Visco, il Mes e il mistero dello stigma

Se fosse un giallo si potrebbe intitolare: Ignazio Visco, il Mes e il mistero dello stigma. Visco è governatore della Banca d’Italia. Lo “stigma” è l’espressione che ha usato a proposito della controversa questione del fondo salva-Stati. Parola misteriosa, appunto, almeno per larga parte di coloro che ne hanno sentito parlare, per la prima volta, domenica nei tg serali. Durante i quali nessuno si è degnato di spiegare come e perché lo “stigma” rientrasse nei ragionamenti di Visco (e soprattutto cosa diavolo significasse). Interessava soltanto riferire che, secondo il governatore, dal punto di vista economico il Mes “dà solo vantaggi”, e che la tremenda troika “non c’è, non esiste”. Pronunciata da tale prestigiosa cattedra, un’affermazione che poteva spazzare via gli ultimi dubbi in chi, come lo scrivente, non è mai riuscito a farsi un’idea definitiva su questo fondo straordinario. Descritto dai tanti propugnatori come la caverna del tesoro di Ali Baba, per aprire la quale basta pronunciare la formula magica: “Apriti, Mes”. Mentre per i detrattori si tratta del Campo de’ miracoli, in località Acchiappa-citrulli, dove il povero Pinocchio viene truffato dal Gatto e la Volpe.

Ma quando finalmente possiamo sottrarci alla propaganda favolistica per affidarci alla razionale saggezza del governatore salta fuori un piccolo inciampo, all’apparenza roba da nulla. Egli, infatti, proprio in coda alle sue rassicurazioni, aggiunge che “l’unico problema potrebbe essere lo stigma”. Potrebbe? Ahi. Poiché ho imparato dalla vita che tutte le volte che c’è un problema e ci dicono essere “risolto al 99 per cento”, è proprio l’uno per cento mancante a mandare tutto in vacca, quest’ultimo problemuccio dello “stigma” mi ha messo sul chi vive. Ho cominciato a sfogliare avidamente i giornali finché ho trovato la chiave del mistero: “Anche il famoso problema dello stigma – cioè del nervosismo che una richiesta di accesso potrebbe scatenare sui mercati – è facilmente superabile, se i soldi vengono spesi bene e con una buona comunicazione” (Repubblica). Fermi tutti, perché mai di questa storia dei mercati in preda a una crisi di nervi nessuno mi aveva detto niente? Vero che i soldi ben spesi e una buona comunicazione agirebbero come la Valeriana su questi mercati isterici. Purtuttavia immaginando la possibile incazzatura dei mercati, a cui in genere non va bene niente – figuriamoci 36 miliardi spesi soltanto benino o una comunicazione così cosi – ho sognato la troika che m’inseguiva brandendo un grosso stigma.

Come può Trump pagare quelle tasse da “povero”?

È il 23 settembre 2016 quando Susan Craig, giornalista investigativa del New York Times, trova un pacco nella sua cassetta della posta. “Una busta porta-documenti, con francobollo di New York, mittente The Trump Organisation. Ho sentito il cuore in gola”.

Dentro c’è la dichiarazione dei redditi del 1995 di Donald Trump, che in quell’autunno 2016 è candidato alla presidenza degli Stati Uniti. Ci sono, in dettaglio, le sue strategie per evadere la tasse. Susan le sventola di fronte al collega David Barstow, che convoca una riunione del team che sta da tempo indagando su Trump. “Abbiamo messo a punto un piano di battaglia”. Che consiste, come prima cosa, nel compilare una lista di nomi in grado di confermare l’autenticità di quei documenti.

Perché le carte contengono un’informazione cruciale: nel 1995 le perdite delle sue società sono tali, precisamente 915.729.293 dollari, da consentirgli di evitare il pagamento delle tasse federali sui redditi per quasi due decenni, calcolate in circa 50 milioni di dollari l’anno. Cifre ipotetiche, visto che finora Trump ha sempre rifiutato, rompendo con la tradizione di trasparenza dei presidente precedenti, di pubblicare le sue dichiarazioni dei redditi. “La lista era corta” nota la Craig. Nasce così l’inchiesta che ha portato il New York Times, dopo 4 anni di lavoro, a ricostruire un quadro completo delle finanze di Trump. Ma come è possibile che un personaggio pubblico già prima di andare alla Casa Bianca, riesca a giocare il fisco in modo tanto spregiudicato e macroscopico?

