Prof in malattia alla Camera per un incarico. La sua difesa: “Mio malessere è Università”

Il 18 settembre si mette in malattia per un mese, dando buca agli studenti che lo aspettavano a lezione. Quattro giorni dopo è a Roma, in commissione Trasporti alla Camera, per formalizzare la nomina a un ben retribuito incarico pubblico. Protagonista il professor Francesco Parola, associato di economia e gestione delle imprese di trasporto all’Università di Genova e vicino al deputato leghista Edoardo Rixi, che ai tempi in cui era assessore regionale lo volle nel Comitato di gestione dell’Autorità portuale del capoluogo. Quando poi Rixi diventa viceministro ai Trasporti, Parola entra nella struttura tecnica di missione del ministero. Pochi giorni fa l’ultima promozione: ancora il Mit lo designa nei 3 componenti dell’Art, l’autorità di regolazione dei trasporti con sede a Torino. Per ratificare la nomina serve un’audizione di fronte alle commissioni parlamentari competenti. E lo studioso, convocato il 22 settembre, parte da Genova e si presenta puntuale a Roma, nonostante il mese di congedo per malattia dal lavoro appena ottenuto . “Non mi sono mica rotto le ossa, posso camminare”, spiega, raggiunto dal Fatto. “Il mio malessere è di tipo psicologico e ha origine proprio nell’ambiente di lavoro, che mi è stato ordinato di evitare”. “Il mio cliente soffre di una forma depressiva dovuta a una vicenda professionale sgradevole. Per questo non va al lavoro ma può tranquillamente recarsi altrove”, conferma l’avvocato Raffaele Caruso.

La “vicenda sgradevole”, raccontata da Repubblica, risale allo scorso febbraio, quando il Tar della Liguria dichiara inammissibile un ricorso di Parola contro un concorso perso per il ruolo di professore ordinario. Quel concorso, scrivono i giudici, lui non avrebbe potuto vincerlo in ogni caso: una delle monografie presentate, infatti, era copiata in modo pedissequo dalla tesi di dottorato di un suo ex studente. Durante l’audizione alla Camera è proprio Rixi, giocando d’anticipo, a chiedere al protetto la sua versione sulla scomoda faccenda: “All’epoca misi a disposizione del ragazzo le mie conoscenze e il mio materiale per lavorare insieme”, si giustifica Parola. “Pur avendo lavorato migliaia di ore insieme a lui, che ora è mio collega all’Università, non mi viene riconosciuta la paternità dell’opera”. Sul caso interviene anche il neo-consigliere d’opposizione Ferruccio Sansa: “Ci stiamo occupando della vicenda. Se fosse chiarita, pensiamo che il governo dovrebbe riconsiderare la nomina”, fa sapere l’ex candidato alla presidenza della Regione.

Obiettivo movida. Le mani del clan Moccia su Roma

“Non è che uno va a rubare la mattina che all’improvviso io ti posso chiudere”. Non è semplice saldare un prestito, e lo sa bene Claudio D’Alessio (non indagato), figlio del cantante Gigi, che deve restituire 30 mila euro (con “tassi usurai”) al clan mafioso dei Moccia. “Claudio tutte queste belle chiacchiere, io non sono di Milano, non sono neanche della Cina, io sono di Napoli”, gli risponde Gennaro Moccia finito in carcere insieme al padre Angelo, allo zio Luigi e al cugino Gennaro (e altre 15 indagati) nell’inchiesta della Dda di Roma, con l’accusa di attribuzione fittizia di beni ed estorsione (con l’aggravante mafiosa) e abusiva attività finanziaria. L’omonima famiglia di Afragola, trapiantata da anni nella Capitale, avrebbe reinvestito i proventi illeciti del clan nella ristorazione della movida capitolina. “Angelo Moccia c’ha 110 omicidi sul groppone, ha avuto 600 magistrati che l’hanno giudicato, Totò Riina ne ha avuti 400 – si legge in una intercettazione – questi c’ammazzano se qualcosa non va bene”.

