Zinga-Franceschini, la sfida sotterranea (pure al calendario)

“Devi parlare con Franceschini”. Nei primi mesi del governo giallorosso, l’indicazione era scontata, il riferimento nel Pd per qualsiasi cosa riguardasse l’esecutivo era il Capo delegazione.

Oggi non è più così: da una parte, i titolari dei singoli ministeri si sono diventati autonomi, dall’altra il rapporto tra il ministro della Cultura e il premier si è fatto più complesso e conflittuale.

In maniera quasi direttamente proporzionale, invece, è cresciuto il rapporto tra Nicola Zingaretti e lo stesso Presidente del Consiglio. I due ormai si sentono quasi tutti i giorni. E, cosa non secondaria, una interlocuzione diretta con Conte ce l’ha anche Goffredo Bettini, il consigliere numero uno del segretario del Pd.

La dinamica è interessante per capire come si svilupperanno gli equilibri nella maggioranza (e nel Pd) da qui al prossimo futuro. Zingaretti e Franceschini si sono in qualche modo divisi i compiti. In questa fase, il primo fa da pungolo, l’altro da stabilizzatore. Non a caso, per ora, Zingaretti ha rimandato la valutazione sul suo ingresso al governo. Preferisce stare fuori, per non legarsi mani e piedi all’esperienza e vedere se – con il partito diventato più forte dopo le Regionali – riesce a pesare di più nelle scelte dell’esecutivo, a dettare l’agenda, anche del Recovery Fund. Tra i vicini al segretario non sono in pochi a pensare che a un certo punto, se le cose non vanno come devono andare, le elezioni rimangano un’opzione, così come un cambio di governo. Percorribile o no quest’ipotesi, quel che è certo è che Zingaretti si avvia a interpretare il ruolo di chi può decidere di staccare la spina. Viceversa, Franceschini continua a credere che questo governo abbia un compito superiore – ovvero la gestione dei fondi del Recovery – ed è dunque per continuare a blindarlo. Sono anche i destini personali dei due che, però, divergono: Zingaretti deve decidere se continuare a investire sul Pd o considerare l’ingresso al governo; Franceschini continua ad avere l’ambizione di essere eletto presidente della Repubblica. E da sempre è proprio Franceschini a decidere le sorti di colui che siede al Nazareno. E dunque gli equilibri di potere nel partito sono tutt’altro che secondari.

Sarà magari solo una coincidenza che Franceschini abbia appena stabilito le date della sua scuola di politica a Cortona, proprio mentre Zingaretti lavora a strutturare il proprio Correntone sul territorio, bruciandolo sul tempo. A Cortona, Area Dem si riunirà dal 9 all’11 ottobre. Programma in via di definizione, ma non risulta la volontà di invitare né Conte, né Zingaretti. Mentre invece, dovrebbe essere presente il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini. La collaborazione tra lui e il Capo delegazione non è una novità. Ma acquista un’importanza particolare nel momento in cui – con la guerra dentro il Movimento – i numeri in Senato sono a rischio e la tenuta della maggioranza non appare così scontata. Parallelamente, per il peso di Zingaretti, il fatto di non poter contare su truppe parlamentari proprie non è un dettaglio da poco.

Si aspetta la “grande” iniziativa di Piazza Grande, prima della fine dell’anno, per capire davvero quali sono i pesi nel Pd. E anche quali spinte prevalgono. Rispetto al governo, prima di tutto.

“Nuova guida 5Stelle a novembre. Basta autocritiche infondate”

Domani, lui e gli altri ministri del Movimento si riuniranno con il capo politico reggente Vito Crimi. Località segreta, forse fuori Roma, “per garantire serenità all’incontro”. Ma Alfonso Bonafede, titolare della Giustizia e capo delegazione dei 5 Stelle al governo, ha già chiaro un punto del percorso che porterà al nuovo M5S: va concluso entro inizio novembre. “Al massimo in un mese e mezzo dobbiamo chiudere gli Stati generali e avere il nuovo organo direttivo”.

Assemblee, voti, tavoli di lavoro: il “terzo scenario” proposto dai Crimi ai parlamentari, tutto sembra tranne che veloce.

Alla riflessione ora deve seguire l’azione. Innanzitutto quella di governo, perché il Paese ci vuole concentrati sul rilancio dell’economia. Ma anche quella della nostra riorganizzazione interna, che deve durare il minor tempo possibile.

Più discutete tra di voi, meno stabilità date a Conte e al governo. È questo che la preoccupa?

Noi abbiamo sempre criticato le liturgie della vecchia politica: siamo nati per mettere fine alla politica che “parlava”, per noi la politica parla con i fatti. È il nostro dna.

L’analisi della sconfitta, quella che Alessandro Di Battista ha fatto con una certa durezza, non serve?

Era giusto riflettere sull’esito delle regionali. Ma non dobbiamo esagerare, perché non è nemmeno giusto non dare la dovuta importanza alle cose fatte: dalla Spazzacorrotti al reddito di cittadinanza fino al taglio dei parlamentari. Stiamo sottovalutando che il risultato del referendum è l’ennesimo tassello che ci permette di essere percepiti all’estero come un Paese che adesso fa le cose.