La grande evasione nasce appunto nei primi anni 90, grazie a quei conti in rosso e a un cavillo legale abilmente sfruttato dai suoi commercialisti e poi eliminato dal Congresso degli Stati Uniti. Negli anni 80, il giovane Donald tenta di rendersi indipendente dal business del padre costruendo tre casinò ad Atlantic City, finanziati con 1,3 miliardi di dollari di prestiti. Non soldi suoi, quindi, ma ottenuti tramite partnership. Il business affonda subito. Trump è quasi in bancarotta, tanto che i suoi finanziatori danno di matto quando scoprono che ha speso 250mila dollari per l’anello di fidanzamento alla nuova fiamma Marla Maple. Quando appare chiaro che non c’è alcuna possibilità che ripaghi i debiti, i suoi partner commerciali si fanno convincere a cancellarli. Ma c’è un problema: per l’Internal Revenue Service, più o meno l’equivalente delle Agenzie delle Entrate, un debito cancellato equivale a reddito tassabile. Solo che Trump quel debito non lo denuncia come tale. Denuncia invece la mega perdita (di soldi, lo ricordiamo, che non ci aveva messo lui) che per un cavillo diventa una deduzione fiscale. È un trucchetto contabile che il Congresso ha appena cancellato per le società, ma non per le partnership. Una mossa così audace che perfino i legali di Trump la sconsigliano, perché su una deduzione così macroscopica è probabile che parta un’indagine. Trump non li ascolta e non solo ne esce in piedi, ma ricava un doppio beneficio: non ha più debiti e, grazie alla maxi deduzione, non paga tasse per decenni, defraudando la comunità di milioni di dollari.

Le nuove rivelazioni sfatano completamente il mito, costruito con lo show televisivo The Apprentice e da lui stesso alimentato prima e durante la presidenza, dell’uomo d’affari di successo. Come rivela il Nyt, il reddito netto fra il 2000 e il 2008, i primi anni di The Apprentice, è di 230 milioni in licenze e contratti di sponsorizzazione, di 197.3 milioni generati dallo show, di 178.7 milioni in investimenti. Ma le società guidate da Trump finiscono in rosso per 174.5 milioni. Riesce cioè a non pagare niente perché perde sempre più di quello che incassa, o con richieste di rimborsi per oltre 72 milioni di dollari su cui indagano le autorità fiscali. Così evita di versare tasse per 11 dei 18 anni esaminati; e nel 2016/17, il primo anno alla Casa Bianca, il conto è di solo 750 dollari al fisco federale. Ma la ricerca delle responsabilità potrebbe non essere così lineare. Perché, seppure con molto meno dettagli, il tema della sua evasione fiscale monstre era già emerso durante la campagna elettorale del 2016. Trump si era vantato di non aver mai pagato un centesimo di tasse federali per decenni e di aver approfittato di escamotage legali messi a disposizione di tanti miliardari come lui.

Indipendentismo. Interdetto Torra, la Catalogna tornerà a votare

Il Tribunale Supremo ha deciso: il presidente della Generalitat catalana, Quim Torra è interdetto per 18 mesi dai pubblici uffici per disobbedienza. L’anno scorso, in piena campagna elettorale per le elezioni nazionali, non accettò di togliere il laccio giallo, simbolo del separatismo, dai palazzi dell’amministrazione catalana. Torra non ha controfirmato la notifica dell’atto e ha avvisato che presenterà ricorso alla sentenza. “L’unica maniera di andare avanti (nella richiesta di indipendenza, ndr) è la rottura dell’ordine democratico”, ha spiegato l’ex presidente – il primo a essere interdetto dalle sue funzioni in Catalogna – in un duro discorso in conferenza stampa. Da domani, a prendere il suo posto sarà il vice Pere Aragonés fino a che, “a febbraio prossimo” ha spiegato Torra, si terranno nuove elezioni. In mezzo ci va anche la pandemia, che sarà gestita di default, senza che si possa votare un nuovo bilancio regionale. I partiti separatisti non hanno tardato a ribadire che l’interdizione di Torra e la conseguente decadenza dal suo ruolo di presidente dimostrerebbe che “la repressione contro l’indipendentismo catalano non ha freni”, come ha twittato l’ex vicepresidente della Generalitat Oriol Junqueras, agli arresti domiciliari dopo la condanna a 13 anni di carcere per sovversione. Manifestazioni di appoggio al governatore che solo due anni e mezzo fa sembrava passare per caso alla successione di Carles Puigdemont, sono state convocate nelle principali città catalane. Il partito del presidente, Junts per Catalunya (JxCat), con la sua portavoce, Elsa Artadi, ha chiesto agli elettori di riaffermare i risultati del referendum per l’indipendenza del 1° ottobre del 2016, alle prossime elezioni. Già, le elezioni, vera nota dolente della caduta di Quim Torra. Perché JxCat e Esquerra republicana, i due partiti indipendentisti al potere arrivano divisi al voto. I primi insistono per votare a febbraio, come ha illustrato Torra, per dare il tempo all’ex presidente in auto-esilio, Puigdemont e al suo partito di consolidarsi. I secondi invece avrebbero voluto che Torra sciogliesse il Parlamento ad agosto, in vista dell’interdizione, cosa che ora non ha più il potere di fare, e andare così al voto il prima possibile per capitalizzare il sentimento indipendentista, senza incassare la delusione per la gestione del Covid-19. L’iter, invece, prevede che il presidente del Parlamento vagli un altro nome retto da questa maggioranza. Altrimenti, convochi elezioni non prima del 7 febbraio. Per allora, Puigdemont si sarà organizzato.