Popolare Bari, nuovo arresto per Jacobini jr

Sono sei le persone arrestate ieri mattina a Bari per il crac del Gruppo imprenditoriale barese “Fusillo”. Ai domiciliari è finito per concorso in bancarotta fraudolenta Gianluca Jacobini, ex condirettore generale della Popolare di Bari, mentre un decreto di interdizione ha raggiunto il padre Marco, ex presidente dell’istituto di credito. Secondo l’inchiesta sul fallimento delle società “Fimco” e “Maiora” del Gruppo Fusillo, coordinata dal procuratore facente funzione Roberto Rossi con il sostituto Lanfranco Marazia, gli ex amministratori dell’istituto, avrebbero concesso alle società in dissesto del gruppo Fusillo sconfinamenti sui conti correnti e linee di credito per decine di milioni di euro facendolo diventare “il principale cliente affidato dalla banca” con un’esposizione di 340 milioni di euro. Sotto la lente dei finanzieri, guidati dal tenente colonnello Nicola De Santis e coordinati dal pm Lanfranco Marazia, sono finite molte operazione sospette destinate a “distrarre” o “dissipare” il patrimonio delle imprese.

Duplice omicidio Lecce, forse il killer voleva vendicare un episodio legato alla convivenza

“Assenza di ogni sentimento di compassione e pietà verso il prossimo”. Così la Procura di Lecce ha definito la personalità di Antonio De Marco, aspirante infermiere di 21 anni, accusato del duplice omicidio di Eleonora Manta e Daniele De Santis, uccisi lunedì 21 settembre con 60 coltellate nel loro appartamento nel capoluogo salentino. Ha pianificato tutto nei dettagli: il percorso, l’arma, gli strumenti da utilizzare anche dopo la brutale esecuzione. Ha ammesso tutto: “Sì, li ho uccisi io. Ero invidioso della loro felicità”. Un movente che tuttavia appare debole. E forse c’è dell’altro, nei rapporti costruiti tra De Marco e le sue vittime durante la convivenza nell’appartamento a Lecce, rapporto chiuso evidentemente in modo burrascoso tanto che quando alla fine di luglio, il 21enne ha chiesto di poter occupare nuovamente quella stanza, tra Daniele ed Eleonora c’è stato uno scambio di sms che ironizzavano su quel ritorno. Uno “scambio di battute – scrivono i pm di Lecce – è da ricondurre verosimilmente alla volontà dei due di deridere il ragazzo in ragione di un possibile episodio accaduto durante la sua precedente permanenza in quella casa, dal 30 ottobre 2019 al 30 novembre 2019. Giova rammentare – si legge nel decreto di fermo – che in tale pregresso frangente, il De Marco aveva occupato una stanza proprio con Eleonora Manta, fidanzata di Daniele De Santis”.

Il provvedimento di 26 pagine contiene i dettagli, talvolta macabri, del piano del 21enne che nei giorni successivi a quel duplice omicidio ha continuato a fare la vita di tutti i giorni, riducendo al minimo i contatti con amici e conoscenti. “Nonostante le ripetute invocazioni a fermarsi urlate dalle vittime l’indagato proseguiva nell’azione – si legge ancora negli atti di inchiesta – meticolosamente programmata”: li ha inseguiti per casa, li ha raggiunti all’esterno “senza mai fermarsi”. Li ha pugnalati decine di volte, anche in parti non vitali “sintomatico – secondo gli inquirenti – di un’indole particolarmente violenta, insensibile a ogni richiamo umanitario”. E così, mentre le vittime invocavano pietà e nell’edificio la gente urlava terrorizzata e chiamava le forze dell’ordine, qualcosa deve aver scalfito il suo piano estremamente organizzato: ha dimenticato sul logo la mappa per evitare le telecamere e una serie di altri biglietti. Elementi che sono diventati la chiave per la sua cattura.

Quel “bravo figlio”e la terra del male

Occhi come minuscoli ciottoli neri in cui sembra non possa riflettersi nulla. Lo sguardo smunto e pulito di un ragazzo del profondo Sud. Un ragazzo tranquillo. Sereno.