Secondo Roberto Fico una crisi di identità era inevitabile: eravate contro il potere, ora il potere siete voi.

Io credo che gli Stati generali non serviranno a darci un’identità, ce l’abbiamo già. È chiaro che i nostri valori oggi vanno declinati in un’ottica di maggiore concretezza, perché non siamo più nelle piazze a protestare, siamo al governo.

Dovrebbero vederla tutti come un’opportunità e fare meno autocritica, dice?

Io dico che è il momento in cui i nostri valori si stanno facendo spazio in Europa: si stanno aprendo possibilità per cui noi stessi abbiamo combattuto, stiamo assumendo credibilità nelle sedi internazionali, soprattutto per come abbiamo affrontato il Covid. Siamo o non siamo la forza politica di maggioranza che sta gestendo questa crisi e sta ottenendo questi riconoscimenti?

Il problema è che non se ne accorgono nemmeno gli elettori. Che spiegazione si dà?

Il risultato delle Regionali non dice questo. Dice che dobbiamo organizzarci meglio e arrivare più preparati. Ma per noi le elezioni locali sono sempre state un tasto dolente.

Difficile che anche alle Politiche possiate ripetere il risultato del 2018…

Non dobbiamo concentrarci sulla logica del consenso, né sui sondaggi. Nessuno avrebbe scommesso su di noi nemmeno prima del 2018. Pensiamo a lavorare.

Lei che priorità ha?

Accelerare le riforme del processo civile, penale e del Csm, oltre ala riforma Caselli contro le agromafie. E continuare nella lotta alla corruzione e alle mafie, anche come forma di garanzia rispetto agli investimenti che verranno con il Recovery plan. Con i due decreti antimafia abbiamo già rafforzato il ruolo del Dap e stabilito l’obbligo per legge di riportare davanti ai magistrati tutti i detenuti per mafia che i giudici, in autonomia, avevano mandato ai domiciliari, per una nuova valutazione alla luce del nuovo quadro sanitario.

Tornando agli Stati generali, come li immagina da un punto di vista pratico?

Immagino una serie di incontri regionali e so che è molto sentita l’esigenza di un incontro fisico a livello nazionale: auspico arriveremo a un organo con maggior collegialità rispetto a quella avuta finora.

Anche il rapporto con Rousseau va rivisto?

È uno degli argomenti all’ordine del giorno.

Il percorso prevede un gruppo di traghettatori. Ci sarete anche voi ministri?

Chi sta al governo deve pensare al Paese. Ma per quanto riguarda il modello di governance che uscirà dagli Stati generali, è una decisione che verrà presa in quella sede. Mi aspetto la stessa maturità che ho visto dai parlamentari nell’assemblea di giovedì.

Veramente voi ministri nemmeno vi siete presentati…

Alcuni c’erano, altri come me erano impegnati a palazzo Chigi. Comunque i nostri parlamentari si confrontano allo stesso modo, con o senza di noi.

L’ex ministra Barbara Lezzi è uscita dalla chat M5S. Vuole mandarle qui un messaggio?

Non ho nulla da dire.

Invece su Tridico e lo stipendio raddoppiato?

Da presidente dell’Inps sta facendo un ottimo lavoro, ma ritengo giusto chiarire tutto in assoluta trasparenza.

“Via le liste bloccate, hanno fallito. Ora avanti con il proporzionale”

Federico Fornaro è probabilmente il maggiore esperto di sistemi elettorali in Parlamento. Ce la farete, finalmente, ad approvare una legge senza liste bloccate?

Condivido la campagna del Fatto per il superamento delle liste bloccate e per un sistema più vicino alla volontà degli elettori. Attenzione però: il pensiero comune che fa coincidere la fine delle liste bloccate con l’introduzione delle preferenze rischia di essere una trappola.

Senza preferenze come si restituisce la voce agli elettori?

Ci sarebbero altre soluzioni, come il collegio uninominale proporzionale (utilizzato per il Senato fino al 1992).

Uninominale e proporzionale non sono una contraddizione in termini?

Funziona così: si divide il territorio in collegi uninominali. I seggi sono attribuiti con metodo proporzionale sull’intero territorio. Poi all’interno di ogni lista vengono eletti i candidati che hanno ottenuto la miglior percentuale di voti nel collegio. Può essere una soluzione da valutare.

Perché le preferenze non la convincono?

Sono da maneggiare con cura. Intanto perché circoscrizioni elettorali grandi richiedono campagne molto costose, favorendo i più ricchi o incoraggiando raccolte fondi aggressive e compromettenti. Poi c’è un dato di fatto: non sempre il voto di preferenza premia i candidati più competenti.

Un sistema perfetto non esiste.

Le liste bloccate sono state un’occasione perduta si usano senza problemi in Germania e Spagna. Ma in Italia, in molti casi, sono servite a premiare i più fedeli alle segreterie di partito, mentre in Parlamento c’è bisogno anche di competenze.

Il testo base è il cosiddetto “Brescellum”.

L’accordo di maggioranza è su una scelta di fondo: il proporzionale.

