Ora si è rotta l’America: il “Trump bis” fa paura

Ricevo da New York, da Washington, dalla California messaggi che non avrei saputo inventare per un romanzo di fantapolitica. Sono messaggi brevi, concitati e difficili sia da credere sia da ignorare. Dicono: “Ho paura”. Stanno parlando delle elezioni presidenziali che stanno per avvenire con la implacabile regolarità che abbiamo sempre riconosciuto all’America: stesso giorno di novembre, ogni quattro anni.

La paura di questa America, già molto danneggiata da Trump, sembra essere il clima di queste elezioni. E sembra prepararsi a un dopo di disordine e scontro che non avveniva dai tempi della guerra civile. L’opposizione, come aggregato regolare di partiti e di folla, sembra uno schieramento di osservatori che lanciano sporadici messaggi spaventati o tacciono. E la guerriglia ormai c’è e si estende: suprematisti bianchi contro neri inseguiti nelle strade, uccisi con colpi alla schiena nelle auto e nelle case, contro improvvisate pattuglie di neri che tentano di dar vita a resistenze e vendette, in cui restano braccati e sotto tiro. Ma poter dire che c’è guerriglia è il capolavoro del potere manovrato da Trump, dal presidente.

La guerriglia è nata dal potere, dalla Casa Bianca, dalla gente di Trump. La polizia ne è il principale strumento. In tanti centri grandi e piccoli degli Stati Uniti gli agenti non avrebbero cominciato a uccidere come per un salto di nervi. Servono ordini, e gli ordini sono arrivati. Gli strateghi di Trump, e forse Trump stesso, ormai libero di non fingere di essere un normale uomo politico, non hanno esitato a dare vita e forza a una campagna elettorale che non appartiene ad alcun Paese democratico. La Casa Bianca è stata sgomberata da tutti coloro che avrebbero voluto restare nella lunga e solida tradizione democratica, una tradizione che ha sbandato con forza tra destra e sinistra ma senza mai abbattere i confini della Costituzione. Trump, che continua a caricare di insulti il suo linguaggio politico, non vuole una campagna di burle e sorprese (anche molto volgari e ampiamente false) come quella che lo ha fatto vincere, forse con l’aiuto del complice Putin. La strategia adesso è la paura. Trump è il primo presidente della storia democratica che impianta la sua corsa minacciando il suo Paese e i suoi cittadini. Soltanto un personaggio ebbro di se stesso e privo di moralità poteva organizzarsi in modo da trarre vantaggio dalla pandemia che all’inizio chiamava “una influenzetta”, ridicolizzando persino i suoi esperti, e adesso chiama “morbo cinese”.

Il pericolo grave del contagio, che negli Usa è altissimo, impone il voto per posta. Trump ha appena nominato un fedelissimo nuovo “Post Master General” (capo dell’immenso servizio postale americano), uno che, si capisce, ha il compito di spostare, accelerare, rallentare, far scomparire la posta secondo le necessità del momento. È già accaduto in Florida ai tempi di George W. Bush quando il fratello Jebb, governatore di quello Stato, nel quale venivano immagazzinati e scrutinati i voti dei cittadini americani residenti all’estero, non ha mai fatto aprire quelle scatole, nel timore che favorissero l’avversario democratico Al Gore, che infatti ha perso per pochi voti.

Accanto alla minaccia postale c’è la minaccia della guerriglia. Il capolavoro dei suprematisti bianchi agli ordini degli strateghi elettorali della Casa Bianca è di avere spinto neri armati per le strade d’America. Difendono se stessi e si armano per paura, ma l’immagine appartiene a una tradizione e a un passato di minaccia, mai avvenuta ma sempre annunciata dai razzisti di scuola, di chiesa, di lavoro, di politica. Un destino fortunato: la morte della giudice della Corte Suprema Ruth Bader Ginsburg, la giurista più liberale (noi diremmo “di sinistra”) che sia mai approdata alla Corte, consente a Trump di far nominare subito e in fretta una giudice di estrema destra. In questo modo, per un colpo di fortuna, la patologica aggressività di Trump elimina la possibilità di ricorrere alla giustizia come modo per frenare la corsa dell’esecutivo al disastro del leggendario sistema democratico americano. Ma Donald ha deciso di usare un’arma in più. È un suo annuncio buttato lì in una intervista e in una conferenza stampa che ha sconvolto il Paese: “Non illudetevi di entrare qui tanto facilmente per due voti in più”. “Trump trasformerà le elezioni in caos e cambierà il risultato. Chi può fermarlo?”: è la traduzione politica del prestigioso The Atlantic. Il suo editore ha pubblicato l’articolo che decifra la frase di Trump, un mese prima “a causa dell’urgenza”. Finora nessuno, in politica o nel mondo accademico, ha contraddetto la drammatica interpretazione del politologo Barton Gellman, autore dell’articolo, ampiamente riportato da tutti i media. Per questo tanti hanno paura.

 

I meriti di Conte, “l’Innominato”

 

“Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere”.

