Due M5S positivi, lavori sospesi. Casellati: “Il Senato non chiude”

Il Senato non chiude. Lo giura la presidente, Maria Elisabetta Alberti Casellati, che ha convocato per questa mattina una riunione dei capigruppo per dare un segnale: la macchina non si ferma dopo che due senatori, Francesco Mollame e Marco Croatti sono risultati positivi al coronavirus. “Non ho nessuna intenzione di chiudere. Non l’ho fatto neppure nel periodo più acuto della pandemia e sarebbe assurdo che succedesse adesso”, ha detto Casellati, rassicurando che già oggi “tutto dovrebbe tornare alla normalità”.

Intanto ieri sono state sospese in via precauzionale le attività a Palazzo dove in settimana non erano comunque previsti lavori in aula, ma solo commissioni e Giunte, tutte sconvocate per effettuare gli accertamenti imposti dai protocolli di sicurezza: ossia per la sanificazione dei locali che avviene comunque dopo ogni seduta, ma soprattutto per consentire ai membri del gruppo 5 Stelle di sottoporsi al tampone naso-faringeo. In fila anche alcuni senatori degli altri partiti che si erano prenotati in precedenza per sottoporsi al test. La preoccupazione è forte perché se è vero che Mollame, come ha chiarito in una nota il collegio dei questori di Palazzo Madama, “non frequenta i locali del Senato a far data dal 10 settembre”, risulta aver partecipato a una manifestazione in Sicilia con un’altra senatrice del M5S della commissione Finanze. Per questo motivo la commissione in questione si era riunita martedì, ma senza i componenti 5Stelle tra i quali era subito scattato il tam tam. E la fila per il prelievo al laboratorio di analisi allestito al piano terra di Palazzo Cenci che fa parte del compendio di Palazzo Madama. Ieri però ad aspettare il loro turno per il tampone sono stati molti di più dopo la notizia dei due senatori positivi al Covid-19.

Sempre la stessa senatrice, che in diverse occasioni era stata richiamata all’ordine sull’uso della mascherina, ha infatti partecipato al summit post elettorale dei pentastellati convocato giovedì scorso nella Biblioteca del Senato in piazza della Minerva. Vi ha partecipato anche Marco Croatti, che via Fb ha tenuto a precisare di essere in quarantena a casa da lunedì, ma anche di aver frequentato il Senato fino al 24 rispettando tutte le norme di sicurezza. “Giovedì ho preso parte all’assemblea dei senatori del Movimento 5 Stelle, munito di mascherina e nel rispetto del distanziamento sociale nei confronti dei presenti”.

Mollame è invece in quarantena da martedì e ieri ha confermato: “Sono in assoluto isolamento in Sicilia e appena ho avuto l’esito del tampone, ho avvertito il mio gruppo seguendo le procedure. Ho i classici sintomi, dalla febbre a 39 a difficoltà nel respirare e parlare”. Quindi ha precisato di non aver partecipato “neanche in videocollegamento” all’ultima assemblea dei 5stelle, perché “avevo già la febbre”. Su Facebook si è poi rivolto a chi gli è stato vicino in questo momento: “Mai stato così male; questo virus è proprio una gran brutta bestia“.

Ora mentre gli altri senatori aspettano i risultati del test o si preparano a farlo, il rischio del blocco delle attività parlamentari ha innescato diverse polemiche. Su chi ha scaricato l’app Immuni e chi no: Mollame ha confessato all’AdnKronos di non averlo fatto per ragioni tecniche, Croatti invece ha fatto i compiti a casa. Ma soprattutto ha ripreso vita la discussione sulla possibilità di organizzare le sedute a distanza. “Avevo depositato una proposta di modifica del regolamento per il voto online” rivendica la senatrice Elena Botto dei 5 Stelle. Rincara la dose il suo collega della Camera Giuseppe Brescia: “Mi dispiace per i colleghi ai quali auguro pronta guarigione. Ma trovo inaccettabile che la democrazia debba fermarsi. L’avevo detto che il voto da remoto poteva tornare utile”. Tra i 5S si trova però anche qualcuno disponibile a sdrammatizzare il momento: “È la vendetta di Casaleggio”.

