Da “Paperone” Visco alle Authority: 150mila euro è lo stipendio più basso

Fanalino di coda: dal governatore della Banca d’Italia al direttore dell’Agenzia delle Entrate passando per presidenti e commissari delle Autorità indipendenti, Pasquale Tridico si piazza buon ultimo per i compensi che riceve come presidente dell’Inps, anche dopo l’adeguamento che tante polemiche ha suscitato. Il governatore di Bankitalia Vincenzo Visco, per dire, dall’alto dei suoi 450 mila euro all’anno non può che guardare con commiserazione ai 150mila di Tridico.

Alla banca centrale non si applica il tetto da 240mila euro che la legge ha fissato per tutti gli stipendi pubblici. Esattamente a quella cifra, però, si sono assestati i compensi degli autorevoli componenti delle Authority: il presidente uscente di Agcom, Angelo Maria Cardani (gli succederà il vicesegretario generale della Camera Giacomo Lasorella) ha incassato infatti ogni anno 240 mila euro, così come gli altri membri del collegio. Stesso discorso per Roberto Rustichelli & C. all’Antitrust. Ernesto Maria Ruffini dell’Agenzia delle Entrate – fortemente voluto da Matteo Renzi, licenziato dal governo gialloverde e re-insediato da quello giallorosso – gode anche lui del massimo appannaggio, così come il presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo e l’amministratore delegato Rai Fabrizio Salini (il presidente Marcello Foa si ferma a circa 180 mila). E ancora: l’amministratore delegato di Sogei Andrea Quacivi percepisce 205.610 euro, il suo omologo di Consip Cristiano Cannarsa 192 mila, il presidente di Consob Paolo Savona 187 mila euro. Infine i presidenti di Anac e Anpal: Giuseppe Busia e Domenico Parisi riscuotono rispettivamente 180 mila e 176 euro l’anno.

Ma Tridico morde la polvere anche dentro l’Inps: ben 31 dirigenti di livello generale dell’istituto, infatti, portano a casa i fatidici 240 mila euro all’anno. E persino molti direttori di seconda fascia hanno spettanze superiori alla sua. Qualche esempio? Valeria Barbara Fabbriano, direttore della filiale di Roma Montesacro guadagna 186.698 euro. Claudio Floriddia, direttore provinciale di Trento, 162.166 euro. Mario Izzo, che a Pisa si occupa di “flussi contributivi e vigilanza documentale”, porta a casa 153 mila euro, Giuseppina Malaspina, che a Reggio Calabria segue “prestazione e servizi individuali”, 152 mila euro.

Il Giornale unico contro Tridico. Di Maio: “Mi fido ancora di lui”

Tutti contro Tridico. Pronti a chiederne lo scalpo sperando magari di azzoppare anche il governo giallorosso. Perché le nubi che da un paio di giorni si addensano sul capo del presidente dell’Inps di cui il centrodestra invoca all’unisono le dimissioni, fanno finire sulla graticola anche il ministro del Lavoro Nunzia Catalfo e il titolare dell’Economia Roberto Gualtieri, accusati di aver firmato ad agosto il decreto con cui è stato deciso l’aumento del suo compenso a 150 mila euro rispetto ai 103mila (più benefit però) del suo predecessore Tito Boeri (Tridico fino ad aprile scorso ha percepito solo 60mila euro, perché il restante andava al vice-presidente). Un’opportunità colta al volo dalla grande stampa al completo. Una “pagina nera”, sentenzia il Sole 24 ore: “Colpisce la scelta del momento per una simile, sciagurata operazione. In piena emergenza Covid, mentre il Paese annaspa in un mare di cassa integrazione e con tanti lavoratori ancora in attesa e l’Inps” scrive il quotidiano degli industriali, che picchia duro sull’esecutivo Conte prendendo spunto dal caso sollevato due giorni fa da Repubblica. La quale ieri ha dedicato all’affaire addirittura l’apertura, come La Verità e a ruota, Il Giornale di Sallusti, che grida allo “scandalo Inps”, naturalmente seguito da Libero per il quale l’occasione è buona per affondare il colpo anche sul Movimento 5 Stelle (“Ingordo al governo”) che ha voluto Tridico all’Inps.

Un plotone di esecuzione. Per tutta la giornata la polemica è divampata nonostante le precisazioni del ministero del Lavoro e una lettera dettagliata di Tridico al quotidiano diretto da Maurizio Molinari. Il presidente dell’Inps ha rispedito al mittente la ricostruzione di Repubblica. “L’articolo – accusa Tridico che ipotizza vi sia un disegno per colpire il governo – ruota intorno a due falsi: per effetto del decreto interministeriale che stabilisce i compensi del Cda di Inps (e Inail), al sottoscritto sarebbe riconosciuto un arretrato di 100mila euro. Questo il primo falso. La realtà – ha aggiunto – è invece che la nuova misura del compenso previsto per il Presidente dell’Istituto decorrerà non da maggio 2019, bensì dal 15 aprile 2020, vale a dire da quando si è insediato il Consiglio di amministrazione e ne ho assunto la carica di Presidente. Il secondo falso è che non è nei poteri del Presidente o di qualsiasi altro organo dell’Istituto determinarsi i compensi”.