Ludwig Wittgenstein

 

A una domanda del “Corriere della Sera” sul perché mai mentre in quasi tutta Europa il Covid cresce molto in Italia no, il noto virologo Massimo Galli risponde: “La mia personale impressione è che il lockdown per come lo abbiamo vissuto e sofferto, più rigoroso che altrove, abbia limitato la circolazione del virus in alcune parti d’Italia”. Ma tu pensa, soltanto che non riesco proprio a ricordarmi chi diamine fu che la sera del 9 marzo 2020 apparve improvvisamente in tv per annunciare agli italiani: stop agli spostamenti in tutto il territorio nazionale, scuole chiuse, blocco di ogni manifestazione sportiva compreso il campionato di calcio, insomma quella roba lì. Era forse Salvini? Meloni? Renzi? No, non mi sembra, eppure a pensarci bene quel tale doveva ricoprire una carica importante per imporre misure così gravi. Chissà che diavolo gli passava per la testa quel 9 marzo? Chiudere il Paese a doppia mandata, così a cuor leggero. Un irresponsabile, sicuramente. Anche perché furono decisioni senza precedenti nella storia, e l’Italia fece da battistrada in Europa mentre i governi di Francia e di Spagna esitavano (e su Boris Johnson, in Inghilterra, veniva steso un lenzuolo pietoso). Ma questo sapete chi lo va dicendo, quel Massimo Galli noto scienziato gruppettaro di sinistra. Ah, ecco ora mi sovviene che quel tale di cui (fortunatamente per lui) nessuno ricorda il nome, e neppure il cognome, cominciò a emanare a raffica certi decreti liberticidi chiamati Dpcm, imponendo agli italiani una vera e propria dittatura sanitaria. Che vergogna. Strano che il nome, e il cognome, di costui nessuno riesca mai a pronunciarlo. Tranquilli però se, malauguratamente, le cose dovessero mettersi male anche nel nostro Paese (dopo l’estate del Billionaire, del vamos alla playa e del ’mo basta co ’ste mascherine liberticide), vedrete che, come d’incanto, gli smemorati ritroveranno memoria e favella e quel nome diventerà finalmente pronunciabile. Ed esecrabile. Scommettiamo?

 

L’amplesso buddista tra l’imperatrice Hiromi e il monaco Yujiro

Dai Racconti apocrifi di Ihara Saikaku. Prima dell’anno Mille, in Giappone viveva un’imperatrice di nome Hiromi che aveva ereditato il trono da suo padre e governava saggiamente. A causa della sua bellezza, aveva molti pretendenti, ma nessuno le piaceva. Un giorno si ammalò, e un giovane, vigoroso, affascinante monaco buddista di nome Yujiro si recò al suo capezzale, dove pregò per la sua salute. Hiromi, rapidamente, guarì; e poco tempo dopo, sorprendendo la corte, espresse il desiderio di farsi monaca. Così, ancora giovane, l’imperatrice si ritirò in un monastero buddista. Nara, la capitale del Giappone, era piena di monaci, che con le loro tuniche color zafferano e le loro teste rasate richiamavano l’attenzione delle donne, sia di alto che di basso lignaggio. Yujiro, più di altri, sapeva usare la sua bella presenza e i suoi buoni contatti a proprio vantaggio; e presto riuscì a incontrare di nuovo la giovane imperatrice. “Mia Signora, la cui bellezza straordinaria è superiore a quella del ciliegio in fiore bagnato dalla luce della luna, perché si è ritirata così prematuramente dalle cose del mondo?” le domandò. “Santo Maestro”, rispose lei “un’imperatrice possiede un grande potere; ma io aspiravo a una gioia più profonda, e nessuno riusciva a mettermi in contatto con essa. Così mi sono rivolta alla religione per intraprendere la via dell’estasi”. Yujiro insistette: “Mia Signora, so qualcosa di religione, e conosco la via che unisce la più grande estasi al più grande potere. Se lei riprenderà il trono, diventerò il suo monaco personale, e potrò mostrarle questa via”. Sopraffatta dalla volontà dell’aitante religioso di servirla anche nelle stanze riservate del governo secolare, Hiromi lasciò il romitaggio e tornò a palazzo.

Di nuovo imperatrice, nominò Yujiro suo monaco personale, e lo convocava con assiduità, per esplorare con lui la via del nirvana. Gli abitanti di Nara erano incantati da questo connubio impavido di Stato e Chiesa, e componevano canzoni per celebrare l’amore proibito che si consumava all’interno delle mura imperiali. Nelle taverne e per le strade, intonavano una filastrocca che l’imperatrice avrebbe potuto gorgheggiare al monaco con cui condivideva il cuscino: La campana del tempio tace,/ ma il suono continua/ a uscire dal mio fiore. Yujiro trascorreva le serate nella dimora più interna del palazzo, salmodiando le parole dorate delle scritture buddiste. La sua voce potente e profonda si diffondeva, richiamando da ogni edificio del palazzo donne in ascolto: sedevano nel parco, presso il ciliegio sacro, e ascoltavano il monaco cantare le descrizioni dell’estasi del nirvana. Alcune ancelle osavano avvicinarsi alle porte scorrevoli della sua stanza, e quando la bella imperatrice compariva nel suo kimono di seta fuggivano di corsa. Lui in piedi, senza tunica, l’istruzione cominciava. L’imperatrice faceva scivolare alle caviglie i veli del kimono che coprivano il suo corpo regale, e saliva in grembo al suo maestro statuario, circondando con le sue braccia nude la colonna del suo collo. Lui la guardava negli occhi, mentre la pagoda del suo amore si innalzava in lei. Un giorno, l’imperatrice nominò Yujiro Signore del Dharma, un titolo speciale per un uomo speciale; e fu lui, nel capodanno del 769, a uscire sulla porta del palazzo per ricevere i saluti tradizionali dei ministri di Stato. A quel punto, gli zii dell’imperatrice pensarono che i loro figli non avessero possibilità alcuna per il trono, e così escogitarono una serie di trame per liberarsi di Yujiro, che un brutto giorno morì. Tre mesi dopo, l’imperatrice diede alla luce il figlio di Yujiro, che a un anno le disse: “Non voglio questi sandali. Voglio quelli rossi, quelli che avevo prima”. Il bambino non aveva mai avuto sandali rossi: li aveva posseduti Yujiro.

