La svendita della fu DDR agita la Germania di oggi

Come si passa in qualche anno dal violoncello di Rostropovich sotto al muro di Berlino e dalla resa incondizionata della fu Germania Est a Goodbye Lenin, alla Ostalgie (la nostalgia della DDR) o a quel sondaggio di marzo secondo cui il 93% dei tedeschi orientali è scontento di come avvenne l’unificazione? Facile, basta tenere a mente un nome: Treuhand, ovvero il trust che si occupò di privatizzare tutta (tutta!) l’economia della Germania Est alla caduta del socialismo reale.

Passati trent’anni esatti dall’unificazione anche in Germania, con le usuali timidezze, cominciano a fare i conti con quel fallimento: un working paper appena pubblicato dal CESifo di Monaco (The big sell, La grande vendita) avanza educatissime critiche alle scelte di quel periodo, una docu-serie pubblicata su Netflix venerdì (A perfect crime) ricorda uno dei suoi episodi più oscuri, l’assassinio irrisolto nell’aprile 1991 dell’allora capo della Treuhand, Detlev Rohwedder. Il pubblico italiano interessato alla questione, però, conosce già quella storia: merito di un bel libro di Vladimiro Giacché, Anschluss (l’annessione), uscito per la prima volta nel 2013 e tradotto anche in tedesco.

Partiamo da un riassunto grossolano: il muro di Berlino “crolla” nel novembre 1989, decine di migliaia di tedeschi dell’est vanno a ovest e la DDR inizia a implodere politicamente; è nel 1990 che si decide di procedere all’unificazione delle due Germanie e in un modo – a partire dalla sciagurata adozione del marco occidentale il 1° luglio – che alla lunga farà felice solo l’ovest, la Repubblica federale. Le merci della ex DDR finirono fuori mercato, la ricchezza delle famiglie passò dal valere 193,4 miliardi di marchi orientali a 129,1 miliardi di D-Mark: i soldi persi, si disse, saranno recuperati assegnando a ciascun cittadino buoni rappresentativi dell’ingente patrimonio pubblico della Germania Est. E qui veniamo alla Treuhand, che quel patrimonio fu chiamata a gestire e a privatizzare a passo di carica: The big sell, appunto, la grande (s)vendita. Ovviamente, sia detto per dovere di cronaca, i cittadini dell’est di quei soldi non videro un pfennig.

Dal 1° luglio 1990 Treuhand diventa proprietaria di tutte le fabbriche e le imprese statali (4,1 milioni di occupati): 8.500 tra Kombinat e singole imprese; 20mila esercizi commerciali, 7.500 trattorie e ristoranti, 900 librerie, 1.854 farmacie, 3,7 milioni di ettari di superfici agricole e forestali, un enorme patrimonio immobiliare. A quel punto bisognava decidere cosa risanare, cosa privatizzare, cosa liquidare: si scelse di vendere il buono, liquidare il resto, risanare nulla sulla base del principio che se i prodotti non avevano mercato all’Ovest non avevano mercato e basta. Alla fine solo il 10% delle aziende dell’est fu giudicata risanabile, i corridoi della Treuhand si affollarono di ogni genere di avventurieri, persino bancarottieri già condannati, in cerca di affari facili garantiti dai soldi pubblici (sì, Germania, non la Cassa del Mezzogiorno): alla fine l’87% delle imprese fu venduto a tedeschi occidentali, il 7% a stranieri e solo il 6% rimase all’Est.

Mantenere viva l’economia della ex DDR non era una priorità per il governo di Helmut Kohl: furono realizzati solo il 5% dei 200 miliardi di investimenti promessi, mentre un fiume di denaro fu concesso in dote ai compratori dopo la privatizzazione (155 miliardi di marchi secondo il governo, 268 secondo Treuhand).

Qualche esempio di come andarono le cose. La compagnia aerea Interflug aveva conti decenti, buone rotte e un aeroporto a Berlino: si decise, dopo averla tenuta a bagnomaria, di liquidarla; i diritti di scalo passarono a Lufthansa gratis. In liquidazione finì pure la Vereinigte Transport, compagnia di traporto statale con 56 società consorziate e 56mila addetti: era un monopolio, sancì il governo, andava smembrato. Nessun problema invece quando la catena di supermercati HO passò quasi in blocco al concorrente dell’Ovest Tengelmann: dagli scaffali sparirono i prodotti dell’est, gli agricoltori scesero in piazza (invano). Persino alla Foron, che in collaborazione con Greenpeace aveva appena prodotto il primo frigofero senza fluoroclorocarburi (tradotto: non inquinante), fu impedito di salvarsi: dava noia ai concorrenti dell’ovest. Lo stesso accadde a una miniera di potassio pregiato in Turingia: per il colosso Basf era un problema, fu chiusa.