Una guerra per procura. Si replica lo schema Libia

E ora tocca al Nagorno-Karabakh diventare l’ennesimo terreno di scontro per procura tra Turchia e Russia. Perché dietro la riaccensione del trentennale conflitto per l’indipendenza di questo fazzoletto di terra montuoso, che si erge appena oltre il confine azero, ma è rivendicato dai separatisti armeni, c’è lo zampino del presidente turco, Recep Tayyip Erdogan.

Il Sultano, tre giorni fa, aveva accusato Erevan di “ingaggiare terroristi del Pkk” ( l’organizzazione curda di Ocalan bollata di terrorismo da Ankara) per prepararsi ad attaccare Baku. L’Azerbaijan, turcofono e musulmano, è considerato dalla Turchia un pezzo della cosiddetta “Patria del cuore” che include le terre di religione islamica dove si parla un’idioma derivato da quello turco e nazioni dell’ex impero ottomano. Ma la Turchia, sprovvista di risorse energetiche e in crisi economica , ha stretto con l’Azerbaijan anche un accordo per acquistare a prezzo di favore il suo petrolio e gas. Da non dimenticare poi l’apertura nel 2018 del gasdotto Tanap (Trans Anatolian Gas Pipeline) che ha volutamente tagliato fuori l’Armenia. Anche per questa ragione il presidente turco ha accusato l’Armenia di essere “la più grande minaccia alla pace nella regione” garantendo “pieno appoggio” agli azeri. Tradotto: armi . L’Azerbaijan ha già ricevuto da Ankara una flotta di droni armati, quei droni che erano stati dirimenti per rompere l’assedio di Tripoli, (cambiando le sorti del conflitto libico in corso) e attenderebbe un carico, secondo alcune fonti, di mercenari siriani da Idlib, la roccaforte jihadista sotto la giurisdizione turca. Così ci si ritrova anche in Nagorno-Karabakh di fronte allo stesso schema: da una parte Ankara, dall’altra Mosca alleata dell’Armenia (sia l’Azerbaijan sia l’Armenia erano parte dell’Unione Sovietica e si resero indipendenti in seguito al suo collasso). Il Cremlino ha reagito alle accuse incrociate delle forze rivali, che si combattono ininterrottamente da tre giorni, su chi abbia iniziato a bombardare, tentando di gettare acqua sul fuoco con parole più accomodanti della Turchia: “I contendenti devono riporre le armi e dialogare”, ha avvertito il presidente Putin. Il Caucaso è ancora una polveriera per il Cremlino a causa di altre dispute territoriali irrisolte come il Daghestan e l’ Ossezia del Sud.

In realtá Mosca ha già reagito mandando consiglieri e addestratori ed è in atto un ponte aereo con aerei Antonov e Ilyushin oltre a sistemi di difesa anti droni e caccia Sukhoi di ultima generazione. L’Armenia del resto non è un paese qualsiasi per Mosca. Non solo perchè entrambe le nazioni appartengono al mondo slavo e condividono l’appartenenza al cristianesimo ortodosso. A legarle a doppio filo è la Collective Security Treaty Organization (Csto) un’ alleanza tra nazioni un tempo sovietiche rimaste legate a Mosca. Una sorta di Nato del Caucaso. Grazie alla Csto se uno di questi paesi venisse invaso potrebbe chiedere di far scattare il meccanismo di difesa collettivo. Ipotesi che Erdogan non può certo auspicare. È probabile dunque che dopo qualche giorno di scontri e decine di vittime, almeno finora, da entrambe le parti si torni a confidare nel gruppo di Minsk creato nel 1992 dalla Conferenza sulla Sicurezza e Cooperazione in Europa (CSCE) e quindi dall’Osce guidato da Francia, Russia e Stati Uniti allo scopo di incoraggiare una soluzione pacifica e negoziata.

La disputa ebbe inizio nel 1988, poco prima della Caduta del Muro di Berlino, quando il governo autonomo del Nagorno chiede di lasciare la repubblica azera e passare sotto la repubblica armena. Dopo l’indipendenza dell’Armenia nel 1991, Erevan iniziò a sostenere le milizie del Nagorno Karabah fino alla conquista dell’enclave e di parte del territorio azero tra il 1992-93. La situazione rimase tesa anche dopo la firma dell’accordo per il cessate il fuoco del 1994 e la ripresa dei negoziati diplomatici, protrattisi fino al 2001 e poi bloccati. Da allora sono rimasti irrisolti i due problemi fondamentali: la restituzione dei territori azeri in mano all’esercito armeno e lo status da accordare al Nagorno-Karabakh.

