I big del lavoro in affitto ora assaltano la sanità

Fino a 280 milioni di euro. Tanto è il valore del maxi-appalto per la fornitura di personale sanitario che Aria, l’Agenzia di acquisto della Regione Lombardia, sta per assegnare a tre big del lavoro interinale, GI Group, Manpower e Randstad, che, riunite in un Raggruppamento temporaneo di imprese (Rti) si sono aggiudicate tre lotti su quattro. Un appalto – che prevede la fornitura di personale medico, infermieristico, specialistico e amministrativo a tutte le Ats e Asst della Lombardia per 36 mesi, prolungabili per ulteriori 36, da 140 milioni a triennio – sul quale aleggia più di un interrogativo. A differenza delle gare simili in altre Regioni (Toscana, Sardegna, Basilicata e Friuli-Venezia Giulia), il Pirellone non ha posto limiti al numero di lotti aggiudicabili dallo stesso soggetto. Altra peculiarità è che il bando non prevedeva una divisione territoriale ma per figure professionali, scelta che ha escluso gran parte delle società di piccole e medie dimensioni, spianando la strada a GI Group, Manpower e Randstad.

La storia dell’affidamento parte nel 2013, quando l’Ospedale Ca’ Granda Niguarda, nella veste di Centrale acquisti, bandiva un appalto per la somministrazione di personale sanitario di durata triennale per le aziende sanitarie di Milano e Monza Brianza. Appalto aggiudicato e più volte prolungato in attesa della pubblicazione del bando nuovo, che arriva nel 2018, sempre gestito da Ca’ Granda Niguarda. Tuttavia Manpower, Adecco, Randstad e GI Group (le quattro big dell’interinale che, insieme, rappresentano circa il 45 % del mercato) lo impugnano, lamentando l’illegittimità della clausola sociale e l’antieconomicità del margine di guadagno a favore delle agenzie, pari a 1,10 euro per ora/lavoro, non sufficiente, secondo loro, a coprire i costi. Il Tar accoglie il ricorso e l’appalto così riparte da zero. Nel 2019 la nuova gara, gestita questa volta da Aria, che prepara più o meno lo stesso capitolato di Niguarda, ma con due differenze: toglie il limite dei lotti e divide la gara per professioni. Conferma invece il margine di 1,10 euro/ora, che è ritenuto congruo.

Ad aggiudicarsi i tre lotti principali della nuova gara è così la Rti di GI Group, Manpower e Randstad, mentre il quarto lotto, di soli 2,7 milioni, va a Synergie. Da subito gli esclusi chiedono chiarimenti, sottolineando la sovrabbondanza di una Rti composta da tre società che avrebbero potuto partecipare alla gara singolarmente, ma invece hanno preferito unirsi, con buona pace della concorrenza. Un’accusa pesante che corre sotto traccia, senza che nessuno si rivolga al Garante per la concorrenza, l’unico in grado di indagare su una supposta Rti sovrabbondante. Forse per paura di opporsi ai tre giganti. Aria, da parte sua, ha assicurato che avrebbe effettuato una verifica delle ragioni della costituzione del Rti e che, se si fossero evidenziati motivi di incompatibilità, avrebbe escluso il concorrente. Ma l’assegnazione del bando è “in valutazione” dai tecnici di Aria dal 15 novembre 2019: valutazione assai complessa, evidentemente.

Caccia all’infermiere: la Germania recluta i nostri “eroi” precari

Sul sito dell’ospedale Maria Hilf di Mönchengladbach, in Germania, scorrono le immagini e le parole di Andrea e Marco. Il primo è di Niscemi, in provincia di Caltanissetta. Il secondo, di Palermo. E dice: “Ero stanco di passare da un contratto a tempo all’altro”. Andrea e Marco sono infermieri. Da alcuni anni lavorano al Maria Hilf, mezz’ora di auto da Düsseldorf: 754 posti letto, 17 reparti specialistici, 2.500 dipendenti. Un grande complesso sanitario che è solo uno dei tanti ospedali tedeschi, pubblici e privati, a caccia di infermieri italiani. Il Maria Hilf ha persino creato un’agenzia, in Italia, per reclutarli. “Quest’anno ne abbiamo già selezionati una ventina su circa sessanta di candidati”, dice Valerio Gruessner, consulente dell’ospedale. Il 50% è costituito da neolaureati in Scienze infermieristiche. Poi ci sono gli over 50. “I primi sanno che le opportunità di un lavoro stabile in Italia sono poche e così vengono da noi – prosegue Gruessner – e anche i secondi scappano da anni di contratti di lavoro con partita Iva, senza tutele né diritti. E in fondo, paradossalmente, la questione della busta paga è l’ultima delle considerazioni”.

La campagna di reclutamento avviata dalla Germania è in corso da alcuni anni, ma con l’emergenza sanitaria si è intensificata. Si cercano infermieri a Berlino, Amburgo, Monaco, Francoforte. Per i reparti di terapia intensiva e per quelli geriatrici, così come per le sale operatorie. Prima si indirizzavano soprattutto su romeni e portoghesi, poi hanno puntato sugli italiani, “che riescono a integrarsi meglio”, spiega Gruessner. Il fatto è che sul piatto i tedeschi mettono tutto ciò che il sistema sanitario italiano spesso non riesce a offrire: un contratto di lavoro a tempo indeterminato, sovente vitto e alloggio gratuiti, uno stipendio base che parte da un minimo di 2.800 euro lordi e che, tra straordinari, indennità e specializzazione, può arrivare a 4.500 (vale a dire, dai 2.500 ai 3.000 netti). Poi ci sono i corsi intensivi di tedesco. Retribuiti pure quelli. Mentre in Italia un infermiere trova mediamente in busta paga 1.410 euro.