Gli episodi sarebbero migliaia e non mancarono le mazzette, i soldi spariti all’estero, le coperture politiche del governo occidentale, né chi acquistò imprese a un marco, incassò i contributi e non produsse mai niente, limitandosi a rivendere le proprietà immobiliari. In numeri la Treuhand è stato questo: nel 1990 vantava proprietà per un valore di 600 miliardi di marchi, quando chiuse i battenti a fine 1994 lasciò un buco di oltre 250 miliardi non senza aver pagato, ad esempio, 1,3 miliardi di consulenze e 530 milioni di onorari ai liquidatori. Nessuno ha mai risposto di questo fallimento, neanche per gli episodi di vera a propria criminalità: a tutti fu concessa manleva legale dal governo Kohl.

I 4,1 milioni di lavoratori di quelle imprese, secondo un conto assai ottimista fatto dalla stessa Treuhand, erano nel frattempo scesi sotto il milione e mezzo. In trent’anni il divario tra le due Germanie non s’è chiuso affatto. Anche queste sono “le vite degli altri”.

Trappola “illiquidi”. Così banche e reti spremono i clienti

Non ci sono solo le società truffa a far perdere una montagna di soldi agli investitori. Il caso che sta facendo più discutere in Europa e facendo fare una figura barbina a molte autorità di controllo (francesi e inglesi in particolare) è quello dei fondi comuni H2O (del gruppo francese Natixis). Negli ultimi anni è stata una società superstar nelle performance ma nei mesi scorsi i suoi fondi sono stati al centro di una improvvisa ondata di riscatti con crollo delle quotazioni a causa della scoperta di una quota di investimenti illiquidi (ovvero senza mercato e possibilità di liquidarli) nei loro portafogli. La Consob francese ha imposto l’altolà a proseguire la distribuzione fino a metà ottobre (sottoscrizioni ma anche riscatti) poiché queste attività avevano superato ogni livello di guardia.

La società franco-inglese su pressione delle autorità francesi sta procedendo in queste settimane allo scorporo nei fondi delle attività liquidabili e quindi i risparmiatori fra poche settimane potranno negoziare le quote dei fondi “sani” mentre la restante parte rimarrà congelata fino a quando non si chiuderà la cessione sul mercato (potrebbero volerci mesi o anni) ed emergerà il reale valore dei bond non quotati (fra cui quelli dell’italiana La Perla) legati al discusso finanziere tedesco Lars Windhorst. Sono coinvolti anche investitori italiani visto che i fondi di questa società erano collocati da oltre 30 intermediari in Italia tra cui Azimut, Banca Generali, Bper, Bnl Bnp Paribas, Fineco, IWBank, Mediolanum e Widiba solo per citare i più grandi.

La vicenda H20 è un campanello d’allarme per i risparmiatori italiani sul fenomeno dei titoli illiquidi poiché numerose banche e reti stanno cercando di convincerli a puntare sui “mercati privati” o “alternativi” (ovvero spesso gli illiquidi) vendendo l’illusione che sia più facile ottenere “rendimenti maggiori, positivi e decorrelati”. Il campo dei miracoli di collodiana memoria insomma. Il gioco è molto rischioso perché investire in private equity, venture capital e private debt (e lo ha dimostrato il caso H20) non è sinonimo di successo finanziario assicurato e la dispersione dei rendimenti ottenuti ex post da questi fondi è elevatissima.

Giovanni Tamburi, uno dei finanzieri italiani di maggior successo nello scovare società sottovalutate (e accompagnarle spesso in Borsa, dove ha realizzato oltre 300 operazioni di fusioni e acquisizioni) non ha mancato di osservare che c’è parecchia presunzione da parte di consulenti e private banker a vendere questa ennesima favoletta ai risparmiatori.

Le ragioni che si nascondono dietro questo improvviso amore da parte di banche e reti verso gli illiquidi si spiegano con la necessità di fare profitti e “retention” ovvero “trattenimento” della clientela. Nel risparmio gestito cresce la compressione dei margini e l’infedeltà della clientela e riuscire a piazzare un prodotto finanziario di cui il sottoscrittore non può richiedere il riscatto magari per 10 anni addebitandogli costi del 3-4% annuo è per molte società la quadratura del cerchio. Per le banche fare profitti sul risparmio è l’unica voce sicura e condivisa nei piani industriali.

In “un’epoca dove tutto sta cambiando sempre più rapidamente queste strategie diventano spesso molto più rischiose e rinunciare alla liquidità va fatto solo se esiste un chiaro e acclarato vantaggio competitivo”, ha ricordato in questi giorni Louis Gave, uno dei più quotati strategist di Wall Street. Chi ricorda come sono andati a finire in tempi recenti i fondi immobiliari o i fondi di private equity collocati fra fine anni 90 e inizio 2000 nutre forti dubbi, considerando anche solo le pessime perfomance medie dei gestori di fondi d’investimento nel trattare gli strumenti “liquidi” come azioni e obbligazioni (lo dicono tutte le ricerche da 20 anni). A volte, meglio stare in panchina.