“Nnu figghiu di la terra nòscia”, direbbero gli anziani del paese facendo schioccare le gengive, le mani intente a scartare il settebello dal mazzo smezzato di napoletane, il sole a perpendicolo che non lascia scampo in questa scorcio di un’estate salentina che sembra non voler finire mai.

A guardarli che ti scrutano senz’anima dalle foto sui giornali, uno potrebbe immaginarsi la fiammata improvvisa che deve averli accesi, quei peciosi corridoi privi di fondo. Sono gli occhi di un killer sadico e spietato, e tu non lo diresti mai. Sono gli occhi di Giovanni Antonio De Marco, 21 anni, allievo infermiere, la luce imberbe della sua giovane coscienza risucchiata per sempre dalla tenebra più oscura il giorno in cui ha deciso di sgretolare il muro che separa la fantasia dalla realtà per rendere vero un desiderio macabro: sottrarre la vita ai due amanti con cui aveva convissuto in quel di Lecce.

L’assassinio del giovane arbitro Daniele De Santis e della sua fidanzata Eleonora Manta è maturato in seno a un ambiente, quello delle coabitazioni forzate legate al mondo universitario, che già ci aveva indotto col caso della povera Meredith Kercher a una repentina riformulazione del nostro concetto di spensieratezza dell’età studentesca. Qui abbiamo un aspirante paramedico che di quella innocenza, di quel candore presunto, idealizzato, ha fatto strame uccidendo con crudezza. Sino a pochi mesi fa il ragazzo viveva assieme alla giovane coppia di vittime; messo alle corde dalla polizia dopo alcuni giorni di indagini serrate, da ieri è responsabile reo confesso della morte dei due fidanzati.

Le ragioni che hanno alimentato la scintilla dell’odio e fatto premeditare l’omicidio (con maniacale attenzione, a giudicare dagli schemini ritrovati su alcuni appunti) non risultano in alcun modo legate a questioni passionali né meramente debitorie (il De Marco non era un locatario moroso) ma sono – banalmente, spaventosamente – da ascriversi a una certa ritrosia da parte del ragazzo ad accettare la voluttuosa esibizione di felicità con cui il duo di fidanzati era solito condire il loro soggiorno nel capoluogo salentino; una cittadina, Lecce, che, oltre all’indubbia plenitudine di gioie gastronomiche e architetture barocche, vanta un invidiabile grado di vivibilità e una certa pacatezza delle attività sociali diurne e notturne.

Non sfugge quindi all’osservatore la strana dicotomia tra l’apparente serenità del teatro in cui tanto livore ha preso corpo e la devastazione cui tale epifania ha fatto seguito. Un orrore che i media non mancano di raccontarci con dovizia di particolari: colpi inferti con disumanità anche in zone non vitali degli innamorati per mezzo di un coltellaccio da caccia, fascette stringitubo e cappucci di nylon pronti all’uso per oltraggiare i corpi, un “cronoprogramma” di lavoro stilato dettagliatamente su cinque fogli manoscritti, l’acquisto di soda caustica, candeggina e strumenti sanitari atti a eliminare ogni prova. Un vero piano diabolico opera di quello che in tanti avrebbero pensato come poco più che un pischello; introverso e discreto, certo, ma sempre e solamente, come ancora direbbero gli anziani del paese, “soltantu nnu vagnòne”. E poi la consueta, beneducata cortesia di facciata con cui viene descritto da amici e conoscenti l’assassino, proverbialmente un “bravo figlio” di una rispettabilissima famiglia di un altrettanto tranquillo paese della provincia più fonda, Casarano, uno dei molteplici piccoli centri che popolano il tacco d’Italia, case sferzate dallo scirocco sparse lungo poderi ticchiolati di ulivi e fichidindia in cui mai t’immagineresti il Maligno covasse una progenie.