Ottobre, finalmente

Non so per voi, ma per me l’arrivo di ottobre è un bel sollievo. Per tutto settembre ho temuto il peggio. Era dal lockdown che i profeti di sventura e i professionisti dell’apocalisse vaticinavano con aria voluttuosa e acquolina in bocca un autunno caldo, anzi caldissimo, con decorrenza da settembre: disordini sociali, sommosse popolari, rivolte di piazza, cacce all’uomo, assalti ai forni, barricate, violenze, forconi, machete, jacquerie e grand guignol contro il governo di incapaci che ci affama tutti con la scusa del Covid. Io, per non saper né leggere né scrivere, avevo piazzato cavalli di frisia davanti casa e sacchi di sabbia alle finestre. Amici meno ottimisti, appena accendevano la tv o aprivano un giornalone, svaligiavano un’armeria e correvano al poligono. “Conte teme la rivolta sociale” (29.3), “Ora è allarme disordini sociali: ‘Rivolte senza precedenti’” (22.5), avvertiva il Giornale. Repubblica vedeva lungo: “Col cuore in gola aspettiamo settembre!” (Francesco Merlo, 19.6), “Prepariamoci a settimane incandescenti e non per ragioni atmosferiche” (Stefano Folli, 21.8). La Verità, al solito, rassicurava: “Meridione affamato: tira aria di rivolta. A Benevento una donna minaccia Mastella. A Palermo tentata razzia in un supermarket” (29.3), “La tensione cresce, Giuseppi esita: è la ricetta per una stagione violenta” (29.8). Il Messaggero citava i “dossier dell’intelligence”: “Volantini invitano alla rivolta e al saccheggio’” (1.4). E il Corriere: “Timore di disordini ‘per il pane’. Sul web i messaggi per innescarli” (29.3). Per La Stampa era tutto già in atto: “Supermercati, frutta e verdura scarseggiano. Punti vendita presi d’assalto. A ruba anche uova, farina e lievito” (30.3).

Cronisti impanicati cercavano ristoro in Sassoli, ma invano: “Preoccupazione per l’autunno? No, terrore”. E guai a guardare i talk show. La Maglie, col suo eloquio al napalm, oracolava: “Cominciamo ad abituarci. Ne vedremo a centinaia di manifestazioni alla Pappalardo. Non sarà l’esorcizzazione di un salotto tv a impedire da qui a metà settembre esplosioni di rabbia violente” (6.6.). Capezzone faceva sì sì col capino. La Chirico pregustava “un autunno caldo di disordini sociali: abbiamo già tre politici sotto scorta” (28.5). E Minzolini, citando il moderato Casini, annunciava: “Conte sarà cacciato coi forconi” (20.5). Al confronto, Cacciari era di conforto: “In autunno la situazione economica sarà drammatica con pericoli per l’ordine sociale. Per stare a galla, il governo dovrà coprirsi dietro il pericolo della pandemia. Dittatura democratica inevitabile” (25.7). Ora che è ottobre, che dite: saremo fuori pericolo? Che faccio coi cavalli di frisia e i sacchi di sabbia: rimuovo o aspetto?

“Una storia al contrario”, ovvero come diventare precari da adulti

Il 3 giugno 2017, Francesca De Sanctis, inviata dall’Unità al Festival Primavera dei Teatri di Castrovillari, si risvegliò tramutata in un insetto. Una blatta simile a quella in cui Franz Kafka intrappolò Gregor Samsa ne La Metamorfosi. “Gregor si risveglia trasformato in uno scarafaggio e tenta per tutto il tempo di adattare la sua vita al nuovo corpo. Io cerco disperatamente di familiarizzare con la mia nuova condizione. Io e Gregor fatichiamo a muoverci. Io e Gregor siamo come paralizzati. Io e Gregor preferiamo nasconderci, lui sotto il divano, io dietro il silenzio”. Quel 3 giugno 2017, l’Unità, il giornale nel quale era stata assunta a tempo indeterminato il 25 settembre 2003 (era l’epoca della direzione di Furio Colombo con Antonio Padellaro) terminerà, per la terza volta nella sua storia, le pubblicazioni. Non era più l’Unità di battaglia di Furio e Antonio, né quella di Concita De Gregorio: era l’Unità di Matteo Renzi, un’avventura durata un paio d’anni e che aveva lasciato sul campo solo feriti. Francesca, quel giorno, a Castrovillari, non si era trasformata in un insetto, ma in una “precaria”, una specie dalla scorza comunque dura.

Lo dimostra anche il romanzo autobiografico Una storia al contrario, di fresca edizione per Giulio Perrone. Un racconto che descrive una generazione di giornalisti, anche capace a fare il proprio lavoro, che finisce in un complicato quadro di Escher in cui l’alto e il basso paiono confluire fino a sovrapporsi.

Da vera cronista, Francesca racconta tutto nei dettagli: ogni piccolo particolare costruisce infatti il quadro. Cassino, il padre appassionato di giornali antichi che riempie la casa di ritagli, il Dams a Bologna, Giampiero, che c’è sempre, le figlie Sofia e Asia, la malattia, “Mia” (abbreviazione di miastenia gravis) che si ritrova dentro a 26 anni e con la quale inizia a lottare, a convivere, anche a darle un senso. È un racconto “al contrario” (dalla sicurezza all’insicurezza, dalla certezza, anche fisica, all’insicurezza), ma è soprattutto un racconto circolare, che tiene al centro le persone con cui si è deciso di condividere la vita. I Proietti, i Saviano, i Lo Cascio, gli Eco, i Santoro, gli stessi colleghi dell’Unità (tradotti in abbreviazioni), sono comparse in un racconto di affetti forti, profondi. Di chi ha fatto un percorso complicato e allo stesso tempo universale e si ritrova un giorno in casa propria, in un terrazzo affacciato su Roma, ancora con la voglia di osservare e raccontare.