Nel “Brescellum”, oltre alle preferenze, c’è pure lo sbarramento al 5%.

Per me è una soglia eccessiva, rischia di cancellare il voto di un milione e mezzo di elettori.

È il veto opportunistico dei piccoli partiti…

Credo di essere a posto con la coscienza (ride). E ho scritto un emendamento per fissare la soglia al 4%, una cifra ragionevole e adeguata.

Il proporzionale è ideale per la maggioranza, visto che non avete il coraggio di diventare un’alleanza organica.

Il M5S è dichiaratamente contro il maggioritario, in effetti il proporzionale premia chi non vuole definire la coalizione prima del voto. Però la sfida riguarda tutti. Con il proporzionale, per esempio, Forza Italia potrebbe sottrarsi alla collocazione nel centrodestra e riprendersi una sua autonomia. E con questa soglia di sbarramento si aprirebbe un dibattito anche tra noi a sinistra.

Dovrete decidere se rientrare nel Pd.

Più che rientrare, dovremo capire se c’è la possibilità di riunire il campo del centrosinistra in un partito più grande. Oppure un partito alla sinistra del Pd.

Quali sono i tempi per la nuova legge?

Dipende molto dalle opposizioni, ma potremmo portare il testo in aula entro metà novembre.

A che punto sono i “correttivi” della legge Fornaro per riequilibrare il sistema dopo il taglio dei parlamentari?

Anche qui pesano le opposizoni, che hanno presentato 850 emendamenti. Se l’ostruzionismo cessa, la discuteremo entro due settimane.

Impresentabili e voltagabbana: 15 anni di nominati alle Camere

Pregiudicati, avvocati di B., assenteisti cronici, ras locali e voltagabbana. Negli ultimi 15 anni, dall’approvazione del “Porcellum”, il Parlamento italiano ha preso sempre più la forma del “Pappamento” teorizzato da Ugo Tognazzi. Era il 1963 e, ne “I Mostri”, Dino Risi si riferiva ai micronotabili della Dc ma non aveva ancora assistito al Truman Show del Parlamento italiano degli anni 2000 composto solo da nominati: dal 2006 al 2018 il Parlamento è stato eletto con liste bloccate mentre quello attuale – grazie al “Rosatellum – è composto dal 65% (pari a 597) di nominati.

Sicché le Camere sono spesso diventate la casa di personaggi con guai giudiziari. Uno dei più noti è Marcello Dell’Utri, eletto senatore di Forza Italia nel 2006 e nel 2008 prima della condanna a 7 anni per mafia a Palermo. Ma non era il solo coinvolto in inchieste della magistratura. C’era Massimo Maria Berruti, eletto per la prima volta nel 2001 nella circoscrizione Lombardia 2 e poi confermato deputato nel 2006 e nel 2008 nonostante la condanna a 8 mesi per favoreggiamento per aver depistato le indagini sulle tangenti Fininvest della Guardia di Finanza nel 1994. Ma anche Roberto Formigoni, senatore del Pdl e di Ncd fino al 2018, che dal 2014 è stato sotto processo a Milano per corruzione sul crac Maugeri fino alla condanna definitiva a 5 anni e 9 mesi del 2019. Per non parlare per il vice capogruppo di Fi alla Camera Aldo Brancher, già condannato in primo grado e in Appello per finanziamento illecito al Psi e salvato in Cassazione grazie alla prescrizione, ma anche il deputato del Pdl Nicola Cosentino a Luigi Cesaro (“Giggino ‘a Purpetta”) oggi indagato per collusione con la camorra. Denis Verdini invece è stato eletto in Parlamento dal 2001 al 2018, nonostante la condanna in Appello a 6 anni e 10 mesi per il crac del Credito Cooperativo Fiorentino: a giorni dovrebbe arrivare la sentenza della Cassazione e per lui si potrebbero aprire le porte del carcere.

Grazie alle liste bloccate in Parlamento sono sbarcati anche gli avvocati di B., come Niccolò Ghedini (tutt’oggi senatore con il 69% di assenze) e Gaetano Pecorella. A Montecitorio invece Antonio Angelucci, re delle cliniche private del Lazio, è assente nel 94% delle sedute: è stato eletto nelle liste bloccate di Forza Italia ininterrottamente dal 2008 ad oggi. Non possono mancare i voltagabbana – Antonio Razzi, Sergio De Gregorio e Domenico Scilipoti che passarono in un attimo dall’Italia dei Valori al sostegno al governo Berlusconi nel 2010 – ma anche i dinosauri della Prima Repubblica come Ciriaco De Mita eletto per l’ultima volta deputato nel 2006 al socialista Gianni De Michelis.

Tra i 597 nominati delle ultime elezioni c’è anche Vittorio Sgarbi e Beatrice Lorenzin passata da berlusconiana di ferro, alfaniana e oggi deputata Pd.