E poi, soprattutto, c’è la questione della precarietà. Nel nostro Paese vivono appesi a un filo in oltre 16mila, tra contratti a tempo determinato (quando va bene) e collaborazioni libero-professionali. “Anche in piena emergenza, per rinforzare gli organici, le aziende sanitarie hanno utilizzato varie forme contrattuali pur di non assumere stabilmente: e ognuna si è mossa per conto proprio”, dice Antonio De Palma, presidente del sindacato Nursing Up. “Li abbiamo chiamati angeli, eroi. E adesso li accompagniamo al confine. Se ne vanno prima di tutto in Germania. Ma la richiesta arriva anche da Regno Unito e Lussemburgo, perché la formazione italiana è considerata molto qualificata”.

La Germania ha carenza di personale sanitario: la fondazione tedesca Bertelsmann ha stimato che entro dieci anni mancheranno all’appello 350mila infermieri. Ma anche l’Italia non è messa bene: secondo la Fnopi (Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche), ne servirebbero almeno 53mila in più. “Anche io, come tanti miei colleghi precari, ho pensato di accettare un posto in Germania… mi ha frenato il pensiero di avere distante la mia famiglia”, spiega Anna (il nome è di fantasia), rappresentante sindacale che chiede l’anonimato perché teme ritorsioni. Anna è un’infermiera precaria – da ben 21 anni – all’ospedale di Lanciano, in provincia di Chieti. “Ho anche vinto un concorso, ma l’azienda non ha fatto scorrere la graduatoria e tutto è fermo. Ho dovuto anche accettare un contratto da interinale… Ora ho un contratto a tempo determinato in scadenza. Con una retribuzione mensile tra i 1.300 e i 1.500 euro, dipende dagli straordinari. Siamo tutti demoralizzati…”.

Le Regioni hanno adesso trovato un accordo: sanatoria con un concorso che destina il 50% dei posti ai precari. “Attenzione, però: nell’accordo si parla di facoltà e non di obbligo a prevedere questa riserva”, osserva De Palma. “E io mi domando se sia normale scegliere la strada del concorso per tanti precari che, da tanto tempo in corsia, spesso senza tutele, hanno dovuto affrontare anche l’emergenza Covid”.

 

“L’antinfluenzale riduce i rischi del Coronavirus”. “Carenza di dosi”

I medici di famiglia, in questi giorni, consigliano ai loro assistiti di fare il vaccino antinfluenzale. Servirà, dicono il ministero della Salute e le Regioni, anche a ridurre gli accessi ai servizi sanitari di persone con sintomi simili a quelli del Covid-19. Così lo consigliano anche a chi è fuori dalle categorie a rischio, che sono gli over 65 (o 60, a seconda delle Regioni), il personale sanitario, i bambini da 6 mesi a 6 anni e i malati cronici. In alcune Regioni (Lazio, Calabria, Campania) c’è addirittura l’obbligo. “Per proteggere le persone più a rischio dobbiamo vaccinare il più possibile anche altri, riducendo la circolazione del virus”, spiega Roberto Ieraci, direttore dell’Uoc Vaccinazioni dell’Asl Roma 1.

C’è di più: uno studio dei ricercatori del Centro cardiologico Monzino di Milano, pubblicato dalla rivista Vaccines di Basilea, conclude che nelle aree dell’Italia in cui c’era una più alta copertura vaccinale antinfluenzale degli over 65 si sono registrati meno contagi, meno ricoveri in terapia intensiva e meno morti nei mesi drammatici del lockdown. “Abbiamo stimato – osserva Mauro Amato, ricercatore del Centro cardiologico Monzino e primo autore dell’articolo – che un aumento dell’1% della copertura vaccinale negli over 65, che equivale a circa 140.000 dosi a livello nazionale, avrebbe potuto evitare 78.560 contagi, 2.512 ospedalizzazioni, 353 ricoveri in terapie intensive e 1.989 morti per Covid-19”. Nelle scorse settimane la tesi che le vaccinazioni “allenano il sistema immunitario” contro tutte le infezioni, Covid-19 compreso, era stata sostenuta da Mario Mantovani, immunologo dell’Humanitas di Milano, l’italiano più citato nella letteratura scientifica internazionale, sulla base di uno studio pubblicato sul New England Journal of Medecine con il collega olandese Mihai Netea.

Ora però, secondo la Fondazione Gimbe, non ci sono abbastanza dosi di antinfluenzale. “La maggior parte delle Regioni non dispongono di scorte adeguate – dice Nino Cartabellotta di Gimbe –, alcune non possono garantire il 75% di copertura alle categorie a rischio”, obiettivo minimo della campagna. L’anno scorso furono distribuite 12,5 milioni di dosi, coprendo il 54,6% degli over 65, dal 37% di Bolzano al 67 della Basilicata, passando per il 49 della Lombardia e il 53 del Lazio.

Quest’anno le Regioni ne hanno acquistate 17,9 milioni, ma solo le classi d’età per le quali il vaccino è raccomandato ovunque (over 65 e 6 mesi-6 anni) contano 19,98 milioni di persone, aggiungendo gli over 60 sui arriva a 20,8 milioni. E ancora bisogna aggiungere i lavoratori della sanità e gli under 60 affetti da patologie respiratorie, i cardiopatici, i diabetici, gli immunodepressi e i malati di tumore.