Ma in fondo – letteratura e cinema ce lo insegnano sin dai loro albori – è spesso nella quiete ovattata delle esistenze tranquille che il Male, taciuto, beffardo, alligna silenziosamente e infine deflagra (chi scrive vive da più di un ventennio a Manduria, ridente cittadina del Salento meno à la page che pure qualche tempo fa si è resa protagonista di un altro misfatto agghiacciante: quello della morte del pensionato Antonio Stano per mano dei cosiddetti “orfanelli”, una vicenda di cronaca nera per la quale i manduriani pagano ancora un’onta indegna). Quasi insomma che in posti come questi, luoghi pieni di Storia e tradizione, a primo acchito scevri da quel disordine caratteristico dei meridioni del mondo ma al tempo stesso privati dalla crisi economica di una direzione identitaria forte, le nefandezze riescano a trovare – complice la distrazione delle autorità fisiche e morali che presiedono la zona – un rifugio in cui proliferare indisturbate.

E ancora: immaginando la vita di un fuorisede imberbe che animato da legittime ambizioni di carriera si muove dal suo villaggio dimenticato da Dio e in pochi mesi attira e sedimenta nel proprio apparato circolatorio spirituale tanta cattiveria da arrivare a eliminare fisicamente ciò che disturbava la propria difettiva percezione dello stare al mondo, come non fermarsi a riflettere sulla natura di chi, noi tutti, ci portiamo quotidianamente in casa? Coinquilini per necessità, durante gli anni universitari – ma anche dopo, come sempre più spesso impone la precarietà di questo nostro più che liquido presente – abbiamo convissuto assieme a perfetti sconosciuti che presto o tardi rivelavano stranezze, manie o nevrosi degne del più aggiornato Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali.

E allora come uscirne? Fermarsi a inorridire scaricando su chi non vigila abbastanza sembra essere pratica deresponsabilizzante più che risolutiva. Al solito, casi come questo, casi che scoperchiano il ribollire di una violenza inaudita e priva di coordinate nella fascia dei più giovani sono un canto d’allarme: un monito che la società tutta deve saper cogliere.

I social, il web e la corrispettiva rappresentazione distorta del Sé sono elementi critici cui da tempo si riflette senza riuscire a porre un punto, perché il sistema dei pesi e contrappesi è da tempo sfalsato in favore del mercato: niente è più vero perché tutto è merce, anche la dignità del singolo. Sia allora ricordata la massima di George Eliot: “Nessun male ci condanna senza speranza tranne il male che amiamo, e quello nel quale desideriamo perseverare, e a cui non facciamo alcun tentativo di sfuggire”.

Il boss in incognito, favola arrugginita

C’era una volta… da bambini ci raccontavano di Biancaneve o del pifferaio di Hamelin, poi si cresce e le favole crescono con noi. Su Rai2 va in onda la fiaba del Boss in incognito, che non sarebbe dispiaciuta ai fratelli Grimm. C’era una volta la pubblicità occulta, ora c’è l’apoteosi del marchio. C’era una volta un boss, il principale e spesso fondatore di un’azienda, che decide di camuffarsi tra i dipendenti per vivere non visto la realtà umana della sua azienda. La metamorfosi viene curata nei minimi dettagli: trucco, parrucco, più il pretesto, credibilissimo, di un documentario sulla ricollocazione nel post-covid; più l’assistenza di Max Giusti, anche lui ricollocato tra i lavoranti della ditta con adeguata mascheratura. Naturalmente nessuno riconosce nemmeno lui, per la gioia dei fratelli Grimm.

La missione dura una settimana, ed è sorprendente vedere come il boss, che per sua ammissione è sempre stato sul pezzo 12 ore al giorno, non venga riconosciuto nemmeno per sbaglio. Magnetico, empatico, il finto reietto fa breccia nel cuore dei colleghi che con lui si aprono, si confidano, narrano la dura realtà di sacrifici fino alle lacrime. Dove agli psicologi del lavoro non bastano anni, al boss in incognito basta una settimana.