Sul tema è intervenuto anche Luigi Di Maio che a “Che tempo che fa” di Fabio Fazio ha ribadito la sua fiducia nel presidente dell’Inps. “Credo che su questa tema – ha spiegato – ci sia da considerare il momento che stiamo vivendo. Problemi per la Cassa Integrazione, imprenditori che non riescono a ripartire”. E ha spiegato anche le circostanze dell’aumento dello stipendio incriminato. “Il Comitato dei tecnici di Palazzo Chigi era stato convocato per rivedere gli stipendi Inps ed è venuta fuori la proposta dei 150 mila euro. Ora stiamo facendo approfondimenti perché bisogna tener conto che una cosa era la situazione un anno fa, cosa diversa è oggi”.

Ma mi faccia il piacere

Nostradamus/1. “La sinistra vede il flop in Toscana. Potrebbe perdere 6 regioni su 7” (Giornale, 5.9). “Il centrodestra vede il 7-0: tante sorprese nelle urne” (Giornale, 12.9). “Effetto Ceccardi in Toscana: tira aria di sorpasso storico” (Giornale, 20.9). Quello di Giani.

Nostradamus/2. “Resurrezione di Salvini: ‘Così torno a vincere’. La Lega punta in alto” (Pietro Senaldi, Libero, 10.8). Prossima volta.

Nostradamus/3. “Emiliano ammaccato da Renzi e Dibba. Aria di harakiri giallorosso in Puglia” (Verità, 19.9). Come no.

Nostradamus/4. “Pure in Campania e Toscana sarà una lotta all’ultimo voto” (Nicola Piepoli, sondaggista, Verità. 31.8). Infatti.

Nostradamus/5. “Ho delle bellissime sensazioni: io mi pongo l’obiettivo del sette a zero. Il governo è agli sgoccioli” (Matteo Salvini, segretario Lega, 6.9). “Tornerò qui da presidente del Consiglio” (Salvini, 17.9). Poi ti svegli.

Nostradamus/6. “Parte dalla Puglia l’avviso di sfratto al governo” (Silvio Berlusconi, presidente FI, Giornale, 29.8). “Cari Giorgia, Matteo e Antonio, questa nostra coalizione, sempre fortemente unita, ne sono sicuro, vincerà in tutta Italia! Festeggeremo non solo la vittoria di Susanna in Toscana, ma anche quella di Acquaroli nella Marche, di Caldoro in Campania, di Fitto in Puglia, di Toti in Liguria, di Zaia in Veneto e tutte le forze del centrodestra in Valle D’Aosta” (Berlusconi, 18.9). Dev’essere la carica virale.

Nostradamus/7. “La sconfitta a settembre manderà a casa il governo” (Renato Brunetta, 31.8). Facciamo ottobre.

Nostradamus/8. “Il centrodestra può puntare al 6 a 0” (Raffaele Fitto, candidato presidente Puglia, Verità, 24.8). Una prece.

Nostradamus/9. “Italia Viva sarà la sorpresa delle prossime elezioni e Maurizio Mangialardi sarà davvero il sindaco delle Marche” (Matteo Renzi, segretario Iv, 2.7). Povero Mangialardi, non meritava.

Nostradamus/10. “Mi tocco le palle, ma in Toscana sento davvero odore di qualcosa di rivoluzionario” (Roberto Calderoli, Lega, vicepresidente del Senato, Stampa, 13.9). Tocca, tocca ché porta bene.

Nostradamus/11. “Emiliano è una sega come politico e una schiappa come magistrato” (Carlo Calenda, leader Azione, 12.9). Quindi Calenda cos’è?

Nostradamus/12. “Berlusconi: ‘Votate contro gli inadeguati’” (Giornale, 19.9). Gli hanno dato ascolto.

Te c’hanno mai mandata… “Scopriremo chi sono i mandanti di questa becera campagna di disinformazione del Fatto Quotidiano” (Antonella Laricchia, candidata M5S sconfitta a presidente della Puglia, Facebook, 24.9). Ecco, brava, tu cerca. Magari chiama pure Tom Ponzi. Qui però non è questione di mandanti, ma di mandati.

Te piacerebbe. “Elezioni, Zingaretti il Vincitore rende Conte il Sostituibile. I risultati delle Regionali rafforzano la posizione del segretario Pd che può ripartire dai contenuti: cancellazione dei Decreti sicurezza e Mes. Senza però poter ignorare quel 30% di No che segna la nascita di qualcosa di simile a un movimento che chiede un’altra politica” (Marco Damilano, l’Espresso, 21.9). Uahahahahah.

L’hanno presa bene. “Referendum, ha rivinto Barabba” (Paolo Armaroli, Dubbio, 22.9). “Addio Camere dei mille. Ma non è il trionfo cantato da Di Maio” (Sebastiano Messina, Repubblica, 22.9). “Il plebiscito sognato da Di Maio non c’è stato” (Stefano Folli, Repubblica, 22.9). “La ribellione dei No dopo anni di antipolitica. Un risultato straordinario. Aver impedito il plebiscito per il Sì crea molti più problemi per i vincitori” (Emma Bonino, Riformista, 24.9). Dài, su, non fate così. Da bravi, prendete la pastiglia.

Spalle spaziali. “Bergamo, per Salvini spalla indolenzita a causa dei troppi selfie. Durante gli interventi ha fatto notare di dover fare ricorso ad anti infiammatori: ‘Ieri ho preso tre Muscoril’” (Corriere.it, 16.9). A furia di spallate dal governo.

