18. Il predecessore di Bonomi, Vincenzo Boccia, nel suo primo anno ottenne una manovra che nel triennio, tra industria 4.0, sgravi alle assunzioni, tagli all’Ires e via dicendo, valeva quasi 80 miliardi alle imprese. Anche nella prossima legge di Bilancio il capitolo sembra destinato a ricevere una quota considerevole di risorse. Confindustria si sente già in tasca la fine del blocco dei licenziamenti a dicembre. Parliamo di una misura che, ha spiegato il leader degli industriali, “ha impedito alle aziende di ristrutturarsi”, cioè di licenziare. Senza una nuova proroga, l’effetto sociale sarà dirompente e, ça va sans dire, lo Stato se ne dovrà fare carico. Forse gli industriali temono che questo distolga troppe risorse dagli incentivi alla mitica “competitività”. Nel dubbio, Bonomi si è già portato avanti.

Il governo ha deciso: revoca Atlantia, 10 giorni per cedere

Nel dossier Autostrade per l’Italia ogni giorno ha la sua pena e il suo ultimatum. La strada però sembra tracciata verso una nuova escalation. Il governo ha deciso di procedere alla revoca della concessione ed entro 10 giorni porterà la decisione in Consiglio dei ministri. In questo lasso di tempo si attende da Atlantia, la holding controllata dai Benetton, un passo indietro. Dal canto suo il colosso ha reagito ieri paventando l’apocalisse finanziaria: “Una simile mossa causerebbe un default gravissimo per l’intero mercato finanziario europeo”, ha fatto filtrare alla stampa. È l’ultima trincea dei Benetton ed è anche l’aspetto che spaventa di più il governo. In ambienti finanziari filtra che Altantia stia facendo il diavolo a quattro per spingere la Commissione europea a intervenire, tanto più che al netto dei Benetton, il 70% della holding è in mano soprattutto ai grandi fondi esteri.

Andiamo con ordine. Ieri è servito un ennesimo vertice a Palazzo Chigi. Al tavolo, il premier Giuseppe Conte e i ministri di Tesoro e Infrastrutture Roberto Gualtieri e Paola De Micheli con i rispettivi capi di gabinetto. Ieri scadeva l’ultimatum dato ad Atlantia per accettare le condizioni previste dall’accordo del 14 luglio scorso per chiudere la ferita del Morandi con la vendita di Aspi e la presa di controllo da parte della Cassa Depositi e Prestiti. La trattativa si è arenata sulla richiesta di Cdp di essere manlevata dai rischi legati ai contenziosi giudiziari sul ponte di Genova, che possono ammontare a miliardi di euro. Atlantia martedì ha risposto che la manleva è inaccettabile e si può trattare solo sul prezzo. Poi ha bollato come “illegale” la decisione del governo di subordinare tutti gli atti amministrativi, necessari ad aggiornare la concessione e chiudere il contenzioso del Morandi, alla cessione di Autostrade alla Cassa Depositi e Prestiti. Mossa che la holding ha denunciato a Bruxelles.

A Palazzo Chigi, ministri, premier e tecnici hanno fatto il punto. Ne è uscita una lettera spedita ieri ad Atlantia in cui il governo respinge le accuse, e avverte che porterà gli atti conseguenti in un Cdm che sarà convocato entro dieci giorni. In serata il premier ha fatto il punto nel Consiglio dei ministri convocato, già previsto per approvare alcuni provvedimenti in scadenza.