Dai telai al Pc: atomizzare il lavoro non è una buona idea

Che la storia sia maestra di vita e che, nel caso lo sia, abbia o meno scolari è una di quelle affermazioni di cui è difficile appurare la veridicità: un aforisma, scrisse cent’anni fa un bravo aforista, è sempre una mezza verità o una verità e mezza. Ora, senza alcuna pretesa di inchiodare il futuro al passato, bisognerà applicherà le nostre mezze verità allo smart working, il “lavoro agile” che poi sarebbe il lavoro da casa: una scelta residuale fino al Covid-19 e che ora – l’ad di Fca Mike Manley lo ha scritto felice ai dipendenti – ambisce a farsi nuova “normalità”.

Alcuni di sicuro, forse molti, ne saranno contenti e certamente i fautori del lavoro agile possono vantarne gli aspetti positivi, però chi scrive non riesce a non pensare a un’espressione che a sinistra – pensate un po’ – andò di moda qualche anno fa: “Taylorismo digitale”, nel senso che le nuove tecnologie consentono di aggiornare il vecchio modello della cosiddetta “organizzazione scientifica del lavoro” (sfruttamento scientifico, volendo) che fu alla base della civiltà industriale delle grandi fabbriche, depurata però del fastidioso effetto secondario di creare un luogo capace di produrre, contemporaneamente, la classe lavoratrice e il suo terreno di lotta.

Questa cosa di aggiornare con termini nuovi e – come dire? – “petalosi” pratiche che in passato furono simboli di disuguaglianza e ingiustizia è una tendenza di fondo di questi anni: il cottimo nascosto dalla gamification, il fattorino smaterializzatosi nel rider mezzo uomo e mezzo App, la precarietà travestita da eccitante flessibilità. E così oggi c’è il computer a casa come qualche secolo fa c’era il telaio e l’altroieri la macchina da cucire: ah, le gioie del Verlagssystem! Il mercante porta il prodotto, tu lo lavori, lui passa a ritirarlo e lo vende: e tutto grazie allo smart working. Com’è antica la modernità.

Ognuno, ovviamente, è libero di farsi piacere l’organizzazione del lavoro che preferisce, c’è solo una cosa che va tenuta a mente: la solidarietà tra lavoratori nacque nei luoghi (fisici) di lavoro, la loro capacità di incidere nel conflitto redistributivo nasce dentro/contro i luoghi di lavoro. Se ogni condizione lavorativa diventa individuale, allora ogni trattativa diventa individuale e ognuno, per così dire, starà solo sul cuor della terra: non più conflitto, non più sindacato, non più politica e alla fine non più diritti. A pensarci bene, esattamente come ai tempi del telaio.

“Se unisci lavoro e vita minacci la socialità e crei diseguaglianze”

Una terminologia seduttiva, “smart working”, che se mal gestita nella sua declinazione pratica rischia di generare implicazioni psicologiche e sociali rilevanti. A spiegarlo è Bruna Zani, già professoressa ordinaria di psicologia di Comunità all’Alma Mater Università di Bologna. “Il lockdown ci ha introdotto a una nuova modalità di lavoro. Il termine ‘smart working’ ha sicuramente un’accezione carina, positiva, anche se noi lo traduciamo con ‘lavoro agile’. Trasmette l’idea del dinamismo e della flessibilità, spesso è però solo considerato come lavoro da casa. Ed estenderlo in questo modo alla vita quotidiana determinerebbe un cambiamento importante del suo ritmo, non sempre positivo”.

Professoressa Zani, se da domani i lavoratori potessero decidere di lavorare da casa, cosa accadrebbe?

Ci sarebbe un cambiamento importante nei tempi della vita quotidiana. E negli spazi. Con il lavoro in presenza ci si muove nello spazio si passa da un luogo ad un altro, poi si torna a casa. Verrebbe meno questa distinzione: per molti sarebbe concentrato tutto insieme e tutto in un unico posto, lavoro e famiglia e privato. Questo unico posto è poi molto diverso da situazione a situazione, il che amplierebbe le disuguaglianze tra le persone, anche solo in base alla disponibilità di stanze per stare per conto proprio. Non è un elemento da poco e così anche la scelta potrebbe non essere un diritto uguale per tutti.

Finirebbe la scansione dello spazio, quindi. E cosa accade al tempo?