Presidenziali: Trump sfida Biden in tivù per rimontare

L’esame antidoping non si farà, ma Donald Trump è tornato a chiederlo, nell’imminenza del primo dibattito televisivo con Joe Biden (nella foto): il presidente ritiene che le prestazioni del rivale, nei dibattiti per la nomination democratica, siano state altalenanti. Troppo sveglio, insomma, a tratti, ‘Sleepy Joe’: “Solo il doping può avere causato simili differenze”, è la tesi provocatoria. Questa sera – in Italia, saranno le 3 del mattino – Trump e Biden saranno sul podio: gli altri due dibattiti saranno il 15 e il 22 ottobre. Il 7 ottobre ci sarà il confronto fra i candidati vicepresidenti Mike Pence e Kamala Harris. Il format di un’ora e mezza è suddiviso in sei segmenti di 15 minuti ciascuno circa, Trump e Biden discuteranno le loro esperienze e i loro programmi, di Corte Suprema, dell’epidemia di coronavirus, della questione razziale e delle proteste violente in molte città, dell’affidabilità delle elezioni e dell’economia. Su ogni tema, i candidati avranno due minuti di tempo per dire la loro e potranno poi interloquire l’un l’altro. Il moderatore è Chris Wallace della Fox News: sulla carta, un vantaggio per Trump: le tasse non pagate dal magnate presidente e Amy Coney Barrett, i morti da virus – oltre 205.000 – e le ragioni e gli eccessi di Black Lives Matter saranno evocati. E si parlerà della validità del voto: se perde, Trump – scrive Politico – ha pronti migliaia di avvocati per contestare il risultato. Il dibattito di questa sera si svolgerà alla Case Western Reserve University di Cleveland, nell’Ohio: Trump arriva al confronto costretto a rimontare: l’ultimo sondaggio Washington Post / Abc, lo dà 10 punti dietro Biden, 43 a 53%. RealClearPolitics, lo dà dietro di sette punti. Chi sta peggio di Trump è il suo ex media manager, Joe Parscale: licenziato dal tycoon mesi fa, ha minacciato di suicidarsi.

Il segretario Usa alla riconquista dei voti cattolici

Mike Pompeo arriva in Vaticano con un solo scopo: riconquistare il fronte cattolico Usa vicino a Papa Francesco che si è schierato per Joe Biden. La missione che Donald Trump ha affidato al Segretario di Stato ha come obiettivo le prossime elezioni presidenziali americane. Il cardinale arcivescovo di Newark, Joseph William Tobin, nativo di Detroit, legatissimo a Bergoglio, ha detto apertamente che i cattolici possono “votare in coscienza per Biden” nonostante sia favorevole all’aborto. Un endorsement che ha letteralmente diviso in due l’episcopato americano con il cardinale arcivescovo di New York, Timothy Michael Dolan, papabile nel conclave del 2013, da sempre accanto al presidente repubblicano. Il fronte conservatore dei cattolici americani, infatti, è da sempre schierato con Trump sostenendo che, benché Biden si professi cattolico, la sua politica abortista non può essere sostenuta da un credente

La visita di Pompeo nei sacri palazzi è stata alimentata dalle polemiche della vigilia con il duro attacco del braccio destro di Trump all’imminente rinnovo dell’accordo tra la Santa Sede e la Cina. Il Segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin, ascolterà le obiezioni di Pompeo in un colloquio al quale parteciperà anche il segretario per i rapporti con gli Stati, monsignor Paul Richard Gallagher. Ma Parolin, che nel 2007 fu il principale ghostwriter della lettera di Benedetto XVI ai cattolici cinesi, è convinto che le polemiche sull’accordo con Pechino siano solo il pretesto col quale Pompeo vuole fare campagna elettorale anche in Vaticano. A differenza di un anno fa, non ci sarà il faccia a faccia tra il Papa e il Segretario di Stato. La richiesta di un’udienza non è stata mai formalizzata, anche perché Francesco non avrebbe accettato di ricevere Pompeo a poche settimane dalle elezioni.

La diplomazia Usa ha evitato di ricevere un rifiuto dal Papa che sarebbe suonato come un’ulteriore presa di distanza tra la Santa Sede e la Casa Bianca. La sua agenda vaticana, però, è comunque abbastanza fitta. Pompeo parteciperà al simposio intitolato “Fare avanzare e difendere la libertà religiosa internazionale attraverso la diplomazia”. L’evento è organizzato dall’ambasciata degli Usa presso la Santa Sede guidata da Callista Gingrich, moglie di Newt Gingrich, ex presidente della Camera e tuttora figura di peso dei repubblicani. Parolin e Gallagher parteciperanno al simposio, mentre il giorno successivo riceveranno Pompeo nella prima loggia del Palazzo Apostolico Vaticano.