Gli squali (buoni) della finanza: “Spenniamo solo i truffatori”

L’americana Nikola Corp da pochi giorni è crollata in Borsa per le accuse di aver barato sui suoi camion elettrici. Dopo anni di denunce, a giugno il colosso tedesco dei pagamenti Wirecard è finito in bancarotta per uno scandalo contabile. A ottobre 2019 i vertici della società bolognese di bioplastiche Bio-On sono stati arrestati e l’impresa è fallita dopo che un’analisi ne ha svelato l’inconsistenza. A maggio 2018 la casa di moda greca Folli Follie è implosa per falso in bilancio. Sono solo alcune tra le vittime più recenti dei fondi ribassisti, la nuova specie di predatori della finanza che smaschera aziende decotte o fraudolente e fa utili grazie al tracollo delle loro azioni. Le praterie dove questi operatori colpiscono si sono allargate grazie alla corsa delle Borse che negli ultimi 11 anni hanno quintuplicato il loro valore, trainando però spesso anche titoli gonfiati. Se in passato i loro gestori analizzavano mercati e imprese e ne attendevano i ribassi, ora invece passano all’attacco e scatenano i crolli pubblicando rapporti su inefficienze o truffe. Ma non sempre tutto fila liscio.

Chi vende allo scoperto ama il rischio: dopo analisi finanziarie e valutazioni legali, prende in prestito le azioni di una società, le vende e poi le fa crollare con un report. A quel punto le riacquista a un valore più basso e le restituisce ai prestatori. Il guadagno sta nella differenza tra il prezzo di vendita dei titoli e quello inferiore di riacquisto. Ma i regolatori temono gli “shortisti” perché scatenano la volatilità e possono danneggiare aziende sane. Perciò gli Usa nel 2005 e l’Unione Europea nel 2012 hanno regolato le vendite allo scoperto vietando quelle “nude” (effettuate senza possedere o aver preso in prestito i titoli) e sanzionando quelle basate su informazioni riservate. Oltre certe soglie di capitale, le posizioni ribassiste vanno poi rese pubbliche e in situazioni particolari possono essere vietate: l’ultimo caso è del 18 marzo quando, per arginare il crollo scatenato dall’epidemia, la Consob ha vietato per tre mesi le vendite allo scoperto su tutto il listino di Borsa.

Ma i predatori aumentano. Un’analisi su 290 campagne ribassiste condotte tra il 1996 e il 2015 mostra che le operazioni sono triplicate dopo la crisi finanziaria del 2008. Secondo la società Activist Insight, dal 2013 sono 198 i fondi shortisti attivi: 105 hanno sede negli Usa, 14 in Asia e 13 nel Regno Unito, mentre di 51 non si conosce la nazionalità. L’attività è esplosa nel biennio 2015-16 con 373 operazioni. Nel 2019 le iniziative sono scese a 119 e quest’anno lo stop deciso per il Covid-19 ha lasciato spazio solo a 67 campagne. I profitti realizzati restano un mistero.

In vetta tra i ribassisti nel 2019, secondo Activist Insight, c’è il fondo americano Muddy Waters specializzato nell’opaco mercato asiatico. L’azienda non deve il nome al padre del blues ma a un proverbio cinese: “È nelle acque fangose che si catturano più pesci”. L’anno scorso la società ha lanciato cinque campagne contro prede che in media capitalizzavano 7,1 miliardi di dollari: a dicembre 2019 ha attaccato la multinazionale ospedaliera emiratina Nmc Health, tra le prime 100 della Borsa di Londra, svelandone debiti fuori bilancio per 2,7 miliardi di dollari. L’8 aprile Nmc è fallita.

Al secondo posto c’è Hindenburg. Il nome rimanda volutamente alla tragedia del dirigibile tedesco bruciato il 6 maggio 1937 nel New Jersey causando decine di morti: “Cerchiamo disastri artificiali simili che fluttuano sul mercato per far luce prima che attirino altre vittime ignare”, spiega la società. Il fondo specializzato in analisi finanziaria svela al Fatto il suo approccio: “Non sempre facciamo screening su molte aziende, piuttosto cerchiamo problemi nella gestione o manager recidivi già passati in altre società discutibili e coinvolti in pratiche da ‘cartellino rosso’. Se sospettiamo una frode, la segnaliamo alla Sec”, l’autorità di vigilanza Usa. Nel 2019 il fondo ha lanciato sei campagne contro target con una capitalizzazione media di 2,1 miliardi, tra le quali la società norvegese di software Opera e lo specialista canadese di realtà aumentata NexTech Ar Solution. A marzo e aprile ha messo nel mirino Predictive Technology e Sc Worx, entrambe sospese in Borsa dopo che il fondo ha rivelato che i loro annunci di nuovi test per il coronavirus erano fasulli. Ma il bersaglio grosso Hindenburg l’ha attaccato il 10 settembre quando ha definito “una frode” Nikola Corp., azienda Usa fondata nel 2014 per sviluppare camion a emissioni zero basati su batterie al litio e fuel cell a idrogeno. Quotata a giugno, la capitalizzazione di Nikola è balzata da 12 miliardi a oltre 30, superando Ford grazie a joint venture con General Motors e Cnh del gruppo Fca, che ne detiene il 7%. Il fondo ha rivelato che il video di un camion “elettrico” in corsa diffuso da Nikola mostrava in realtà un veicolo in discesa in folle: il fondatore e presidente Trevor Milton si è dimesso. L’azienda minaccia cause legali ma Hindenburg ribatte che “non siamo mai finiti sotto indagine e abbiamo sempre vinto in giudizio”.