Dalla parte sbagliata. “Ehi, Lilli, mi dici perchè fai gli auguri a Gratteri?” (Piero Sansonetti, Riformista, 25.9). Anzichè alla ‘ndrangheta.

Gatta ci covo. “Dalla Chiesa ci insegnò cosa fare quando si scopre un covo” (Mario Mori, ex capo del Ros, condannato in I grado per la trattativa Stato-mafia, Riformista, 25.9). Se è di Riina, farlo perquisire ai mafiosi.

Minacce. “La prossima Arena potrebbe essere quella della politica. Non escludo la candidatura a sindaco di Torino” (Massimo Giletti, Stampa, 25.9). Da torinese a torinese: la politica è un’ottima idea, ma non si potrebbe risparmiare Torino?

Il titolo della settimana/1. “De Blanck, più grillina che contessa” (Libero, 22.9). Questi non stanno affatto bene.

Il titolo della settimana/2. “Hanno rottamato l’ironia” (Marco Follini, ex Dc, ex Udc, ex Pd, l’Espresso, 20.9). Ha parlato l’allegrone.

Il titolo della settimana/3. “Perchè non serve il decreto dignità” (Marco Bentivogli, Repubblica, 21.9). Perchè ha un brutto nome.

Il nobile Nuvoletti, attore per Sordi e cantore dell’adulterio a Mantova. Quasi come Virgilio

Il centenario di Alberto Sordi ha fatto sì che io rivedessi, o vedessi ex novo, i suoi films. Ne Il prof. dott. Guido Tersilli, primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue, la partecipazione di Giovanni Nuvoletti quale chirurgo barone universitario è strepitosa.

Questo autentico aristocratico, simpaticissimo e spiritosissimo, lo conobbi in anni lontani. La squisitezza e la cortesia del suo tratto sono indimenticabili; per via di matrimonio, avendo sposato Clara, era in qualche modo entrato nella famiglia Agnelli, ma non si era fatto contaminare dal tratto insieme snobistico e cafoncello di quasi tutti i suoi componenti. (Di Gianni io continuo a pensare, rubando l’espressione da Flaubert adoperata per il tenore Lagardy, ch’era un misto di torero e parrucchiere).

Di Nuvoletti ho desiderato approfondire la conoscenza. Così sono riuscito ad acquistare da negozianti di libri usati (professione eroica, oggi) due suoi romanzi, Un matrimonio mantovano e Un adulterio mantovano. Nuvoletti era appunto della bella città lombarda, fondata dagli Umbri e poi caratterizzata dagli Etruschi, prima di diventare romana. Io, napoletano, nutro un particolare amore per Mantova, non solo per la sua bellezza, ma per il fatto di essere la patria di Virgilio.

Or il sommo Poeta abitò poi a Napoli, esattamente a Posillipo, ove poetò le Bucoliche, subito dopo aver seguito i corsi di filosofia epicurea, le Georgiche e l’Eneide: dulcis me alebat Parthenope, “mi nutriva la dolce Partenope”, egli dice. Dunque le due città sono gemellate nel nome del Poeta.

In Un matrimonio mantovano ammiriamo un uso delle fonti storiche di calibro manzoniano. La conoscenza degli usi e della mentalità del contado di oltre un secolo fa è impressionante. Un adulterio mantovano è ampio e articolato. Nuvoletti largheggia in bellissime descrizioni. Della città e dei luoghi finitimi, per cominciare. Egli nutre un intensissimo amore per la sua terra. Poi delle toilettes femminili e maschili, che descrive con una precisione professionale. Indi dei cibi, nei quali pure manifesta una conoscenza professionale.

La storia narrata è intensa e coinvolgente. Siamo alle soglie della Prima Guerra Mondiale. La protagonista è la più bella donna della città, borghese anche per matrimonio, non aristocratica. Costei è felicemente sposata quando vede un bellissimo giovane nobile: entra nella follia d’un amore con lui. Ma continua, nello stesso tempo, a giacersi col marito, e con piacere. Pur nell’estasi dell’amore adulterino prova rimorso per il fatto di tradire il marito. Poi sia questi che l’amante sono a combattere. Non sappiamo se torneranno. Il romanzo si chiude nell’incertezza con quello che gli intellettuali definirebbero un finale “aperto”; e il marito, forse, riguadagna terreno.

La lingua e lo stile di Nuvoletti sono classici e raffinatissimi.

 

“La comicità non è bulimica. Ed è sempre in buona fede”

L’ospite non è in forma, il conduttore non riesce a comunicare con i tecnici in studio. Impasse, il talk incespica. Il servizio giornalistico non è un’inchiesta, è una buffonata: di scene come queste è piena la televisione. Ora esiste un programma che si nutre di quei silenzi, della profonda vergogna per conto terzi che i tedeschi chiamano Fremdschämen, di quel dondolio incerto dei presentatori quando qualcosa non va: si chiama Una pezza di Lundini e mette in scena (su Rai2) le trasmissioni che nessuno avrebbe voluto condurre. Una prova di comicità ardita quella di Valerio Lundini che, insieme a Emanuela Fanelli, fa finta di intervenire nei buchi di palinsesto per regalare una mezz’ora scarsa di ironia surreale.

È coraggioso, lo sa?

Spesso mi sono trovato a vedere narrazioni televisive, dai programmi ai documentari, pensando a quanto sarebbe stato bello sabotarle.

Del tipo?

