Riabilitazione. Faccia a Faccia tra Pell e il Papa

L’ultimo faccia a faccia risale a più di tre anni fa. In quell’udienza del 27 giugno 2017, papa Francesco comunicò al cardinale George Pell che gli avrebbe concesso un congedo per difendersi dalle gravissime accuse di pedofilia. Nessuno immaginava che i tempi sarebbero stati così lunghi. Il porporato, che è stato definitivamente assolto all’unanimità dai sette giudici dell’Alta Corte australiana, torna a Roma vincitore per incontrare Bergoglio. Rispetto all’ultimo faccia a faccia, lo scenario è completamente cambiato. Pell ha scontato 13 mesi nel carcere di massima sicurezza di Barwon in seguito alle condanne in primo e secondo grado a sei anni. Francesco ha dovuto fare a meno del suo “ranger” che aveva inserito nel Consiglio di cardinali che lo aiutano nella riforma della Curia romana e che poi aveva nominato prefetto della Segreteria per l’economia affidandogli la regia delle riforme finanziarie. Parole d’ordine: lotta a corruzione e riciclaggio di denaro.

Eppure quando il 7 aprile scorso l’Alta Corte australiana lo ha assolto, il Vaticano ha pubblicato una dichiarazione fredda sulla vicenda. Anche di questo Pell chiederà conto al papa. Un incontro che arriva dopo il licenziamento del cardinale Angelo Becciu, ormai ex prefetto della Congregazione delle cause dei santi, al quale Bergoglio ha tolto anche i diritti del cardinalato. Il plauso di Pell, antico rivale del porporato sardo, non si è fatto attendere: “Il Santo Padre è stato eletto per pulire le finanze vaticane. La partita è lunga e bisogna ringraziarlo e fargli le congratulazioni per gli ultimi sviluppi”. Al suo posto, Francesco ha scelto il gesuita Juan Antonio Guerrero Alves. Ma Pell chiederà lo stesso di essere riabilitato. Dopotutto può ancora entrare in conclave.

Il Becciugate: nuove case a Londra, soldi svizzeri

Come dalla valigia di Mary Poppins, continuano a uscire nuovi affari di monsignor Giovanni Angelo Becciu e del Vaticano. Gli investimenti immobiliari all’estero sono un sistema consolidato, che è continuato anche dopo la sua uscita, nel 2018, dalla segreteria di Stato. Non c’è soltanto l’ormai famoso palazzo londinese di Sloane Avenue, ex sede di Harrods, in questa storia di soldi giocata tra Roma, Londra, la Svizzera e il Lussemburgo, che ha come protagonista Enrico Crasso, un funzionario del Credit Suisse che poi si mette in proprio e continua a fare l’advisor per la Santa Sede.

Ci sono altri immobili di pregio in cui il Vaticano ha investito oltre 100 milioni di sterline. Lo racconta un’inchiesta del Financial Times che elenca tre appartamenti di pregio al 7-9 di Cadogan Square, acquistati a 19,25 milioni di sterline e poi ristrutturati impiegando 1,25 milioni. Altri 95,75 milioni vaticani sono stati investiti in appartamenti al 25 di Cadogan Square, al 28-29 di Hans Place, al 130 di Pavilion Road, con investimenti che, invece del solito Credit Suisse, provenivano in parte dalla Banca della Svizzera Italiana (chiusa d’autorità nel maggio 2016 dalle autorità di vigilanza elvetiche per irregolarità di gestione) e da Banca Rothschild.