Sul tempo devono essere valutati due aspetti. Da un lato, ad esempio, lo smart working permette di accorciare i tempi delle riunioni e del team training: è dimostrato, ad esempio, che per la formazione dei lavoratori l’online genera partecipazione maggiore perché viene meno il disagio e l’impegno dello spostamento. Ci si collega e si è presenti. È un aspetto positivo, così come lo è la possibilità di gestire meglio il proprio tempo nel caso in cui ci sia una organizzazione del lavoro con progettualità seria ed una efficiente identificazione di obiettivi.

Cos’è allora che non va?

C’è il rischio di assuefazione, di non riuscire a staccarsi dal lavoro. Là dove è possibile, il passaggio dal lavoro a tempo a quello per obiettivi può essere importante oltre che produttivo, ne beneficiano tutti, azienda e lavoratori. Ma questo richiede una maggiore capacità di gestione del tempo e va insegnata: non è detto che tutti lo sappiano fare. Inoltre non si può certo pensare che smart working significhi che ognuno lavori lasciato a se stesso: servono confronto, formazione, punti fermi, dialogo, contrattazione. Altrimenti può accadere che se non riesco a raggiungere obiettivi mi colpevolizzo ed entro in uno stato di stress emotivo tale da sfociare in burnout. I disturbi psicologici, per dire, magari si manifestano nel medio periodo: si pensi allo stravolgimento del ritmo sonno-veglia che potrebbe accentuarsi o emergere ex novo. E ancora, la paura di uscire: ci si potrebbe abituare così tanto a stare in casa da non volerla più lasciare.

Lavorare senza colleghi, poi, non può essere alienante?

Sì. Un altro aspetto che potrebbe venire offuscato è quello relazionale: sul luogo di lavoro hai contatto con colleghi e superiori e ci sono i cosiddetti ‘tempi informali’. Ricerche decennali parlano dell’importanza del clima informale: le conversazioni davanti alla macchinetta del caffè o al mattino, le chiacchiere su cosa si è fatto nel weekend. Lavorare ognuno a casa o ognuno dove vuole potrebbe alterare il livello relazionale: manca la fisicità, mi trovo davanti a pc, guardo il mio pc. Certo posso guardare anche altri nel tondino del programma di teleconferenza in cui parlo e da cui ascolto, ma basta. Non c’è più corporeità.

Qual è il ruolo dei dispositivi digitali in questa prospettiva: rischiamo davvero di diventarne schiavi?

La premessa da fare, sempre, è che il problema non è il mezzo in sè – che non è buono nè cattivo – ma l’uso che se ne fa. Il mezzo è utile e indispensabile se si pensa alla situazione del lockdown. Ma proseguendo quell’esperienza, adesso bisogna imparare a usarlo. Bisognerà imparare a disconnettersi, a pensare e gestire lo strumento che abbiamo con consapevolezza e senso critico. La socialità va ripresa e ripensata sia in senso “fisico” che “virtuale”. Solo sulla consapevolezza si può costruire un sistema equo ed evitare pericolose forme di alienazione e comportamenti antisociali.

Ma questo smart working fa bene o fa male?

Se c’è una cosa che il Covid ha insegnato è che smart working significa lavoro a casa: errore. Per mesi, durante la quarantena collettiva, i lavoratori che potevano sono stati delocalizzati nel proprio tinello. È cambiata solo la sede di lavoro, imposta in emergenza e per decreto e il 15 ottobre, con la fine dello stato d’emergenza tutto potrebbe tornare come prima. Molte aziende, però, stanno valutando i vantaggi di proseguire in regime di lavoro agile nella consapevolezza che lo smart working sia più del semplice “rimanere a casa e collegarsi via Zoom”. Proviamo a spiegarlo.

Cos’è. In Italia (fonte ministero del Lavoro) smart working viene tradotto come “lavoro agile”. È previsto per legge ed è regolato da una norma di tre anni fa (legge 81 del 2017) che fa evolvere quello che un tempo era il telelavoro, questo sì una semplice trasloco del lavoro a casa con stessi orari, stesso sistema di controllo, garanzie e straordinari. Il lavoro agile, invece, nell’intenzione della norma di fatto prevede sì che le mansioni possano essere svolte da qualsiasi luogo idoneo ma anche che si possa utilizzare una scansione del lavoro in “cicli, fasi o obiettivi” a parità di trattamento e garanzie rispetto al lavoro tradizionale. Insomma, cerca di rendere più autonoma l’organizzazione del lavoro. Secondo la legge, è frutto di un accordo individuale tra il lavoratore e l’azienda: si stabilisce tra le due parti per quanto tempo, quale sia il potere di controllo del datore, quali strumenti si useranno e così via.

L’entità. Prima del Covid-19 in pochi ricorrevano al lavoro agile. L’azienda decideva se renderlo disponibile in base alle necessità e alle policy di welfare aziendale. Era un fenomeno di nicchia. Nella Pubblica amministrazione era stato introdotto dalla legge Madia, ma solo il lockdown l’ha messo a regime con l’obbligo dal 4 marzo. Una forzatura obbligata, ma così viene meno la trattativa individuale, si avvia un esperimento di massa che secondo le stime sindacali oggi riguarda ancora circa due milioni di lavoratori in Italia. Erano meno di un milione prima della quarantena, hanno toccato il picco degli otto milioni tra marzo e aprile.