È pieno di cose che non funzionano, nel quotidiano, nella vita. Basti pensare alla difficoltà nel capirsi con l’altro. La mia paura, piuttosto, è quella di fare qualcosa di imbarazzante.

Primi bilanci?

Mi aspettavo una spaccatura maggiore. A giudicare dai social e dalla critica, sembra che i detrattori non si siano ancora espressi. Adesso valutiamo se deluderli col tempo. Anche perché il giudizio unanime crea solo antipatie.

Di cosa si nutre Lundini?

Alcuni colleghi conoscono ogni nome di ogni comico, io no… oh, scusa, devo salutare una persona.

Faccia pure.

È un amico che sta a Milano, non posso non salutarlo. Non è come quelli che stanno a Roma.

Capito!

(Dall’altra parte della cornetta si sente: “È uno di quei programmi che avrei voluto fare io”). Ecco, lo vedi che mi fanno i complimenti?

Uso la domanda dell’amico milanese: che programma avrebbe voluto fare?

Avrei voluto sceneggiare il film Ricomincio da capo. Per la tv, Sì o No?”, condotto da Claudio Lippi negli anni Novanta.

Mi sono persa, dicevamo?

Dicevo che mi piacciono le cose comiche, ma non sono bulimico. Quello che conta è la sorpresa, e può arrivare da un contenuto drammatico come da un film di fantascienza.

Come sceglie gli ospiti?

Preferisco non invitare persone di cui non ho alta considerazione, perché non voglio risultare spocchioso. Una gag non deve mai evocare sfottò o sottomissione. È come un certo tipo di satira: a me non piace attaccare gli altri, preferisco incarnare io dei difetti.

Oddio, ma che frase ho detto?

Funzionava.

Oh, ti prego, non farmi sembrare antipatico, che non lo sono.

Nessun pericolo.

È che sembrava una di quelle cose che poi vengono titolate tipo: “La mia comicità? Un cazzo di cazzotto in un occhio!” o “La mia genialità? Unica”.

“Io, Lundini: come nasce la mia comicità”.

Mi sono sempre chiesto come sarebbe stato chiedere a una produzione un abito assurdo per mettere su uno sketch strano, che non sai nemmeno come spiegare.

E?

È stata una bella prova e per fortuna Giovanni Benincasa (l’ideatore, Stand By Me) si fida molto e cerca di farmi avere quello che mi serve.

E a livello di contenuti, passa tutto?

Sono stato io a censurare un paio di idee che mi erano venute e che mi avrebbero causato rogne.

Qual è il limite?

Deve essere sempre chiaro che c’è una buona fede dietro; se uno sketch può indurre più di dieci persone a chiedere spiegazioni e giustificazioni, non va bene.

Gli altri la definiscono surreale, e lei?

Non mi sono mai posto questa domanda. Prima facevo musica con I VazzaNikki (ora nel programma) e a un certo punto mi sono accorto che le introduzioni ai brani erano più lunghe dei pezzi stessi. Non ho mai pensato “voglio fare il comico”, mi ci sono trovato.

Ma ci riesce…

Quello è perché non mi emoziono tanto. Non penso mai che sia veramente un lavoro. Penso: “Mi chiamano a fare una roba che a me va bene fare”. Mi ritengo un miracolato.

“Gli amici dei miei? Per me noiosi, ma avevo un debole per Mastroianni e Pasolini”

Alla domanda “qual è il suo supereroe preferito?”, Maria Sole Tognazzi risponde in un nanosecondo: “La Donna Invisibile”. Di lei sa realmente molto (“È il primo personaggio ideato dalla Marvel”), e da lei ha in qualche modo preso molto: non ama parlare di vita privata, non ama esserci per apparire, è pudica nel nominare il padre quando c’è un suo nuovo lavoro in circolazione (“avrei la sensazione di sfruttarlo”); più e più volte si definisce “riservata”, e con un certo pudore, come a scusarsi, come a giustificare una necessità, non una distanza volutamente scortese (“da ragazzina stavo sempre chiusa in stanza, anche se sotto, in salotto, c’erano gli ospiti di Ugo e mamma”).

E così, da invisibile, si è piazzata dietro la macchina da presa, prima come assistente e poi come regista; da invisibile ha vinto premi e portato i suoi film in giro per il mondo, in primis Viaggio sola; e sempre da invisibile è la regista di Petra, serie tv in onda su Sky, già record di rete in quanto a spettatori, con protagonista un’inedita Paola Cortellesi, Ispettore in apparenza respingente, in apparenza misantropo, in apparenza non conforme al suo ruolo, in sostanza desiderosa pure lei di vivere da invisibile.

Cortellesi in una nuova veste.

È stata bravissima e coraggiosa, ha ribaltato la percezione esterna di sé; è riuscita a rendere credibile un personaggio femminile non convenzionale, una donna che non ha la necessità impellente di piacere a tutti (ci pensa). Credo di essere simile a Petra, poi la mia sensibilità mi porta non risultare così schietta nelle manifestazioni.

Come mai?

Ho sempre l’angoscia di ferire il prossimo; comunque Petra colpisce perché non siamo abituati a vedere una donna libera di essere se stessa, un apparente antipatica che poi ti conquista. E Paola non si è mai sottratta, in alcuni casi avrebbe spinto pure di più.

Come è arrivata al cinema?

Non ho studiato, ho iniziato a 18 anni come assistente, e ho continuato fino ai 28: la mia scuola è stata l’osservazione sul campo, dagli obiettivi da utilizzare ai tempi, fino alla scelta delle location.

