Alla domanda “qual è il suo supereroe preferito?”, Maria Sole Tognazzi risponde in un nanosecondo: “La Donna Invisibile”. Di lei sa realmente molto (“È il primo personaggio ideato dalla Marvel”), e da lei ha in qualche modo preso molto: non ama parlare di vita privata, non ama esserci per apparire, è pudica nel nominare il padre quando c’è un suo nuovo lavoro in circolazione (“avrei la sensazione di sfruttarlo”); più e più volte si definisce “riservata”, e con un certo pudore, come a scusarsi, come a giustificare una necessità, non una distanza volutamente scortese (“da ragazzina stavo sempre chiusa in stanza, anche se sotto, in salotto, c’erano gli ospiti di Ugo e mamma”).
E così, da invisibile, si è piazzata dietro la macchina da presa, prima come assistente e poi come regista; da invisibile ha vinto premi e portato i suoi film in giro per il mondo, in primis Viaggio sola; e sempre da invisibile è la regista di Petra, serie tv in onda su Sky, già record di rete in quanto a spettatori, con protagonista un’inedita Paola Cortellesi, Ispettore in apparenza respingente, in apparenza misantropo, in apparenza non conforme al suo ruolo, in sostanza desiderosa pure lei di vivere da invisibile.
Cortellesi in una nuova veste.
È stata bravissima e coraggiosa, ha ribaltato la percezione esterna di sé; è riuscita a rendere credibile un personaggio femminile non convenzionale, una donna che non ha la necessità impellente di piacere a tutti (ci pensa). Credo di essere simile a Petra, poi la mia sensibilità mi porta non risultare così schietta nelle manifestazioni.
Come mai?
Ho sempre l’angoscia di ferire il prossimo; comunque Petra colpisce perché non siamo abituati a vedere una donna libera di essere se stessa, un apparente antipatica che poi ti conquista. E Paola non si è mai sottratta, in alcuni casi avrebbe spinto pure di più.
Come è arrivata al cinema?
Non ho studiato, ho iniziato a 18 anni come assistente, e ho continuato fino ai 28: la mia scuola è stata l’osservazione sul campo, dagli obiettivi da utilizzare ai tempi, fino alla scelta delle location.
Quindi…
A un certo punto, per il mio primo film, Passato prossimo, sempre con la Cortellesi protagonista, mi sono ritrovata dall’altra parte, e soprattutto con un autista sotto casa.
Benefit.
No, necessità della produzione: il regista e gli attori principali non possono ritardare, perché ogni minuti perso costa tantissimo; (sorride) prima di allora ero io che andavo a prendere gli attori.
Si sarà sentita importante.
Solo emozionata: lì ho capito che forse sarebbe cambiata la mia vita; quando ho girato il mio primo film non ero certa che quell’esperienza si sarebbe tramutata in professione: era per mettermi alla prova, magari poi sarei tornata al ruolo di aiuto-regista, dove non ero brava, ma sapevo districarmi.
Non ere brava?
Cadevo in pasticci incredibili ed ero negata nel movimento delle comparse, ogni volta diventavo pazza; ero dotata, invece, nel preparare i cast: già da piccola ne parlavo con il regista, capivo i ruoli, poi giravo tutte le agenzie di Roma per raccogliere il materiale, le foto, e indicare le possibili soluzioni.
Che registi?
Per dieci anni sono stata l’assistente di Ferzan (Orzptek, ndr), e ho imparato molto; è stato proprio Ferzan a suggerire a mio fratello Ricky il nome di Luca Zingaretti per il ruolo dello strozzino in Vite strozzate.
Bell’occhio.
Infatti durante i provini per Petra, al quinto esaminato ho sentenziato: “Lo abbiamo trovato: il ruolo del Vice Ispettore Antonio Monte è di Antonio Pennacchi. Andate pure avanti, ma è lui”.
Come è cambiata in questi anni?
Solo un po’: ho un carattere abbastanza determinato, ho capito di dover essere meno istintiva, ho imparato a dosare gli entusiasmi e i momenti di bassa, ma nella sostanza sono la stessa di quando ero bambina.
Paolo Villaggio l’ha definita “una ragazza deliziosa”.
Era uno dei migliori amici di mio padre, l’ho conosciuto molto bene, spesso frequentava casa e, nel mio guscio di ragazzina non parlante, un po’ lo incuriosivo.
La Wertmüller ha ammesso di aver picchiato gli attori sul set.
Ci sono registi che hanno bisogno del conflitto per ottenere il risultato sperato. Io no. Non sono in grado. Il conflitto mi spaventa, se ci arrivo vuol dire che non c’è altra possibilità.
Predilige l’armonia.
La mia forza è creare un gruppo, stemperare le antipatie, mediare; a volte vorrei lo scontro, ma lo evito perché so che si rifletterebbe su di me, mi causerebbe confusione.
Prima di girare, dorme la notte?
Dipende: se in una scena temo di non essere in grado, la sera prima la passo sveglia. Resto un’emotiva; poi quando arrivo sul set quasi sempre risolvo.
Una emotiva-controllata.
Sono un ossimoro.
Le attrici lamentano l’assenza di ruoli femminili.
Per questo ho girato Viaggio sola: otto anni fa uscivo incazzata dal cinema, allucinata per come venivano raccontate le donne, solo stereotipi, solo soggetti in cerca dell’amore, dell’uomo giusto, moglie e poi madri.
E invece?
Il mondo è pieno di donne sole, realizzate, che scelgono di vivere così; (ci pensa) gran parte del successo lo devo a Margherita (Buy, ndr), per questo ho scritto Io e lei, per dimostrarle la gioia di lavorare con lei.