Tempo fa, un endorsement per Trump arrivò anche dall’ex nunzio negli Stati Uniti, monsignor Carlo Maria Viganò. Una figura scomoda perché il diplomatico vaticano, ormai in pensione, si è schierato apertamente contro Bergoglio accusandolo di aver coperto gli abusi sessuali del’ex cardinale Theodore Edgar McCarrick, che è stato arcivescovo di Washington e uomo potentissimo delle gerarchie della Chiesa cattolica. Viganò arrivò perfino a chiedere le dimissioni di Francesco che, invece, quando ha accertato la gravità dei reati commessi da McCarrick, non ha esitato prima a togliergli la porpora e poi a ridurlo allo stato laicale. Ma c’è di più, perché da tempo il fronte conservatore dei cattolici americani, profondamente deluso dal pontificato di Bergoglio, sta lavorando per ipotecarne il successore. Dolan ha inviato a tutti i cardinali elettori in un eventuale conclave, ovvero che non hanno ancora compiuto 80 anni, il volume dal titolo eloquente: The Next Pope. A scriverlo è stato George Weigel, biografo di San Giovanni Paolo II e da sempre molto critico nei confronti di Francesco, esponente anche lui di quella Chiesa conservatrice americana che si dice delusa da Bergoglio. Un volume che, prima dell’estate, è arrivato anche sulla scrivania di Parolin che sarà pronto a replicare alle obiezioni di Pompeo sul pontificato di Francesco.

Qualcosa di nuovo sul Fronte occidentale

Non sarà una svolta, ma sicuramente è un riallineamento. La frase di Luigi Di Maio l’altra sera durante l’intervista a Che tempo che fa, una volta sarebbe stata scontata, oggi no: “Nel futuro dobbiamo restare saldamente legati all’Ue e agli Stati Uniti. Con l’Est e con la Cina dobbiamo dialogare, anche per sostenere il nostro export, ma nei nostri valori c’è l’Occidente”. Una dichiarazione di fedeltà atlantica che farà piacere al Segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, che domani arriva a Roma per una visita in Vaticano e per incontrare sia Giuseppe Conte che Di Maio.

Pompeo, ex direttore della Cia, è un fedelissimo di Donald Trump e la visita permetterà all’Italia di ribadire una rinnovata continuità in politica estera. Anche se la richiesta degli Usa di avere garanzie nel rapporto con la politica cinese delle telecomunicazioni, la rete 5G, verrà utilizzata da Di Maio per chiedere in cambio il sostegno sul dossier libico.

L’offensiva di Trump sulle telecomunicazioni

La visita costituisce una risposta a quella del ministro degli Esteri cinese, Wuang Yi di un mese fa. Anche Pompeo sonderà gli alleati per avere certezze sul sostegno al piano statunitense di contenimento cinese sulla rete 5G. Gli Usa hanno infatti varato il programma Clean Network che, come si legge nella presentazione ufficiale del Dipartimento di Stato, punta “alla salvaguardia delle risorse della nazione da intrusioni aggressive da parte di attori maligni, come il Partito comunista cinese”.

L’Italia ha definito la questione con vari passaggi, l’ultimo avvenuto la settimana scorsa in una riunione ristretta a Palazzo Chigi in cui si è valutato positivamente l’assetto normativo di cui l’Italia si è dotata negli ultimi tempi – in particolare il Golden Power, che consente al governo di intervenire negli accordi che le aziende stipulano con partner internazionali e che rischiano di incrinare la sicurezza nazionale – i cui standard di sicurezza appaiono al governo “molto elevati”. In quella riunione, Di Maio ha avuto una forte convergenza con un atlantista di ferro come il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini e con il ministro per gli Affari europei, Vincenzo Amendola. Un trittico inedito a cui Giuseppe Conte ha affidato la pratica, compatto nel considerare la sicurezza nazionale “una priorità”. Nessuna preclusione nei confronti delle aziende cinesi, ma “piena consapevolezza dei potenziali rischi connessi alle nuove tecnologie e della necessità di adottare sempre nuove iniziative che rafforzino il livello di protezione”.

Un asse con la Turchia sul dossier libico

Questo è quanto si offrirà a Pompeo, sperando che possa bastare. La guerra commerciale con la Cina, il cui surplus commerciale con gli Usa supera i 300 miliardi di dollari, è un punto chiave della strategia di Trump. Non è detto che quanto l’Italia offrirà possa bastare. Pompeo, ad esempio, potrebbe chiedere di interrompere i progetti già avviati con Huawei. Una risposta, già pronta del governo, è che servirebbe comunque un intervento a livello Ue.

Il supporto agli Usa verrà però utilizzato per richiedere un corrispettivo sul fronte libico a cui gli Usa si sono per lo più disinteressati e su cui la nostra diplomazia vuole concentrare gli sforzi. Washington ha sostenuto l’intervento turco che, in difesa del governo di Al Serraj, ha riempito Tripoli di militari e intelligence approfittando delle indecisioni europee. Il sostegno indiretto passa tramite i buoni rapporti Usa con il ministro dell’interno di Tripoli, Fathi Bishaga, prima estromesso e poi reintegrato da Serraj, e che tiene i legami con Ankara. L’Italia per una certa fase ha cercato di fare da ponte tra il governo di Tripoli e le milizie del generale Khalifa Haftar (sostenuto da Francia ed Egitto). Ma ora, dopo le sconfitte subìte da Haftar sul campo e l’impasse che si è determinata, acquista di nuovo forza un supporto a Serraj, e alla presenza turca, benedetti proprio dagli Usa. In questo senso Di Maio chiederà a Pompeo una maggiore presenza politica e diplomatica, immaginando un maggior ruolo italiano in Europa (sia verso la Francia che verso la Germania).