Il prezioso mazzetto londinese di appartamenti di pregio è stato comprato dal Vaticano quando Becciu era ancora felicemente cardinale e potente sostituto per gli affari generali della Segreteria di Stato vaticana. L’operazione era stata realizzata attraverso quattro società di Jersey (Isole del Canale): Charidbis, Princeps, Civitas e Valerina. Il piano di valorizzazione immobiliare degli appartamenti, per farli fruttare una rendita per il Vaticano, era gestito da una società britannica specializzata, la Sloane and Cadigan. Nel 2017 (dunque ancora sotto la gestione di Becciu) due funzionari vaticani, monsignor Alberto Perlasca e Fabrizio Tiraboschi (oggi entrambi indagati dai promotori di giustizia della Santa Sede), comunicano a Sloane and Cadigan che alla gestione degli appartamenti londinesi doveva partecipare una società svizzera, la Valeur. I gestori britannici protestano, spiegando che quella società non ha alcuna esperienza nel settore. Perché viene allora coinvolta nella partita immobiliare di Londra? È una delle tante domande a cui stanno cercando di rispondere i promotori di giustizia del Vaticano, i pm del papa, Giampiero Milano e Alessandro Diddi.

C’è anche un altro personaggio di questa commedia che protesta vigorosamente con Becciu e i suoi uomini. È Raffaele Mincione, il finanziere italiano basato a Londra che già aveva fatto fare al Vaticano l’investimento nel palazzo di Sloane Avenue. Chiede perché per investimenti a Londra avessero usato altri operatori e non lui. Gli rispondono che la Santa Sede intende “diversificare gli investimenti”. Mincione è ora indagato dal Vaticano, che il 15 luglio gli ha sequestrato il telefonino e l’iPad, ancora nelle mani delle autorità giudiziarie malgrado il ricorso al Tribunale del riesame presentato il 28 luglio dagli avvocati Franco Coppi e Luigi Giuliano.

È Enrico Crasso – secondo Mincione – a manovrare i soldi del Vaticano, prima come funzionario di Credit Suisse, poi in proprio, con la sua rete di società offshore. È Crasso, nel 2014, ancora seduto alla sua scrivania nella sede della banca elvetica, a chiamare Mincione, affinché valuti l’affare che Becciu sta per fare in Angola, su consiglio dell’imprenditore Antonio Mosquito Mbakassy, conosciuto quando il prelato era nunzio in Angola: un investimento di alcune centinaia di milioni in una piattaforma petrolifera nel paese africano. Mincione, dopo una due diligence, sconsiglia quel business: è un investimento ad alto rischio, in un mercato, quello petrolifero, molto complesso, con tempi di remunerazione molto lunghi e con un partner difficilmente controllabile. Propone al cardinale un’alternativa che sostiene essere più semplice, meno rischiosa e più remunerativa: impiegare 200 milioni in un fondo regolato in Lussemburgo che investe al 55 per cento in immobili e al 45 per cento in azioni e obbligazioni. Un buon “bilanciamento tra rischio immobiliare e rischio azionario e obbligazionario”, ricostruiscono oggi i consulenti di Mincione in una memoria che hanno presentato alla giustizia vaticana. E la Santa Sede non deve sganciare una lira, ma solo accendere un mutuo, perché i 200 milioni vengono anticipati da Credit Suisse. Becciu dice sì: così nasce l’investimento nel palazzo di Sloane Avenue e nelle azioni di società che stavano a cuore a Mincione (Bpm, Carige, Fiber, Retelit). È nel 2018 che lo scenario cambia: il 15 agosto Becciu viene rimosso dalla Segreteria di Stato e nominato prefetto della Congregazione delle cause dei santi. Lo sostituisce agli affari generali della Segreteria di Stato l’arcivescovo venezuelano Edgar Peña Parra. Nel novembre del 2018, il nuovo arrivato mette alla porta Mincione, che chiede 40 milioni per uscire dall’affare, e viene sostituito con un altro finanziere italiano con base a Londra: Gianluigi Torzi. Gli affari opachi continuano. Fino all’arrivo delle inchieste.