Sette Regioni e due Province autonome, secondo Gimbe, non ne hanno abbastanza per il 75% delle classi d’età a rischio: Trento (70,2%), Piemonte (67,9%), Lombardia (66,3%), Umbria (61,9%), Molise (57,1%), Valle d’Aosta (51,5%), Abruzzo (49%), Bolzano (38,3%), Basilicata (29%). Le altre 12 coprono il 75% del target per età, ma mentre Lazio e Puglia ne hanno circa un milione per gli altri, perfino l’Emilia-Romagna ne ha appena 9 mila dosi supplementari. E il problema non sarà tanto, o non solo, quello delle quantità: “Avremo semmai difficoltà logistiche, stiamo moltiplicando i centri di vaccinazione, la campagna che iniziava a novembre quest’anno parte il 1° ottobre e dura fino a gennaio – spiega Ieraci da Roma – perché certo non possiamo mettere 100 persone in una sala d’attesa. Sarà il banco di prova del vaccino Covid che arriverà nel 2021”. Rumoreggiano le farmacie, che non hanno abbastanza dosi da vendere a chi non ha diritto al vaccino gratuito: le Regioni ne cederanno 250 mila dosi, ne arriveranno altre.

Tridicoli

Tra un conato di vomito e l’altro per questa ributtante polemica sul non-caso Tridico per lo stipendio di 150mila euro lordi, vorremmo rivolgere un consiglio non richiesto. Non ai politici indignati, che non lo capirebbero (a menare il torrone sono parlamentari perlopiù fancazzisti che prendono 360-400mila euro l’anno, compresi quelli della Lega che ha fatto sparire 49 milioni). Ma ai “giornalisti” che da tre giorni mentono sapendo di mentire e si arrampicano sui vetri pur di tenere il non-scandalo sulle prime pagine, nelle rassegne stampa e sui social: ragazzi, vi state coprendo di ridicolo molto più del solito, perché lo capisce anche uno scemo che non fate più informazione, ma rastrellamenti. Sarebbe molto meno sputtanante stilare una lista di indesiderati da eliminare – chiunque appartenga ai 5Stelle o sia stato nominato dai 5Stelle o piaccia ai 5Stelle o abbia incontrato una volta per caso un 5Stelle – anziché andare a stanarli caso per caso, anzi casa per casa. La gente non è cretina: a furia di vedere dove finiscono le vostre accuse di rubare o truffare o mafiare a chiunque porti quel marchio d’infamia, capisce il giochino. Ci avete provato con Conte: tutte balle. Con Bonafede: tutte balle. Con la Raggi (e la Muraro): tutte balle. Con Di Maio e famiglia: tutte balle. Con la Azzolina: tutte balle. Ora, nel copione dei dieci piccoli grillini, tocca a Tridico: tutte balle.

La prima pietra la scaglia Repubblica, quella della “macchina del fango” e delle “fake news”. Titolo di sabato: “Tridico si alza la paga con effetto retroattivo: 150mila euro, il 50% in più del suo predecessore Boeri”. Tre balle in una: non se l’è alzata lui, ma un decreto ministeriale; non ha alcun effetto retroattivo; e i 150mila euro sono lo stesso costo del predecessore Boeri (che ne prendeva 103mila più 45mila di rimborsi per casa e trasferte, mentre finora Tridico incassava la metà: 62mila). Titolo di domenica: “Quei compensi dei vertici finanziati grazie ai tagli sulle cartelle ai pensionati”. Altra balla: i risparmi per gli aumenti di stipendi non vengono dal taglio delle “buste arancioni” (peraltro sospese da prima che arrivasse Tridico), cioè del capitolo “Spese posta massiva”, ma da quello dei capitoli “Spese postali, telegrafiche e telefoniche” e “Manutenzione e noleggio impianti e macchine”. Il resto lo fanno gli house organ di B. e Salvini, che una volta tanto si limitano a copiare Repubblica. Giornale: “Tridico senza vergogna. L’Inps è un disastro, ma lui pensa solo a raddoppiarsi la paga”. Libero: “Tridico non paga gli italiani, ma si raddoppia lo stipendio”, “Grillini zombie e avidi di denaro”, “Ecco i grillini arricchiti”. Verità: “Il presidente Inps si è raddoppiato lo stipendio”.

Idem Corriere e Messaggero. Un perfetto gioco di squadra, anzi da plotone d’esecuzione: Rep spara la prima raffica e gli altri il colpo di grazia. Seguono approfondite indagini su chi è stato a perpetrare l’orrendo delitto di dare al presidente Inps lo stipendio più basso mai visto per un dirigente pubblico. Fino al 2014 il presidente Mastrapasqua intascava 1,2 milioni. Tuttora 32 dirigenti Inps di prima fascia (su 40) guadagnano 240mila euro e centinaia di dirigenti di seconda fascia più dei 150mila di Tridico. Che sono 90mila in meno del tetto fissato dalla legge (240mila) per i dirigenti pubblici e del giusto stipendio (sempre 240mila) fissato per lui dal software usato dalla PA per stabilire i compensi dei Cda. Il problema s’è posto perché nel marzo 2019 il Conte 1 riformò la governance di Inps e Inail, cancellando i superpresidenti-commissari creati da B. nel 2010 e ripristinando i Cda. Nel periodo transitorio, Tridico divenne presidente con pieni poteri, ma dovette dividersi lo stipendio del predecessore Boeri (103mila) col vice Adriano Morrone imposto dalla Lega (62 a lui e 41 a Morrone). A giugno il ministero del Lavoro fissò gli stipendi per i presidenti di Inps e Inail non appena si fossero insediati i Cda: 150mila. Poi il governo cadde e i due Cda si insediarono solo il 15 aprile 2020. Il 7 agosto i ministri Gualtieri e Catalfo firmarono il dl interministeriale che confermava i nuovi compensi: non per iniziativa di Tridico, ma per una legge dello Stato, e per nulla retroattiva al 2019 (versione Repubblica&C.), ma a decorrere dall’insediamento della nuova governance (15 aprile ’20).