E arriva il momento di calare la maschera: il boss non più in incognito – anzi, in onda su Rai2 – svela la sua vera identità, uomo tra gli uomini, e qui si vede come questo pur modesto programma sappia esprimere a meraviglia lo spirito dei tempi. C’era una volta il padrone, il temuto nemico di classe. Acqua passata, ora c’è il boss della provvidenza, che sa ricompensare con generosi assegni i lavoratori di buona volontà: “In verità ti dico: un giorno anche tu verrai con me nel regno di chi ce l’ha fatta”. I Grimm storceranno un po’ la bocca di fronte a questo eccesso di buonismo evangelico. Pazienza. Dio non si sa mai, ma il boss di sicuro c’è.

Piccole cronache di Covid e lavoro nella ex zona rossa

Francesco lavora da 41 anni. Fa il salumiere in un supermercato, da 33 anni nello stesso negozio a Casalpusterlengo, 15mila anime nella bassa Lodigiana. Dietro il banco: prosciutti, formaggi, salami, roast beef. E Coronavirus. Anche lui, in marzo, si è ammalato: polmonite bilaterale interstiziale, ricovero in ospedale a Crema, febbre e paura. Poi la polmonite è passata, i guai no: la malattia che tiene in scacco il mondo da otto mesi gli ha lasciato in dono complicazioni cardiache di non poco conto, anche se lui è uno sportivo. Al Corriere che ieri ha raccontato la sua storia ha spiegato: “Ho resistito perché ho un cuore forte: lavoro in cella frigorifero, sono un appassionato cicloamatore e abituato ai grossi sforzi. Ho anche fatto il Mont Ventoux (tappa tra le più dure del Tour de France) su tutti i lati”. In ospedale ci è stato undici giorni, la carica virale si è esaurita in aprile con due tamponi negativi, ma i problemi sono continuati fino a luglio. Francesco ha cercato di tornare al lavoro, dietro il suo bancone in salumeria: non tutti i lavori si possono fare da remoto, con la formuletta magica dello smart working che piace tanto alle aziende perché le fa risparmiare. Soprattutto i lavori più umili si fanno in presenza. Francesco però non stava ancora bene e non era in condizioni di lavorare: l’holter cardiaco che gli avevano applicato ha segnalato un’anomalia nel tracciato. Così a fine luglio è tornato in ospedale per altre due settimane, gli hanno fatto esami approfonditi ed è saltata fuori una miocardite. Ancora oggi è costretto ad andare in giro con un defibrillatore portatile. Fine della storia? No, perché questa non è una storia di Covid, è una storia di lavoro. Francesco, a 17 mesi dalla pensione, è stato licenziato con una lettera da parte della sua azienda. Motivo? Aveva superato il massimo dei giorni di malattia di cui si può usufruire senza venire licenziati. A giugno l’Inail gli aveva trasformato la malattia in infortunio, posticipando il rientro al lavoro a metà ottobre, ma comunque il decreto Cura Italia esclude i giorni di ricovero e di isolamento per Covid dal conteggio dei periodi di comporto. Dunque, spiega un sindacalista lodigiano della Cgil, l’azienda ha fatto un errore e probabilmente il licenziamento verrà annullato. Chissà se Francesco farà in tempo a tornare dietro il suo bancone prima che scatti il giorno dell’agognata pensione: non è un bel modo di concludere la propria vita lavorativa.

C’è, dietro questa storia, la miseria di un’umanità travolta dalla burocrazia, dall’incapacità e dall’ingordigia del profitto (dopotutto un salumiere apprendista costa sicuramente meno di un salumerie con 33 anni di anzianità aziendale). Nelle cronache dalle zone rosse abbiamo sentito parlare per mesi di eroi, angeli e varie altre creature soprannaturali: applausi, lacrime, commozione svenduta a buon mercato per qualche clic. E del resto non ce ne frega niente: i meglio opinionisti parlano del lavoro come di una merce, ormai sempre più difficile da trovare, e nemmeno più se ne vergognano. Per non dire dei toni che ci tocca ascoltare nei dibattiti sul Reddito di cittadinanza: le storie che assurgono agli onori delle cronache – il criminale con il Reddito, il fancazzista sul divano che non vuole lavorare – servono solo per far venire la bava alla bocca a un’opinione pubblica sempre più anestetizzata e incattivita. Mai che ci raccontino di come i sussidi aiutano le persone in difficoltà. C’è una cosa che fa riflettere nella vicenda di Francesco: da morto lo avrebbero beatificato, da licenziato verrà ignorato. Come società facciamo abbastanza schifo, eppure non si sente parlare che di “solidarietà”.