Buon compleanno Renato, rinato da Zero a 70 anni

Ci sono artisti, anche più giovani ma solo per l’anagrafe, che vanno in pensione. Altri hanno esaurito la vena creativa e sono bloccati dalla sindrome del pentagramma bianco o dalla depressione post-lockdown. E poi c’è Renato Zero, che a 70 anni approfitta della quarantena per comporre una sessantina di nuovi brani da sfornare in tre album: il 30 settembre (oggi, il suo compleanno), il 30 ottobre e il 30 novembre. Gli otto concerti a Villa Borghese già pronti sono rinviati all’anno prossimo, quando riuscirà a ricompiere 70 anni mentre ne farà 71. Cose che càpitano solo a chi ha il numero del mistero nel nome d’arte (quello vero è Fiacchini) ed è nato almeno tre volte: la prima come tutti, da mamma Ada, infermiera; la seconda subito dopo, quando pareva spacciato già nella culla per una rara anemia da Rh negativo e lo salvò la trasfusione di un frate; la terza a 41 anni, nel 1991, quando lo davano per finito, finché salì sul palco di Sanremo con Spalle al muro e strappò 10 minuti di applausi. “Quante volte sono morto, quante volte nascerò, prima di sentirmi un vero uomo…”.
Essere Zero vuol dire essere tutto e il suo contrario. Scuola dalle suore, padre poliziotto, uno zio prete, due frati e uno intellettuale comunista (Mario Tronti). Cattolico e dissacratore, scandaloso e moralista, cantautore di almeno 600 brani e 40 album senz’aver mai studiato musica, ballerino, scenografo, coreografo, costumista, attore, (auto)truccatore, regista, famoso per Mi vendo e mai in commercio, amante delle donne e degli uomini, capace di passare dal rock al pop, dallo ska al bolero, dal lento al rap, dalla ballata alla disco, dal funky alla preghiera. “Privo di un’etichetta, infilo il naso dove mi va… rifiuto l’uniforme, gli inviti della pubblicità, pranzo coi neri, ceno coi rossi, mi fidanzo con chi mi va; io sono strano…”.
A 15 anni, sulla spiaggia di Ventotene, scrive Il cielo e L’equilibrista, ma li tiene lì per quando qualcuno ci farà caso. A 17 pubblica il primo singolo: Non basta sai di Gianni Boncompagni e Jimmy Fontana e vende 20 copie: “Ai parenti, e nemmeno tutti. Meglio così, cantavo come Paperino”. Intanto fa il ballerino di fila per Don Lurio e Rita Pavone e nel ’68 apre il concerto di Jimi Hendrix al teatro Brancaccio ballando con Loredana Bertè. Randagio cacciatore di provini alla Rca e di serate al Piper e negli altri clubini e cabaret, anche per pochi intimi: “La sera del 24 dicembre 1974, al Folk Rosso, suonai per un solo spettatore”. Comparsa a Cinecittà per tre film di Fellini: Satyricon, Casanova e Roma. La gavetta è lunga, la fame tanta, i pregiudizi e le porte in faccia infiniti. Dal palazzo del quartiere Montagnola, tutti poliziotti come il padre, ai mercatini rionali a fare incetta di pezze e abiti colorati, bombette, bric-à-brac dell’usato, stivali sopra la coscia, “accademici” da danza. Un sabato sera del 1978 i capi della Rai vedono quell’esile farfalla umana con addosso l’argento vivo, la tutina in acrilico e gli stracci multicolori che svolazza cantando il Triangolo in diretta da Venezia e chiamano l’impresario Gianni Ravera: “Chi è quell’essere? Come hai osato mandarlo in onda? Ora lo rispedisci a Roma”. Poi vedono gli ascolti, e lo riacchiappano per i capelli ricci sul predellino del treno per riaverlo. Per quel folle ragazzo colorato che scuote un’Italia ancora in bianco e nero, la salita diventa discesa. Strehler, Morricone, Bene, Mina, Mia “Mimì” Martini, il tendone di Zerolandia con Proietti, Trevor Horn, Phil Palmer. “Vivo, il mio alibi è che vivo…”. “E mi trucco perché la vita mia non mi riconosca e vada via”.
Con gli anni e i milioni di dischi venduti (più di 20) la vera trasgressione diventa la normalità e lui si strucca e passa dalle piume al total black. Così la gente non si distrae più e comincia a notare i suoi testi, quelli cazzari e quelli poetici. I critici che lo snobbavano perché non era engagé scoprono che l’impegno c’è sempre stato, ma non per un partito: per i temi più duri della vita. Dio, ambiente, plastica, guerra, sesso, pedofilia, droga, prostituzione, noia, depressione, eugenetica, aborto, vecchiaia, malattia, abbandono, chirurgia plastica, suicidio, adozioni, stalking con decenni d’anticipo sulla tabella di marcia. Ha pure inventato una Zerolingua: paleobarattolo, ormonauta, zerofobia, zerofollia, zerofavola, zeromatti, sorcini, fonopoli, atomicopathos, ondagay, spiridioti, umaneria. “Niente trucco per me, via le luci stasera, che a guardarti negli occhi sia la faccia mia vera”.
Ora Zero fa 70 con 3 dischi in 3 mesi. Il singolo che li anticipa, il rockissimo L’angelo ferito, parla di Covid. “Affanculo pandemia che ci hai spenti…”, canta il ragazzo del 1950 che ha vissuto 70 vite in una e si crede immortale. O forse lo è.