Questi sono i fatti. Che però non interessano a nessuno, perché riguardano l’informazione: nei rastrellamenti non si va tanto per il sottile. Tridico uguale 5Stelle, uguale Reddito di cittadinanza, uguale bonus ai poveri anziché ai padroni dei giornali e dell’Italia: quindi raus! E guai se qualcuno, come Stefano Fassina, osa difenderlo: finisce bersaglio della macchina del fango di Repubblica, con Stefano Folli che sproloquia di “comportamento approssimativo e opaco”, “modo poco trasparente e obliquo”, “zone d’ombra”, “aspetti meschini” e altre scemenze. Intanto Sebastiano Messina delira di una fantomatica “Doppia morale 5Stelle sui soldi”: come se le battaglie contro gli scandalosi megastipendi, pensioni d’oro e vitalizi a spese dei contribuenti confliggessero con la decorosa retribuzione riconosciuta a Tridico. A proposito: se 150mila euro al presidente dell’Inps (26mila dipendenti) sono troppi, siamo curiosi di conoscere gli stipendi degli indignatissimi direttori di quotidiani con poche centinaia o decine di giornalisti. Così magari se li tagliano. O si costituiscono.

Com’era pop Palermo – Il sogno musicale del 1970

I primi a dare forfait furono i Pink Floyd, stanchi dei silenzi dell’Azienda autonoma di Turismo, e a ruota seguirono i Led Zeppelin (che concessero solo il logo per il manifesto) e i Rolling Stones. Ma sul palco della Favorita di Palermo, Aretha Franklin, recuperata in albergo ubriaca e spedita al microfono, e Duke Ellington, insieme a Tony Scott e Johnny Halliday, e alle star nazionali, da Bobby Solo ai Ricchi e Poveri, a Little Tony e alle giovanissime Loredana Bertè e Giuni Russo, allora con il suo vero nome Giusy Romeo, riuscirono a realizzare il miracolo voluto da Joe Napoli, manager italoamericano originario di San Giuseppe Jato: trasformare per tre giorni il capoluogo siciliano in una Woodstock mediterranea, davanti le telecamere di sette emittenti europee (e una brasiliana).

Sex, drug e rock and roll nella Palermo cupa dell’inizio degli anni ’70, mentre l’Italia, devastata da piazza Fontana (dicembre ’69), era già entrata negli anni di piombo, e la città avrebbe celebrato due mesi dopo l’elezione di Vito Ciancimino, il primo sindaco mafioso: quell’happening di 80 mila palermitani alla scoperta di amore e musica, oggi rievocato nel bel libro Quando Palermo sognò di diventare Woodstock (Navarra editore) di Sergio Buonadonna, già capocronista al giornale L’Ora e poi al traguardo di carriera a capo dei servizi culturali del Secolo XIX di Genova, ebbe l’effetto di una parentesi magica, una festa di liberazione collettiva di una Palermo appena sfiorata dal vento del ’68 che aveva attivato neuroni e portato minigonne, alimentando sogni di trasgressione che l’immaginazione aveva amplificato: il celebre documentario di Woodstock, cui aveva lavorato anche Martin Scorsese, non era ancora arrivato in Italia, e ci si doveva affidare ai racconti di Napoli e di Silvana Paladino, di ritorno dall’happening americano.

Ma fu anche un pugno nello stomaco a una città chiusa nei circoli elitari del potere e disincantata nelle borgate e nelle periferie dalla brutale aggressione politico-mafiosa al territorio, fino a illudere una generazione di sinistra fricchettona che sulle note del Duke, i suoi sogni di trasgressione e libertà, infranti sei anni dopo a Parco Lambro, a Milano, potessero coinvolgere i giovani proletari palermitani, reclutandoli alla causa di Marx.

In realtà, come ha detto lo stesso Buonadonna presentando martedi scorso il libro a Palermo, quei giovani della “città che si veste male” (ma non solo loro), cercavano “scagghiola”, efficace metafora lessicale per definire l’approccio con l’altro sesso. Questo non tolse pathos, sorprese e perfino scandalo al festival, da quello astutamente atteso dal manager Napoli, dello spogliarello integrale di Arthur Brown, in ossequio alla sua filosofia della purificazione del corpo attraverso il fuoco, immediatamente prelevato e denunciato dall’allora commissario Boris Giuliano, che sul contrasto al traffico internazionale di droga ci lascerà la vita, ucciso in un bar dal boss Leoluca Bagarella. E di un’altra trasgressione (per quei tempi), questa volta dietro le quinte, non si ebbe per poco una prova visiva: l’obbiettivo del fotografo dell’Ansa Nino Sgroi, ha rivelato l’autore, sorprese una starlette impegnata in camerino in un blow job con due musicisti di Duke Ellington ma il suo dito non scattò quella foto. Se fu imbarazzo o deontologia, non lo sapremo mai.

Seguì la stessa sorte di Arthur Brown, trascinato dal commissario Arlotta in questura, il cantautore siciliano Franco Trincale, che in quegli anni cantava nelle fabbriche con gli operai, “colpevole” di avere gridato al microfono “Nixon boia”, parole uguali a quelle incise nei suoi dischi allora venduti in tutta Italia. Era originario di Militello Val di Catania, compagno di classe di Pippo Baudo (“in chiesa lui suonava l’organo e io cantavo”) e al paese natio oggi gli è stato dedicato un museo. “È forse per non oscurare Baudo – ipotizza Buonadonna – che hanno prima accettato e poi rifiutato una presentazione del libro a Militello”.

E spinto dalla sua carica di umanità dietro le quinte arrivò pure Mauro De Mauro, il giornalista de L’Ora che sarebbe rimasto vittima della lupara bianca due mesi dopo: aveva accompagnato un pittore, sfortunato e spiantato, desideroso di regalare un proprio quadro a Duke Ellington.

Tre mesi dopo Palermo elesse sindaco Ciancimino, Joe Napoli tentò per due anni di replicare il festival, ma i fallimenti successivi consegnarono alla storia l’unicità del Pop ’70.