Scegliamoli noi! Continua il Boom di firme e adesioni

Prosegue con grande successo l’appello lanciato da dieci autorevoli costituzionalisti, per far approvare una nuova legge elettorale senza le liste bloccate pubblicato sul sito del Fatto Quotidiano. Tra questi, a chiedere l’abolizione delle pluricandidature e il ritorno di una legge elettorale che consenta ai cittadini di scegliere i propri rappresentanti in Parlamento, anche una ventina di accademici italiani. Vari costituzionalisti, tra cui Gaetano Azzariti, Elena Bindi, Daniela Bifulco, Roberto Di Maria, Felice Giuffrè, Francesco Marone, Giovanna De Minico, Elisabetta Lamarque, Nicola Grasso, Alfonso Celotto, Raffaele Bifulco ed Elena Malfatti, docente dell’Università di Pisa. Numerose le adesioni dalla città toscana, hanno sottoscritto l’appello anche i docenti Enrico Marzaduri, Marcello Di Filippo, Angioletta Sperti e Alberto Vannucci. Così come altri cinque professori universitari di tutta Italia: Giorgio Grasso, Tina Matarrese, Paola Maraschio, Maurizio Viroli e Luca Baccelli.

 

“Le preferenze per migliorare i nostri politici”

“Sono per le preferenze, ma l’importante è eliminare le liste bloccate che sono lesive per la nostra democrazia”. Mauro Volpi, 72 anni, è docente di Diritto costituzionale all’Università di Perugia e referente umbro del Comitato Democrazia Costituzionale: ha aderito all’appello lanciato dal Fatto per chiedere una nuova legge elettorale senza le liste bloccate.

Professore, perché?

Ho aderito perché ho apprezzato molto che sia stato lanciato da costituzionalisti del Sì e del No superando le scorie della campagna referendaria e poi, nel merito, perché bisogna andare verso un sistema elettorale rappresentativo, che dia ai cittadini la possibilità di scegliere.

Come?

Io sono per una legge elettorale proporzionale: in questi anni abbiamo sperimentato leggi maggioritarie e non hanno dato buoni risultati sulla stabilità dei governi. E comunque i partitini sono riusciti a entrare in Parlamento perché legati ai collegi uninominali: nel 2013 con Tabacci o alle ultime elezioni con i casi di Bonino, Lorenzin e Nencini. Una legge proporzionale invece permette la piena rappresentatività.

Il Brescellum la convince?

Sì, ma si devono aggiustare due cose: la soglia al 5% è troppo alta e va abbassata al 3%. Ma soprattutto vanno abolite le liste bloccate.

In che modo?

Sono aperto alla discussione, ma vorrei la doppia preferenza di genere che darebbe spazio anche alle donne.

Con le preferenze, dicono, si aumenta la corruzione.

Così poteva essere nella Prima Repubblica, ma adesso siamo in un altro contesto storico e io ho fiducia nella maturità del corpo elettorale.

Molti, anche nel Pd, continuano a essere contrari alle preferenze.

L’importante è eliminare le liste bloccate e far scegliere i cittadini: questo porterà al miglioramento della qualità della classe dirigente. Se invece si mantegono le liste bloccate, i segretari di partito possono candidare chi vogliono, tra cui i soliti nani e ballerine. Con le preferenze invece se un partito candida una persona fedele al leader, ne paga lo scotto nelle urne.

Dopo il referendum si apre una nuova stagione di riforme. Quali sono le più urgenti?

Il voto ai 18enni e i correttivi Fornaro per la rappresentatività. Io sono per il superamento del bicameralismo con un sistema monocamerale o, come propone Enzo Cheli, con un monocameralismo temperato. Ma sono riforme da avviare nella prossima legislatura.

I furbastri delle “missioni”: tanti assenteisti e impuniti

Assenteisti cronici, spesso pagati come stakanovisti. Dopo il Sì al referendum che porterà al taglio di un terzo dei parlamentari, i dati aggiornati sulle presenze in Parlamento della legislatura in corso fotografano l’altissimo tasso di assenteismo di Camera e Senato dal marzo 2018 a oggi: al 22 settembre scorso, secondo i dati di Openpolis, 105 deputati e 27 senatori sono stati assenti o in “missione” in oltre il 50% delle sedute. Più di un parlamentare ogni dieci. Questi numeri si basano sugli allegati di seduta pubblicati da entrambe le Camere ed è il tasso più alto di assenteismo degli ultimi 15 anni, se escludiamo la legislatura passata che, nello stesso periodo di tempo, ne aveva avuti poco di più, quasi ogni due parlamentari su dieci.