Ma quale Re, io sono il più pop

“Per una volta tutti, addetti ai lavori e non, hanno visto una mia collezione insieme, nello stesso momento, senza gerarchie o privilegi. Se democrazia deve essere, che sia vera”. Giorgio Armani il rivoluzionario. Non era mai successo prima nella storia della moda che uno stilista presentasse la sua collezione in televisione. Lo scorso febbraio era stato il primo a sfilare a porte chiuse intuendo la portata dell’epidemia di Coronavirus, questa volta ha sbaragliato il campo e ha fatto sfilare la sua Primavera/Estate 2021 in prima serata, su La7, davanti a 685 mila spettatori.

Signor Armani, come è maturata l’idea di presentare la sua collezione in tv?

Come spesso accade, non è stata un’idea maturata a lungo, quanto piuttosto un’intuizione, una decisione istintiva. Tutto nasce dal mio desiderio di dialogare con il pubblico in maniera aperta, senza troppi filtri. Ne ho avuto una riprova evidente durante il lockdown. Il mio impegno – dalla conversione degli stabilimenti produttivi, al messaggio per gli operatori sanitari, alla lettera aperta a Women’s Wear Daily – ha avuto una eco del tutto inaspettata. Sono stato letteralmente inondato da messaggi di professionisti e persone comuni. Si è come aperto, subito, un canale diretto e autentico di comunicazione, che ho voluto mantenere. Anche ai nostri giorni, il fascino della tv è innegabile. Lo è certamente in Italia, quindi cosa meglio di una sfilata televisiva, di sabato, in prima serata? Per una volta tutti hanno visto una mia collezione insieme, senza gerarchie.

Che effetto fa sfilare senza pubblico, ma con la consapevolezza che migliaia di italiani la stanno seguendo?

Mi elettrizza perché è qualcosa di nuovo. Finora la sfilata è sempre stata un dialogo tra me e i professionisti del settore. Adesso sono ammessi tutti, senza limiti o barriere. Le famiglie si sono potute riunire davanti alla propria tv, in un orario serale, e condividere un momento speciale in piena sicurezza.

Come ci si approccia al grande pubblico generalista della tv?

Questa è una sfilata innovativa per il mezzo scelto, ma l’ho pensata come sempre nei contenuti: presento la mia visione della moda di questa stagione, a un pubblico molto vasto così come agli addetti ai lavori. I trucchi e gli effetti speciali non sono cosa mia. La sfilata, però, è stata preceduta da un breve film, un montaggio di interviste e immagini di repertorio, che attraverso un racconto – la voce narrante è dell’amico Pierfrancesco Favino – spiega la mia visione, anzi, i miei pensieri: Pensieri senza tempo, che caratterizzano da sempre il mio lavoro, e che vorrei che il pubblico apprezzasse al di là di tutto. Con questa introduzione, la sfilata ha potuto essere letta dai telespettatori nel suo giusto contesto.

Come si è passati dalla sfilata “per addetti ai lavori”, una élite selezionatissima, alla sfilata “generalista”?

L’ultimo decennio è stato di apertura, su tutti i fronti, almeno nella comunicazione, basti pensare al digitale. Io ho voluto spingere il processo un po’ più in là, perché se non tutti posseggono uno smartphone o un computer, magari solo per limiti di età, quasi tutti posseggono una tv. Il mezzo televisivo, inoltre, distrae meno del digitale, ed è domestico, intimo. Arriva in tutte le case, senza problemi di linea. Se democrazia deve essere, che sia vera.

Che portata avrà questo cambiamento epocale sul mondo della moda?

Non so dirle se questa mia scelta sarà seguita da altri e se la moda intera entrerà in un’era di democrazia totale. Io ho scelto la televisione per raggiungere un pubblico vasto e vero.

Quanto ha influito la pandemia?

Moltissimo. È stata, ed è, uno choc che ha costretto tutti a ripensare strumenti e dinamiche, a riscoprire una nuova autenticità e un modo più umano di essere connessi. È stata una sveglia: dura, ma necessaria. Mi auguro che ne faremo frutto tutti, senza dimenticare.

E proprio da questa spinta al cambiamento, a rallentare, a rendere il sistema moda più legato alla realtà, all’autenticità, alle esigenze vere delle persone è nato il concetto di Pensieri senza tempo, fil rouge della collezione. Un ossimoro se vogliamo, perché i capi che hanno sfilato in passerella racchiudono ciascuno in sé qualcosa della storia di Armani, concetti e idee sempre attuali, che riconferiscono alla moda un orizzonte infinito, un’eternità svincolata dall’istante che ci impongono oggi i social come legge.