“Scrivimi le parole mai dette”. E il lavapiatti diventa una star

Sulle cartoline americane della pandemia ci sono pensieri tristi. E dicono: “Ho mentito all’unica donna che amo”. “Non posso scegliere le memorie che rimangono”. “Vorrei non sentire la necessità di scrivere qui. Un giorno, forse”. “Sono fottutamente stanco di essere preso in giro”. “Mio padre ha perso il lavoro per il Covid-19 e, anche se mi sorride, gli leggo la paura negli occhi”. “Mi rendi sempre difficile perdonarti”. Sono alcune delle frasi che donne e uomini d’America hanno spedito nei giorni più bui del lockdown al lavapiatti che passa la vita tra i tavoli di un bar a San Francisco. Sono migliaia, le riflessioni d’Oltreoceano giunte al fotografo filippino che fa lo sguattero in California. Tutto è cominciato con un post di Instagram: la domanda, senza punto interrogativo, era “Cose che volevi dire e non hai mai detto”, formulata quando a seguire Geloy Concepcion non erano decine di migliaia di persone.

Raccogliere frasi e foto, scarti e i silenzi della terra a stelle e strisce che si è confessata a lui in modo anonima, è una forma d’arte e di indulgenza “per documentare la vita reale delle persone”, dice Geloy. Ha gli occhi scuri come i capelli e le sue fotografie, quando scatta in bianco e nero. Quasi sempre si immortala con sua figlia tra le braccia, come parte integrante del suo ritratto personale.Lo sguardo da straniero se l’è portato dietro da Manila: “Io sono il risultato dei primi 25 anni trascorsi in quella città, finché nel 2017, il giorno del compleanno di mia figlia, sono venuto a San Francisco in cerca di una vita diversa, siamo rinati insieme nello stesso giorno, ero un neonato anche io nel nuovo mondo in cui ero appena entrato”. Durante la quarantena obbligatoria, per via del lockdown, ha smesso di avvicinarsi alle persone per fotografarle. Allora ha suggerito che lo facessero da sole, nel periodo in cui il virus obbligava tutti alla solitudine. Alcune missive per Geloy dicono: “Durante la quarantena mi sono ritrovato a navigare nel mio passato, l’unico posto sicuro in cui possa andare”. “Al mio io giovane: ti perdono”. “Ho paura che non sarò mai coraggioso abbastanza per abbandonare questo posto”.

Sono traumi in forma scritta di destini gracili, frugali, ingenui, quasi tutti dolorosi, a volte dispersi per rabbia cronica: ma alcuni, nello spedire il loro dolore al fotografo, confessano di sentirsi liberati o “sollevati da un peso, che quando è condiviso con altri, diventa più leggero”, dice Geloy. Il collezionista di esistenze unisce lettere e foto che riceve, poi le rilascia nel web da dove sono venute, permettendo che si raggrumino dove tutti possano leggerle. Sono parole che gli sono arrivate addosso come una marea che non ha fermato, ma a cui ha dato un ordine.

L’idea del progetto gli è venuta mentre leggeva messaggi senza firma che “una mano segreta, in un luogo nascosto”, aveva scritto sui muri delle città che ha attraversato: “Piccole rivelazioni che non so chi ha composto”. Invece di collezionare frasi impresse su strade vere, sbarrate per il Covid-19, ha cominciato a camminare in quelle virtuali e c’è rimasto per un po’.

Altre note: “Molti genitori farebbero qualsiasi cosa per i loro figli, tranne lasciare che siano se stessi”. “Sono stato adottato e amato, ma non so a cosa appartengo”. “Nemmeno in un milione di anni augurerei ai miei nemici i demoni che ho in testa”. Geloy con testi ed immagini in arrivo dall’Alaska al Texas sta creando il “santuario”, la casa delle cartoline americane a cui sono stati affidati traumi che le persone non volevano più trascinarsi dietro, mentre il virus serpeggiava tra la popolazione. “Geloy: ritratti a distanza”: questo è il titolo dell’articolo dedicato al ragazzo di strada finito sul Philippine Star, uno dei giornali più venduti della patria che ha abbandonato per fame, povertà e qualcosa che chiama “vibrazioni e caos di Pandacan”, quartiere più duro di Manila, “dove sin dall’infanzia devi avere a che fare con le persone di strada”.

Con le cose che gli americani non hanno detto, non diranno e non si dicono, progetta di creare un libro, informa uno dei suoi ultimi post. Se gli chiedi durante l’intervista se ha qualcosa da confessare pure lui, come tutti quelli che l’hanno già fatto, risponde che se accadrà “aggiungerà una nota anonima, in mezzo a tutte le altre”.

Ora Beethoven suona il piffero contro chi fa la rivoluzione

Quanto accaduto a Chabarovsk, nell’estremo oriente russo, potrebbe servire da esempio, e dare qualche idea, al ministro francese dell’Interno, Gerald Darmanin, che progetta di ripensare tutto il sistema di mantenimento dell’ordine pubblico in Francia.

L’esempio di cui parliamo viene da Chabarovsk, grande città di 600 mila abitanti, a 8.200 chilometri e sei giorni di treno da Mosca. Non si tratta di ricorrere a un agente nervino come il Novichok per eliminare gli oppositori, come quello utilizzato per tentare di avvelenare il dissidente russo Alexey Navalny. Si tratta questa volta di ricorrere alla musica, e nel caso specifico a Beethoven, per mettere a tacere i manifestanti annegando con le note i loro slogan.

Sabato 19 settembre, migliaia di persone sono tornate a manifestare nelle strade di Chabarovsk per protestare, come fanno ormai da metà luglio, contro il regime e contro il recente arresto del governatore della loro regione, Sergey Furgal, che è stato immediatamente sostituito con un uomo del Cremlino. Settimana dopo settimana, quello che era sembrato in un primo tempo un caso a carattere locale, relegato a una città lontana, ma che spesso si ribella agli ordini di Mosca, assume via via una dimensione sempre più nazionale e politica.