Scuola, ecco le aziende che fanno i banchi

Sabato sera, quasi all’ora di cena: è l’orario che il commissario all’emergenza Domenico Arcuri ha scelto per pubblicare la lista delle aziende che stanno costruendo e consegnando i 2,45 milioni di banchi (400mila “innovativi”, cioè quelli con le rotelle) richiesti dalle scuole italiane per mantenere il distanziamento fisico previsto dalle normative anti-Covid. Sono 11 tra imprese e raggruppamenti di imprese: quattro sono straniere (una svedese, una tedesca, una franco-spagnola, una portoghese), le due che forniranno il maggior numero di banchi sono però italiane, la Rti Mobilferro e Quadrifoglio group (circa un milione di pezzi).

La storia di uno degli appalti più contestati di sempre è più o meno questa. In base ai compiti sulla riapertura delle scuole conferitigli col decreto Semplificazioni, il commissario il 20 luglio avvia “una procedura aperta semplificata e di massima urgenza”. Arrivate le offerte, s’è capito che il fabbisogno non sarebbe stato coperto e quindi – visto che i poteri consentono al commissario più o meno di fare quel che crede – è stata fatta una parallela procedura negoziata senza bando con cinque aziende la cui disponibilità era arrivata in ritardo rispetto alla procedura del 20 luglio. I contratti sono stati tutti “conclusi” il 9 settembre.

Del primo gruppo di aziende fanno parte: RTI Mobilferro (7 aziende, la capogruppo è di Rovigo), la veronese Beton, la trevigiana Quadrifoglio, la milanese Principle Italy, la vicentina Estel Group, la portoghese Nautilus. Nel secondo gruppo ci sono invece: la franco-spagnola HmY Financiere (produce a Saragozza), la svedese Kinnarps AB e la tedesca VS, la Rti Gonzagarredi (sei imprese, la capofila è di Mantova) e Aurora Group, italiana ma di cui non abbiamo informazioni.

Nel primo gruppo era compresa la famigerata Nexus di Ostia che anche a un primo sguardo non era in grado di fornire non si dica i 200mila banchi richiesti, ma forse neanche mille. Nei documenti pubblicati ieri la vicenda è raccontata così: durante le verifiche condotte dal Rup (responsabile unico procedimento), si è “accertato l’assenza in capo all’operatore Nexus made Srl dei requisiti di idoneità professionale, nonché delle capacità tecnico-economica essenziali per l’esecuzione del contratto. Il contratto pertanto non è stato concluso”. La struttura commissariale sostiene, insomma, che l’intesa con Nexus non è mai stata finalizzata e il contratto non è mai stato firmato da entrambe le controparti.

Nonostante la pubblicazione degli accordi – il commissario aveva un mese dalla data della firma, avvenuta il 9 settembre – resta ancora un mistero quanto costerà l’acquisto di questi 2,45 milioni di banchi (circa dodici volte di più del normale ricambio di arredi annuale): a spanne, secondo quanto ricostruito dal Fatto, il totale dovrebbe aggirarsi attorno ai 300 milioni di euro.

Quanto invece alle consegne, pur partite, siamo ancora lontani dall’obiettivo: al momento dovrebbero essere arrivate nelle aule meno di 400mila banchi, circa il 16 per cento del totale ordinato. Il grosso, comunque, dovrebbe giungere a destinazione entro metà ottobre: il cronoprogramma, com’è noto, prevede la consegna dell’ultimo pezzo entro il 31 ottobre.

Tridico: lo stipendio cresce, ma costa a Inps come Boeri

Chi di casta ferisce, si sa, di casta perisce. E il presidente dell’Inps Pasquale Tridico non può che scontare la natura “grillina” della sua nomina: per questo è ovvio – come accaduto ieri su Repubblica – che venga chiamato a rispondere dell’aumento che quest’anno ha portato il suo stipendio annuale a 150mila euro lordi dai 103mila (più benefit però) del suo predecessore Tito Boeri; è altrettanto ovvio che l’opposizione politica cavalchi la notizia chiedendone le dimissioni; non meno scontato che un pezzo degli eletti grillini, nelle famigerate “chat interne”, s’indigni con l’economista già consulente di Luigi Di Maio, il quale dice a sua volta che chiederà “chiarimenti” su una cifra che, però, fu proposta proprio dai suoi uffici quando lui era ministro del Lavoro. Meno normale che si ricorra ad alcune significative distorsioni dei fatti: l’aumento non sarà retroattivo, lo stipendio iniziale non è 62mila euro.

Detto questo, che è successo? Per capirci dobbiamo andare un po’ indietro. Da oltre un decennio l’Inps non aveva più un cda: c’era solo il presidente, organo monocratico. In questi anni spesso il Parlamento – fin dal governo Monti, per dire – aveva chiesto di tornare al vecchio sistema: ci si è riusciti solo nell’aprile 2020 e questo ovviamente comporta anche una modifica delle retribuzioni degli organi interni. Domanda: è aumentato lo stipendio del presidente? Sì, non ci piove: nei fatti è passato da 103mila a 150mila euro lordi l’anno. Si può dire che sia una paga del tutto normale, persino bassa, se uno dirige un ente pubblico che muove oltre 300 miliardi ogni anno, ma l’aumento c’è.