Tra gli short seller più attivi ci sono Spruce Point Capital, Emerson Analytics e Blue Orca (il nome rimanda volutamente ai mammiferi carnivori che usano il sonar per cacciare in branchi), che a novembre ha fatto precipitare del 91% le azioni del produttore di mobili cinese Kasen Int. dopo aver svelato che i suoi “investimenti” in Cambogia erano illusori, ma anche Gotham City Research, Citron e Quintessential Capital Management (Qcm). Qcm è famosa perché il 19 luglio 2019 fece scoppiare la bolla delle azioni Bio-on, società bolognese di bioplastica quotata all’Aim (la Borsa delle piccole e medie imprese) dove capitalizzava un miliardo. Qcm definì Bio-on “una nuova Parmalat” concepita dai manager per arricchirsi alle spalle degli azionisti, con tecnologie improbabili, fatturato e crediti simulati con irregolarità contabili, nessun impianto in produzione. Un ruolo centrale l’ha avuto Maurizio Salom, commercialista e consulente di Milano, che per conto di Qcm ha analizzato i bilanci di Bio-On: “La mia indagine forensica si è basata su documenti pubblici. La verità è che su Bio-On c’è stato un enorme buco nei controlli e un intrico di conflitti di interesse”, spiega Salom. Gabriel Grego, fondatore di Quintessential, spiega che “su 100 aziende che analizziamo, solo il 2/3% diventa il target di una nostra campagna e in media le loro azioni scendono di oltre l’80%. Dopo i nostri report su American Addiction Centers, Globo Plc, Ability Inc., Folli Follie, Bio-on e Akazoo le loro azioni si sono azzerate. Grazie ai nostri standard legali ed etici non siamo mai stati indagati né citati in giudizio, anche se non è detto che non possa accadere. Quando il fondatore di Bio-On Marco Astorri ci denunciò lo contro-querelammo subito: poche settimane dopo fu arrestato”.

Intanto cresce l’opposizione ai ribassisti. A ottobre la Turchia ha vietato le vendite allo scoperto su sette banche. In Francia i politici chiedono nuove regole di trasparenza. Ma non sempre le critiche sono fondate. In Germania l’autorità di controllo BaFin per anni ha bloccato le vendite allo scoperto su Wirecard accusando ingiustamente di manipolazione due giornalisti del Financial Times che avevano intervistato venditori che avevano pubblicato un report con lo pseudonimo Zatarra. In passato Qcm aveva preparato un report su Wirecard ma non lo pubblicò per l’elevato rischio legale. Alla fine Wirecard è fallita e i fondi ribassisti Ennismore, Slate Path, Tci e Marshall Wace hanno guadagnato centinaia di milioni.

Non sempre però gli shortisti hanno successo. Le scommesse contro il produttore di auto elettriche Tesla da inizio anno sono costate ai ribassisti circa 9 miliardi. Negli annali resta la puntata da un miliardo di dollari lanciata nel 2012 da Bill Ackman sul crollo di Herbalife, società di integratori e dimagranti. Nel 2018 Ackman rinunciò allo short: oggi le azioni Herbalife quotano oltre 47 dollari, il doppio rispetto a prima della campagna.

Palco segreto Achab, Ulisse, Gassman: spiare il Maestro da un albero maestro

Quest’anno sono tutti presi dal cinquecentenario della scoperta dell’America: le Colombiadi. Io sono a Genova, ospite dell’Amerigo Vespucci, set navigante di una trasmissione televisiva dove ballo da soubrette. Praticamente si vive e si lavora a bordo.

A babordo il mare aperto, a tribordo il nuovo porto di Genova, bellissimo, tutto restaurato. C’è un persistente odore di muffa e lisoformio, alghe e olio di gomiti di marinai. Durante una pausa mi faccio accompagnare sull’albero maestro. C’è una gabbia girevole, da lassù il paesaggio rivela altri orizzonti, tutto è diverso…. “la parte acquorea del mondo” come scriveva Melville. Chiedo di rimanere lì per un po’, il marinaio acconsente e mi lascia il suo binocolo. Verso il porto vecchio c’è una nuova costruzione, bianchissima, sembra una vela, o il dorso di una balena. Ci guardo dentro, so che stanno facendo delle prove teatrali: il Moby Dick, ovvero Ulisse e la balena bianca, ideato, voluto, scritto e celebrato da Vittorio Gassman. Lui è lì, nelle vesti di Achab, che dà ordini alle masse di mimi e ballerini, agile nonostante la gamba di legno; sussurra un tono a un’attrice, si incaponisce con un altro attore, ascolta, ride, interviene, poi tutto si blocca e prova il suo monologo. Non sento nulla, eppure percepisco tutto, l’aria è immobile, c’è un’atmosfera bellissima come se l’universo si fosse fermato ad ascoltarlo. Ho i brividi. Achab, Ulisse, Vittorio: un bel trio, non c’è che dire. Le prove s’interrompono, tutti si dileguano verso le mense, qualcuno gli chiede qualcosa poi va via.