Scendendo più nel dettaglio delle caselle di chi marca regolarmente visita nelle due Camere, 67 deputati e 13 senatori hanno partecipato solo tra il 30 e il 50% di sedute, mentre 32 parlamentari sono assenteisti cronici risultando presenti tra il 10 e il 30%. Ventuno (16 deputati e 5 senatori) invece sul proprio scranno di Camera e Senato non ci si sono (quasi) mai seduti: sono stati presenti in meno del 10% delle sedute. Ma ad aumentare la sfiducia nei confronti dei parlamentari italiani – la larghissima vittoria del Sì al referendum (70-30%) ne è una dimostrazione – non c’è solo la piaga dell’assenteismo: tra le due Camere nessuno sa, effettivamente, quanto sia l’indennità precisa dei singoli deputati e senatori e a quanto ammonti la parte dello stipendio mensile decurtata per gli assenteisti, come avviene in qualsiasi pubblica amministrazione. Secondo i bilanci di Camera e Senato, le indennità di deputati e senatori ammontano a 224 milioni di euro, frutto della somma di diverse voci: l’indennità stessa, l’indennità di funzione, la diaria per l’alloggio a Roma, i rimborsi per l’attività politica sul territorio, i trasporti e le comunicazione. Ma queste variano da parlamentare a parlamentare e nessuno sa quanto valgano per ogni singolo eletto. E soprattutto se i due uffici di presidenza penalizzino chi non lavora. Per il regolamento della Camera, la diaria di ogni deputato (pari a 3.500 euro) può essere decurtata di 206 euro per ogni giorno di assenza fino a 500 per le assenze nelle commissioni e nelle giunte competenti. Una misura analoga riguarda anche i regolamenti di Palazzo Madama.

Ma la questione è che nessuno sa se queste “punizioni” nei confronti degli assenteisti siano effettivamente applicate: quanto viene trattenuto dello stipendio di Michela Vittoria Brambilla (99% di assenze) o di Antonio Angelucci (94%)? Nessuno lo sa.

In primo luogo perché molti parlamentari continuano ad abusare delle “missioni”: teoricamente sono assenze giustificate per motivi legati al proprio compito istituzionale, ma in realtà nessuno controlla se sia effettivamente così. La lista di chi è in missione è pubblica per ogni seduta, ma non vengono indicati il motivo e la durata, quindi nessuno effettua un reale potere di controllo.

Poi, secondo i regolamenti, è considerato presente il parlamentare che partecipa almeno al 30% delle votazioni nell’arco di una giornata. In questo modo è praticamente impossibile scovare furbastri e assenteisti.

Il Tesoro avrà 5 nuovi direttori: studi e ricerche per 750mila €

Quando si dice il tempismo. Mentre la decisione dei ministeri del Lavoro e del Tesoro di aumentare il compenso al presidente Inps Pasquale Tridico a 150mila euro rispetto ai 103mila (più benefit però) del suo predecessore fa stracciare le vesti alla grande stampa, nel silenzio generale il Tesoro si appresta a portare nel Consiglio dei ministri di oggi una riorganizzazione del ministero che ha come unico vero effetto quello di creare 5 nuove posizioni di Direttore Generale. Il costo è cinque volte quello di Tridico, visto che tutti prenderanno 150mila euro lordi annui. Non bastava evidentemente che, durante la pausa estiva, il ministro Roberto Gualtieri avesse incrementato il proprio staff: oltre al capo di gabinetto, a 3 membri dell’ufficio legislativo e a 8 consiglieri, ci sono ben 4 vice capi e un direttore di gabinetto, più un direttore generale di supporto (Alessandra Dal Verme, cognata di Paolo Gentiloni, non confermata da Biagio Mazzotta alla Ragioneria generale).

