A dispetto della debacle di Italia Viva e del fallito tentativo di disarcionare Zingaretti, il vecchio sodale di Renzi Luca Lotti (“autosospeso”?) riprende la parola nella veste – dici niente – di capo della corrente di maggioranza nei gruppi parlamentari del PD. Forse è malizioso il sospetto che Renzi, quando ruppe con il PD, abbia lasciato di proposito qualche fedelissimo come presidio. Ma vogliamo essere… ben pensanti. Diciamo solo che sono un buon numero coloro che non hanno seguito Renzi, stanno dentro il PD, ma non la pensano molto diversamente da lui. Né si può escludere che la prospettiva di un renzismo senza Renzi dentro il PD, da taluni, sia coltivata d’intesa con Renzi fuori dal PD. Non decollando nel voto, egli ci riprova per altra via, quella a lui più congeniale delle manovre di Palazzo. Di qui l’esigenza, per il PD, di un franco, aperto confronto di natura congressuale che isoli tre questioni: le politiche (al plurale), la politica, una lettura retrospettiva.
Sulle politiche (policies) solo qualche interrogativo: nella nuova fase della globalizzazione, dentro e dopo la pandemia, si possono riproporre le ricette tardoblairiane ispirate al paradigma neoliberale? nella prospettiva di disegnare la nuova Italia cui orientare l’impiego delle ingenti risorse messe a disposizione dalla Ue, non è d’obbligo ripensare i rapporti tra mercato, società e Stato? nel concepire e praticare il riformismo possiamo contentarci di un anacronistico approccio minimalista e meramente adattivo, senza l’ambizione di innovare invece il paradigma? può un partito di sinistra (?) essere timido nella lotta alle disuguaglianze e nella transizione ecologica, specie dopo la crisi pandemica, e rassegnarsi alla massima tacheriana TINA (“there is no al alternative”)? Confondendo riformismo con moderatismo.
Circa la politica (policy), inutile girarci intorno: decisiva è la politica delle alleanze e segnatamente il rapporto con il M5S. Come si può strologare di vocazione maggioritaria e di ambizione di governo da parte di un partito attestato intorno al 20% rinunciando a stringere alleanze? Chi obietta dovrebbe avanzare in positivo altre proposte strategiche, pena condannarsi a un destino minoritario, a sconfitta certa, a consegnare il paese alla destra. Nessuno nega le difficoltà di un’alleanza politica con i 5 stelle, le cui convulsioni sono un problema, ma anche un’occasione/opportunità. Un partito sicuro di sé dovrebbe ambire a una positiva contaminazione, a un reciproco arricchimento. Con una iniziativa che concorra a valorizzare, del M5S, l’originaria ispirazione civico-ambientalista (di “sinistra”) e a smaltire il suo residuo protestatario e populista. Nonché a dare credito a chi, dentro il M5S, si spende per tale prospettiva. E perché no? Ad aiutare a sua volta il PD a rigenerarsi dopo lunghi anni di governismo, di schiacciamento sul Palazzo, di autoreferenzialità di un ceto politico troppo dedito all’entropia delle lotte di potere interne. Come ha osservato Prodi, non mancano “valori comuni” da trascrivere in un “grande progetto” comune.
Infine, una riflessione retrospettiva. Condivido la tesi di Bettini: il bipartitismo e, di riflesso, la velleitaria presunzione dell’autosufficienza del PD è alle nostre spalle. Oggi si richiedono alleanze larghe, plurali e inclusive, come del resto fu con l’Ulivo. Per inciso, sarebbe bello che Bettini, sul punto, facesse autocritica: furono Veltroni prima (di cui Bettini era consigliere politico) e Renzi poi a imprimere una inopinata accelerazione verso un forzoso bipartitismo che condusse paradossalmente – ma si può spiegare – alla suggestione fallace del “partito della nazione” (l’opposto di una sana democrazia competitiva) subalterno all’establishment e infine all’isolamento del PD, sancito dalla disfatta delle politiche. Facile accampare la scusante dell’incursione del M5S per spiegare la crisi del bipolarismo. Ma merita farsi una domanda ulteriore: ad aprire un’autostrada al M5S non è stato proprio il renzismo? In un tempo nel quale spiravano vigorosi una domanda di cambiamento, un acuto disagio sociale e, diciamolo pure, un vento antipolitico, avere conferito al PD, nato come partito di una sinistra di governo, il profilo del
partito cardine del potere politico ed economico, ha gonfiato le vele del movimento di Grillo. Vuole il PD ripetere gli stessi errori? Esattamente questo dovrebbe essere l’oggetto di un passaggio congressuale – preceduto da una revisione dello statuto figlio di un’altra era – troppo a lungo disatteso dal PD, che ne definisca l’identità e cambi il gruppo dirigente che circonda (e imbriglia) Zingaretti. Ora che si è rafforzato prenda lui l’iniziativa.