Gassman rimane lì, solo, si svita la gamba di legno e la osserva a lungo, sembra pensoso. Forse ripassa, forse riflette sulla messa in scena, i riccioli lunghi e la barba possente gocciano di sudore. Il marinaio mi richiama, devo scendere è un’ora che sono qui, non posso spiare oltre. Ridiscendo con la sensazione di aver visto uno spettacolo che non dimenticherò mai.

 

Fiabe migranti. Crocevia Argentina, tra re senza sudditi, le “suore pinguino” e l’operaio esploratore

Claudio Magris racconta una storia. Quella di Janez Benigar (o Juan o Ivan o Janko Benigar o molti altri nomi) che emigra dall’Impero austroungarico in Argentina, con la qualifica di “operaio” sul passaporto. Diventa esploratore, scopritore di popoli, inventore di lingue, fondatore di famiglie e di piccole imprese, uomo alla ricerca di terre sconosciute e non cercate (come la Patagonia o l’Araucania), uno che conosce “l’infinita tristezza della pampa”, la natura del gaucho, ed è tormentato dalla domanda: i tuoi vecchi e i tuoi figli sono (devono essere) sepolti nella stessa terra?

Passano gli anni, migliaia di chilometri e il vuoto della pampa e la figura misteriosa del gaucho che si profila nella notte, a cui persino Jorge Bergoglio (personaggio del libro) prima di essere papa dedica una meditazione. Benigar sposa l’avventurosa Eufemia Barraza, che si fa chiamare Sheypukin; quando muore la nuova sposa sarà Rosario, e le donne “araucane” canteranno a lungo cori “mapuche” (il solo nome con cui quel popolo vuole essere chiamato) mostrando di non avere alcuna idea di dio, del tempo, del rapporto causa-effetto: una realtà fluida, dove il momento e la circostanza dettano il fare. Benigar intanto scrive, pubblica, insegna, predica, provoca, incontra e si scontra. La grande quantità di materiale avventuroso e ignoto fa pensare a un baule magico.

Claudio Magris racconta una storia. Si presenta Orelie Antoine de Tounens, procuratore legale a Perigueux, che annuncia al mondo “la nascita o rinascita del Regno di Araucania”, proclamandosene re. Nessuno e neppure Benigar, il primo ad avventurarsi in quelle terre, ne conosce i confini; e neanche Argentina e Cile, che rivendicano sovranità su quel mondo. E qui la narrazione si fa irruente. Bella la pagina in cui Orelie, tardivo conquistador, siede a un caffè di Valparaiso e disegna (o sogna) il suo impero senza sapere in quale direzione andare.

Claudio Magris racconta una storia. C’è Angela Vallese, la suora pinguino. Poiché un piccolo gruppo di sorelle indossa una tunica bianca sopra una veste una nera, gli Indios Onas o Alakalufes chiedono: “Kasteciaci? Pinguini?”. Scrive Magris: “La suora-pinguino piemontese (Angela Vallese nasce a Lu Monferrato) sfida con tranquilla semplicità l’abnorme mistero della natura”. E qui si apre il grande scenario: pianure gelate con il popolo dei pinguini, popoli di Indios separati da misteriose varietà di radici, linguaggio, rapporto con la natura e con gli altri, e le suore-pinguino che attraversano a cavallo distese di ghiaccio, con la fede e il testardo impegno di portare medicine e coperte.

L’opera di Magris è mossa da energia febbrile e felice, immaginosa al di là dei poemi cavallereschi, ma con agganci rigorosamente storici. Sorprende la fermezza della mano che ti guida nel groviglio di cose vere, incompatibili o diverse o impossibili (natura, storia, accadimenti noti e fatti da fiaba) e lo sbattere delle onde di un linguaggio di poesia senza pace.

 

Croce del Sud. Tre vite vere e improbabili.

Claudio Magris

Pagine: 132

Prezzo: 14,25

Editore: Mondadori

Israele. L’importanza di 30 gatti in Parlamento

Filibuster, Lobby, Revision e Ethics non sono soltanto termini politici, ma i nomi di alcuni dei 30 gatti di strada che vivono nel cortile della Knesset, il Parlamento israeliano a Gerusalemme. A loro è stata recentemente concessa la residenza permanente dai funzionari della moderna struttura che svetta su una delle colline della Città Santa. Non dobbiamo stupirci. C’è sempre stato molto feeling tra la cultura ebraica e il mondo dei piccoli felini. Un mio amico ha addirittura stilato un codice in 7 punti delle relazioni che legano gli ebrei al mondo dei gatti che si possono riassumere così: i gatti sono contemplativi. Interagiscono con il mondo in modo riflessivo e sfumato. Invece di immergersi direttamente in un problema, i gatti esaminano le loro opzioni.

