Diceva di essere un “musicista contabile” ed eccolo qua, anni dopo, a tenere una lezione al Dams di Lecce su “Come la musica diventa lavoro”.
Già, come, signor Agnelli?
La musica è già un lavoro perché fatta anche dalle maestranze, dai facchini ai manager: quasi un milione di lavoratori in Italia. E poi il musicista è un lavoratore: tour, routine, professionalità; non è semplicemente andare in giro con la chitarrina a divertirsi. Purtroppo in questo Paese siamo ancora trattati da giullari, eppure paghiamo le tasse come tutti.
Il progetto di Germi a Milano è in quella direzione?
No, lì vogliamo creare un laboratorio di contaminazione culturale tra arti, musica, cinema, letteratura… Promuoviamo l’incontro fisico, non virtuale, senza sottostare al ricatto dei numeri: se riempi San Siro hai un senso, se sei in tv vali qualcosa, se non vai no. È tremendo; è capitato anche a me prima di X-Factor… Per questo Germi è un luogo piccolo, 80 posti al massimo, per non cedere a compromessi di programmazione: la Rete la sfruttiamo dopo, per spargere i “germi”… beh, certo, in questo periodo non è la parola più felice. Contiamo di riaprire a fine mese con solo 15 persone.
Gli Afterhours non pubblicano da 4 anni…
Stiamo registrando; il lockdown ci ha fatto rimandare i programmi: avremmo voluto uscire quest’anno col nuovo disco, ma se tutto va bene si farà alla fine del 2021.
Anche partecipare a un talent è una professione?
Io ho preso questa strada molto tardi, a 50 anni e dopo un percorso solido. Per me ha significato mettermi in gioco, liberarmi da certe pose, sparigliare carte ammuffite, portare il mio punto di vista non comune. Ora ho grandi vantaggi come la visibilità, la legittimità davanti agli addetti ai lavori: così è più facile realizzare progetti miei come Germi. E poi certo, c’è la parte economica. Una regola ho imparato: è meglio avere i mezzi che non averli.
A X-Factor si è preoccupato per la giovane Casadilego sul mercato…
Il mercato è una risorsa, non il demonio: la storia dell’arte esiste grazie ai mecenati. Il problema è quando il mercato diventa il fine ultimo, e genera mostri. Casadilego a soli 17 anni canta Joni Mitchell come un’adulta: quel tipo di raffinatezza è molto difficile da gestire per com’è strutturata l’industria musicale oggi. Non c’è un filone in Italia così, purtroppo, né addetti ai lavori che possano proteggerla.
Per lei “la rivoluzione fa sempre due passi avanti e uno indietro”. E i suoi?
Ho sempre fatto passi avanti piccoli, ma costanti: il più grande è stato decidere a 27 anni che la musica doveva essere la mia vita. Prima di avere un minimo di stabilità economica – come pagarmi le rate della Fiat Uno – sono passati 15 anni, ma suonare mi faceva stare così bene che non era paragonabile a nessun’altra sicurezza. Passi indietro sono quelli che mi sono autoinflitto per cercare di essere coerente e mantenere un’etica musicale. Tutto l’ambiente alternativo, a un certo punto, si è rivelato asfittico e soffocante, dal punto di vista creativo e ideologico. Manipolato tanto quanto il mainstream.
Il maledettismo è morto… ma non le manca?
No, anzi mi fa ridere oggi che un certo tipo di mondo sia incarnato da vegani, salutisti, bigotti. Quello che mi manca è il mistero, la capacità di proiettarsi in un mondo di immaginazione meraviglioso perché è solo nostro. Io immaginavo David Bowie, non lo conoscevo, avevo poche foto. Adesso pubblicano sui social i primi piani dei piatti o quando vanno a farsi le unghie. Venire a conoscenza di tutti questi dettagli, fin morbosi, ha ucciso il mistero. Lo vedo nei musicisti che vengono al talent: tutti bravissimi tecnicamente, ma quasi nessuno è affascinante né ha sviluppato quel mondo interiore che si comunica semplicemente attraverso vibrazioni. Per me è un limite. Una tragedia.
Il suo mondo interiore resta quello di un irrequieto o l’ha sedato?
“Sedato” non è la parola giusta. Quello che mi è successo diventando adulto, e avendo questo grandissimo privilegio di vivere con la mia musica e crearla, è di conoscere me stesso. Non mi sono sedato, sono cambiato. L’irrequietezza è parte della nostra natura. Alcuni la chiamano “male di vivere”, che è ormai inaccettabile, giustamente. Anche perché il male di vivere è un lusso che molti non si possono concedere.