La riforma voluta da Gualtieri attua una norma introdotta da lui stesso nel collegato fiscale alla vecchia manovra. L’effetto più rilevante è, come detto, la creazione di cinque nuovi direttori generali: tre in capo alla Ragioneria di Mazzotta, uno al dipartimento del Tesoro, retto da Alessandro Rivera, e uno al dipartimento Finanze di Fabrizia Lapecorella. Costo totale: 750mila euro lordi annui. Viste le cifre, si potrebbe pensare che le figure siano imprescindibili per il ministero. Eppure, stando alla bozza del Dpcm, si nota che uno sarà destinato a dirigere il nuovo ispettorato generale, mentre gli altri 4 andranno a svolgere semplicemente “attività di consulenza, studio e ricerca”.

Insomma, figure di massimo livello che non avranno un ruolo operativo, non guideranno strutture né gestiranno personale e risorse finanziarie (come prevedono gli incarichi di studio, di norma appannaggio di dirigenti a fine carriera o in cerca di sistemazione). La Ragioneria (che ne beneficerà per prima) ha ovviamente già bollinato il tutto. I nomi destinati agli incarichi ovviamente, già spartiti tra i capataz ministeriali, li conoscono tutti da settimane. A questo servono le riorganizzazioni che ogni ministro cerca di fare.

Atlantia tira diritto: si può trattare solo (un po’) sul prezzo

L’ultimatum del governo su Autostrade per l’Italia, al solito, non sembra aver spaventato Atlantia. Ieri, al termine di un lungo consiglio di amministrazione, la holding ha rigettato la richiesta di adeguarsi all’accordo del 14 luglio e accettare le richieste della Cassa Depositi e Prestiti destinata a prendere il controllo. Al massimo, fa sapere il gruppo controllato dai Benetton in una nota, si può procedere alla cessione di Aspi “nell’ambito di un processo trasparente e a condizioni di mercato”. Insomma, si può trattare solo sul prezzo. Oggi scade l’ultimatum e la palla passa al governo: procederà alla revoca della concessione come ha minacciato?

Breve riassunto. La trattativa con Cdp – imposta dall’accordo di luglio per superare lo scontro aperto dal disastro del Morandi di Genova – è naufragata sulla richiesta della Cassa di avere alcune garanzie, in primis una manleva legale sui contenziosi che possono aprirsi dal processo sul crollo del ponte. Il governo nel frattempo via lettera ha intimato ad Atlantia di accettare entro oggi i tre diversi atti amministrativi che sottendono all’accordo (l’atto transattivo, che chiude il capitolo Morandi, l’atto aggiuntivo, che modifica la concessione, e il nuovo Piano economico finanziario di Autostrade). Nella lettera inviata il 23 settembre, i ministeri coinvolti e Palazzo Chigi subordinano però il via libera alla cessione del controllo a Cdp, una previsione inserita nella stessa concessione. Per Atlantia questo equivale a un esproprio e ha denunciato la cosa a Bruxelles. Che ieri, fanno sapere dalla holding, avrebbe risposto di star “predisponendo con attenzione le dovute azioni conseguenti, anche alla luce dei più recenti sviluppi”, segnalati dal colosso.

La risposta del cda di ieri era comunque attesa. Nella nota, Atlantia spiega che l’accordo con Cdp può avvenire solo “a valle della firma degli atti” e non viceversa e considera “inaccettabili” le manleve legali. Se volete, è il senso sotteso nella due pagine e mezzo licenziate in serata, eventuali rischi legali possono far parte di una trattativa sul prezzo, che però deve essere a “valori di mercato”. Altrimenti i soci e gli azionisti di Atlantia sono pronti a una battaglia legale.