Il rapporto con la Turchia non è certo agevole vista la crisi che si è sviluppata nel Mediterraneo orientale a seguito della pretesa di Ankara di sfruttare le risorse energetiche del sottosuolo marino e l’inevitabile scontro con la Grecia e Cipro che ne beneficiano attualmente. L’Italia in questa vicenda non sostiene Ankara, anche perché difende specifici interessi dell’Eni nello sfruttamento delle risorse energetiche di quelle acque, ma vuole lavorare a una soluzione di compromesso. E di questo si occuperà lo stesso Pompeo che, prima di arrivare a Roma sarà ad Atene per cercare di offrire una soluzione.

Il quadro dell’incontro descrive quindi una politica estera italiana piuttosto distante dalle linee tracciate dal primo governo Conte che appaiono ormai lontane. La moderazione impressa da Di Maio va avanti da diverso tempo – si dice che il suo rapporto con l’ambasciatore Usa Lewis Eisenberg sia “ottimo” – ed è frutto della nuova linea del M5S, degli equilibri trovati con il Pd, e costituisce un’ulteriore prova della progressiva evoluzione dei 5Stelle o, almeno, una loro parte.

Tra Washington e Pechino un nuovo equilibrismo

Se però non si vogliono deteriorare i rapporti con la Cina, ma anche con la Russia, la linea tracciata obbliga il governo e la Farnesina a un inedito equilibrismo. Si sente infatti ancora l’eco dell’enfasi posta sulla “Via della Seta” e sull’apertura degli spazi commerciali con Pechino. Come tutte le diplomazie, anche quella italiana gradirebbe non rompere con nessuno dei contendenti internazionali. Va anche sottolineato però che, per effetto del Covid, le grandi potenzialità sulla “Via della Seta” non si sono ancora manifestate, nonostante gli allarmi sulla penetrazione cinese in Italia (si veda la campagna di Repubblica da quando Maurizio Molinari ne è il direttore) e le speranze di ripresa economica vengono riposte più sulla rotta atlantica che su quella orientale. In ogni caso, la politica estera italiana torna dove era sempre stata. Una notizia buona per la stabilità del governo Conte (anche se la stampa nazionale preferisce descrivere il M5S come perennemente anti-sistema) meno buona per chi pensava che si potesse inaugurare un nuovo corso.

“Sta funzionando: ma questa gente sa di cosa parla?”

Elena Granaglia, docente di Scienza delle Finanze a Roma Tre e membro del Coordinamento del Forum Disuguaglianze. È in corso un assalto al Reddito di cittadinanza, secondo lei è una misura perfettibile?

Sì, ma non va snaturato. La misura ha funzionato, ci sono tre milioni di beneficiari, la povertà si è ridotta. In Italia mancava: esiste in tutti i Paesi d’Europa.

Prima critica: la soglia è troppo alta.

Quella del Reddito di inclusione era 187 euro, non dignitosa. La soglia del Rdc, 780 euro individuali, è quella della povertà relativa indicata da Eurostat, non l’hanno inventata i 5Stelle. Oggi il Rdc penalizza moltissimo le famiglie numerose e non va bene, ma si può risolvere con più risorse o abbassando un po’ la soglia.

Seconda critica: va anche agli evasori.

Può essere, ma il problema è il Rdc o l’evasione? Come diceva il sociologo Albert Hirschman, quando vari una misura, devi decidere da che parte sbagliare. Basta migliorare i controlli. O aboliamo il Servizio sanitario perché lo usano pure gli evasori?

Mezzo arco politico ritiene che sia troppo assistenziale e che non aiuti a trovare il lavoro.

Fioccano articoli che dicono che è un flop perché non attiva abbastanza persone al lavoro, che al Nord le imprese non trovano ingegneri qualificati… Ma hanno idea di chi sono i percettori del Rdc? Se il lavoro è decoroso, difficile che vi rinuncino. Ma forse dobbiamo intenderci su cosa sia decoroso…

Cito il governatore emiliano Stefano Bonaccini: “Serve dare un assegno per poco e poi farli alzare dal divano e farli andare a lavorare”.

È una narrazione che si basa sull’aneddotica, non ha nulla a che fare con i dati. Quelli europei dicono che i poveri vogliono lavorare e comunque è sbagliato valutare il successo di queste misure solo dal lato del lavoro.

Perché?

In tutta Europa il successo di queste misure dal lato delle politiche attive è molto basso rispetto al contrasto alla povertà. Anche in Germania se le dovessimo valutare sotto questo profilo sono degli insuccessi. L’obiettivo è prima di tutto il sostegno al reddito, a questo servono le misure anti-povertà. Che, peraltro, sono solo l’ultimo passo. Non si può contrastare la povertà solo con trasferimenti monetari, ma nel processo economico che la genera. Dobbiamo pensare a come produciamo e distribuiamo il valore aggiunto e creiamo occupazione di qualità. Oggi questa manca, non è un problema del Rdc.