Gli slogan dei manifestanti non prendono più di mira solo il nuovo governatore nominato dal Cremlino e il sindaco della città. Adesso attaccano direttamente anche il presidente russo, Vladimir Putin, che, al grido di “Libertà!”, viene invitato a “ritirarsi” e “ad andarsene”. “Non ce ne andremo da qui”, “Ridateci il nostro voto”, scrivono i manifestanti sui loro striscioni. Chiedono anche il ritorno di Sergey Furgal, l’ex governatore della regione, arrestato lo scorso 9 luglio – pochi giorni dopo il voto sulle riforme costituzionali volute da Putin – dalle forze dell’ordine federali con l’accusa di aver commissionato una serie di omicidi nei primi anni Duemila, prima di diventare governatore.

Accuse che sono state scoperte convenientemente solo dopo la sua elezione. Sergey Furgal, del partito ultranazionalista Ldpr, il partito Liberal-democratico di Russia, che ha passato due mesi in una prigione di Mosca, era stato eletto a pieni voti nel 2018, battendo a sorpresa il candidato del partito presidenziale Russia Unita, Vyacheslav Shport, raccogliendo al ballottaggio il 69,5% dei voti. Un’enorme débâcle per il Cremlino, che fu molto commentata all’epoca. Tanto più che Fourgal è stato per molto tempo deputato alla Duma federale e ha ottenuto importanti riconoscimenti per il suo lavoro di legislatore. In molti ritengono che le accuse contro di lui siano una costruzione politica.

Sabato 19, il nuovo raduno a Chabarovsk doveva essere seguito da un meeting in piazza Lenin, la piazza centrale della città dove si trovano la sede del governatore e il municipio. Secondo il sito web di informazione locale Dvhab.ru, diverse migliaia di persone sono confluite verso il centro di Khabarovsk e questo malgrado la pioggia battente che ha creato inondazioni in diversi quartieri. Avevano previsto di intonare al megafono slogan come “Putin Staritchok (“vecchio”), bevi del Novichok”. Ma è tutta un’altra musica ad aver accolto i manifestanti in piazza Lenin, dove era stato installato un potente impianto di amplificazione: dai grandi altoparlanti usciva la musica di Ludwig van Beethoven.

Le autorità hanno spiegato che era stato deciso di celebrare adeguatamente il 250° anniversario della nascita del celebre compositore tedesco. Eppure l’evento non era mai figurato su nessun programma della città. Su Twitter è stato fatto notare al zelante comune che Beethoven non era nato il 19 settembre, ma il 16 dicembre 1770.

Alcuni sono rimasti stupiti anche per il fatto che era stato diffuso persino l’“Inno alla gioia”, inno ufficiale dell’Unione europea. “Non ci arrenderemo!”, si mettono dunque a gridare i manifestanti, cercando di far sentire la loro voce. Il giornalista di Dvhab.ru, presente sul posto, fa notare in diretta che “la musica classica viene trasmessa sulla piazza a un volume impressionante”. Non appena la musica si interrompe, anche se per alcuni istanti, i manifestanti riprendono a intonare gli slogan: “Governo, vergogna”, “Andatevene via”, “La Germania risveglia Navalny dal coma, Chabarovsk risveglia la Russia!”, canta la folla. Ma le sinfonie di Beethoven tornano di nuovo a uscire dagli altoparlanti a tutto volume. “La musica era così alta che le persone possono parlarsi solo gridando”, osserva il giornalista. Gli attivisti del movimento di Alexander Navalny, il partito democratico del Progresso, a cui è stato vietato di partecipare alla corsa per le elezioni del 2018, e principale oppositore di Putin, avevano lanciato un appello a votare per a Sergei Furgal, nonostante quest’ultimo fosse membro dell’Ldpr, il partito di Vladimir Zhirinovskij, pur di battere il candidato del Cremlino.

Il 19 erano in piazza Lenin anche loro a filmare e a trasmettere in diretta la manifestazione. Una delle principali, numerose, richieste dei manifestanti è che Sergei Furgal possa avere un processo equo e per questo che venga rilocalizzato da Mosca a Chabarovsk. A questo stadio pare evidente che il fascicolo contro Furgal sia stato inventato di sana piana. Se la sentenza sarà pronunciata a Mosca sembra inevitabile che l’ex governatore sarà condannato a diversi anni di prigione. Da due mesi a questa parte, il Cremlino non sa più come fare per arginare una contestazione che non mostra alcun segno di stanchezza. Il recente scandalo Navalny e la rivolta popolare in Bielorussia potrebbero anzi contribuire ad alimentare la contestazione ancora di più. Da parte sua, Alexandre Navalny non intende starsene zitto e moltiplica i suoi interventi. Sabato ha pubblicato un nuovo post su Instagram spiegando come sta andando la sua guarigione e i suoi problemi di memoria. “La strada è libera, ma il cammino sarà lungo e complicato – ha scritto –. Appena qualche giorno fa, non ero neanche in grado di riconoscere le persone e non riuscivo più a parlare, non sapevo dove trovare le parole. Ora, sono uno di quei tipi a cui tremano le gambe quando salgono le scale, ma che almeno sta pensando: ‘Oh, ma sono scale! Le persone le usano per salire! Io forse dovrei cercare un ascensore’. Restano dunque ancora molti problemi da risolvere, ma gli straordinari medici dell’ospedale La Charité di Berlino hanno risolto il problema principale”. Le analisi di laboratorio hanno confermato che Navalny è stato avvelenato con il potente agente nervino Novichok. I suoi sostenitori hanno, da parte loro, dato una nuova versione di come sarebbe andato l’avvelenamento del dissidente russo. Non tramite la tazza di tè bevuta in un bar dell’aeroporto di Tomsk, prima di imbarcarsi, come si è ipotizzato in un primo tempo, ma attraverso una bottiglia di acqua minerale trovata nella camera d’albergo dove Navalny aveva passato la notte. Non appena sono stati informati del malore di Navalny, subito dopo il decollo, i suoi assistenti hanno raggiunto immediatamente la camera d’albergo e l’hanno perquisita, prelevando tutti gli oggetti e gli indizi possibili.