In questi mesi, Armani è stato il primo a sollevare una riflessione sulla necessità di una moda più attenta, vicina alla realtà, alle esigenze del quotidiano, etica e responsabile. Idee che si sono fatte realtà tangibile, dando vita alla collezione che abbiamo visto in tv. D’altra parte, che quest’uomo avrebbe sovvertito le regole del mondo della moda lo si era capito già quando, nel lontano 1980, ha preso la giacca maschile e l’ha “scarnificata”, come lui stesso ha definito in passato quel processo, mettendola addosso a un giovanissimo Richard Gere che debuttava come protagonista in American Gigolò e facendone un oggetto del desiderio e un’icona di stile e seduzione.

“Rivelo al mondo il deposito di armi di Hezbollah”

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha rivelato l’esistenza di un deposito segreto di armi di Hezbollah nel cuore di Beirut. “Abbiamo assistito alla terribile esplosione al porto di Beirut il mese scorso”, ha dichiarato Netanyahu nel suo discorso all’Assemblea Generale dell’Onu, sottolineando che “duecento persone sono morte, migliaia sono state ferite e 250mila sono rimaste senza casa”.

“Ora, qui è dove potrebbe avvenire la prossima esplosione. Proprio qui”, ha detto Netanyahu, indicando il sito sulla mappa della Capitale libanese vicino al luogo dell’esplosione di agosto. “Questo è il quartiere Janah di Beirut. È proprio accanto all’aeroporto internazionale. E qui, Hezbollah tiene un deposito segreto di armi”, ha proseguito il primo ministro.

Secondo Netanyahu, il presunto deposito segreto di armi sarebbe a poche decine di metri da una stazione di servizio dove si trovano anche bombole di gas e camion di benzina, all’interno del quartiere di Janah.

Il primo ministro ha quindi esortato i libanesi a protestare per la presenza di questo deposito. “Dico alla gente di Janah: dovete agire ora. Dovete protestare. Perché se questa cosa esplode, sarà un’altra tragedia”, ha concluso.

Dopo l’accusa circostanziata al “partito di Dio” che ha forti legami con l’Iran e il regime siriano, Netanyahu ha allargato la visione, spiegando che “dobbiamo tutti resistere all’Iran e il presidente americano Trump deve essere lodato esattamente per questo motivo. Non c’è dubbio che Teheran stia cercando di ottenere l’arma nucleare”. “Mentre il Consiglio di Sicurezza è diviso, nella regione siamo uniti” nel resistere all’Iran, ha proseguito. Poi, parlando della questione mediorientale, ha detto che “per decenni i progressi sono stati bloccati dalle richieste irrealistiche dei palestinesi”. Netanyahu ha definito il piano di pace di Trump sul Medio Oriente “realistico” e si è detto disposto a negoziare sulle basi di tale piano.

Il siluro di Biden su Trump: “Io pago sempre le tasse”

Poche ore prima di salire sul ring del primo dibattito – tenutosi alle 3 del mattino per l’Italia – fra i candidati alla Casa Bianca, il democratico Joe Biden spara il siluro contro l’avversario Donald Trump, pubblicando la sua dichiarazione dei redditi per il 2019, dalla quale emerge come l’ex vicepresidente ha pagato quasi 300 mila dollari in tasse sul reddito. Biden mette così il dito dove fa più male all’attuale presidente; due giorni fa, il New York Times ha rivelato che Trump ha pagato zero tasse per dieci degli ultimi 15 anni e solamente 750 dollari nel 2016 e 2017.

Non solo: fra i temi toccati nel confronto, Biden gioca la carta dell’assistenza sanitaria che The Donald vuole abolire definitivamente, detestando l’Obamacare. “Trump vuole togliere le protezioni sanitarie a milioni di persone”, scrive Biden prima di iniziare il dibattito. E poi ancora, lo scontro sulla pandemia, sulle pressioni della Cina, sui “radicali” che, secondo il presidente, tengono in ostaggio il rappresentante democratico.