A questo punto lo stallo è completo. Si torna alla situazione precedente al 14 luglio, quando il governo Conte minacciò la revoca e poi in un Consiglio dei ministri notturno venne fuori l’accordo in extremis. Sabato sera in un vertice a Palazzo Chigi, Conte, i ministri di Tesoro e Infrastrutture, Roberto Gualtieri e Paola De Micheli, e i capi di gabinetto hanno fatto il punto, concordando di procedere alla revoca in caso di mancato accordo. Cdp, peraltro, si sfilerebbe volentieri da una partita ormai compromessa. Fonti della Cassa parlano di “tattica dilatoria” e fanno sapere che sono state Aspi e Atlantia “ad aver espressamente proposto al governo nelle lettere dell’11, 13, 14 e 15 luglio una soluzione che abbinava il riequilibrio della concessione e la cessione del controllo a Cassa Depositi e Prestiti”.

La mossa di ieri di Atlantia mostra che Benetton e soci non ritengono le minacce del governo credibili, o comunque lo scenario peggiore. Sta all’esecutivo rimettere il dentifricio nel tubetto.

Bonomi e Conte: patto ma “visioni” opposte

La volontà di fare la “pace” la si capisce subito dall’intervento con cui Carlo Bonomi inaugura l’Assemblea generale di Confindustria. L’appuntamento era stato rinviato lo scorso maggio a causa del Covid e ieri si è potuto tenere con il governo come ospite di eccezione. A prendere la parola, infatti, sono stati il ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, e il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. “Alla nostra Assemblea, come vedete, parla uno per Confindustria, e due per il governo!” la battuta conciliatrice di Bonomi.

Il quale insiste molto sulla “visione” che il governo dovrebbe avere nel gestire la crisi. Ne fa un punto “alto” dell’intervento citando Max Weber anche se poi, come un dottor Stranamore, gli scappa la zampata populista contro il “Sussidistan” rappresentato dai sussidi a pioggia, vera bestia nera degli industriali (l’espressione è dell’ex Fim Marco Bentivogli in un articolo sul Foglio…).

La “visione” di Bonomi, che scomoda Amazon e la siderurgia italiana, l’elettronica e la chimica, alla fine si riassume nel piano presentato dalla Francia per il Recovery Fund in cui piace molto quel 35 per cento che andrà alle imprese sotto forma di incentivi e di tagli alle imposte. L’approccio forse non è troppo weberiano, ma Bonomi è dialogante, anche nel presentare la lista delle richieste. Si va dal 4.0 alla “riforma del welfare”, cioè eliminare Quota 100 e Reddito di cittadinanza, e la sostenibilità ambientale deve fare i conti con la produzione. Ai sindacati dice che i contratti si possono senz’altro rivedere, ma senza particolari oneri per le imprese e soprattutto senza nessuna idea di salario minimo. Queste le premesse per un nuovo “Patto per l’Italia”.

Il ministro Patuanelli raccoglie quasi tutti i punti di Bonomi che chiama per nome, “Carlo”, rilanciando l’industria 4.0 da implementare con la “formazione 4.0”, ricordando la centralità per l’edilizia del Superbonus, promettendo 5 Centri di Alta tecnologia e insistendo sull’idrogeno come nuovo pilastro economico (anche se al momento le stime parlano di 20-30 miliardi di Pil generato). “In questo Paese deve essere semplice fare impresa”, sottolinea Patuanelli, che accanto ai diritti del lavoro rilancia anche “i diritti dell’imprenditore”, un’apertura che va oltre anche le aspettative di Bonomi.