I gatti di strada nel corso degli anni avevano fatto dell’ampio cortile del Parlamento la loro casa e così alla fine sono stati così adottati dai membri del personale, che forniscono loro cibo e acqua. Alcuni felini si erano presi la libertà di entrare nelle luccicanti sale del potere con l’evidente disappunto di alcuni parlamentari, che hanno presentato decine di reclami alla direzione amministrativa della Knesset. Di conseguenza, il direttore della Knesset Sami Baklash ha chiesto a Tamar Bar-On – capo dell’ufficio ambiente del Parlamento – di formulare un piano di adozione completo per questi gatti, che sono stati definiti “una parte importante dell’ecosistema della Knesset ed è quindi un dovere preservare questa parte della natura urbana”. I servizi veterinari della città sono stati chiamati per fornire vaccinazioni, sterilizzazione e altri servizi, mentre nell’ampio parco che circonda la struttura un’area è stata designata ad ospitare la colonia felina.

Il presidente della Commissione per l’Ambiente della Knesset, Miki Haimovich, ha elogiato la politica del direttore. “Ho avuto il piacere di incontrare alcuni di questi residenti della Knesset e sono stato felice di vedere che sono stati ben curati. Sono un amante degli animali, sostengo la politica del direttore e spero che altre istituzioni pubbliche seguano il nostro esempio”.

 

Mes: i veri conti che i cantori fingono sempre di ignorare

Non passa giorno senza che la grande stampa, qualche riserva della Repubblica o pezzi del Pd non invochino il famigerato Meccanismo europeo di stabilità (Mes) e i suoi 37 miliardi per l’Italia. Prima il mantra era “non ci sono le condizionalità!”, se non quella di usare i soldi per la sanità. Ora è tutto un “si risparmia!”. Il Mes è la prima cosa invocata da Nicola Zingaretti dopo la non sconfitta alla Regionali. Per Romano Prodi “non ricorrervi è una pazzia”. “Ma come si fa a rinunciarvi”, si disperava ieri Stefano Bonaccini, presidente dem dell’Emilia Romagna. Già, come si fa?

Chiunque, se ripetesse sempre la stessa balla senza che nessuno gliene chieda conto, inizierebbe a pensare di essere circondato da una massa di creduloni. Lasciamo da parte le condizionalità, che non sono state eliminate ma “sospese” da un impegno politico della Commissione Ue. Il Mes è nato per aiutare i paesi che non riescono a finanziarsi sul mercato. Presta soldi, non li regala. Perché allora non usare i nostri titoli di Stato? “Perchè dovremmo pagare interessi più alti di quelli dei prestiti Mes”, è la tesi dei suoi pasdaran. “Col Mes sirisparmiano 5 miliardi in 10 anni”, secondo il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri.

Problema: un vero confronto si può fare solo tra il tasso fornito dal Mes e quello di un’emissione di Btp analoga. I prestiti Mes sono “privilegiati” rispetto al resto dei 2400 miliardi del nostro debito e non hanno il rischio di essere ripagati in lire. Se l’Italia emettesse 37 miliardi di Btp con le stesse caratteristiche dei prestiti Mes il risparmio quanto sarebbe? Nessuno lo dice, perché probabilmente non sarebbe tanto lontano dallo zero. Vendono come regalo una scelta politica (spaccare i 5stelle) e uno strumento che può avere effetti collaterali. Citiamo il governatore Ignazio Visco ieri a Trento: “Dal punto di vista economico solo vantaggi, il problema è l’effetto stigma…”. Forse è per questo che nessun Paese vi ha fatto ricorso? A maggio, quando Cipro ventilò la possibilità, il rendimento dei suoi titoli a 10 anni calò dal 2,3% all’1,7% . I nostri pasdaran gridarono al miracolo per la sola invocazione del Mes. Cipro ha poi smentito. Oggi il rendimento è allo 0,5%. Bonaccini lo sa?

Juve-Suarez. Un pateracchio? Il primato va al Mundialito under 14 di Ottolenghi

Se è vero che il caso Suarez, sorretto da una sceneggiatura degna di un film di Oronzo Canà, sembra destinato a battere tutti i record di cialtroneria e indecenza applicate al calcio, c’è un altro giallo, che i più hanno rimosso e dimenticato, che a distanza di 40 anni può ancora ambire alla palma di Miglior Pateracchio di sempre: è la storia del Mundialito 1981 under 14 e del ragazzino che fece vincere l’Inter. Si chiamava Ottolenghi, ma in realtà era Pellegrini.

È il 1981. Nel Belpaese non si è ancora spenta l’eco dello scandalo-scommesse 1980 ed è quindi con simpatia che la stampa sportiva saluta la partenza degli Under 14 dell’Inter alla volta dell’Argentina dov’è in programma il mondiale per giovanissimi con la partecipazione di 24 club di America, Europa e Asia. Al torneo partecipano solo i ragazzi nati dal ’67 in poi: una soglia che impedisce all’Inter di aggregare Massimo Pellegrini, centravanti, nato a Frascati il 15/1/66, il pezzo forte della squadra. Che fare? All’Inter non hanno dubbi: prendono il tesserino di Massimo Ottolenghi, attaccante, nato a Limbiate il 25/3/67, gli appiccicano sopra la foto di Pellegrini e chi s’è visto s’è visto. L’Ottolenghi vero resta a casa, quello finto sbarca a Buenos Aires; è dall’altra parte del mondo, chi vuoi che se ne accorga, si dicono all’Inter. Che per la cronaca è quella di Fraizzoli presidente, Mazzola dg, Beltrami ds e Meneghetti responsabile del settore giovanile. Il 16 gennaio il Mundialito ha inizio. E ha inizio anche la cavalcata dell’Inter che trascinata da Ottolenghi (cioè Pellegrini) comincia a vincere e non finisce più. Non ci sono partite in tv e neppure i social; ma l’eco delle imprese dei ragazzini dell’Inter giunge lo stesso e i giornali e persino la Rai iniziano a darne conto.