The Donald Perdite, evasione e debiti: uno sfigato “assistito” alla Casa Bianca

Vorrei ringraziare il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump – un Briatore che ce l’ha fatta – per la sua indefessa e costante fucilazione di luoghi comuni molto vivi anche qui da noi. Ora che si gioca la rielezione e che pare un po’ in affanno (eufemismo) dopo le rivelazioni del New York Times sulle sue tasse (sulle sue non tasse, diciamo), Donald pare un po’ più fragile, il che lo rende se possibile un po’ più pericoloso, tra milizie bianche armate fino ai denti, tipini fini come quel Bannon a fargli da spalleggiatore, i matti di Qanon e tutto il campionario di fesserie psico-sovraniste che si porta appresso. Perché le carte che il New York Times ha scovato, e che rimbalzano su tutti i giornali del mondo, dicono in soldoni di scegliere tra due cose: o Donald Trump è un imprenditore totalmente incapace che accumula perdite e fallimenti, una specie di Re Mida al contrario che colleziona debiti; oppure è un evasore fiscale che, nonostante le torri con il suo nome, l’arredamento Casamonica style, i resort dove si gioca a golf e altre mille faccende danarose, paga meno tasse di un bidello di Crotone o di un precario a partita Iva che si arrabatta tra mille lavoretti.

Lasciamo la campagna elettorale americana, il Circo Barnum dove può vincere anche chi ha meno voti, agli esperti di caucus e primarie nell’Iowa, quelli che stanno svegli di notte per vedere i confronti in tivù manco fosse il pugilato epico del tempo che fu (tipo il duello con Biden di ieri notte). Più divertente, invece, osservare come alcune narrazioni, che hanno spazio anche qui da noi, rischino di andare in pezzi. La prima: i ricchi che non rubano perché non ne hanno bisogno. Antica vulgata in gran voga pure qui negli anni del berlusconismo, si scontra periodicamente contro la realtà quando viene beccato un ricco dai comportamenti non proprio specchiati. Come sia in qualche modo attecchita questa leggenda nonostante i molti casi di miliardari furbi, non si sa bene, ma è un fatto che la ricchezza venga sempre considerata un alibi forte su due sponde. La prima: è ricco, non ha bisogno di fregare nessuno. La seconda: c’è sempre pronta la contro-accusa che parla di “invidia sociale” (traduco: ce l’hai con lui perché vorresti essere lui, e ti piacerebbe scaricare 70.000 dollari di parrucchiere dalle tasse).

Al limite, quando le due cose non funzionano, ci si può sempre rivolgere alle sirene dell’iperliberismo, quelle che sostengono che le tasse sono un furto, che lo Stato è una specie di rapinatore della gente perbene, cose che ogni tanto si vedono e si leggono anche qui. Ma sta di fatto: a leggere delle carte fiscali di mister Donald sembra che i soldi in entrata vengano quasi solo dal suo programma tivù, The Apprentice, dove giocava a fare il tycoon vincente, mentre tutte le altre cifre ci descrivono un mediocre perdente, che chiude i casinò ad Atlantic City, che segna perdite in ogni sua attività, che ha debiti per 400 milioni di dollari (il che lo rende ricattabile), che contribuisce al fisco americano con 750 euro all’anno, quasi dieci volte meno di un poveraccio qualunque. A farla breve, con buona pace dei trumpisti italiani, alla Casa Bianca dell’America Great Again si canta il più alto inno al tanto deprecato assistenzialismo, dove l’assistito non è lo sfigato proletario che “preferisce stare sul divano”, ma il grande, vincente, geniale imprenditore in costante perdita, in lotta col fisco, pieno di debiti, che casualmente è anche presidente della prima potenza mondiale.