Quindi…

A un certo punto, per il mio primo film, Passato prossimo, sempre con la Cortellesi protagonista, mi sono ritrovata dall’altra parte, e soprattutto con un autista sotto casa.

Benefit.

No, necessità della produzione: il regista e gli attori principali non possono ritardare, perché ogni minuti perso costa tantissimo; (sorride) prima di allora ero io che andavo a prendere gli attori.

Si sarà sentita importante.

Solo emozionata: lì ho capito che forse sarebbe cambiata la mia vita; quando ho girato il mio primo film non ero certa che quell’esperienza si sarebbe tramutata in professione: era per mettermi alla prova, magari poi sarei tornata al ruolo di aiuto-regista, dove non ero brava, ma sapevo districarmi.

Non ere brava?

Cadevo in pasticci incredibili ed ero negata nel movimento delle comparse, ogni volta diventavo pazza; ero dotata, invece, nel preparare i cast: già da piccola ne parlavo con il regista, capivo i ruoli, poi giravo tutte le agenzie di Roma per raccogliere il materiale, le foto, e indicare le possibili soluzioni.

Che registi?

Per dieci anni sono stata l’assistente di Ferzan (Orzptek, ndr), e ho imparato molto; è stato proprio Ferzan a suggerire a mio fratello Ricky il nome di Luca Zingaretti per il ruolo dello strozzino in Vite strozzate.

Bell’occhio.

Infatti durante i provini per Petra, al quinto esaminato ho sentenziato: “Lo abbiamo trovato: il ruolo del Vice Ispettore Antonio Monte è di Antonio Pennacchi. Andate pure avanti, ma è lui”.

Come è cambiata in questi anni?

Solo un po’: ho un carattere abbastanza determinato, ho capito di dover essere meno istintiva, ho imparato a dosare gli entusiasmi e i momenti di bassa, ma nella sostanza sono la stessa di quando ero bambina.

Paolo Villaggio l’ha definita “una ragazza deliziosa”.

Era uno dei migliori amici di mio padre, l’ho conosciuto molto bene, spesso frequentava casa e, nel mio guscio di ragazzina non parlante, un po’ lo incuriosivo.

La Wertmüller ha ammesso di aver picchiato gli attori sul set.

Ci sono registi che hanno bisogno del conflitto per ottenere il risultato sperato. Io no. Non sono in grado. Il conflitto mi spaventa, se ci arrivo vuol dire che non c’è altra possibilità.

Predilige l’armonia.

La mia forza è creare un gruppo, stemperare le antipatie, mediare; a volte vorrei lo scontro, ma lo evito perché so che si rifletterebbe su di me, mi causerebbe confusione.

Prima di girare, dorme la notte?

Dipende: se in una scena temo di non essere in grado, la sera prima la passo sveglia. Resto un’emotiva; poi quando arrivo sul set quasi sempre risolvo.

Una emotiva-controllata.

Sono un ossimoro.

Le attrici lamentano l’assenza di ruoli femminili.

Per questo ho girato Viaggio sola: otto anni fa uscivo incazzata dal cinema, allucinata per come venivano raccontate le donne, solo stereotipi, solo soggetti in cerca dell’amore, dell’uomo giusto, moglie e poi madri.

E invece?

Il mondo è pieno di donne sole, realizzate, che scelgono di vivere così; (ci pensa) gran parte del successo lo devo a Margherita (Buy, ndr), per questo ho scritto Io e lei, per dimostrarle la gioia di lavorare con lei.

Per la Buy in Io e lei ha dato il suo più bel bacio su un set.

Quei momenti di intimità tra lei e la Sabrina sono stati molto divertenti.

Per quel bacio la Ferilli ha portato la grappa sul set.

(Sorride) Per questo ho definito quella scena esilarante.

Sabrina Ferilli.

La conosco da tanti anni, da quando ero aiuto regista: già allora emergeva per intelligenza e preparazione, con un occhio mai banale sulla quotidianità. Attrice vera.

Anche sua madre, Franca Bettoja, l’ha definita “una brava attrice, ma non se ne rendeva conto”.

Ha preferito una vita più riservata, non era appassionata di quel lavoro.

Però brava.

Nel film di Germi la trovo bravissima (L’uomo di paglia, ndr).

Da piccola andava sul set?

Mai, fino ai 18 anni mi sono tenuta in disparte, e quando ho iniziato è capitato per cercare un’esperienza, non per ambizione o passione.

Non era affascinata?

Da piccola no, la mia impostazione era “non mi interessate proprio”; a 18 anni ho avvertito la necessità di lavorare, e piano piano ho scoperto il cinema, e piano piano ho capito che era la mia vita.

Da piccola ha conosciuto dei divi assoluti, oggi quegli assoluti quasi non esistono più.

È vero, però ci sono dei casi a parte: anni fa ho mandato un copione a Monica Bellucci, senza grandi speranze in un “sì”, e invece accettò. Sul set scoprii, con piacere, la Bellucci attrice, con intorno la giusta allure, non l’amica con la quale passavo le giornate al mare.

Ai tempi di suo padre?

Non so sul lavoro, ma ricordo l’approccio con la gente: quando arrivava Thomas dalla Norvegia (il fratello, ndr), e magari da Velletri andavamo in gita a Roma, il suo divertimento era di verificare ai semafori la reazione degli altri automobilisti.