La ricerca era stata filmate e il video postato su Instagram. Tutti gli oggetti, comprese le bottiglie d’acqua, erano stati inviati in Germania per essere analizzati e su una delle bottiglie sono state identificate tracce di novichok. “Abbiamo pensato subito ad un avvelenamento – ha spiegato il team di Novalny –. Sapevamo che non ci sarebbero state indagini in Russia o che gli indizi sarebbero stati distrutti, di qui la nostra scelta di inviarlo in Germania”. La Russia non ha ancora aperto un’inchiesta sul caso Novalny.

Traduzione di Luana De Micco

Basta austerità. Il mondo anglosassone riscopre (da destra) il ruolo dello Stato. La sinistra si svegli

I tempi dell’impero britannico sono lontani, ma il mondo anglosassone continua a dettare grandi cambiamenti mondiali. La ricostruzione dell’economia dopo lo choc Covid richiede pragmatismo, una dote che non manca ai sudditi di Sua Maestà. E gli ultimi sviluppi ne sono la prova.

È di pochi giorni fa la notizia che il governo australiano (conservatore) darà priorità nella legge di bilancio alla riduzione della disoccupazione, invece che a quella del debito pubblico.

Non sono più i tempi di Tony Abbott, il leader dei Liberali che parlava di “emergenze di bilancio” e “deficit disastrosi”. Oggi il ministro del Tesoro Josh Frydenberg (anche lui liberale) afferma che il governo non inizierà a ridurre il debito pubblico e il deficit prima che la disoccupazione sia “abbondantemente” scesa sotto il 6%. L’austerità “rischierebbe di danneggiare la ripresa economica”, dice.

In Australia si sono resi conto che per ripristinare la fiducia serve una nuova strategia fiscale. È necessario lasciar funzionare liberamente gli stabilizzatori automatici (cioè lasciar scendere le tasse e salire la spesa) e continuare a fornire un supporto fiscale mirato per sostenere il settore privato.

Un “cambiamento ideologico”, lo ha definito il parlamentare liberale Andrew Laming. Secondo lui si tratta addirittura di “una versione diluita della Modern Monetary Theory”, una teoria economica di stampo progressista sempre più popolare.

Anche nella madrepatria britannica l’austerità e la fede cieca nel libero mercato sono sul banco degli imputati. Paradossalmente, i laburisti si trovano a inseguire a sinistra Boris Johnson, che ha promesso una ripresa guidata dallo Stato. Vedremo se alle parole seguiranno i fatti, ma nel frattempo la risposta economica del Regno Unito al Covid è stata fra le più forti d’Europa. Il cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak, insediatosi subito prima della pandemia, ha fatto approvare piani d’emergenza che ammontano a quasi 400 miliardi di sterline fresche. E oggi il suo consenso è alle stelle.

A fine giugno Johnson ha lanciato il motto “build, build, build”, annunciando massicci investimenti nei servizi pubblici, nell’abitativo, nei trasporti e nella scienza. Il primo ministro britannico è stato chiaro: “Non risponderemo a questa crisi con ciò che le persone chiamano austerità”. Con una precisazione che fa sorridere: “Non sono un comunista”.

Ma c’è di più. Uno dei punti più caldi nelle infinite trattative per la Brexit riguarda gli aiuti di Stato. Johnson vorrebbe che il governo recuperasse la possibilità di sostenere l’economia senza sottostare a norme troppo rigide. Uno dei progetti in cantiere è un’agenzia scientifica statale sull’esempio della Darpa americana, madre di tante innovazioni a stelle e strisce.

Il mondo anglosassone sta riscoprendo la programmazione economica, soprattutto a destra. Una sveglia per le sinistre europee, sempre più confuse e senza punti di riferimento. Un esempio per molti Paesi che cercano una nuova strategia economica. Insomma, un cambio di paradigma.

 

Erdogan danza sul fallimento e fa tremare le banche europee

“Fate quello che volete, il vostro rating non ha nessuna importanza”. Il 10 settembre scorso il presidente Recep Tayyip Erdoga ha risposto così al nuovo downgrade del debito pubblico da parte dell’agenzia Moody’s. Per molti commentatori italiani abituati da anni a valutare la sostenibilità del debito pubblico in base al semplice dato numerico, quello della Repubblica di Turchia – che in punti di Pil è meno della metà di quello tedesco – potrebbe sembrare del tutto sicuro. Ma non è così, il debito pubblico turco è a livello spazzatura perché l’economia nel suo complesso è affetta da anni da gravi squilibri macroeconomici.

La crescita dell’ultimo decennio si è basata prevalentemente sul credito facile delle banche, che raccoglievano capitali in valuta estera sui mercati internazionali e li impiegavano all’interno, non solo per migliorare la capacità produttiva del Paese, ma anche per finanziare i consumi dei privati e le speculazioni edilizie delle imprese. Questo modello di crescita ha iniziato a scricchiolare due anni fa quando, complice la crisi di altri Paesi emergenti, si è registrata una fuga di capitali per le preoccupazioni sulla sostenibilità dell’indebitamento privato accumulato. La lira turca si è deprezzata, le banche hanno avuto difficoltà a rifinanziare i loro prestiti internazionali e la banca centrale è dovuta intervenire per offrire liquidità all’interno e stabilizzare il cambio, vendendo riserve valutarie ed alzando i tassi di interessi di oltre 15 punti. Queste misure ebbero successo, calmarono la fuga di capitali, raffreddarono l’espansione del credito all’economia, riportarono in attivo la bilancia dei pagamenti con l’estero e riuscirono a ristabilizzare il cambio. Come effetto collaterale però si è avuto un brusco rallentamento della crescita del Pil che nel 2019 è stata solo dello 0,9%, il livello più basso dalla grande recessione del 2008. Ma le gravi fragilità di due anni fa rimangono intatte e l’arrivo della crisi legata al Covid-19 le ha riportate all’attenzione di tutti.