Dall’Argentina giungono le foto AP in bianco e nero dei piccoli nerazzurri esultanti dopo un gol. E siccome a segnarli è quasi sempre Ottolenghi, che in realtà ogni mattina è nel suo banco di terza media a Limbiate, nasce un problema: scongiurare le famiglie di Ottolenghi a Limbiate e di Pellegrini a Frascati di tenere la bocca chiusa chiedendo a tutti, parenti, conoscenti e scuola, di fare silenzio. Il 4 febbraio, davanti a 70 mila spettatori, al Monumental di Baires l’Inter vince la finale del Mundialito battendo ai rigori i boliviani dell’Academia Tahuichi. Ottolenghi (cioè Pellegrini), capocannoniere con 8 gol, viene premiato come miglior giocatore del torneo e in Italia è il delirio. Quando l’Inter torna in patria, giornali e tv sono tutti per lei. Tito Stagno invita l’Inter alla Domenica Sportiva ma con immensa delusione constata che Ottolenghi non c’è: troppa pubblicità, l’abbiamo mandato a casa, si scusa mister Meneghetti. Ma ormai la corda non tiene più. È Il Manifesto a denunciare lo scandalo pubblicando la lettera di un conoscente di Pellegrini che lo descrive nascosto in casa senza poter gioire del trionfo ottenuto. Scoppia la bufera. “È una consuetudine, a livello giovanile lo fanno tutti”, azzarda Mazzola, ma Fraizzoli a momenti sviene. “Scandalito”, scrivono in Argentina. “Rivogliamo la Coppa”, protesta il Tahuichi sconfitto.

Il trofeo viene rispedito in Bolivia e Paolo Frajese al TG1 si collega con l’aeroporto per mostrare la partenza della “Coppa della vergogna”. Sordillo, presidente Figc, ordina un’inchiesta che sospende per 2 anni Meneghetti e Migliazza (i pesci piccoli) e per 6 mesi il povero Pellegrini. E Ottolenghi? Promosso all’esame di 3ª media. Regolarmente, pare.

 

Delitto Livatino. Il testimone Pietro Nava è ancora un “prigioniero”, 30 anni dopo

Leggo, vedo, e penso che a volte gli anniversari servono. A scuotere la memoria. A riportarci alla realtà per la collottola. È stato il caso dei trent’anni dall’assassinio del giudice Rosario Livatino, ucciso dalla mafia il 21 settembre del 1990 sulla strada da Canicattì per Agrigento. Provvidenziali per averci restituito una vicenda esemplare della nostra Repubblica tenuta a lungo fuori dai riflettori, e che abbiamo potuto ripassare grazie a un commovente speciale Tg1 di Maria Grazia Mazzola, ricco di informazioni inedite e perciò andato in onda verso mezzanotte. Per avere registrato l’intervento appassionato del presidente Mattarella, con il monito a ricordare, di questi tempi, quale debba essere l’etica di un magistrato. Ma anche e starei per dire soprattutto per averci rimesso faccia a faccia con la storia di Pietro Nava, l’agente di commercio venuto da Lecco, che vide il delitto dallo specchietto retrovisore e invece di proseguire nella sua corsa, magari con la vergogna nel cuore, scelse di presentarsi alle forze dell’ordine a testimoniare.

Tra una folla di Ponzio Pilato sentì lui, anonimo cittadino, il dovere civile di contribuire alla ricerca della verità in una terra in cui erano stati ammazzati senza pietà e senza paura tutti i vertici dello Stato.

Pietro Nava ci è ricomparso attraverso un’intervista rilasciata per Il Corriere a Felice Cavallaro che mi ha risvegliato dentro, tutte insieme, decine di storie italiane unite da un filo sottile o robusto. Mi ha suscitato in particolare un senso di colpa per essermi limitato a scrivere, ventotto anni fa, la storia di quel “giudice ragazzino” e non essermi mai dato da fare per questo commerciante sconosciuto che con la sua testimonianza ha rischiato infinitamente più di tanti antimafiosi impegnati (tra i quali mi metto).