Di certo, Trump ha pronto il suo piano e già paventa che il voto del 3 novembre sarà “un grande imbroglio”. Il presidente candidato semina dubbi sulla regolarità delle elezioni, creandosi un alibi per rigettarne il risultato. Un’idea balzana? Niente affatto: Politico scrive che da più di un anno Trump s’è dotato di “una massiccia rete legale” per contestare l’esito del voto. “Sono stati arruolati decine di avvocati di tre grandi studi, sono stati reclutati migliaia di avvocati volontari e controllori ai seggi. E i Repubblicani stanno preparando ricorsi da presentare alle Corti il giorno dopo il voto”. Politico racconta che avvocati disponibili, laddove il risultato sarà troppo netto per essere confutato, sono stati spediti in Stati in bilico – lo Stato di New York, l’Illinois, la California – a studiarne le leggi e a preparare i ricorsi. L’incubo di elezioni infinite si staglia quindi all’orizzonte di Usa 2020, come accadde nel 2000, quando la conta e riconta dei voti andò avanti per settimane in Florida, finché la Corte Suprema decise che George W. Bush aveva vinto. Solo che, questa volta, la contestazione non riguarderà quasi certamente un solo Stato, ma tutti gli Stati dove il margine a sfavore di Trump possa essere attribuito al voto per posta: sulla carta Pennsylvania, Michigan, Wisconsin, North Carolina, Florida, Arizona e forse qualcun altro. Ecco, dunque, perché una pletora di avvocati repubblicani sui territori contesi. Ed ecco perché tanta fretta di nominare il nuovo giudice della Corte Suprema, la fondamentalista Amy Coney Barrett, al posto della defunta Ruth Bader Ginsburg, un’icona liberal: una Corte Suprema con sei giudici conservatori e solo tre progressisti sarebbe al riparo, dovesse dirimere le vertenze legali elettorali, dalle tendenze progressiste di Neil Gorsuch, il primo giudice designato da Trump, che, negli ultimi tempi, s’è fatto un po’ prendere la mano in casi scomodi per il magnate presidente. In questa prospettiva, i dibattiti televisivi, e tutta la campagna appaiono i prodromi di un esito che non sarà deciso dagli elettori, ma dai giudici. L’atteggiamento di Trump crea disagio anche fra i suoi alleati. Mitch McConnell, il leader dei senatori repubblicani, assicura che “ci sarà una transizione ordinata”; e il Senato approva all’unanimità una risoluzione con l’impegno “a un passaggio ordinato e pacifico dei poteri come previsto dalla Costituzione”. La speaker della Camera, Nancy Pelosi, invita i Democratici a prepararsi all’eventualità che non ci sia un chiaro vincitore del Collegio elettorale, se nessuno dei due candidati superasse la soglia dei 270 su 538 Grandi elettori. In questo caso, toccherebbe alla Camera decidere: il procedimento è costituzionale, ma non è più evocato dal 1876. Allora, nessuno dei due rivali, il repubblicano Rutherford Hayes e il democratico Samuel Tilden, ottenne la maggioranza dei Grandi elettori, essendo i risultati di quattro Stati del Sud ex confederati contestati. Alla fine divenne presidente Hayes, pur avendo avuto meno voti popolari del suo rivale.

Amnesty lascia: “Dal governo Modi una caccia alle streghe”

L’organizzazione umanitaria Amnesty International è stata costretta a chiudere le attività nel subcontinente indiano e a licenziare tutto il personale dopo che il governo dell’India ha congelato i suoi conti bancari. Il premier Narendra Modi, che non ha mai fatto mistero della sua idiosincrasia per le associazioni e organizzazioni non governative che denunciano le violazioni dei diritti umani, è il vero artefice della “defenestrazione” di Amnesty dopo un anno di numerosi scontri tra induisti e musulmani, questi ultimi esclusi dalla legge per la cittadinanza agli stranieri. Una legge bollata di razzismo dalla comunità internazionale. In un comunicato, il ministero degli Interni ha affermato che “la presa di posizione e le dichiarazioni di Amnesty International sono infelici, esagerate e lontane dalla verità”. Il ministero ha accusato Amnesty India di portare illegalmente finanziamenti stranieri nel paese e di non aver rispettato le normative. Kenneth Roth, direttore di Human Rights Watch, l’altra grande organizzazione internazionale umanitaria, che ha anche stilato rapporti sulle crescenti violazioni dei diritti umani sotto il partito nazionalista indù (Bjp) ha condannato la repressione di Amnesty e ha detto che è “un’ulteriore prova che il governo del primo ministro Modi non riesce a sostenere la libertà di parola e associazione”. Shashi Tharoor, politico e membro del maggior partito di opposizione, il partito del Congresso di Sonia Gandhi, ha dichiarato: “La statura dell’India come la più grande democrazia liberale del mondo era dovuta alle sue istituzioni indipendenti, compresi i media e le organizzazioni della società civile. I rapporti critici di Amnesty riguardano il coinvolgimento della polizia dalla parte degli induisti durante le rivolte a Delhi e le restrizioni delle libertà civili in Jammu e Kashmir. Modi ha fatto rafforzare le restrizioni sugli enti di beneficenza finanziati dall’estero, dopo aver congelato i conti di Greenpeace e ordinato irruzioni negli uffici di alcuni legali dei diritti umani.

Esercito, i nazi “per sempre”. Via pure il capo degli 007

Anni di scandali e di inchieste non hanno cambiato la situazione. L’estrema destra nelle forze armate continua a essere un problema irrisolto in Germania. L’ultima vittima eccellente di questo tentativo infruttuoso è il numero uno del Mad, il servizio di intelligence militare, incaricato tra le altre cose proprio di sorvegliare e limitare ‘infiltrazione dell’estremismo di destra tra le file dell’esercito. Il presidente Christof Gramm non è riuscito nella sua missione ed è stato accompagnato alla porta. “Il nostro obiettivo è che i servizi segreti militari siano davvero la punta di diamante della lotta contro l’estremismo e in particolare contro l’estrema destra”, ha detto la ministra della Difesa tedesca Annegret Kramp-Karrenbauer in un’intervista alla Taz la settimana scorsa, spiegando la sua decisione.