Come in tutti gli Stati, anche in Turchia il governo ha varato una serie di misure fiscali per attenuare gli effetti del virus sull’economia. Il risultato però è stato un brusco peggioramento del saldo degli scambi con l’estero ed il riaccendersi delle pressioni sul cambio della lira. La Banca centrale, non potendo aumentare i tassi per non vanificare gli sforzi fatti dal governo al sostegno dell’economia, ha cercato di contrastare il deprezzamento della valuta vendendo riserve valutarie. Nel gennaio scorso le riserve valutarie nette della Banca centrale turca, cioè le riserve che poteva utilizzare al netto di quelle depositate dalle banche e dal governo e di quelle raccolte all’estero, erano positive per circa 18 miliardi di dollari. A luglio scorso erano invece negative per circa 42 miliardi. Tradotto: la Banca centrale in questi mesi ha dovuto vendere riserve per circa 60 miliardi di dollari e non ne ha più sufficienti per soddisfare tutti i propri creditori in valuta estera. Tutto questo impiego di mezzi non è però bastato. Il dollaro vale ormai il 30% in più rispetto a quanto valeva ad inizio anno e ci sono molti dubbi che il debito estero accumulato sia sotenibile.

Secondo Moody’s “è sempre più probabile che le vulnerabilità esterne della Turchia si cristallizzino in una crisi di bilancia dei pagamenti”. Una crisi in cui, esaurite le riserve valutarie, non si hanno più risorse per permettere al sistema bancario di onorare i prestiti in valuta, facendolo collassare, con il rischio concreto che questo porti con sé anche il default dello Stato e una depressione economica. Uno scenario che non sarebbe però confinato solo alla Turchia.

I settori bancari dei principali Paesi europei hanno forti interessi nel Paese. Sebbene abbiano ridotto notevolmente l’esposizione negli ultimi due anni, le banche dei principali 5 Paesi (Spagna, Francia, Germania, Italia e Gran Bretagna) hanno ancora un’esposizione superiore ai 120 miliardi di dollari. La Spagna – con oltre 60 miliardi, di cui più di 40 in capo al solo Banco di Bilbao – è nettamente quella più esposta.

Quindi la Turchia è spacciata? La storia di questi anni ha insegnato che il ruolo geopolitico del Paese (e l’appartenenza alla Nato) ha consentito più volte a Erdogan di rimandare l’appuntamento col destino. L’aumento dei tassi d’interesse deciso giovedì scorso è insufficiente a spegnere le pressioni ribassiste sul cambio e, dopo aver esaurito in pochi mesi i 15 miliardi di dollari messi a disposizione dalla banca centrale del Qatar, serviranno altre risorse valutarie per cercare una stabilizzazione. Il collasso di un’economia da 750 miliardi di dollari alle porte del Medio Oriente non conviene a nessuno, ma le tensioni con gli Usa e l’Ue sono un gioco molto pericoloso.

Inps. Da ottobre si usa lo Spid: non un sistema per vecchi…

Ai più la parola Spid non dirà quasi nulla. Eppure tra due giorni il sistema pubblico di identità digitale che permette di accedere ai servizi online della Pubblica amministrazione (s)travolgerà milioni di italiani che usufruiscono dei servizi erogati dall’Inps, che vanno dalle pensioni agli assegni familiari, dal bonus 600 euro al reddito di cittadinanza passando per l’Isee. Dal primo ottobre, infatti, lo Spid diventerà l’unico canale di accesso al sito dell’Istituto della previdenza sociale che non rilascerà più il tradizionale Pin. I cittadini già in possesso del vecchio sistema, però, lo potranno ancora utilizzare durante la fase di transizione tra Pin e Spid. Novità sostanziale visto che il portale Inps registra circa un milione di accessi al mese (il primo aprile, quando il sito andò in tilt per la richiesta del bonus 600 euro, superarono i 3 milioni), ma la maggior parte di questi utenti non hanno ancora sottoscritto l’identità digitale. Del resto la storia dello Spid è lunga e travagliata. Pilastro del piano Renzi-Madia per la semplificazione 2015-2017, il sistema Spid è partito nel 2016. Il governo prevedeva di collegare entro un anno circa 10 milioni di utenti. Ma solo tre settimane fa si è raggiunto questo traguardo su spinta del ministero per l’Innovazione tecnologica e della pandemia che ha aumentato esponenzialmente le richieste per accedere alle misure di sostegno previste dai vari decreti. Passando per due prove durissime che hanno mandato in crisi il sistema: l’obbligo di usare lo Spid per richiedere l’app 18 e la Carta del docente. Lo Spid però resta un servizio per “giovani”: lo possiede il 28% di chi ha tra 18 e 24 anni, mentre il 23% è nella fascia 45-54 anni.

È chiaro che scegliere un’unica modalità di autenticazione per accedere ai servizi della Pa sia la pratica migliore per sicurezza e privacy. Ma questo si scontro con un’età media italiana avanzata. Sarà, insomma, difficile (anche per via della procedura) che gli over 65 riescano a usare lo Spid per accedere al sito dell’Inps, continuando a preferire l’aiuto a pagamento di Caf e commercialisti. Decisamente peggio è andata con il bonus Vacanze, il cui flop ha avuto come motivazione ufficiosa anche la difficoltà di accesso all’app Io a cui si accede esclusivamente tramite lo Spid.