Che accadeva?

Riconoscevano Ugo e quasi tremavano: passeggiare con mio padre era impossibile.

Suo fratello Gianmarco ha dichiarato: “Un padre così non è il tuo ma di tutti”.

Siamo cresciuti con la sensazione che papà appartenesse agli altri quanto a noi: da piccola il mio senso di protezione mi ha portato a capire che dovevo rinunciare a determinate esigenze e puntare su altro.

Si infastidiva dei continui ospiti in casa?

Ero timida, non interessata, e soprattutto li trovavo banali: parlavano sempre degli stessi argomenti.

Banali?

Già allora una delle frasi ricorrenti era dedicata alla “crisi del cinema”. E non c’era alcuna crisi; (ride) so che può apparire strano, ma in casa c’era monotonia.

Della passione di suo padre per il cibo cosa ha ereditato?

Non so cucinare, ma ho una predilezione per i ristoranti: con Luca Guadagnino ci siamo ritrovati in fughe dedicate al solo piacere culinario.

Dei “mostri” che ha conosciuto, chi avrebbe voluto dirigere?

Mastroianni. Sono sempre stata innamorata di lui: quando veniva a casa mi sentivo male.

Come si rapportava a lei?

La questione è sempre la stessa: salutavo e me ne andavo in camera; e poi ero piccola, ma in alcuni casi non sapevo neanche chi fossero, eppure a volte ho percepito un’energia particolare, una sorta di fascino magnetico.

Tradotto?

Intuivo che erano Marco Ferreri o Pier Paolo Pasolini, ma a 5 o 6 anni non potevo avere una preparazione adeguata; però mia madre racconta che quando arrivava Pasolini, gli andavo incontro, lo salutavo, che di lui percepivo il fascino.

Da quest’anno vota agli Oscar?

(Ride, a lungo) Un giorno leggo un tweet di una ragazza a me sconosciuta: “Francesco Favino e Sole Tognazzi membri dell’Academy”. E io penso: “Vabbè, ‘na matta”. Così mando un messaggio a Favino e sbotta a ridere. “Fra’ è uno scherzo?”. E lui: “Embè”.

Invece…

Dopo un quarto d’ora si scatena l’inferno, e ne sono felice: potrò vedere i film in anteprima.

C’è chi racconta di una sua presenza allo Zecchino d’Oro…

(Silenzio) È vero.

Una come lei?

Per colpa della zia Babette. Iscritta sotto falso nome.

Sarà stata felicissima.

Sempre quando mi chiudevo in camera, oltre a parlare da sola, cantavo pure, ed ero più o meno intonata, senza alcun vero talento; (ricambia tono) ricordo tutto di quella giornata in televisione, ogni attimo, eppure avevo appena quattro anni. Per l’emozione, il giorno dopo, mi è venuta la febbre a 39 e fui operata di tonsille. (Abbassa la voce) Non ci volevo andare.

Eppure.

Secondo mia zia mi sarei divertita, ma non ho trovato il coraggio di ribellarmi. Alla fine lo ricordo con il sorriso.

Avrà riso di meno quando ha scoperto che suo padre era il capo delle Br…

Appena uscì quella bufala, immediatamente mi vennero a prendere a scuola, e per due giorni tutti convinti fosse vero; papà fotografato in cucina mentre inscenava l’arresto.

Uno choc.

Non capivo e domandavo: “Ma che ha combinato?”.

Un suo vizio.

La pigrizia che nasce dall’insicurezza. È una sorta di protezione.

Scaramanzia.

Da piccola molto, oggi la controllo, ma se rompo uno specchio o cade l’olio, li vivo come segnali.

Chi è lei?

Non mi so definire.

(Perché alla fine lei era e resta la Donna Invisibile).

 

Barrett, la giudice anti-aborto alla Corte di Donald Trump

È stata tre volte “insegnante dell’anno”. Quando invita gli amici per il Mardi Gras offre loro i piatti tipicamente agrodolci della cucina cajun – è originaria di New Orleans –. Il bel sorriso freddo tradisce, più che nascondere, l’ostinata determinazione. Di Amy Coney Barrett, chi la conosce parla un sacco bene. Trump l’ha scelta per il seggio della Corte Suprema rimasto vacante dopo la morte di Ruth Bader Ginsburg. Piace ai conservatori e ai fondamentalisti. Madre di sette figli – due adottivi –, 48 anni, già braccio destro di Antonin Scalia, il giudice della Corte Suprema scomparso nel 2016, iper-conservatore, la Barrett non ha però il dono della coerenza. Morto Scalia, i media le chiesero se Obama doveva nominare il successore – mancavano otto mesi al voto –: lei rispose che farlo sarebbe stato “del tutto inappropriato”, che spettava al nuovo presidente. Adesso, invece, accetta che Trump provi a rimpiazzare in fretta e furia il giudice Ginsburg. La Barrett è giudice della corte d’appello di Chicago: la propose nel 2017 l’Amministrazione Trump e il Senato la confermò maggioranza contro opposizione, 55 voti a favore e 43 contro – quando la Ginsburg fu proposta alla Corte Suprema, nel 1993, il suo nome passò con 96 sì e tre no –. Una sua conferma darebbe alla Corte un’impronta conservatrice per molto tempo, con solo tre giudici progressisti. La Coney Barrett era già in corsa nel 2018 per il posto poi andato a Brett Kavanaugh. Trump confidò che se l’era tenuta “per prendere il posto della Ginsburg”, anziana e malata. È nota per le posizioni anti-abortiste, ma nel 2013 riconobbe che era “molto improbabile” che la Corte Suprema potesse capovolgere la Roe vs Wade, la sentenza del 1973 che legalizzò la pratica negli Usa. “L’elemento fondamentale del diritto della donna a scegliere probabilmente resterà – pensa –. La controversia è sui finanziamenti, se gli aborti devono essere a carico del pubblico”. Trump l’ha ricevuta alla Casa Bianca e ne sarebbe rimasto impressionato: “una Scalia al femminile”.