Ma pare che Gramm avesse già pronta nel cassetto la lettera di dimissioni. Lo si rimprovera “per i vecchi tempi”, ha scritto. Cioè gli si attribuiscono colpe non sue. Quando Gramm è arrivato nel 2015, il Mad era già un’istituzione contagiata dal virus del radicalismo di destra, è l’allusione. Il problema di un “estremismo di destra nell’esercito”, in effetti, era noto da tempo. Nel 2017 l’allora ministra della Difesa Ursula von der Leyen pronunciò una fase che attirò una bufera di critiche: “Le forze armate hanno un problema di comportamento”, disse. Scandalo: un ministro che si lancia in giudizi sommari sulle forze armate! A quel tempo si trattava del caso di Franco A., il soldato della Bundeswehr arrestato perché sospettato di preparare un attentato di estrema destra, in precedenza richiedente asilo siriano sotto mentite spoglie per mostrare le falle dell’accoglienza tedesca.

Il dilemma in questi casi è sempre il solito. Casi isolati o rete organizzata di filo-nazisti? Secondo Der Spiegel proprio il Mad ha reso noto ai primi di settembre il numero dei casi sospetti di estrema destra nell’esercito: 712. Non una cifra da poco. In particolare nelle forze d’élite del Ksk (acronimo di Kommando Spezialkraefte), che contano circa un migliaio di soldati, la densità sarebbe particolarmente allarmante. E proprio da lì è arrivata in giugno una lettera anonima di denuncia di 12 pagine: “C’è il rischio di una cecità collettiva verso l’occhio destro” ha scritto un ufficiale del Ksk al ministero della Difesa. Nell’esercito il radicalismo di destra “è collettivamente ignorato se non tollerato” scriveva l’anonimo. Un paio di settimane dopo, la ministra Annegret Kramp-Karrenbauer ha annunciato che la seconda unità del Ksk era sciolta. La motivazione ufficiale era la conclusione delle indagini della magistratura sul caso del saluto nazista – un reato in Germania – durante una festa di addio di un ufficiale della seconda compagnia delle forze d’élite nel 2017 nel Baden-Württemberg. Ma i casi isolati sono tanti e si ripetono con cadenza regolare. A maggio, un ufficiale del Ksk è stato arrestato: aveva nel terreno del suo giardino a Colmm, nella Sassonia del nord, un arsenale domestico fatto di munizioni ed esplosivi sottratti all’esercito insieme ad altre armi, tra cui un Kalashnikov Ak 47, e a cimeli nazisti. Secondo Der Spiegel il 45enne proprietario del giardino era uno dei partecipanti della festa del saluto hitleriano, definito il “nazi Opa” (nonno nazi). La sparizione delle dotazioni militari è un fenomeno di contorno non meno inquietante: sono in tutto 48mila le munizioni e 62 i chilogrammi di esplosivo scomparsi dall’esercito tedesco, ha dichiarato la ministra della Difesa. Anche su questo l’inchiesta è aperta, ma i risultati stentano ad arrivare. È anche per questo serviva un cambio di passo.

E forse è proprio in questa direzione che va letta la riorganizzazione dell’intelligence militare, che ora dovrà avere “una più stretta collaborazione con le altre autorità di sicurezza”. Tradotto: è probabile che il Mad sarà sottoposto d’ora in avanti al coordinamento dei servizi di sicurezza interni, il BfV, in collaborazione con il Bka, la polizia federale. Secondo l’ex delegato al Bundestag per le forze armate, Reinhold Robbe, “non c’è proprio bisogno del Mad”, che invece è già in “odore di corruzione”. A giugno un dipendente dei servizi militari era stato sospeso per aver passato informazioni sulle indagini in corso proprio ai diretti interessati del Ksk. Insomma forse le incrostazioni di estrema destra nel Mad sarebbero, come ha sostenuto il dimissionario Gramm, parte del problema e non della soluzione.

Il fango contro ‘Il Fatto’ e i rosiconi sui nostri conti (che sono a posto)

Quando le persone mi chiedono: “È dura gestire un’impresa editoriale di questi tempi, vero?”, rispondo sempre che è molto più sopportabile gestire le difficoltà del mercato editoriale rispetto alla fogna mediatica costruita sulle frottole e non su fatti veri.

In effetti la cosa più dura e fastidiosa è dover gestire la consueta, ormai tradizionale, “informazione” che parte sempre da qualche angolo buio e triste per arrivare a propagarsi in un’onda maleodorante tramite certi siti di gossip.

La tentazione è sempre quella di non rispondere per non dare importanza alle bugie e, soprattutto, per non perdere tempo. Ma, per rispetto dei nostri lettori, dei nostri giornalisti, dei nostri dipendenti, del nostro direttore e dei nostri investitori, spesso sono e siamo costretti a replicare e precisare. Così anche oggi ho l’obbligo, ma anche il piacere di comunicare che l’articolo uscito lunedì su Dagospia titolato “C’è del movimento tra i Soci del Fatto”, costruito ad arte povera, riportava una serie di baggianate seguite da altre baggianate, culminate con l’ipotesi dell’ingresso di Daniela Santanchè come futura azionista della nostra Società. Tutto questo accadeva, guarda caso, proprio mentre il nostro Consiglio di amministrazione era riunito per approvare il bilancio semestrale.