Che vita avrà fatto in questi trent’anni Pietro Nava? Come lo ha assistito lo Stato italiano? Che bilancio fa della sua scelta di allora? L’interessato lo ha raccontato in un libro di cui per ora so quel che è accennato nell’intervista. Ma fondamentalmente ha detto che lo rifarebbe, che è stato ben protetto da uomini di alta umanità e professionalità, capaci anche di giocare con i suoi ragazzi. Ha raccontato l’orgoglio della moglie (che sia benedetta) e la difficoltà assurda, resistente, di assicurarle la reversibilità della pensione, dovesse mai succedergli qualcosa. Ma ha aggiunto anche che ha vissuto e che vive come un prigioniero. Così io ho pensato d’istinto che appartiene in fondo, e a maggior ragione, al variegato mondo di quegli uomini “privati della libertà” in forza di atti amministrativi e giudiziari di cui vengono difesi i diritti attraverso una piramide di ruoli e di funzioni di “garanzia”, dai singoli comuni fino al livello nazionale. Certo Nava non subisce intenti punitivi, e nel suo caso la “privazione della libertà” nasce all’opposto dal riconoscimento di un comportamento virtuoso da tutelare da eventuali rappresaglie. È un’altra cosa, insomma.

Ma è proprio questo che giunge (o dovrebbe giungere) come interrogativo scomodo e urticante.

Per quale motivo, infatti, non vi è nel nostro sistema una analoga struttura di garanzia per i diritti dei testimoni di giustizia o delle vittime dei reati? Perché la società italiana, e al suo interno la cultura giuridica più fine, non sente alcuna spinta per questa missione civilissima, forse la più civile di tutte? Perché i Pietro Nava non hanno alle spalle figure istituzionali, un movimento di opinione che vigili sui loro diritti, ad esempio su quella pensione di reversibilità che mille ragioni giustificherebbero? “Lo rifarebbe?”, gli ha chiesto Cavallaro. Ha risposto di sì. E noi lo rilasceremmo solo? Temo che nella realtà diremmo di sì anche noi. A meno che un giorno, nei fatti, questo Paese non prenda a cuore anche i diritti dei “certamente innocenti”.

I “cazzari” del Virus Trump e Bojo, messi in riga da Mattarella

 

Covid “overacting”.

Il coronavirus “non colpisce praticamente nessuno” che abbia meno di 18 anni e rappresenta un rischio, in sostanza, solo per “le persone anziane con problemi cardiaci e altri problemi preesistenti”: se errare è umano ma perseverare è diabolico, lo stesso Satana impallidirebbe di fronte all’ostinazione di Donald Trump. Continua a tirar fuori sciocchezze dal cilindro, il presidente; immune, lui sì, a qualunque cambiamento maturato dall’esperienza. Il tycoon può legittimamente decidere, nel corso di tutta la pandemia, di anteporre le ragioni economiche a quelle sanitarie, assumendosene le conseguenti responsabilità politiche, ma per far questo non vi è alcuna necessità di corredare ogni uscita pubblica con un’eresia scientifica. Ma The Donald è fatto così: l’ “overacting” è il suo cavallo di battaglia.

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Mi sento così libero, che non sono più padrone di me stesso.

C’è però chi, in fatto di esternazioni improbabili, riesce con disinvoltura a superare Donald Trump. Boris Johnson, altro leader che non ha certo brillato per la gestione della pandemia (memorabili i suoi discorsi sull’immunità di gregge) ha attribuito allo spirito libero degli inglesi il maggior incremento di contagi in Gran Bretagna rispetto a Italia e Germania: “C’è un’importante differenza tra il nostro Paese e il resto del mondo. Ci sono Paesi che amano la libertà e se guardate alla storia di questo Paese negli ultimi 300 anni è sempre stato all’avanguardia per libertà di pensiero e democrazia. È difficile costringere il nostro popolo a obbedire in modo uniforme alle linee guida considerate indispensabili”. Definitiva la risposta a distanza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che rimette le cose al loro posto: “Anche noi italiani amiamo la libertà, ma abbiamo a cuore anche la serietà”.

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Il futuro ha un cuore antico.

Che la comunicazione non sia il cavallo di battaglia del Pd è piuttosto chiaro ormai da numerose campagne elettorali (indimenticabile lo spot del 2013 con i dipendenti del partito che cantano un improbabile “Lo smacchiamo, lo smacchiamo” emulando “We will rock you” dei Queen), ma i social media manager democratici non smettono mai di stupire. Dopo la vittoria di Vincenzo De Luca alle elezioni regionali, infatti, hanno avuto una trovata all’altezza dei loro precedenti. Sul profilo Instagram del Pd hanno pubblicato una foto del tanto ex quanto neo presidente con la scritta: “Vittoria. La Campania che guarda al futuro”. Ora, possibile che per festeggiare la vittoria di un settantenne, quattro volte sindaco di Salerno, già presidente della Regione dal 2015, ex deputato, ex sottosegretario del governo Letta, considerato il simbolo di un potere locale così radicato da prescindere dai destini nazionali del partito che lo sostiene, tra tutti gli slogan che si potevano trovare, se ne scelga uno così? Pare che in ballottaggio fosse arrivato pure “Il ragazzo si farà, anche se ha le spalle strette”. Tutto questo mentre nelle chat di WhatsApp impazza un fotomontaggio della Regina Elisabetta con la faccia di De Luca. Ma una trovata tanto riuscita ai comunicatori del Pd è vietata per legge.

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