Nelle stesse ore, Atlantia riuniva la stampa e paventava l’apocalisse finanziaria: “La revoca – ha fatto sapere – provocherebbe un default sistemico gravissimo, esteso a tutto il mercato europeo, per oltre 16,5 miliardi di euro (i debiti di Atlantia, ndr), oltre al blocco degli investimenti. Verrebbero così messi a serio rischio 7.000 posti di lavoro di Autostrade. Bisogna assolutamente evitare questo scenario nefasto”. Il colosso si appella “all’equilibrio del premier Giuseppe Conte”, ma conferma di non voler accettare le condizioni dettate dal governo, anche perché “gli azionisti di Atlantia, dei quali il 70% è rappresentato da fondi istituzionali, hedge fund, investitori internazionali, non sono disposti ad approvare in assemblea soluzioni che non siano trasparenti e di mercato”. È questa l’ultima trincea. I grandi fondi stanno premendo a Bruxelles perché intervenga inibendo l’esecutivo italiano. Tutti guardano a Margrethe Vestager, la commissaria europea alla Concorrenza, assai sensibile alle istanze francesi. Tra gli azionisti colpiti ci sarebbero anche gruppi d’oltralpe. Tra i soci di minoranza di Aspi, per dire, oltre ai cinesi di Silk Road c’è un altro 7% detenuto da un veicolo, Appia Investment, sottoscritto dal gruppo assicurativo tedesco Allianz e dal colosso francese Edf Invest e Dif, con due suoi fondi infrastrutturali. Nei giorni scorsi Atlantia ha fatto sapere che la Commissione le ha inviato una lettera in cui spiega di star monitorando attentamente la situazione. La speranza è che un intervento più deciso blocchi la strada al governo italiano.

La palla, come sempre, è nelle mani dell’esecutivo. Se manterrà fede alla minaccia, la prossima settimana sarà convocato un Cdm per decidere sulla revoca. Tecnicamente sarà un’informativa del premier, la revoca vera e propria arriverà con un decreto interministeriale firmato da Gualtieri e De Micheli. Servirà però sciogliere il nodo di cosa fare di Aspi e della gestione dei 3mila km di autostrade in mano al concessionario. In base al decreto Milleproroghe di fine 2019 dovrebbe passare in mano all’Anas, ma si ipotizza anche di commissariare Aspi. Un primo punto verrà fatto già lunedì, quando è in programma il Consiglio dei ministri che deve approvare la Nota di aggiornamento al Def e le modifiche ai decreti Sicurezza. Parte del governo, specie i 5Stelle, premono però per decidere già in quella data.

Nessun rinvio: il calcio fa finta di non vedere e va avanti

Dopo appena due giornate la Serie A assomiglia più ad un caso sanitario, un problema politico, che ad un campionato di calcio. Il focolaio Genoa – ieri ai 14 positivi se n’è aggiunto un altro – ha scatenato il panico. Il governo litiga, gli scienziati invocano misure di sicurezza. Il pallone, schiavo di conti e calendario, va avanti come sempre. Per fortuna almeno da Napoli è arrivata una buona notizia: i tamponi dei calciatori azzurri che domenica avevano affrontato il Genoa sono tutti negativi. Ma è presto per esultare, visto che per i tempi di incubazione gli esami più attendibili saranno quelli delle prossime ore.

Basta però per confermare il big match domenica: ad oggi la Lega non ha motivo per rinviare Juve-Napoli, soprattutto perché trovare una data utile per due squadre impegnate in Europa sarebbe un rebus. Saranno decisivi i tamponi di oggi e poi quelli finali di sabato. Non è nemmeno così scontato che salti Torino-Genoa, anche se giocare con un focolaio di 15 positivi ancora acceso pare una follia (la Asl però ha autorizzato la ripresa degli allenamenti per i sani). È il precedente che terrorizza i club, la prospettiva di non riuscire a chiudere la stagione (a giugno ci sono gli Europei): serve una regola per evitare che i rinvii vengano concessi o meno a seconda della facilità di recupero. Così non è escluso che passi la linea dura indicata dalla Uefa: si gioca finché ci sono 13 titolari, altrimenti 3-0 a tavolino.

La sottosegretaria alla Salute, Sandra Zampa, voleva bloccare tutto: “I protocolli parlano chiaro, il campionato deve essere sospeso”. In realtà il protocollo non lo dice affatto, prevede solo che un calciatore positivo non può giocare. Infatti, dopo la tirata d’orecchie del ministro dello Sport Spadafora, la sottosegretaria è stata costretta a rivedere le sue “parole avventate”. È evidente però che il contagio in Serie A rappresenti una spina nel fianco per il governo. L’allentamento, preteso dalla Figc di Gravina (questioni economiche, i club spendevano troppo) e concesso un po’ a cuor leggero, col senno di poi è stato un errore. Ma il peggio al momento pare scongiurato e il calcio italiano tira un sospiro di sollievo. O forse fa solo finta di nulla.