Ora entriamo nei dettagli. Nella sua prima fase di “regno”, iniziata a maggio 2019, Tridico era stato nominato come “organo munito dei poteri del cda” in ticket col vice Adriano Morrone in quota Lega. I due si divisero il vecchio stipendio di Boeri: a Tridico 62mila (60%), a Morrone 41mila (40%). Il tutto in attesa della nomina del cda, prevista dal decreto 4/2019 – quello del reddito di cittadinanza – sia per Inps che per Inail: quel testo, approvato da Lega e M5S, stabiliva che gli stipendi degli organi dei due istituti andassero stabiliti “senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica” predisponendo a tal fine “ulteriori interventi di riduzione strutturale delle proprie spese di funzionamento”.

Tutto questo, complici certe difficoltà spartitorie prima gialloverdi e poi giallorosa, si è concretizzato solo quest’anno: il consiglio d’amministrazione dell’Inps s’è formalmente insediato il 15 aprile, nel frattempo Tridico era già diventato presidente unico (stipendio 103mila euro). Per pagare compensi e altre spese del cda poi, in ossequio al decreto 4/2019, il bilancio di previsione 2020 a dicembre aveva già liberato risorse per 522mila euro più i 103mila che già andavano al presidente.

E oggi, allora, che è successo? I nuovi stipendi sono formalizzati, come prevede la legge, con un decreto interministeriale arrivato il 7 agosto e che riguarda anche l’Inail: 150mila euro al presidente, 40mila al vice (elevabili a 100mila in base alle deleghe), 23mila ai consiglieri. Il collegio dei sindaci dell’Inps, però, ha chiesto chiarimenti: da quando si applica il nuovo regime stipendiale? E bene hanno fatto a chiederlo visto che il testo è molto mal scritto e lascia troppi spazi all’interpretazione (a non dire che lo spazio liberato a bilancio è assai maggiore del costo effettivo del nuovo cda): come chiarito dall’Inps, però, il nuovo regime parte dall’insediamento formale del cda, cioè dal 15 aprile. Insomma, non c’è la retroattività denunciata da Repubblica.

Lo stipendio di Tridico, come detto, è aumentato: 150mila euro contro i 103mila percepiti finora e inaugurati da Boeri (Antonio Mastrapasqua prendeva dieci volte di più e, entrato in vigore il tetto agli stipendi pubblici, comunque il massimo possibile). Va chiarito, però, che Boeri, residente a Milano, aveva anche diritto alle spese d’affitto e a una diaria di 81 euro al giorno durante le sue permanenze a Roma: benefit che costavano ad Inps circa 45mila euro l’anno e che portano il conto a circa 150mila euro. La cosa più ridicola di questa storia? Qualche decina di dirigenti generali Inps, a partire dalla numero uno Gabriella De Michele, ha già salari uguali o vicini al tetto degli stipendi pubblici (240mila euro) e alcune centinaia guadagnano comunque più del presidente. Ma chi di casta ferisce…

Suarez, le fughe di notizie sono una sfida a Cantone

Chi comanda davvero nella Procura di Perugia? Che sia questa la posta in gioco, sullo sfondo dell’inchiesta per l’esame farlocco di Luis Suarez all’università umbra, è più d’un legittimo sospetto. Partiamo dalle dichiarazioni del procuratore capo Raffaele Cantone, 48 ore fa, quando vengono ascoltati in Procura, come persone informate sui fatti, gli avvocati della Juventus Luigi Chiappero e Maria Turco.

Cantone annuncia alle agenzie la sospensione delle indagini. Il motivo? Le “ripetute fughe di notizie”. “Sono indignato per quanto successo finora”, dichiara Cantone, “faremo in modo che tutto questo non accada più. Le indagini saranno riprogrammate in modo da garantire la doverosa riservatezza”. Dichiarazioni dure per più di un motivo.

La riservatezza, come ovvio, in questo momento investe gli unici due attori sulla scena dell’inchiesta: la Procura (Cantone stesso, i pm titolari dell’indagine, il giudice delle indagini preliminari) e la polizia giudiziaria delegata per le indagini (la Guardia di Finanza, partendo dal Nucleo di polizia economico finanziaria di Perugia per arrivare, salendo la scala gerarchica, fino al Comando generale). Ne discende che le fughe di notizie possono partire o dalla Procura o dalla Gdf.

Posto che Cantone – a meno di un gravissimo caso di schizofrenia – non sia egli stesso l’autore degli spifferi, a chi si riferisce? E perché lo fa pubblicamente?

Se ritiene che le soffiate provengano dalla sua stessa procura, potrebbe convocare i colleghi “indiziati” e risolvere la questione. Non avrebbe alcun bisogno di inviare messaggi all’esterno. Anzi.

Se sospettasse dei finanzieri che lavorano con lui a Perugia, idem. Sarebbe inutile annunciare urbi et orbi che intende riprogrammare la tempistica delle indagini per garantirne la riservatezza.

Cantone ha invece scelto di comunicare questa posizione all’esterno del suo ufficio. Segno che, proprio all’esterno del suo ufficio, intendeva lanciare il suo messaggio. E quindi che proprio lì fuori ha individuato l’origine delle soffiate.

Si tratta di soffiate pesanti. E non perché stiano danneggiando l’indagine.