Lo stato dell’arte. A spiegare cosa sia successo in mezzo è Cristian Sesena, responsabile Area Contrattazione della Cgil nazionale: “I datori di lavoro hanno capito che lo smart working non dà problemi di produttività anzi. Può essere vantaggioso perché abbatte molti costi, dalla mensa ai trasporti. In più, molti lavoratori hanno dimostrato un certo grado di gradimento, nonostante le criticità”. Si taglia sulle sedi, sui consumi, sui rimborsi, si passa (nelle ipotesi più ottimistiche) dagli straordinari ai premi di produzione. C’è chi ha calcolato che su ogni posto di lavoro si potrebbero risparmiare fino a 10mila euro. “Il 15 ottobre termina lo stato emergenza – spiega Sesena – Se non viene rinnovato, torna obbligatorio trattarlo con accordi individuali”. Situazione che apre due possibili scenari: potrebbe dissuadere le aziende dall’optare per lo smart working o creare una giungla di accordi diversi, di fatto fornendo alle società anche elementi di concorrenzialità nell’attrarre i lavoratori. Al ministero del Lavoro sono iniziati i tavoli con i sindacati. Il primo giovedì scorso, il prossimo dovrebbe arrivare entro il 15 ottobre. L’obiettivo è introdurre nella legge esistente la contrattazione collettiva. Finora, i grandi gruppi che hanno deciso di proseguire con il lavoro agile hanno siglato accordi di secondo livello. “Dare spazio a un accordo, anche interconfederale, con principi e linee guida che poi vengano recepiti nei contratti nazionali e aziendali, sarebbe un primo passo per evitare situazioni svantaggiose per i lavoratori e disparità”.

Diritti.Ferme restando le garanzie già esistenti (ferie e malattie), questa modalità di lavoro porta con sé altre sfide. Nella maggiore liberta di gestire il lavoro e il suo orario, ai lavoratori andrebbe garantita una adeguata strumentazione, sia per la loro tutela che per quella degli utenti (come i dati dei cittadini nella Pa). Con la perdita del confine tra tempo di lavoro e di vita, poi, si rischia di lavorare di più senza accorgersene. “Il diritto alla disconnessione è nella legge, ma non viene spiegato come applicarlo” dice Sesena. In Francia hanno risolto stabilendo che dopo un certo orario il datore non può mandare mail. Inoltre, non tutti i lavori che possono essere svolti da remoto sono uguali. Ciò che vale per un centralinista non vale per un progettista.

La valutazione. Per evitare di dar vita a un sistema basato sul cottimo, poi, “bisognerebbe riadattare il sistema contrattuale di valutazione della performance e di attribuzione di valore ” spiega invece Vincenzo Ferrante, professore ordinario di Diritto del lavoro all’Università Cattolica. In estrema sintesi, capire come valutare i risultati e come remunerarli nel momento in cui si dovesse passare da sistemi di valutazione retributivi a tempo (se lavori 8 ore ti do il doppio di chi ne lavora 4) a sistemi di valutazione secondo obiettivi. Una pratica sconosciuta da queste parti. “Il lavoro in Italia è poco ingegnerizzato – spiega Ferrante – ci sono pochi standard predeterminati. Siamo un paese di piccole imprese, dove il datore può controllare quasi da sé i risultati. Ma nei grandi complessi industriali se non hai un sistema di controllo organico è difficile. Noi non lo abbiamo, la compliance è usata solo per motivi disciplinari, la programmazione è al minimo”. Bisogna individuare anche nuovi strumenti contrattuali: “Ai sindacati tocca raggiungere una standardizzazione. L’idea è che il lavoro si strutturi più o meno così: se consegno a un lavoratore 50 pratiche da fare in 20 giorni, ne prevedo magari 10 difficili, 12 di media difficoltà e il resto semplici. Al termine, valuto i risultati. Ma i parametri vanno stabiliti in accordo con i rappresentanti dei lavoratori. È l’occasione per dar loro nuova linfa, per farli tornare a quando non facevano gli avvocati dei lavoratori ma spiegavano al datore come funzionava il lavoro”. Il datore deve però “mettere i soldi sul tavolo” per loro: se la produttività aumenta e i costi diminuiscono, non può essere a solo suo vantaggio.

Il cambiamento.Potrebbe comunque riguardare tutte le funzioni impiegatizie e burocratiche. Certo, cambierebbe l’organizzazione delle città, con pro e contro. Se gli uffici e i ristoranti si svuotano (gli esperti di Barclays credono che ci possa essere una riduzione fino al 20 per cento della domanda di spazi per gli uffici) potrebbe anche esserci una rivalutazione della periferia. “Se devo andare in centro a Milano al massimo un paio di giorni a settimana – spiega Ferrante – magari sarò più invogliato a prender casa nell’hinterland. E anche Ragusa potrebbe diventare competitiva come Pavia”.

Disastro Morandi, si torna al via. Cronistoria di due anni di errori

Due anni e 44 giorni dopo il disastro del Morandi lo scenario è il peggiore possibile. La trattativa tra Atlantia e Cdp è naufragata. Il governo cerca di ricaricare l’arma della revoca e costringere i Benetton, che controllano la holding che a sua volta controlla Autostrade per l’Italia (Aspi), a capitolare. Come si è arrivati fin qui? Ecco la cronistoria di una querelle di annunci, errori e scorrettezze.