Salvini, Trump e Orbán: autoritari adolescenti

Oltre alla personale e tracotante ignoranza dei singoli leader, esiste un altro tratto comune nella disfatta planetaria dei partiti autoritari di fronte alla emergenza Covid19. Ed è che i sovranisti come Trump, Bolsonaro, Orbán, e il nostro Matteo-49 milioni-Salvini, si sentono bravissimi a prendere a pugni tutti i nemici immaginari che hanno disposto lungo il palcoscenico della loro quotidiana propaganda – a difesa dei sacri confini, dei sacri valori, dei sacri ideali – ma non sanno risolvere i problemi veri dell’emergenza, del mutamento, quelli fatti di persone in carne e ossa, di reali ingranaggi sociali che si inceppano, della complessa realtà che non si sottomette al loro onnipotente desiderio di semplificarla.

L’autoritarismo è una forma di adulta adolescenza. E quando ha i mezzi per dispiegarsi, diventa ottusa e violenta volontà di potenza. Accade nel microcosmo di una famiglia, guai alle mogli e ai figli, ma si allarga a dismisura nel macrocosmo della politica e dei governi. Dove gli autoritari amano solo le crisi che fabbricano in proprio, enfatizzando pericoli imminenti e nemici da sconfiggere. Ma si dimostrano confusi e impreparati di fronte ai problemi reali da risolvere.

Da quando il Covid-19 è diventato una emergenza reale, con un governo reale che prova a contrastarlo, l’eloquio di Salvini si è trasformato in un rumore di fondo, in chiacchiere al vento, libro dei sogni e insieme risentimento. I suoi comizi suonano la stessa musica, replicata fino a cinque volte al giorno in cinque piazze diverse, da Nord a Sud, nella sua perpetua campagna elettorale, un never ending tour, che agita fantasmi, mentre la vita reale evolve altrove. Senza mai curarsi di aggiornare il catalogo dopo i morti, il lockdown, la lenta risalita verso la nuova vita sociale. E dunque: basta con il governo abusivo che non governa: “Azzolina dimettiti”, “De Micheli dimettiti”, “Tridico dimettiti”. L’invasione è di nuovo alle porte: “Siamo tornati il campo profughi d’Europa”. I nostri confini sono in pericolo: “Io li ho difesi da cittadino, da ministro, e ne sono orgoglioso”. Il fisco ci soffoca: “Basta tasse fino a dicembre!”. Tutte? “Tutte!”.

Come se fosse davvero possibile, per uno Stato, campare senza tasse, e insieme distribuire quello che Salvini pretende “la cassa integrazione per tutti”, i risarcimenti per tutti, imprenditori, artigiani, pensionati, ristoratori, la scuola in marcia senza inciampi, le grandi opere libere dalla burocrazia, le piccole opere libere dai controlli. Aprire i cantieri. Aprire gli stadi. Basta con la dittatura sanitaria.

Nel fuori sinc di Salvini è tutto facile, tutto a portata di mano. Come? Non lo dice. Ci presta lui i suoi commercialisti inseguiti dalle guardie? O i suoi tesorieri indagati? Oppure i suoi economisti No Euro da ingaggiare al posto del Recovery Fund che purtroppo sarà liquidato in euro? O ci offrirà i servizi del cognato del suo governatore preferito, l’insuperabile Attilio Fontana con i conti in Svizzera? E se cominciasse restituendoci i 49 milioni imboscati dalla sua Lega?

In scala assai maggiore, il suo maestro Donald Trump ha inventato e disfatto di peggio. Il virus non c’è, non esiste. Se esiste è colpa dei cinesi. E là dove si espande è colpa dei governatori Democratici incapaci e degli immigrati fuori controllo. Sono loro la vera emergenza, i violenti, che vanno combattuti con l’unico vaccino efficace, “Legge e Ordine”, l’eterno rifugio degli irresponsabili. E pazienza se nel frattempo Trump ha issato gli Stati Uniti in cima alla classifica mondiale dei danni e dei dannati: 7 milioni di contagi, 200 mila morti. Per ora.