Tamponi “lunghi”: 8 ore al drive-in e 7 giorni di attesa

Drive-in e pronto soccorso presi d’assalto a Roma. Fra primi raffreddori, confusione e contraddizioni nelle procedure scolastiche e difficoltà di accesso ai punti mobili, ieri la Capitale ha vissuto una nuova giornata di caos a contorno dei crescenti contagi per il Covid-19. Una su tutte, la situazione presso l’ex mattatoio di viale Palmiro Togliatti, nel popoloso quadrante est della Capitale, attorno al quale alle 10 di mattina si è formata una fila di automobili lunga quasi due chilometri, con un’attesa che ha superato le otto ore. Molti dei veicoli in fila non hanno fatto in tempo a varcare i cancelli del Centro Carni – dove operano i sanitari – entro la chiusura delle ore 17. “Non potete venire tutti qua, andate a Fiumicino, lì è più libero”, urlavano alcuni addetti a supporto del personale della Asl Roma 2. Il drive-in nel parcheggio lunga-sosta dell’aeroporto Da Vinci, in realtà, sarebbe riservato a chi torna dai cosiddetti Paesi “a rischio”, ma in queste ore gli schemi stanno saltando. “Io da Cinecittà sono arrivato a Frosinone”, racconta un padre, il cui figlio la mattina si è svegliato con un forte raffreddore: “Abbiamo fatto l’antigenico entrambi e siamo tornati. Ma certo, non si può fare tutti i giorni”.

A intasare i drive-in sono soprattutto le scuole. La procedura attuale non prevede che i test, anche rapidi, ai singoli alunni “sospetti” vengano svolti presso gli istituti. Questo mobilita i genitori e li costringe alle lunghe file fuori dai punti mobili. E in alcuni casi, per la riammissione a scuola anche di chi non è mai stato positivo i presidi richiedono il doppio tampone negativo. Poi c’è il tema delle attese dei risultati. La scorsa settimana per un tampone molecolare bisognava attendere fra i 5 e i 6 giorni. Un intervallo che sta crescendo man mano che aumentano le persone da esaminare. Attualmente, rimane costante fra 9 mila e 11 mila i test giornalieri processati in tutto il Lazio. Di più non si riesce a fare. Così si moltiplicano le proteste sulle pagine Facebook della Regione: “Sono sette giorni che aspetto e sono in isolamento, tutti i numeri che provo a chiamare sono liberi e squillano a vuoto, le email ne avrò mandate una decina… Niente! – scrive una donna – Il datore di lavoro vuole il referto per il reintegro, voglio vedere se i controlli sui giocatori di Genoa e Napoli avranno gli stessi tempi”. “Dopo 14 giorni di isolamento precauzionale perché ho transitato in un posto dove c’era un positivo – protesta un uomo – aspettare un’altra settimana per il tampone è inaccettabile, c’è gente che ha impegni lavorativi urgenti”.

Le cose potrebbero migliorare con il provvedimento che autorizza i laboratori privati a svolgere i testi rapidi antigenici al prezzo “consigliato” di 22 euro. Resta il fatto che i 210 casi registrati ieri nel Lazio (di cui 110 a Roma) non rappresentano un quadro attuale, ma quello di una settimana fa. L’assessore regionale alla Sanità, Alessio D’Amato, ieri ha provato a gettare acqua sul fuoco: nel Lazio, ricorda, “c’è stato un dimezzamento della letalità per cento contagiati che passa da 10,2 a 5,9 e un tasso di mortalità per 10 mila abitanti che è dieci volte inferiore a quello della Lombardia e sette volte inferiore al dato di Emilia-Romagna e Liguria”.