Perché c’è tanta ostilità verso questa misura?

È una conseguenza della cultura lavorista, l’idea che solo il lavoro ti definisca. E anche dell’impoverimento del Paese, meno disposto a misure anti-povertà. La politica è ostile al Rdc, siamo stati gli ultimi in Europa ad averlo introdotto.

Il Rdc ha troppe condizionalità?

In parte sì. Vanno ridotte quelle patrimoniali: abbiamo 10 milioni di persone che hanno risparmi per un mese. Anche quella di fare lavori socialmente utili la trovo ingiusta: se non c’è lavoro, perché obbligarti a quello gratuito solo perché la collettività ti aiuta? La collettività siamo noi: se ci va bene finanziamo con imposte programmi anti povertà e se ci va male ne godremo. E così che funziona il welfare.

Assalto al Reddito, ecco i dati. Altro che flop: manca il lavoro

Il Reddito di cittadinanza è finito (di nuovo) nelle ultime ore davanti al plotone di esecuzione. E finché a scagliarsi contro la misura anti-povertà è la ministra renziana Teresa Bellanova, abituata a far proprie le critiche piovute da destra, poco cambia. Ma questa volta sembra che a volerci mettere mano sia direttamente il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. In realtà, più che cambiarne i connotati, pare che l’intenzione del premier sia iniziare a fare sul serio con le sanzioni per chi rifiuta offerte di lavoro, già previste dalle norme ma scarsamente applicate nella sostanza per la lentezza con cui si sono messi in moto i centri per l’impiego. Così è stato concepito lo strumento voluto dal Movimento Cinque Stelle. Finora è finito nelle tasche di oltre tre milioni di persone, contribuendo nel 2019 a ridurre del 9% la povertà in Italia. Ma ha una seconda – e forse troppo ambiziosa – missione: trovare un lavoro a chi lo prende. Questa è ancora in alto mare e tanto basta ad agitare i detrattori che parlano di flop. Non è mai stato comunicato né dall’Anpal né dalle Regioni il numero di offerte lavorative proposte ai beneficiari né tantomeno il numero di posti creati dalla misura. L’unica certezza è che i sanzionati per non aver firmato il patto del lavoro sono 21 mila.

Quanto ai posti creati, sappiamo che 196 mila percettori del reddito hanno firmato un contratto dopo aver iniziato a percepire l’assegno mensile. Cifra che va inserita nel contesto: il mercato del lavoro è stato piatto nella seconda parte del 2019 e – a causa del lockdown – dopo marzo è crollato, segnando a luglio quasi 500 mila occupati in meno rispetto al pre-Covid. I 200 mila assistiti dal Reddito che si sono attivati e sono riusciti a ritagliarsi qualche opportunità – sebbene quasi sempre precaria – non indicano che il sussidio sia un disincentivo al lavoro. A oggi non è chiaro quanti di questi posti siano nati esclusivamente grazie ai centri per l’impiego e ai navigator e quanti no. Guardando alle poche Regioni in grado di dirlo, sembra che un quarto, o al massimo un terzo dei rapporti di lavoro sottoscritti da chi riceve il Reddito sia da intestare all’opera degli ex uffici di collocamento. In Abruzzo 4.893 fruitori hanno trovato lavoro, ma solo 1.362 sono stati avviati dai centri per l’impiego. In Liguria 1.618 su 4.054, in Friuli Venezia Giulia 782 su 2.124. Negli altri casi è il disoccupato a trovarsi da solo un’opportunità. Si tratta, come detto, di dati parziali perché non esiste un monitoraggio complessivo.

La cosiddetta Fase 2 ha avuto un iter molto travagliato. È iniziata a settembre con l’inserimento dei 3 mila navigator, ma a marzo – vista l’emergenza Covid – è stata sospesa la condizionalità, cioè il meccanismo che fa perdere il sussidio a chi rifiuta un lavoro. La chiusura dei centri per l’impiego ha rallentato le convocazioni e i colloqui. Basti pensare che in alcune Regioni solo il 10% dei beneficiari ha un proprio pc, quindi l’assistenza a distanza è stata impossibile. Oggi, su oltre un milione di persone tenute al patto del lavoro, 318 mila lo hanno firmato. I navigator hanno reperito 220 mila opportunità tra le offerte di lavoro e i corsi di formazione.

Al momento, dunque, il reddito ha fornito più ossigeno che opportunità per il milione e 300 mila famiglie coinvolte. Da quel punto di vista, il successo è stato rapido: all’inizio del 2020 aveva già aiutato 2,5 milioni di persone. Sembrava il target definitivo, ma poi la crisi Covid ha portato a una rapida crescita fino alle cifre attuali. Sarebbe stato molto più difficile gestire le conseguenze sociali del lockdown senza uno strumento già operativo.

