Come si passa in qualche anno dal violoncello di Rostropovich sotto al muro di Berlino e dalla resa incondizionata della fu Germania Est a Goodbye Lenin, alla Ostalgie (la nostalgia della DDR) o a quel sondaggio di marzo secondo cui il 93% dei tedeschi orientali è scontento di come avvenne l’unificazione? Facile, basta tenere a mente un nome: Treuhand, ovvero il trust che si occupò di privatizzare tutta (tutta!) l’economia della Germania Est alla caduta del socialismo reale.
Passati trent’anni esatti dall’unificazione anche in Germania, con le usuali timidezze, cominciano a fare i conti con quel fallimento: un working paper appena pubblicato dal CESifo di Monaco (The big sell, La grande vendita) avanza educatissime critiche alle scelte di quel periodo, una docu-serie pubblicata su Netflix venerdì (A perfect crime) ricorda uno dei suoi episodi più oscuri, l’assassinio irrisolto nell’aprile 1991 dell’allora capo della Treuhand, Detlev Rohwedder. Il pubblico italiano interessato alla questione, però, conosce già quella storia: merito di un bel libro di Vladimiro Giacché, Anschluss (l’annessione), uscito per la prima volta nel 2013 e tradotto anche in tedesco.
Partiamo da un riassunto grossolano: il muro di Berlino “crolla” nel novembre 1989, decine di migliaia di tedeschi dell’est vanno a ovest e la DDR inizia a implodere politicamente; è nel 1990 che si decide di procedere all’unificazione delle due Germanie e in un modo – a partire dalla sciagurata adozione del marco occidentale il 1° luglio – che alla lunga farà felice solo l’ovest, la Repubblica federale. Le merci della ex DDR finirono fuori mercato, la ricchezza delle famiglie passò dal valere 193,4 miliardi di marchi orientali a 129,1 miliardi di D-Mark: i soldi persi, si disse, saranno recuperati assegnando a ciascun cittadino buoni rappresentativi dell’ingente patrimonio pubblico della Germania Est. E qui veniamo alla Treuhand, che quel patrimonio fu chiamata a gestire e a privatizzare a passo di carica: The big sell, appunto, la grande (s)vendita. Ovviamente, sia detto per dovere di cronaca, i cittadini dell’est di quei soldi non videro un pfennig.
Dal 1° luglio 1990 Treuhand diventa proprietaria di tutte le fabbriche e le imprese statali (4,1 milioni di occupati): 8.500 tra Kombinat e singole imprese; 20mila esercizi commerciali, 7.500 trattorie e ristoranti, 900 librerie, 1.854 farmacie, 3,7 milioni di ettari di superfici agricole e forestali, un enorme patrimonio immobiliare. A quel punto bisognava decidere cosa risanare, cosa privatizzare, cosa liquidare: si scelse di vendere il buono, liquidare il resto, risanare nulla sulla base del principio che se i prodotti non avevano mercato all’Ovest non avevano mercato e basta. Alla fine solo il 10% delle aziende dell’est fu giudicata risanabile, i corridoi della Treuhand si affollarono di ogni genere di avventurieri, persino bancarottieri già condannati, in cerca di affari facili garantiti dai soldi pubblici (sì, Germania, non la Cassa del Mezzogiorno): alla fine l’87% delle imprese fu venduto a tedeschi occidentali, il 7% a stranieri e solo il 6% rimase all’Est.
Mantenere viva l’economia della ex DDR non era una priorità per il governo di Helmut Kohl: furono realizzati solo il 5% dei 200 miliardi di investimenti promessi, mentre un fiume di denaro fu concesso in dote ai compratori dopo la privatizzazione (155 miliardi di marchi secondo il governo, 268 secondo Treuhand).
Qualche esempio di come andarono le cose. La compagnia aerea Interflug aveva conti decenti, buone rotte e un aeroporto a Berlino: si decise, dopo averla tenuta a bagnomaria, di liquidarla; i diritti di scalo passarono a Lufthansa gratis. In liquidazione finì pure la Vereinigte Transport, compagnia di traporto statale con 56 società consorziate e 56mila addetti: era un monopolio, sancì il governo, andava smembrato. Nessun problema invece quando la catena di supermercati HO passò quasi in blocco al concorrente dell’Ovest Tengelmann: dagli scaffali sparirono i prodotti dell’est, gli agricoltori scesero in piazza (invano). Persino alla Foron, che in collaborazione con Greenpeace aveva appena prodotto il primo frigofero senza fluoroclorocarburi (tradotto: non inquinante), fu impedito di salvarsi: dava noia ai concorrenti dell’ovest. Lo stesso accadde a una miniera di potassio pregiato in Turingia: per il colosso Basf era un problema, fu chiusa.
Gli episodi sarebbero migliaia e non mancarono le mazzette, i soldi spariti all’estero, le coperture politiche del governo occidentale, né chi acquistò imprese a un marco, incassò i contributi e non produsse mai niente, limitandosi a rivendere le proprietà immobiliari. In numeri la Treuhand è stato questo: nel 1990 vantava proprietà per un valore di 600 miliardi di marchi, quando chiuse i battenti a fine 1994 lasciò un buco di oltre 250 miliardi non senza aver pagato, ad esempio, 1,3 miliardi di consulenze e 530 milioni di onorari ai liquidatori. Nessuno ha mai risposto di questo fallimento, neanche per gli episodi di vera a propria criminalità: a tutti fu concessa manleva legale dal governo Kohl.
I 4,1 milioni di lavoratori di quelle imprese, secondo un conto assai ottimista fatto dalla stessa Treuhand, erano nel frattempo scesi sotto il milione e mezzo. In trent’anni il divario tra le due Germanie non s’è chiuso affatto. Anche queste sono “le vite degli altri”.