Intanto il primo pronto soccorso sembra essere andato in tilt. È quello del Policlinico Umberto I, tra i più importanti ospedali romani, che ha iniziato a respingere le ambulanze. Il direttore generale Vincenzo Panella ha disposto che “non vengano accettati arrivi dall’Ares 118 di sospetti Covid ogni volta che il numero di soggetti in osservazione Covid sia superiore alla ricettività degli spazi di isolamento, vale a dire 8 persone contemporaneamente”. Non è chiaro se attenderanno il loro turno in ambulanza come succedeva nei mesi del lockdown o saranno solo invitati ad andare in altri ospedali. Il provvedimento scatena i sindacati: “È inaudito – ha commentato il segretario generale della Cisl, Roberto Chierchia – ormai il Policlinico è un hub Covid dove la regola è l’insicurezza e il caos organizzativo regna sovrano”. Legato all’università Sapienza, è stato il primo a riempire i posti letto dedicati.

Palazzo Madama hospital. Dove la fila non c’è mai

Il più arrabbiato di tutti è il medico del Senato, Federico Marini, che è praticamente un’istituzione a Palazzo: in tempi di pace, sorveglia la salute degli eletti pronto a offrire assistenza e consigli o anche solo una parola pietosa per dolori, acciacchi e paranoie di tutti i tipi. Ma da quando c’è il coronavirus si è trasformato pure in un cane da guardia e per i corridoi o nelle belle sale damascate, ha pure preso a cazziare quei senatori che proprio sono allergici alla mascherina. O che, comunque, sembrano troppo rilassati ora che il brutto è – anzi, pareva – passato. E invece no. Perché il Covid ha fatto capolino pure tra loro, ossequioso al credo grillino dell’uno vale uno che anche tra i 5Stelle ha perso da tempo un po’ di smalto: due contagiati sicuri e tutti gli altri a fare di corsa i controlli.

Certo, senza sottoporsi allo stress delle file chilometriche riservate ai comuni mortali, costretti ad attendere ore per farsi tamponare narici e gola ai drive in delle asl italiane. Ma sebbene confortati da risposte rapide e dall’ambulatorio allestito tra i tappeti e gli arazzi di Palazzo Cenci, nello stesso stabile che ospita lo storico caffè Sant’Eustachio, la paura c’è. La fila però è clemente, a detta di tutti, a prescindere dalla parrocchia politica: bastano pochi minuti e poi non resta che attendere il responso del laboratorio di microbiologia del Gemelli, l’ospedale del Papa ormai riferimento pure per il Parlamento. Che per contrastare il Coronavirus non ha badato a spese: la Camera ad esempio ha già scucito 2,5 milioni di euro. Quanto sia stato il conto al Senato lo sa solo il collegio dei questori che lo hanno messo a punto mesi fa, senza che Sua Presidenza Maria Elisabetta Alberti Casellati lo portasse poi all’approvazione dell’aula.

A spanne, si tratta di una signora cifretta. Ché le misure di sicurezza imposte per preservare l’Istituzione dal virus non sono state certo una passeggiata: già a fine gennaio, tanto per dirne una era partito un primo acquisto di 10 mila mascherine a cui ne sono seguiti altri effettuati con successo nonostante, nel frattempo, questi dispositivi di sicurezza fossero ormai spariti dal mercato o introvabili se non a prezzi esorbitanti. E poi gel disinfettante come piovesse, sanificazioni à gogo, controlli della temperatura effettuati prima grazie a personale appositamente reclutato per monitorare gli ingressi, poi sostituito con i termoscanner che fanno tutto da sé. Ancora nessuno, per fortuna, ne ha avuto bisogno, ma il Parlamento ha davvero pensato a tutto per i suoi inquilini: oltre ai dispositivi di protezione, tamponi e test sierologici, è stato pure previsto il noleggio delle ambulanze attrezzate come ambienti di bio-contenimento per le emergenze.

Basta? No. Già a febbraio la presidente Casellati aveva reclutato come consulente Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dello Spallanzani e autorevolissimo esperto della task force messa in campo dal governo. Il top del top assicurato a Palazzo, grazie al consiglio del solito Federico Marini. “Sta svolgendo un lavoro encomiabile: santo subito. Ci vorrebbe uno così in ogni scuola italiana”, si lascia andare una rappresentante del popolo che sorseggia un caffè prima che si spengano le luci a Palazzo.