15 agosto 2018 A sole 24 ore dal crollo del Morandi, il premier Giuseppe Conte annuncia: “Avvieremo la procedura di revoca della concessione ad Autostrade”. Due giorni dopo, il ministero delle Infrastrutture spedisce ad Aspi la lettera di avvio della “caducazione” del contratto contestando “la grave sciagura”. Seguiranno varie risposte di Aspi e contro-risposte del Mit. Quella procedura, in teoria, è ancora aperta. I giornali si riempiono di scenari apocalittici sui maxi indennizzi garantiti ad Atlantia dalla concessione.

7 settembre 2018. Gilberto Benetton nega al Corsera ogni responsabilità: “Quando si sarà accertato compiutamente l’accaduto verranno prese le decisioni…”. E si appella a Salvini: “Credo conosca gli imprenditori e sappia quello che c’è nei loro cuori…”. La Lega sarà la più critica verso la revoca.

26 settembre 2018 La commissione ispettiva ministeriale sul Morandi stila un atto di accusa pesantissimo: “Emerge un’irresponsabile minimizzazione dei necessari interventi da parte di Aspi, perfino anche di manutenzione ordinaria”. Aspi replica minacciando di far causa agli ispettori. I 5stelle invocano la revoca.

20 novembre 2018 Con il decreto Genova, il governo esclude Aspi dalla ricostruzione post-Morandi e gli addebita i costi. Aspi fa ricorso (perderà).

20 dicembre 2018 Ennesimo penultimatum: il governo spedisce ad Aspi una lettera con la richiesta di spiegare le ragioni del crollo e le responsabilità, dando 120 giorni per rispondere. Poi scatterà la revoca.

Aprile 2019 A pochi giorni dalla scadenza, i rumors finanziari svelano una novità clamorosa. Mediobanca, advisor del governo per trovare un salvatore ad Alitalia da affiancare alle Ferrovie, ha sondato Atlantia. Luigi Di Maio rassicura: “Sono dossier separati”. Inizia un ricatto che farà perdere mesi.

2 luglio 2019 Arriva la relazione dei giuristi incaricati dal ministro Danilo Toninelli di valutare i presupposti della revoca. Il documento spiega che Aspi ha responsabilità gravi e che la revoca è giustificata. Bolla come illegittime le clausole che garantiscono ad Atlantia il mega indennizzo (20 miliardi), pur non potendo escludere il rischio di soccombenza per lo Stato. Non succede nulla.

18 settembre 2019 Le inchieste liguri svelano lo scandalo dei report falsati sullo stato di alcuni viadotti. I Benetton per salvare la faccia cacciano Castellucci (con buonuscita milionaria). Prende il comando il plenipotenziario, il manager di fiducia Gianni Mion.

22 novembre 2019 I Benetton, come previsto, smollano Alitalia. Il governo (Conte 2) minaccia sfracelli: i 5 Stelle invocano la revoca, il Pd frena.

1 dicembre 2019 Luciano Benetton su Repubblica auto-assolve la famiglia, colpevole solo di “essersi affidata a manager non idonei”. Sei mesi prima giurava: “Sono sicuro della buonafede dei manager”.

Gennaio 2020 La neo ministra Paola De Micheli a fine mese consegna a Palazzo Chigi l’ennesimo dossier prodotto dall’ennesima commissione per valutare il da farsi. Parte un negoziato per ottenere un maxi-indennizzo e far uscire Atlantia (e i Benetton) da Autostrade, che passerebbe a Cassa depositi e prestiti. I giornali si riempiono di pizzini finanziari.

14 luglio 2020 Dopo aver minacciato la revoca ancora un po’ il Consiglio dei ministri chiamato a deciderla sancisce in realtà un accordo in notturna con Atlantia. La holding con una lettera promette di uscire da Aspi, facendo entrare Cdp con aumento di capitale riservato seguito dalla quotazione. L’impegno è di fare il primo passo già entro fine settembre. Il governo si dimentica di ottenere anche una manleva legale per i rischi civili del Morandi.

4 agosto 2020 La trattativa con Cdp si arena proprio sulla richiesta di manleva da parte di Cdp. Atlantia disattende la sua stessa lettera al governo e avvia una procedura di vendita e/o scissione di Aspi. Nel frattempo il Mit ha stilato l’accordo transattivo, l’atto aggiuntivo che modifica la concessione e il nuovo Piano economico di Autostrade. Doveva servire per la nuova Aspi targata Cdp, invece Atlantia può denunciare (come ha fatto) a Bruxelles che il govenro la ricatta subordinando il via libera degli atti amministrativi all’ingresso di Cdp

Autostrade, lettera del governo: “Risposta entro il 30 o revoca”

Il governo prova a uscire dallo Stallo su Autostrade optando per la linea dura. Ieri sera a Palazzo Chigi Giuseppe Conte ha riunito in un incontro tenuto riservato i ministri del Tesoro e delle Infrastrutture, Roberto Gualtieri e Paola De Micheli insieme ai capi di gabinetto. Si vedrà se stavolta si farà sul serio, ma – a quanto risulta al Fatto – premier e ministri hanno concordato di procedere alla revoca della concessione ad Autostrade per l’Italia, ormai considerata l’unica opzione rimasta.