Danneggiano piuttosto l’immagine di Cantone e la credibilità della sua leadership in Procura. Dove peraltro s’è insediato neanche 90 giorni fa.

La prova s’è avuta leggendo i giornali di ieri. Ventiquattro ore dopo le sue dichiarazioni, ci si sarebbe aspettato che i rubinetti delle soffiate fossero chiusi. E invece no. Cantone s’è ritrovato su più di un giornale altre due o tre frasi virgolettate, prese da un’informativa riservata, che poco aggiungono dal punto di vista giornalistico ma molto spiegano sullo scontro in atto: la vera notizia è che qualcuno ha ignorato l’aut aut di Cantone. Proprio nel giorno in cui ha minacciato la sospensione delle indagini, qualcuno ha passato delle briciole di informativa ai giornalisti (che correttamente le hanno pubblicate), mettendo sul tavolo una domanda: chi comanda a Perugia? A meno di tre mesi dal suo insediamento, per Cantone, quella sull’esame di Suarez, è la prima inchiesta di impatto nazionale. E, proprio alla sua prima inchiesta, si vede costretto a inseguire le fughe di notizie.

Cantone è un procuratore di lunga esperienza – il clan dei casalesi lo voleva morto, ha ottenuto (tra i tanti) l’ergastolo dei loro capi Francesco Schiavone, detto Sandokan e Francesco Bidognetti, detto Cicciotto ‘e Mezzanotte – e sa bene, quindi, cosa sia la riservatezza delle indagini. Le ha dovute proteggere da attacchi ben più seri di quelli dei cronisti. Eppure mai aveva minacciato la sospensione delle indagini. Se l’ha fatto, deve esserci un motivo serio. Sulla sua scrivania, peraltro, non c’è soltanto l’inchiesta sull’esame di Suarez. Basti pensare al futuro processo – e alle altre indagini in corso – per corruzione a Luca Palamara. Aggiungiamo che ha ottenuto la trascrizione della mole di intercettazioni effettuate dal Gico della Gdf di Roma (anche e soprattutto attraverso il trojan che registrava Palamara) che potrebbero riservare più di una sorpresa. A proposito: nel maggio 2019, quando a Perugia esplode il caso Palamara, avviene più di una fuga di notizie, ma nessuno si ribella. Quando Cantone minaccia addirittura la sospensione delle indagini, per tutta risposta, qualcuno fa nuovamente filtrare notizie riservate. Se Cantone avesse voluto mettersi in mostra, sarebbe stato sufficiente far circolare audio e video dell’esame di Suarez, che avrebbe fatto il giro del mondo. Ma non è avvenuto. Forse la domanda giusta non è chi comanda a Perugia. Il punto è un altro: qualcuno, in possesso di notizie riservate, fuori dalla Procura, vuole indebolirlo pubblicamente. Chissà perché.

Le mini-zone rosse non funzionano, domani arrivano i militari in strada

“Che ho fatto io per meritare questo?” I madrileni all’unisono riecheggiano il titolo del film di Almodovar, in cui una Carmen Maura sgomenta sopravvive come può ad una vita piena di problemi. Ritorno a Madrid dopo un mese e mezzo e tutti mi chiedono “perché qui è andata così male mentre in Italia le cose vanno meglio”. “Si rispetta di più l’uso delle mascherine?”, vogliono sapere e la risposta è no, anzi. In Spagna è da metà luglio che l’obbligo di indossarla è esteso all’aperto, ad ogni ora e in ogni dove. Il confinamento della scorsa primavera è stato altrettanto rigoroso ma subito dopo si era capito che le cose non andavano bene. Ora vanno malissimo e c’è chi dà la colpa alla politica, chi ai giovani, chi alle feste familiari, chi al destino infame.

All’aeroporto di Madrid, nell’immenso terminal 4, tutto è però ordinato e preciso. Passo dal termoscanner, passo il QR del modulo di rientro in Spagna, compilato online, e un sms mi dice cosa fare in caso di sintomi. Il cielo vasto e luminoso accentua la sensazione di una metropoli efficiente e climaticamente fortunata. Ad agosto, come ogni anno, il Comune ha rifatto il manto stradale. Persino i bidoni dell’immondizia sono nuovi, noto con piacere. Come sempre, il decoro è ai massimi. Ma l’umore, appena si tasta il polso di amici, colleghi e sconosciuti, è ai minimi.

Il taxista mi dà subito il benvenuto. “Madrid è morta, di sera non c’è nessuno in giro”. Settembre, mese di congressi e fiere, è un disastro per questa città che si è dotata negli anni di un’infrastruttura straordinaria, mentre già si parla di riaprire presso la fiera l’ospedale d’emergenza. Nonostante l’ora impropria, il traffico è invece sostenuto. “Chi può va al lavoro in macchina”, continua il taxista, evitando così le 12 linee di metropolitana e le 14 di treni locali che sono l’orgoglio dei madrileni.

Sento un amico che vive nel quartiere La Elipa, una delle zone rosse create per frenare il contagio. Va al lavoro con certificato in un altro quartiere e i suoi figli fanno lo stesso per andare a scuola. Gli chiedo se, uscito dal lavoro, può fare qualcos’altro al di fuori della sua zona. “Per sicurezza no, anche se il controllo è impossibile”, mi spiega, ma non sa come recuperare i soldi dell’abbonamento in piscina dei bambini.