Non si fermano comunque gli attacchi di chi – facendo leva su singoli casi di cronaca – sostiene che il Reddito spinga al lavoro nero e all’evasione. Per il momento non abbiamo dati che lo confermino. L’Ispettorato del Lavoro, però, conosce i nomi dei beneficiari del sussidio di cittadinanza – a differenza di quelli interessati da altre misure assistenziali – e può svolgere i controlli con una certa efficacia. Nel 2019 ha beccato 599 fruitori occupati in nero, ma il tasso di irregolarità riscontrato nelle aziende non è cresciuto rispetto al 2018, quando il reddito di cittadinanza non esisteva. C’è poi la continua lamentela degli imprenditori, secondo i quali i disoccupati sono diventati dei fannulloni. Un ritornello che soprattutto i titolari del turismo avevano inaugurato già negli anni precedenti.

“Proporzionale senza liste bloccate e con soglia al 3%”

Gaetano Azzariti, costituzionalista della Sapienza, ha sottoscritto la petizione per una legge elettorale che restituisca ai cittadini il diritto di scegliere i loro rappresentanti. “Oltre alla legge elettorale”, spiega, “anche altre questioni al centro del dibattito vanno affrontate con la dovuta radicalità se si vuole realmente concorrere a superare la crisi in cui versa da tempo il Parlamento. Ad esempio la questione dei regolamenti parlamentari: mi sembra ci si voglia accontentare di una riforma minimale”.

Andranno corretti, o no?

Certo, ma non ci si può limitare a dire che il numero delle commissioni parlamentari va ridotto: questa è un’ovvietà. Ci sono altre questioni che impediscono il funzionamento del parlamento: i maxi emendamenti, l’abuso della fiducia, i tempi contingentati. Il Parlamento non deve solo provare a sopravvivere, deve riaffermare il proprio ruolo autonomo. Poi si dovrebbero affrontare anche problemi strutturali: il ruolo dei partiti e la questione del bicameralismo. Oggi nessun partito – dai 5Stelle alla Lega passando per il Pd – riesce a più a svolgere adeguatamente la funzione di reale rappresentanza politica che la costituzione assegna loro.

E sul ruolo delle Camere?

Vedo molta confusione sotto il cielo. Abbiamo due leggi costituzionali in discussione che tendono ad annullare le differenze tra le due Camere, tramite l’equiparazione a 18 anni dell’età per l’elettorato attivo nei due rami del Parlamento e l’abbandono della base regionale per l’elezione in Senato. Poi, però, il Pd presenta un disegno di legge che punta a differenziare il bicameralismo.

Veniamo alla questione più urgente: la legge elettorale. Proporzionale o maggioritario?

Proporzionale senz’altro: votai contro il maggioritario nel referendum del ’93. In vent’anni di maggioritario il sistema si è dimostrato fallimentare rispetto agli obiettivi che si proponeva: la grande promessa della governabilità è stata tradita. Dovremmo finalmente prenderne atto.

Chiediamo l’abolizione delle liste bloccate, ma l’altro sistema possibile, quello delle preferenze, è anch’esso criticato perché favorisce le clientele.

L’attuale disegno di legge in discussione, il Brescellum, mi lascia perplesso perché estende il sistema delle liste bloccate. Si corre il rischio di non rispondere a una chiara indicazione della Corte che ha affermato sia necessario lasciare un margine di scelta all’elettore.

Quindi preferenze?

Non necessariamente. Esse possono innescare una impropria competizione tra le fazioni di una stessa lista. Aumenterebbero inoltre i costi delle campagne elettorali per i singoli candidati: con collegi ampi poi! Prevedibile l’aumento del pericolo della “compravendita” dei voti di preferenza. Sarebbe preferibile seguire una terza via: il collegio uninominale con il sistema proporzionale. In passato ha dato buoni risultati: è questo il modello della legge 29 del 1948, quello che ha permesso le elezioni dei senatori fino al ’93. Normalmente l’uninominale si associa al maggioritario. Qui si parla di un sistema proporzionale con piccoli collegi (tanti quanti sono i rappresentanti da eleggere). Il vantaggio è che responsabilizza i partiti, che sceglieranno quale candidato presentare; si rafforza poi il rapporto tra elettori e territorio, nonché indirettamente quello tra partito e territorio.

Qual è il difetto di questo sistema?

Il limite è che essendo un sistema proporzionale, i seggi sono distribuiti in proporzione ai voti riportati dai partiti e assegnati in base alla cifra individuale (cioè i voti ottenuti in rapporto al numero degli elettori del collegio). È possibile pertanto che chi vince nel singolo collegio poi non venga eletto.

Sbarramento al 5: è troppo alto?

Sì. Andava bene con una Camera di 650 deputati, ma ora, con la riduzione dei parlamentari, si è già alzata la soglia implicita per accedere ai seggi. Aggiungo che in alcune regioni che eleggono pochi senatori, la selezione naturale porta a escludere tutte le forze minori, senza bisogno di alcuna soglia. Se proprio si deve, la soglia accettabile è al 3 per cento.