La decisione dovrà essere ratificata a breve in Consiglio dei ministri. La riunione è arrivata in serata, dopo che venerdì sera è definitivamente tramontata la trattativa tra Atlantia e la Cassa depositi e prestiti avviata dopo l’accordo “politico” del 14 luglio sull’uscita di scena dei Benetton e il ritorno delle corsie di Aspi (oltre metà del totale) in mano pubblica. Ieri il governo ha inviato una lettera alla holding spiegando che la scelta di procedere da sola alla vendita della controllata viola l’intesa di luglio. Per questo ha dato tempo fino a mercoledì per rispondere, dopodiché procederà alla revoca.

La riunione è servita per fare un punto tecnico. Gli uomini che seguono il dossier non escludono che oggi, a mercati chiusi, possa arrivare una qualche presa di posizione formale da parte del governo. “La misura è colma”, è lo sfogo che filtra a Palazzo Chigi. Il dietrofront di Atlantia, che ha cambiato le carte in tavola procedendo da sola alla vendita di Aspi dopo lo scontro con Cdp – che chiedeva una manleva legale per gli effetti finanziari dei contenziosi che potrebbero nascere dal Morandi – ha avuto l’effetto di compattare la maggioranza. Fino al 14 luglio buona parte del Pd non era favorevole alla revoca.

Il governo insomma ha deciso di accelerare riaprendo la procedura di revoca, che – per la verità – stando ai comunicati ufficiali non è mai stata chiusa. I Benetton hanno dato prova di non ritenerla possibile. Gli ostacoli, d’altra parte, non sono affatto di poco conto. Non c’è solo il rischio di un contenzioso legale dovuto ai maxi indennizzi previsti dalla concessione, che il governo ha cercato di disinnescare con il decreto Milleproroghe di fine 2019. La maggiore preoccupazione è per gli effetti finanziari: Autostrade è gravata da 10 miliardi di debiti (tra i creditori si contano la stessa Cdp e la Banca europea degli investimenti) e Atlantia rischia il collasso finanziario senza la sua controllata più importante. Vale poi la pena ricordare che la concessione di Aspi fu approvata per legge nel 2008 dal governo Berlusconi. Un’anomalia che ha dato una cornice pubblica a un contratto privato. Se il governo cancellasse la norma, il contenzioso finirebbe anche alla Consulta. Di sicuro, finirà alla Commissione europea.

500 metri quadri in saldo con vista sul Pci

E Botteghe Oscure furono. La nuova sede nazionale della Lega a Roma non è ancora pronta (gli operai stanno rifinendo gli spazi interni) ma è già operativa da diverse settimane. A ottobre sarà inaugurata ufficialmente. Come anticipato, è proprio di fronte al “Bottegone”, la storica casa del Partito Comunista Italiano. Per nulla infastiditi dal senso sacrilego della loro collocazione immobiliare, Matteo Salvini e i suoi hanno già preso possesso dei locali: una parte dei quadri e dirigenti del partito romano si sono insediati negli uffici, dove peraltro era già “ospite” da parecchio tempo il social media manager Luca Morisi, padre della famigerata “Bestia” salviniana.

La sede leghista occupa l’intero primo piano della palazzina storica della Fondazione Pasteur. La superficie è di circa 500 metri quadri, comprensivi di una confortevole sala stampa: una dimensione più che sufficiente per spostare definitivamente il baricentro dell’ex partito del Nord nella ex capitale ladrona.

In queste stesse stanze prima del Carroccio c’erano – il trasloco è tuttora in corso – gli uffici dell’Unione generale del lavoro, il sindacato di destra – dai tempi di Almirante e della Cisnal – che ha già concesso alla politica italiana due tra i suoi ex dirigenti: Renata Polverini prima, Claudio Durigon poi. Non è difficile rintracciare la regia dello stesso Durigon nell’operazione che ha portato il suo attuale partito a “prendersi” la sede del suo vecchio sindacato. È un segno dell’influenza che l’ex sottosegretario è riuscito a ritagliarsi negli affari della Lega, del quale è il coordinatore capitolino. E una prova di quanto il Carroccio voglia investire sulla presa del Campidoglio nelle elezioni del 2021 (in assenza di un candidato del centrodestra, mezza città è già tappezzata da manifesti con il faccione di Salvini). Quello dell’Ugl, per inciso, non è uno sfratto forzoso: il sindacato lascia l’affitto a Botteghe Oscure, dove occupava ben tre piani, per comprarsi una sede tutta sua. La Lega subentra solo nel primo dei tre.

La nuova casa sarà pure da arredare e rendere presentabile per gli ospiti, ma è già abitata. Sabato mattina in sede non ci sono solo quadri e impiegati: a ora di pranzo all’ingresso fa capolino anche Durigon insieme all’eurodeputato Antonio Maria Rinaldi. Il parlamentare pontino fa da anfitrione con i suoi colleghi e intanto si concede per qualche domanda. Ce n’è solo una a cui non vuole rispondere: il costo dell’affitto (i soldi per la Lega sono argomento sensibile). Ipotizziamo: 10mila euro al mese. “Nooooo, meno, molto meno”. 8mila: “Meno! Meno!”. Alla fine Durigon si arrende: “Paghiamo 5.500 euro al mese”. Sarebbero 66mila l’anno. Considerata la zona (pieno centro di Roma) e la dimensione (500 metri quadri) è un mezzo regalo. Infatti il leghista sogghigna: “È un grande affare da post-Covid”.