Il sistema di chiusure a zone non è affatto semplice e molte persone non sanno neanche dove finisca il proprio quartiere. Chi lavora in nero poi, non ha scelta: rischia, pur senza certificato, e se ha la febbre si prende un paracetamolo ed esce di casa comunque. Per sopravvivere.

Il lockdown insomma era più facile. Gli aiuti e la cassa integrazione, seppure farraginosi, a un certo punto arrivavano. Oggi invece è tutto incerto e le paure sanitarie diventano ansia di sprofondare nella miseria, a seconda della situazione di ognuno. Nonostante ciò, il governo centrale e quello regionale litigano senza pudore. Il primo vuole estendere la mobilità ridotta a tutta l’area metropolitana, ma non ha il coraggio di imporlo. Il secondo, non ha il coraggio di farlo. Significherebbe il crollo economico finale, con la chiusura di molte attività già in difficoltà. Forse rivolte e nel dubbio da domani arriva l’esercito.

Come sfogo irruento, Carmen Maura uccideva il marito con l’osso di un prosciutto. I madrileni, esausti dell’indecoroso spettacolo politico e spaventati dagli scenari disastrosi, si limitano a esercitare per ora la propria pazienza e il vasto repertorio di sagaci imprecazioni, turpiloquio fiorito e umorismo nero.

Ritardi e messaggi contraddittori: così Macron è stato sopraffatto

La Francia paga le leggerezze dell’estate e la stanchezza per i mesi di lockdown: i francesi hanno raggiunto i luoghi di vacanza, gli amici, la famiglia, spesso dimenticando i “gesti-barriera”. Da giugno le mascherine sono scomparse e le piazze sono coperte da tavoli di ristoranti, non sempre a distanza. E l’epidemia, dopo più di 31.500 morti, è tornata a crescere in modo preoccupante, con più di 15 mila nuovi contagi al giorno e il timore che gli ospedali, di Parigi e Marsiglia in particolare, siano saturi a breve.

Eppure era prevedibile. Il Consiglio scientifico aveva previsto già mesi fa una “seconda ondata” per ottobre e novembre. È quello che sta succedendo. La voglia di lasciarsi alle spalle il lockdown non spiega tutto. Cosa è andato storto? Punto primo, i test. Oggi la Francia realizza più di un milione di tamponi a settimana, erano sì e no 150-200 mila a marzo. Da luglio il tampone è gratuito e non serve ricetta. Al rientro dalle vacanze le file si sono allungate e così i tempi per ottenere i risultati: se prima bastavano tre giorni, ora ci vuole una settimana o più. Persino il ministro della Salute, Olivier Véran, ha dovuto ammettere che nei laboratori si è creato un “ingorgo”. Solo l’arrivo dei nuovi test rapidi antigenici a ottobre potrà forse sbloccare un po’ la situazione. Per decongestionare i laboratori intanto il governo ha deciso di dare la priorità a chi ha sintomi e a chi è entrato in contatto con un malato. Eppure “la metà dei contagi viene da chi è asintomatico – ripete con rabbia la nota epidemiologa Catherine Hill –. Non si è mai tentato davvero di controllare la circolazione del virus. Bisogna testare tutti e isolare gli asintomatici”. A Mediapart Lionel Barrand, presidente dei tecnici di biologia medica, confida che in molti laboratori “mancano macchine e reagenti”. Punto secondo, il tracciamento. La app Stop Covid, disponibile dal 2 giugno, è un fiasco. È stata scaricata poco più di 2 milioni di volte, ma in 700 mila l’hanno disinstallata. La app ha registrato sinora solo 4.900 malati e inviato poco più di 250 notifiche. Persino il premier Jean Castex ha ammesso di non averla scaricata. Punto tre, l’isolamento dei positivi. Per il presidente del Consiglio scientifico, Jean-François Defraissy, la strategia della quarantena è “un fallimento”: “Pochi la rispettano”. Di qui la decisione di ridurla da 14 giorni a 7, sperando che così venga rispettata nei giorni in cui si è più contagiosi. Ad agosto il dottor Eric Caumes, primario all’ospedale Pitié Salpétrière di Parigi, ha messo in evidenza l’inefficacia dei controlli negli aeroporti francesi, dove le persone testate positive non vengono sistematicamente isolate. Solo a inizio settembre il governo ha annunciato controlli sulle quarantene. A marzo l’esecutivo è stato molto criticato per aver atteso a chiudere. Ma l’esperienza non sempre insegna. La mascherina è obbligatoria al chiuso solo dal 20 luglio. E solo da metà agosto anche all’aperto.

La mascherina è del resto un vero caso in Francia. All’inizio il governo ripeteva che non era necessaria se non si era malati. Ma inchieste giornalistiche hanno rivelato che quel discorso nascondeva un’altra realtà: gli stock erano a secco. Ora che la mascherina è l’alleata anti-Covid numero uno, i francesi dubitano della sua efficacia tanti non la portano. I messaggi del governo sono spesso parsi contraddittori. Forse Macron soffre ancora per quella strategia iniziale, quando, per sembrare efficace, non sempre è stato sincero. Solo il 38% dei francesi gli dà fiducia.