A proposito di “visione”, invece, Giuseppe Conte tiene il punto. L’emergenza Covid ha dimostrato che “abbiamo fatto bene a mettere la salute prima della produttività” e su questo aspetto il presidente del Consiglio torna quando parla di sostenibilità: va bene la crescita, ma “la sostenibilità sociale è la premessa dello sviluppo”, non viene dopo. Rivendica il cuore dell’attività del governo, quindi, quello che nell’emergenza sanitaria ne ha garantito il successo. Poi però si dice disponibile a un “patto sociale post-Covid” basato sul “co-investimento” tra pubblico e privato e apre ai punti di Bonomi: semplificazione degli appalti pubblici, riforma della giustizia e della Pubblica amministrazione, “le riforme abilitanti”, promette una “normativa ad hoc” per il Recovery Fund con una “Piattaforma digitale che permetta di controllare l’andamento degli investimenti”. “Siamo aperti al contributo delle strutture produttive”, dice ancora, ricordando che l’Italia presiederà il G20 e co-presiederà Cop-26. Un ruolo internazionale del Paese che anche Bonomi riconosce e sul quale la conclusione dell’intervento viene accolta da applausi convinti. Non un’ovazione, certo, ma non era comunque scontato.

L’Inps: “Non pagati 20mila lavoratori”. I ritardi su Cig e Naspi

I soldi della cassa integrazione continuano ad arrivare ai lavoratori con ritardo, anche grave in alcuni casi. “Si deve lavorare di più per assicurare la Cig ai cittadini che ancora l’aspettano”, ha detto ieri il presidente del Consiglio Giuseppe Conte: “Questo è un problema per chi non ha mezzi di sostentamento e il presidente dell’Inps, tutti i lavoratori dell’istituto e coloro che hanno un ruolo, io per primo, dobbiamo lavorare giorno e notte. Non ha senso dire solo che ci sono milioni di persone che hanno preso la Cassa”. Dopo lo schiaffo, Conte ha riservato a Pasquale Tridico anche una carezza sulla vicenda dello stipendio (alzato da 103 a 150mila euro annui): “Ho chiesto informazioni, lo stipendio è stato adeguato e, confrontando le tabelle, Tridico prende emolumenti in linea o inferiori a istituzioni paragonabili”. Ma il pagamento della Cig è così in ritardo? Ecco quali sono i numeri e le criticità.

Cig. Secondo il nuovo report che l’Istituto pubblicherà oggi, al 29 settembre risultano “solo” 20.463 lavoratori in cassa integrazione la cui domanda è stata presentata dopo il primo giugno e che non hanno ancora visto un euro. Da febbraio sono stati pagati 3.425.319 lavoratori che corrispondono a oltre 12 milioni di domande di mensilità di cassa integrazione su 12.314.134 ricevute (ne mancano, insomma, circa 300mila, il 71% delle quali arrivate a settembre). Stiamo, dicono dall’istituto, “risolvendo caso per caso le pratiche più problematiche” (in cui non rientrano, ad esempio, i lavoratori dell’artigianato che aspettano da mesi di essere pagati dal Fondo di solidarietà bilaterale). Il difetto dei numeri Inps in questa fase è che sono incompleti: da maggio l’ente previdenziale pubblica solo quelli delle domande autorizzate.

Dl Agosto. Il decreto ha prorogato la Cig per altre 18 settimane (sempre nella formula 9+9), ma a un mese e mezzo dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale manca la ancora circolare attuativa. Il documento, che è in attesa del via libera del ministero del Lavoro, dovrà specificare modalità e tempi di erogazione. Questo, dice la stessa Inps, non sta impedendo all’Inps di incamerare le domande e iniziare a lavorarle nel sistema di messaggistica ufficiale Hermes. La procedura resta sempre la stessa (le aziende prenotano la Cassa e, dopo i controlli del caso, l’Inps autorizza le domande con le ore esatte richieste): in sostanza le richieste vere arriveranno da adesso in poi. Più complicata tecnicamente sarà la gestione delle ultime 9 settimane di Cig, per le quali il governo ha previsto la compartecipazione (al 9 o al 18%) di aziende che hanno avuto nessuno o lievi cali di fatturato: questa coda potrebbe aggiungersi alle altre se l’Inps non si mette in pari.