“Volevo colpire Charlie”: Hassan già girava armato

“L’ho fatto perché ce l’avevo con Charlie Hebdo che ha ripubblicato le caricature di Maometto”. Era dunque ancora una volta il giornale satirico, vittima dell’attentato del 2015, il bersaglio-simbolo del nuovo attacco di venerdì alla rue Nicolas Appert, a Parigi. Hassan A. ha agito con premeditazione. Agli inquirenti ha detto che “non ha sopportato” il fatto che il giornale, il 2 settembre, all’apertura del processo per gli attentati del gennaio 2015, avesse ripubblicato le vignette di Maometto. Negli ultimi giorni era andato in rue Appert a studiare i luoghi e venerdì era convinto di attaccare dei giornalisti di Charlie. Ma la redazione da cinque anni è stata trasferita in un luogo più sicuro.

La strada porta ora la targa e il ricordo della strage del 7 gennaio 2015. Vittime della rabbia di Hassan A. sono lo stesso due giornalisti, di Premières Lignes, una società di produzione tv che era già stata testimone della strage di cinque anni fa. Hassan A. non ha esitato a confessare la dimensione politica del suo gesto, così come non aveva fatto resistenza quando gli agenti di polizia lo hanno fermato, sporco di sangue, incastrato dalle scarpe da tennis rosse, ai piedi dell’Opéra Bastille. Neanche un’ora prima aveva accoltellato con una mannaia i due giovani giornalisti. Charlie Hebdo non ha mai smesso di vivere sotto minaccia. I suoi giornalisti hanno la scorta. Dall’inizio del processo il clima si è fatto più teso: “Non passa giorno senza ricevere nuove minacce per telefono, mail o sui social – ha spiegato l’avvocato del giornale, Richard Malka –. Tra giovedì e venerdì la minaccia è salita, con dei nuovi comunicati di Al-Qaida. Sono minacce precise, prendono di mira delle persone le cui foto sono diffuse. Le prendiamo molto sul serio. Di solito non ne parliamo – ha aggiunto – ma questa volta è già di dominio pubblico”.

L’11 settembre, nel giorno anniversario della strage alle Torri Gemelle, il gruppo di Al-Qaida nella penisola arabica, attivo in Yemen, aveva lanciato un appello ai “mujaheddin di Francia” di “completare il lavoro dei Kouachi”.

La direttrice delle risorse umane del giornale, Marika Bret, ha dovuto lasciare d’urgenza la sua casa. In Francia, anche se il Covid-19 occupa l’attenzione, la minaccia terroristica non si è mai allentata. E non ci si spiega come mai la rue Appert, così simbolica, non sia stata messa in sicurezza con l’inizio del processo. Restano ancora molti misteri sull’identità dell’assalitore. È arrivato in Francia nell’agosto 2018 senza documenti dicendo di chiamarsi Hassan A. e di essere nato a Islamabad nel 2002. In quanto minore era stato affidato ai servizi sociali di Val d’Oise, nella regione di Parigi, e lo è stato fino al 10 agosto scorso. Già allora c’erano dubbi sulla sua età, ma non sono mai stati realizzati test medici per accertarla. Non ha mai dato segni di radicalizzazione, ma a giugno era stato fermato a Parigi con una mannaia.

Il premier Adib cede e si dimette sotto le pressioni degli sciiti

Dopo un mese di negoziati, iniziati subito dopo la sua nomina a primo ministro lo scorso 31 agosto, Mustafa Adib si è dimesso mostrando quanto lo stallo politico in Libano sia diventato granitico. Adib, proposto da un gruppo di ex premier sunniti e gradito a Emmanuel Macron -promossosi tutor del nuovo governo- non solo non è riuscito a formare l’esecutivo in due settimane, come chiedeva la Francia, ma ha compreso che non sarebbe riuscito a superare l’ostacolo ministero delle Finanze. Se Adib, cittadino libanese e francese, ha deciso di rassegnare le dimissione è proprio a causa della decisione irrevocabile del partito sciita armato Hezbollah – longa manus dell’Iran – e del partito sciita alleato Amal di pretendere il cruciale ministero delle Finanze. L’atteggiamento intransigente, per usare un eufemismo, del tandem sciita è indirettamente dovuto alla consapevolezza che il presidente della Repubblica, il cristiano maronita Michel Aoun, stia dalla sua parte essendo stato eletto grazie al sostegno di Hezbollah e Amal. Il ministro delle Finanze, come gli altri ministri sarebbero dovuti essere eletti dal primo ministro in modo del tutto indipendente. Ma in Libano non è mai successo e nemmeno sembra accadrà ora nonostante le continue proteste popolari contro tutta la classe politica per il collasso economico del Paese dei Cedri. Il leader di Amal, Nabih Berri, a colloquio con Aoun, ha invece presentato una lista di dieci nomi, tutti sciiti, per le Finanze, come unica concessione ad Adib. Che, a quel punto, ha deciso di gettare la spugna. A nulla è valsa la disponibilità dell’ex premier libanese Saad Hariri, leader del blocco sunnita, a bere “l’amaro calice” e accettare “per una sola volta” l’assegnazione del ministero agli sciiti. Hariri, neanche troppo dietro le quinte, è stato però subito sconfessato dai suoi.