Senza mascherine e distanze, a dicembre 700 morti al giorno

Il rischio è una nuova salita esponenziale delle curve dei contagi di SarsCov2 da metà ottobre, così rientrando in uno scenario catastrofico già a dicembre: ritorno nell’incubo di vittime per Covid-19 tra le 500 e le 700 al giorno fino al capodanno 2021. Per prevedere come può procedere la pandemia di coronavirus in Italia è sufficiente osservare le proiezioni di Worldometer, il sito web più importante al mondo di dati statistici elaborati da sviluppatori, ricercatori e volontari in tempo reale. Sono necessarie fra le due e le tre le settimane da oggi, come indicato dagli esperti, per iniziare a capire quanto incida la ripartenza delle attività produttive e l’apertura delle scuole di settembre sull’andamento dell’epidemia. E sui grafici di Worldometer le curve delle proiezioni confermano questo aspetto, a cui va aggiunto anche l’inizio della stagione fredda.

“Il sito – spiega il virologo Andrea Crisanti – non tiene conto di eventuali misure restrittive o di ulteriori nuove aperture (come avrebbero potuto essere gli stadi), ma disegna tre scenari sulla base dei comportamenti individuali”. E gli scenari sono rappresentati da: una linea viola che è la proiezione epidemica in base allo status quo; una linea verde che prevede cosa succederebbe con cittadini ancora più rigorosi rispetto a mascherine, distanziamento e igiene; una linea rossa che indica il disastro provocato da un eventuale serio allentamento di ogni precauzione. Secondo Worldometer i contagi con lo status quo potrebbero salire fino a 15.000 al giorno già il 1° novembre per arrivare oltre i 40.000 nel mese di dicembre. Osservando la proiezione del numero di vittime significherebbe piangere di nuovo 700 persone al giorno prima del 2021. Una maggiore attenzione da parte di tutti, invece, potrebbe valere la metà di quei contagi a Natale e limitare il numero più triste di centinaia di morti.

Il professor Crisanti puntualizza ancora: “Di quelle proiezioni, che vanno prese in seria considerazione, bisogna anche dire che non tengono conto ad esempio dell’attività di isolamento degli asintomatici, però è indubbio che se gli indicatori reali schizzassero sopra la soglia dei 5 mila contagi al giorno le cose si metterebbero male perché da lì è un attimo ritrovarseli a 10/15 mila e perdere progressivamente la capacità di fare i tamponi e quindi di tenere sotto controllo l’epidemia”.

I numeri di ieri restano, dato positivo, ancora sotto soglia 2.000, con Spagna e Francia invece già in grande difficoltà, mantenendo l’Italia penisola felice in Europa: +1.869 nuovi contagi su 104.387 tamponi (-2.882 test rispetto a venerdì) e 17 morti. Ma il dato da tenere d’occhio è anche quello degli ospedali: 247 persone in terapia intensiva (+3) e 2.746 ricoverati con sintomi.

Le proiezioni di Worldometer sono note al Comitato tecnico scientifico che ieri si è pronunciato contro l’ipotesi di riapertura degli stadi al 25 per cento della capienza richiesta dalle Regioni, con l’eccezione del Lazio di Nicola Zingaretti e della Puglia di Michele Emiliano. E sono note anche al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, intervenuto al Festival dell’Economia di Trento: “Dobbiamo dirlo a tutti, dobbiamo incrociare le ditta, attenzione: il fatto di riuscire a gestire la pandemia non significa che ne siamo fuori. Noi non siamo fuori dalla pandemia, nonostante ci siano ancora e per fortuna sparute espressioni di negazionismo. Siamo ancora in una condizione difficile, ma ragionevolmente, se riusciamo a rispettare le regole, potremmo gestirla riducendola quanto prima”. Detto questo, il premier è netto su ulteriori possibili chiusure: “Ho escluso pubblicamente un nuovo lockdown, ma non escludo interventi territoriali circoscritti. Ecco perché dico agli italiani di riprendere la vita sociale con fiducia e responsabilità. Siamo molto efficienti, ma non dobbiamo mai abbassare la guardia”.

Di lockdown era tornato a parlare venerdì il governatore della Campania Vincenzo De Luca, e ieri anche Nicola Zingaretti ha evocato quello scenario: “Se non rispettiamo le regole andiamo a finire lì. Se continuiamo ad avere piena coscienza che il coronavirus è ancora presente fra noi, ce la faremo, che vuol dire cose molto semplici. Distanziamento sociale, evitare assembramenti, mascherine, igiene delle mani e degli ambienti: devono essere le quattro regole da cui non dobbiamo discostarci”. Proprio quanto considerato da Wordometer nell’elaborazione delle proiezioni.

In Campania e in Calabria, a Foggia e a Genova l’uso della mascherina anche all’aperto è già obbligatorio, mentre il Lazio e la Sicilia decideranno in tempi brevi in base al numero dei contagi.