Mentre il pezzo riportava l’intenzione del nostro azionista Edima di vendere le sue quote a causa della linea editoriale di Travaglio e dei conti in rosso, il nostro Cda approvava una semestrale con i conti a posto e un risultato di esercizio positivo. Inutile inviare diffide, rettifiche e smentite a Dagospia con preghiera di pubblicazione perché la velocità media di pubblicazione delle bugie è inversamente proporzionale a quella di pubblicazione delle nostre smentite. Che, al solito, sono state corredate da una simpatica foto (che ormai ha stufato anche i sassi) della sottoscritta insieme a Travaglio, risalente – credo – a dieci anni fa, quando eravamo inseguiti dai paparazzi non appena andavamo a cena dopo il lavoro. L’unica cosa positiva è che, per Dagospia, sembro non invecchiare mai.

Scherzi a parte, è tutto molto prevedibile e comprensibile: Il Fatto dà fastidio a tanti, il nostro giornale rompe le scatole a un bel po’ di potenti e in giro ci sono molti invidiosi malvissuti che forniscono informazioni inesatte o totalmente false a testate fatte apposta per diffonderle. A questo andazzo siamo ormai abituati: il mondo è bello perché è vario.

A chi però vuole sapere come stanno davvero le cose preciso che la Società Editoriale il Fatto è una società per azioni, approdata per giunta al mercato della Borsa un anno e mezzo fa, dunque – per definizione – aperta alla vendita e all’acquisto di azioni. I soci hanno diritto di vendere se ne hanno l’esigenza, essendo le nostre azioni per fortuna monetizzabili perchè hanno un valore. Considero fondamentale per la crescita della Società e il raggiungimento dei nostri obiettivi industriali valutare l’entrata di partner strategici nel nostro azionariato. Pertanto non ci preoccupa l’ipotesi che un azionista ceda le sue azioni a un nuovo socio funzionale alla crescita societaria. Come in tutte le Società, i cambiamenti nella compagine azionaria sono la normalità: ne abbiamo già avuti anche noi in passato.

Ma non è in atto alcuno sconvolgimento tra i Soci del Fatto, specie tra quelli fondatori e operativi, che credono fermamente nel piano di sviluppo. Il fatto che alcuni Soci possano avere l’esigenza di monetizzare la propria quota non comporta certamente un fuggi-fuggi, tantomeno per colpa della “linea Travaglio” (nota fin dalla nostra fondazione) né per i fantomatici conti in rosso (che invece sono in attivo). Mi dispiace poi deludere Dagospia, ma la sottoscritta non ha esercitato alcuna pressione per impedire a chicchessia di vendere le proprie azioni. Anzi, comunico di essere assolutamente favorevole ai cambiamenti, purchè siano sani e portino valore all’impresa. Dunque ben vengano altri azionisti, anche se “scomodi”. Anche perchè siamo protetti da uno statuto che ci tutela dalle “nocività”. Ma soprattutto perchè i soci “scomodi”, se sono intelligenti e avvezzi al business, sono i primi a non voler entrare nel Fatto. Quella su Santanchè nostra azionista è una boutade. Essendo donna tutt’altro che sprovveduta e abile negli affari, è la prima a comprendere che, se investisse davvero un milione e mezzo di euro per acquisire azioni (come riportato da Dagospia e da un’intervista addirittura su Repubblica), queste perderebbero immediatamente valore, visto che i nostri lettori non comprenderebbero l’operazione e smetterebbero di acquistare il giornale. Non credo che Daniela Santanchè abbia alcuna intenzione di buttare via i suoi soldi.

Insomma, cari lettori e investitori, godetevi la nostra bella semestrale su il sito www.seif-spa.it, con i conti a posto. E perché i conti sono a posto? Perché i ricavi sono aumentati, la diversificazione su diversi rami ha funzionato e soprattutto quel “maledetto” giornale chiamato Il Fatto Quotidiano, con la maledetta linea editoriale di Travaglio, ci ha portato un aumento dei ricavi del 30% nel primo semestre. Non cantiamo vittoria perché il 2020 è stato per l’economia un anno duro e lo sarà ancora, imponendo ulteriori sforzi a noi come a tutte le imprese. Ma intanto festeggiamo alla faccia di chi ci vuole male.

Ah, dimenticavo: ho un nuovo titolo-scoop da suggerire a Dagospia: “Il Fatto si fa distribuire da Berlusconi”. Oppure “Travaglio fa affari con Berlusconi”. Infatti abbiamo cambiato società di distribuzione per mia scelta, legata a motivazioni oggettive: dal 1° ottobre saremo seguiti da Pressdì, società del gruppo Mondandori. Lo “scandalo” è già pronto, servito su un piatto d’argento. Forza Dago a tutta birra. Divertiamoci un altro po’.

I ricavi sono 19,77 milioni di euro

Seif, società editoriale del Fatto, archivia il primo semestre del 2020 con ricavi a 19,77 milioni di euro, in aumento del 30,47% rispetto al 2019 quando erano stati 15,15 milioni. L’Ebitda è pari a 2.509.000 euro (398.000 al 30 giugno 2019
in crescita del 530%) e si registra un utile netto di 73.000 euro