Il muro contro muro è causato dal timore da parte del blocco sunnita, maggioritario nel Paese, che attraverso la “conquista permanente” del ministero delle Finanze, la compagine sciita crei con il tempo una sorta di terzo blocco istituzionale. Macron, per tentare di risolvere la questione sembra si sia rivolto ai russi perchè facilitassero i suoi contatti con gli ayatollah iraniani, l’unico regime in grado di orientare le scelte di Hezbollah. Ma Teheran aspetta di vedere come andranno le elezioni negli Stati Uniti che hanno recentemente colpito con sanzioni economiche due ex ministri sciiti libanesi uscenti, tra cui proprio il ministro delle Finanze, membro di Amal.

007 turchi: licenza anti-curdi. Obiettivo è spaventare Kurz

Tra Vienna e Ankara non corre buon sangue di questi tempi ed è probabile che l’ultimo caso di spionaggio sulla stampa austriaca e tedesca non aiuterà a distenderne i rapporti. Tutto è cominciato così: un pensionato turco si presenta all’ufficio del servizi segreti austriaci di Vienna, il Bvt, raccontando di trovarsi in Austria da qualche mese con la missione di uccidere la scienziata di origini curde Berivan Aslan, candidata per la lista dei Verdi alle prossime elezioni per il Parlamento del Land di Vienna l’11 ottobre. Il pensionato Feyyaz Ö. si auto-definisce una spia che ha concluso il servizio al Mit, i servizi segreti turchi.

Sarebbe stato contattato da un mediatore mentre si trovava a Belgrado. In un secondo colloquio con i servizi del 15 settembre, secondo quanto riferisce Sueddeutsche Zeitung, l’ex spia ammette di aver ricevuto anche l’incarico di compiere altri attentati: contro Peter Pilz, ex deputato di sinistra, contro un ex deputato dei Verdi e contro un altro politico socialdemocratico. Poi Feyyaz Ö. specifica: non doveva proprio ucciderli bastava “recapitare un’ambasciata”. Lanciare messaggi di questo tipo a candidati in campagna elettorale a poche settimane da un’elezione importante, si potrebbe leggere come un messaggio politico di intimidazione diretto al governo di coalizione verde-conservatrice del cancelliere Sebastian Kurz. Ma il racconto della spia si ingarbuglia e si infittisce quando racconta di essersi rotto una gamba a Rimini, in una pausa della missione austriaca e di aver detto ai suoi committenti turchi che non poteva portare a termine il compito. Cosa lo spinge, in un secondo momento, a varcare la soglia dell’ufficio di Vienna dei Servizi austriaci? E quanto è credibile il suo racconto?

La candidata verde Aslan, abituata da sempre alle minacce per le sue origini crude e il suo impegno politico, considera questa vicenda “molto seriamente”, riferisce Sz. Ha disdetto tutti i comizi elettorali previsti per le elezioni e ora vive sotto protezione mentre l’intera faccenda è seguita dai servizi di Vienna.

L’ambasciata turca a in Austria finora rende noto di non essere stata contattata dalle autorità. E l’ambasciatore ha fatto sapere che considera “non credibile” il resoconto dell’uomo. Il punto è che Feyyaz Ö. è stata davvero una spia, ma si tratta di un agente non più in incognito. “Utile quanto basta per un’ultima missione”, scrive il giornale online austriaco Zackzack, il primo giornale a essersi occupato della vicenda e di proprietà di uno dei bersagli presunti, Pilz. L’ex spia in pensione è ed era sotto processo in Turchia e la sua famiglia sarebbe stata minacciata, ha detto la Aslan alla Sueddeutsche Zeitung. Tutto testimonia a favore di un suo legame con i servizi segreti turchi e l’ipotesi è che abbia voluto salvarsi con un’autodenuncia.

Ma la storia di Feyyez è tutt’altro che un caso isolato. La rete di spie turche in Austria è particolarmente fitta e ramificata: ne ha parlato lo stesso pensionato nei verbali con i servizi e la candidata curda. Solo poche settimane fa è stata fermata una donna turca, era una spia. Fatto che ha spinto il ministro degli Interni austriaco Karl Nehammer a criticare duramente Ankara dicendo che per lo spionaggio turco in Austria “non c’è posto”. Un recente ultimo scontro tra le due diplomazie c’era stato in occasione di una manifestazione curda a Vienna lo scorso giugno. Ma le tensioni tra l’Austria e la Turchia ormai attraversano tutti i più importanti dossier sul tavolo al momento, dall’immigrazione alle esplorazioni energetiche nel Mediterraneo orientale. “Se cediamo a Erdogan e alla Turchia allora buona notte Europa!” ha detto il cancelliere austriaco Kurz di recente al Kronezeitung. Non stupisce allora che la rivalità tra il Sultano e il premier dalle ambizioni asburgiche prenda forma anche sotto forma di guerra di spie.