Per la Buy in Io e lei ha dato il suo più bel bacio su un set.
Quei momenti di intimità tra lei e la Sabrina sono stati molto divertenti.
Per quel bacio la Ferilli ha portato la grappa sul set.
(Sorride) Per questo ho definito quella scena esilarante.
Sabrina Ferilli.
La conosco da tanti anni, da quando ero aiuto regista: già allora emergeva per intelligenza e preparazione, con un occhio mai banale sulla quotidianità. Attrice vera.
Anche sua madre, Franca Bettoja, l’ha definita “una brava attrice, ma non se ne rendeva conto”.
Ha preferito una vita più riservata, non era appassionata di quel lavoro.
Però brava.
Nel film di Germi la trovo bravissima (L’uomo di paglia, ndr).
Da piccola andava sul set?
Mai, fino ai 18 anni mi sono tenuta in disparte, e quando ho iniziato è capitato per cercare un’esperienza, non per ambizione o passione.
Non era affascinata?
Da piccola no, la mia impostazione era “non mi interessate proprio”; a 18 anni ho avvertito la necessità di lavorare, e piano piano ho scoperto il cinema, e piano piano ho capito che era la mia vita.
Da piccola ha conosciuto dei divi assoluti, oggi quegli assoluti quasi non esistono più.
È vero, però ci sono dei casi a parte: anni fa ho mandato un copione a Monica Bellucci, senza grandi speranze in un “sì”, e invece accettò. Sul set scoprii, con piacere, la Bellucci attrice, con intorno la giusta allure, non l’amica con la quale passavo le giornate al mare.
Ai tempi di suo padre?
Non so sul lavoro, ma ricordo l’approccio con la gente: quando arrivava Thomas dalla Norvegia (il fratello, ndr), e magari da Velletri andavamo in gita a Roma, il suo divertimento era di verificare ai semafori la reazione degli altri automobilisti.
Che accadeva?
Riconoscevano Ugo e quasi tremavano: passeggiare con mio padre era impossibile.
Suo fratello Gianmarco ha dichiarato: “Un padre così non è il tuo ma di tutti”.
Siamo cresciuti con la sensazione che papà appartenesse agli altri quanto a noi: da piccola il mio senso di protezione mi ha portato a capire che dovevo rinunciare a determinate esigenze e puntare su altro.
Si infastidiva dei continui ospiti in casa?
Ero timida, non interessata, e soprattutto li trovavo banali: parlavano sempre degli stessi argomenti.
Banali?
Già allora una delle frasi ricorrenti era dedicata alla “crisi del cinema”. E non c’era alcuna crisi; (ride) so che può apparire strano, ma in casa c’era monotonia.
Della passione di suo padre per il cibo cosa ha ereditato?
Non so cucinare, ma ho una predilezione per i ristoranti: con Luca Guadagnino ci siamo ritrovati in fughe dedicate al solo piacere culinario.
Dei “mostri” che ha conosciuto, chi avrebbe voluto dirigere?
Mastroianni. Sono sempre stata innamorata di lui: quando veniva a casa mi sentivo male.
Come si rapportava a lei?
La questione è sempre la stessa: salutavo e me ne andavo in camera; e poi ero piccola, ma in alcuni casi non sapevo neanche chi fossero, eppure a volte ho percepito un’energia particolare, una sorta di fascino magnetico.
Tradotto?
Intuivo che erano Marco Ferreri o Pier Paolo Pasolini, ma a 5 o 6 anni non potevo avere una preparazione adeguata; però mia madre racconta che quando arrivava Pasolini, gli andavo incontro, lo salutavo, che di lui percepivo il fascino.
Da quest’anno vota agli Oscar?
(Ride, a lungo) Un giorno leggo un tweet di una ragazza a me sconosciuta: “Francesco Favino e Sole Tognazzi membri dell’Academy”. E io penso: “Vabbè, ‘na matta”. Così mando un messaggio a Favino e sbotta a ridere. “Fra’ è uno scherzo?”. E lui: “Embè”.
Invece…
Dopo un quarto d’ora si scatena l’inferno, e ne sono felice: potrò vedere i film in anteprima.
C’è chi racconta di una sua presenza allo Zecchino d’Oro…
(Silenzio) È vero.
Una come lei?
Per colpa della zia Babette. Iscritta sotto falso nome.
Sarà stata felicissima.
Sempre quando mi chiudevo in camera, oltre a parlare da sola, cantavo pure, ed ero più o meno intonata, senza alcun vero talento; (ricambia tono) ricordo tutto di quella giornata in televisione, ogni attimo, eppure avevo appena quattro anni. Per l’emozione, il giorno dopo, mi è venuta la febbre a 39 e fui operata di tonsille. (Abbassa la voce) Non ci volevo andare.
Eppure.
Secondo mia zia mi sarei divertita, ma non ho trovato il coraggio di ribellarmi. Alla fine lo ricordo con il sorriso.
Avrà riso di meno quando ha scoperto che suo padre era il capo delle Br…
Appena uscì quella bufala, immediatamente mi vennero a prendere a scuola, e per due giorni tutti convinti fosse vero; papà fotografato in cucina mentre inscenava l’arresto.
Uno choc.
Non capivo e domandavo: “Ma che ha combinato?”.
Un suo vizio.
La pigrizia che nasce dall’insicurezza. È una sorta di protezione.
Scaramanzia.
Da piccola molto, oggi la controllo, ma se rompo uno specchio o cade l’olio, li vivo come segnali.
Chi è lei?
Non mi so definire.
(Perché alla fine lei era e resta la Donna Invisibile).