Il civico è il 54, esattamente davanti al palazzo di sei piani che per oltre 50 anni (dal dopoguerra al 2000) è stato abitato per intero dal partito comunista più grande d’occidente e dai suoi eredi (e ora è malinconicamente diviso tra uffici privati, un supermercato e una catena di parrucchieri). Per Salvini le Botteghe Oscure sono “il posto giusto”. Dove ora c’è la Lega – finché c’era il Pci – c’era un centro d’ascolto della Cia (parola di Armando Cossutta). E al piano terra i servizi segreti italiani “nascosti” in un negozio di tappeti.

La villa in Costa Smeralda coi fondi della Lega Salvini

Soldi dei sostenitori della Lega Salvini Premier sono finiti nelle tasche dei commercialisti salviniani, Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, attraverso la compravendita di una villa in Costa Smeralda. Un’operazione da quasi 350 mila euro. È questa una delle notizie contenute nella puntata di Presa Diretta che andrà in onda domani, lunedì 28 settembre, su Rai3. Intitolata “Caccia al tesoro: che fine hanno fatto i 49 milioni della Lega”, la trasmissione condotta da Riccardo Iacona prova a spiegare come siano stati spesi in questi anni i soldi affluiti sui conti del partito, anzi dei partiti, Lega Nord e Lega Salvini Premier.

È proprio partendo dalle casse della nuova creatura salviniana che si arriva alla villa situata di Cugnana, Comune di Olbia, a pochi chilometri da Porto Rotondo. Una villa immersa nella macchia mediterranea, che porta dritto a Di Rubba e Manzoni, i due commercialisti arrestati lo scorso 10 settembre su richiesta della Procura di Milano per peculato e turbata libertà nella scelta del contraente, nell’ambito dell’inchiesta sulla Lombardia Film Commission. La villa in Costa Smeralda non è citata dai magistrati milanesi tra i motivi degli arresti, ma la ricostruzione di Presa Diretta svela un altro pezzo della gestione finanziaria della Lega negli ultimi anni. Quelli in cui il tesoro padano è stato disperso in mille rivoli, con il risultato che quando la Guardia di finanza è andata a sequestrarlo (dopo la sentenza del Tribunale di Genova) ha trovato solo 3 dei 49 milioni di euro che dovrebbero tornare allo Stato.

La storia della villa inizia nell’estate del 2018, quando Salvini è al governo. Il 31 agosto Lega Salvini Premier effettua un bonifico da 311 mila euro verso Barachetti Service Srl, società che fa capo all’elettricista Francesco Barachetti, indagato nell’inchiesta su Lombardia Film Commission per concorso in peculato e diventato negli ultimi anni uno dei fornitori preferiti dai salviniani. Tre giorni prima del versamento a Barachetti, Lega Salvini Premier aveva incassato dallo Stato italiano quasi 1,5 milioni di euro, frutto delle donazioni che ogni contribuente può fare a ogni partito attraverso il 2×1000 della dichiarazione dei redditi.

La Lega gira quindi una parte dei soldi appena incassata a Barachetti. E cosa fa l’imprenditore con questo denaro? Compra la villa sarda da Marzio Carrara (non indagato), altro fornitore di punta della Lega, che con Di Rubba negli anni ha condiviso parecchi affari. Il rogito viene firmato il 27 dicembre del 2018 davanti al notaio Marco Tucci, anche lui bergamasco come Di Rubba, Manzoni e Carrara. Quel giorno Carrara vende alla Barachetti Service, per 338 mila euro, una società che si chiama Immobiliare Mediterranea Srl. Nell’atto notarile viene specificato che i soldi sono passati di mano prima del rogito, non si sa bene quando.Dietro le sigle societarie, potrebbe esserci l’affare della villa. Immobiliare Mediterranea è infatti proprietaria di un unico bene. Quale? L’immobile in Costa Smeralda.

Ricapitoliamo. Lega Salvini Premier versa 311 mila euro a Barachetti, il quale li usa (aggiungendo 27mila euro) per comprare la villa sarda da Carrara. Carrara gira un terzo del denaro della compravendita a una società di Di Rubba e Manzoni. A raccontarlo è un documento della Uif di Banca d’Italia, secondo cui, una società di Carrara (la Cpz Spa), poco dopo la vendita della villa a Barachetti, versa 134.200 euro allo Studio Dea Consulting. Bonifici motivati come acconto e saldo di una fattura. Lo Studio Dea Consulting all’epoca era di proprietà unica di Di Rubba, che fino a poco tempo prima aveva condiviso le quote con il collega Manzoni. Che c’entra la Lega in tutto questo? A parte il fatto che i soldi usati per acquistare la villa sarda e finiti poi sui conti della società dei commercialisti sarebbero del partito, c’è un altro fatto che collega la vicenda alle alte sfere salviniane. Lo dicono gli atti dell’inchiesta sulla Lombardia Film Commission. Tra i depositari delle scritture contabili della Immobiliare Mediterranea c’è la Mdr Stp Srl. È la società partecipata, oltre che da Di Rubba e Manzoni, anche dal senatore Stefano Borghesi e dal deputato e tesoriere Giulio Centemero. Due fedelissimi di Salvini hanno dunque avuto sotto il naso i conti della società protagonista della compravendita immobiliare fatta con i soldi del partito. Ma, evidentemente, non si sono accorti di nulla.