L’allarme del Civ. I numeri elaborati dal Consiglio di indirizzo e vigilanza dell’istituto (Civ) riguardano le domande inviate all’Inps, ma che l’istituto non ha ancora preso in considerazione. Per il presidente del Civ, Guglielmo Loy, “il differenziale tra le domande presentate e quelle autorizzate dall’Inps resta ancora alto, con oltre 226 mila domande in stand by, ma le teste sono di più”. Si tratta di lavoratori che magari hanno ricevuto solo una prima tranche e che poi non hanno ricevuto più nulla. Ma la maggior parte delle domande è recente e molte scontano errori nella presentazione di cui l’Inps non è responsabile. Per Loy, il rischio è “l’emergenza sociale” che dovrebbe spingere Inps “a pagare più velocemente”.

Il caso disoccupati.A scontare ritardi senza precedenti sono anche le misure Naspi e Dis Cool previste per chi è in disoccupazione. Il dl Rilancio aveva prorogato di due mesi le indennità scadute durante l’emergenza, il decreto Agosto ha aggiunto due mesi: anche qui a distanza di un mese e mezzo nulla di fatto, nonostante il pagamento dovrebbe essere automatico se non altro per chi ha usufruito del primo decreto.

Lo Zinga in barile

Una settimana fa il Fatto ha lanciato una petizione di 10 costituzionalisti, che il 20 e 21 settembre si erano divisi tra il Sì e il No al taglio dei parlamentari, per una legge elettorale senza più liste bloccate. Cioè per abolire quel meccanismo infernale, introdotto dal centrodestra nel 2005 col Porcellum (poi raso al suolo della Corte costituzionale) e perpetuato dall’Innominabile con l’Italicum (anch’esso bocciato dalla Consulta) e il Rosatellum (votato da Pd, FI e Lega, con i No di M5S, FdI e sinistra), che consente a un pugno di capipartito di nominarsi la gran parte dei parlamentari, sottraendo ai cittadini il diritto e il potere di sceglierli. Una porcata degna dell’Ungheria di Orbán. In sette giorni, l’appello su change.org ha raccolto oltre 75 mila firme e noi speriamo che superi presto quota 100mila. Come si restituisce agli elettori la scelta dei parlamentari? Se il sistema elettorale è proporzionale, si ripristinano le preferenze, anzi la preferenza unica (o doppia di genere): ciò che gli italiani votarono nell’ultimo referendum elettorale riuscito, promosso da Mario Segni nel 1991. Se il sistema è maggioritario, ogni partito o coalizione presenta un candidato per ogni collegio e i cittadini scelgono chi preferiscono (scelta unica nel turno secco o ripetuta al ballottaggio nel doppio turno). Non esistono sistemi elettorali perfetti, ma noi, insieme ai 75mila aderenti all’appello, chiediamo che qualunque modello vinca produca degli eletti, non dei nominati. Il dibattito, però, non è all’anno zero: il governo Conte-2, come Zingaretti ha ricordato al premier, al M5S e a Iv in campagna elettorale, è nato su un preciso patto di maggioranza per il proporzionale puro. Dunque non si scappa: proporzionale con preferenza unica o doppia di genere (un candidato e una candidata).

E qui casca l’asino, perché dopo il referendum si è riaperta nel Pd la solita batracomiomachia tra proporzionalisti e nostalgici del maggioritario o del Mattarellum. Che, senza una posizione chiara e netta del segretario, riporterebbe la discussione all’anno zero. E sarebbe strano, per chi temeva di delegittimare le Camere col taglio dei parlamentari votato dal 98% della Camera. Gli italiani hanno rilegittimato il Parlamento, plaudendo a quella riforma col 70%. Ma ora, a delegittimare quello futuro, è proprio chi fa il pesce in barile sulla preferenza. Che ci restituirebbe un Parlamento non solo più snello, ma anche eletto. Salvini ha già detto, in dissenso con la Meloni, che il Rosatellum non si tocca: così continuerà a portare in Parlamento chi pare a lui. Il M5S è per la preferenza. Zingaretti con chi sta?