Anche l’allievo Salvini spera di farla franca parlando d’altro. E continuando a raccontarci i suoi imminenti trionfi – “a breve cadrà il governo degli incapaci” – prova a nasconderci le sue reali sconfitte. Sa fare una cosa e da anni la fa: agitare i pugni al centro del suo ring vuoto. Almeno fino a quando Luca Zaia salirà con un po’ d’acqua, un asciugamano e il gong.

“Caro Daniele, mia moglie mi tradisce”. “Bene! Falle un filmino di nascosto”

Ricevo sempre più spesso mail amorose da fotogeniche sconosciute. Per lo più proposte oscene da donne in carcere. Le uso per masturbarmi. A tutte le altre mail invece rispondo molto volentieri.

Caro Daniele, il fatto che io sia morto non mi impedisce di fare domande. Vorrei sapere una cosa. È contro la legge fare sesso con una bambina consenziente? Anche se è mia figlia? Grazie (Gregorio Palumbo, Salerno). No, se è morta anche lei.

A volte, di notte, quando mia moglie sta dormendo, mi tolgo le caccole dal naso e me le mangio. È da nove anni che lo faccio sperando che mia moglie mi sorprenda e decida di punirmi dandomi delle sculacciate, ma finora non è mai successo. Dove sto sbagliando? (Franco Giorgini, Falconara). Le caccole non vanno mangiate fresche: devi farle seccare. Le caccole croccanti fanno più rumore, e masticandone una bella manciata tua moglie si desterà di soprassalto, temendo che fra le lenzuola si sia intrufolato un topo. A questo punto le spiegherai l’arcano, e il falso allarme la manderà così fuori dai gangheri che non potrà non punirti con delle sculacciate. Se vuoi che passi al gatto a nove code, rifallo non appena si sarà riaddormentata della grossa.

Per colpa del Covid, sono stato in ospedale per due settimane e vuoi sapere una cosa? Credo che qualche idiota di infermiere mi abbia scambiato di corpo. Giuro che sono nel corpo sbagliato. Ho sempre avuto tanti capelli. E di sicuro non avevo un cazzo così piccolo. E non avevo problemi a farmelo rizzare. E da dove cazzo viene tutto questo grasso attorno ai fianchi? La mia domanda è: quanto spesso accadono cose del genere, in un ospedale? Quanti di noi non sono più chi erano? (Aldo Paolicelli, Matera). Molti. Guarda Grillo.

Non sarà che i film di Bergman sono sempre così lugubri e senza speranza perché Bergman ha vissuto per anni con Liv Ullman e lei non gli ha mai fatto un pompino? (Francesca Adami, Verona). Probabile. Al suo posto sarei stato depresso anch’io. Ma avrei fatto film migliori.

Noi sacerdoti non siamo pagati abbastanza, e per arrivare alla fine del mese dobbiamo arrangiarci. Io per esempio registro col mio smartphone tutte le confessioni che ascolto e poi le metto in un sito a pagamento su Internet. Mi danno solo un euro al minuto, ma ogni centesimo in più è benvenuto. È tutto anonimo. Faccio male lo stesso? (Piero Principato, Agrigento). No, ma se li spendi in coca e trans è assurdo che non approfitti delle benedizioni pasquali casa per casa per rubare la pensione alle beghine della tua parrocchia. Non si meritano altro, secondo me.

Di recente ho scoperto che mia moglie va a letto col mio migliore amico. Da una parte sono contento per il mio amico che si fa una bella scopata, dall’altra sono tormentato perché è mia moglie. Che devo fare? (Gavino Melis, Cagliari). Filma ogni rendez vous con un cellulare nascosto, e posta i video su una piattaforma web dedicata al porno cuckold. Come tag metti cuckold, dialogato, amatoriale Italia, milf, hidden camera, spy, piedi. Farai soldi a palate. Poi vai a confessarti da don Piero ad Agrigento.

Cercate anche voi una guida spirituale? Scrivetemi (lettere@ilfattoquotidiano.it).