Non ti fidar

“É stato surreale. Mi sentivo un amico del Papa e poi, parlando, mi dice che non si fida più di me perché ha visto le accuse di appropriazione indebita dei magistrati vaticani. Ma io non ho commesso crimini né ricevuto comunicazioni giudiziarie”. Così il cardinale Angelo Becciu, prefetto della Congregazione dei Santi, racconta il burrascoso colloquio con papa Francesco, che l’ha dimissionato e sporporato. E pare più un politico italiano che un prelato vaticano. Noi non sappiamo se le accuse siano fondate o meno: si parla di 100 mila euro dirottati dall’obolo di San Pietro verso una coop di suo fratello legata alla Caritas di Ozieri (Sassari). Becciu sostiene che erano opere di carità e non si pose il problema del suo conflitto di interessi. Ma il Papa non ha atteso neppure che venisse indagato, perchè un conto è la questione penale, che dipende dalla sussistenza dei reati, e un altro la questione morale, che dipende dalla correttezza dei comportamenti: si possono commettere reati senza essere immorali e si può essere immorali senza commettere reati. Francesco non è un giustizialista: semplicemente è nato lontano dall’Italia. E ha cacciato Becciu perchè “non si fida più”.

I nostri politici continuano a fingere di non capirlo: infatti non si dimettono nè dimissionano nessuno neppure per gli scandali peggiori, con la scusa che “non c’è l’avviso di garanzia”, o “c’è solo un avviso di garanzia”, o “c’è solo una condanna di primo grado”, o “aspettiamo la Cassazione”. Oppure esagerano dall’altra parte, come il M5S che esclude la Appendino dal futuro vertice per la condanna a 6 mesi in primo grado per aver omesso nel bilancio comunale un vecchio debito oggetto di transazione: un presunto errore che non farebbe di lei un’immorale neppure se confermato in Cassazione. Il guaio è che qui non si guardano mai i fatti accertati per valutare – a prescindere dall’esito giudiziario – se siano compatibili o meno con “disciplina e onore” e col rapporto fiduciario che deve regnare tra eletto ed elettori, tra sottoposto e capo. Venti mesi fa ci volle un premier alieno come Conte per spiegare a Salvini che il suo sottosegretario Siri, per il suo patteggiamento per bancarotta e sottrazione di beni al fisco nonché per i suoi rapporti con gente in odor di mafia (da cui per giunta era accusato di aver accettato promesse di tangenti), doveva lasciare. E, siccome Siri resisteva, gli revocò la nomina per il “venir meno del rapporto fiduciario”. Attilio Fontana, con tutto quel che è emerso su camici in famiglia, conti svizzeri e milioni all’estero, deve ringraziare di essere il presidente della Lombardia e non un ministro del Papa. Altrimenti sarebbe già uscito dal Vaticano a calci, in mutande verdi, strisciando.

Sei definizioni di populismo e quella strana eredità di Berlinguer

Di Pietro Folena si erano perse le tracce. Coordinatore, qualche lustro fa, della segreteria dei Ds, poi deputato della Sinistra europea (insieme a Rifondazione comunista), infine ritiratosi dalla politica attiva, oggi si cimenta con il tema del populismo, ricostruendone varie definizioni dall’inizio degli anni 90 fino a oggi. Il populismo, giustamente, non è riferito solo agli ultimi anni della storia repubblicana. Folena ne identifica ben tre forme già negli anni 90 dello scorso secolo: “il micronazionalismo”, riferibile alla Lega Nord; “il populismo videocratico” scaturito dalla “discesa in campo” di Silvio Berlusconi; “il populismo giustizialista” di Antonio Di Pietro. Causa scatenante, oltre al “vincolo europeo”, lo sgretolamento della “Repubblica dei partiti” che morendo un po’ alla volta ha lasciato sul campo “troppi orfani”. La seconda terna di populismi è quella recente: il “web-populismo” di Beppe Grillo, il “populismo rottamatore” di Matteo Renzi e quello “nazionalista” di Matteo Salvini.

Le definizioni sono suggestive, la catalogazione forse un po’ meccanica. Pur ricostruendo alcune teorie (da Incisa di Camerana a Revelli, Diamanti o Lazar) le definizioni appaiono piuttosto sbrigative (si nota, ad esempio, l’assenza dell’analisi di Laclau). Soprattutto, sulla responsabilità dei partiti della sinistra, cui pure si rimprovera l’errore del “governismo”, Folena si trattiene. Eppure è proprio lui a ricordare di aver fatto parte dei “ragazzi di Berlinguer” cresciuti all’interno del post-Pci. Ma quando ricorda il Casaleggio (padre) che nella chiusura della campagna elettorale del 2013 a San Giovanni inneggia proprio a Berlinguer, non si accorge che in quell’improprio passaggio di testimone c’è tutta la frattura tra la sua generazione politica e quella successiva: un vuoto politico in cui si incunea un nuovo magma sociale, che troppo sbrigativamente si riduce al populismo e che invece è più complesso. Ma questa è un’altra storia.

Servirsi del popolo Pietro Folena – Pagine: 224 – Prezzo: 18 – Editore: La nave di Teseo

 

Ironia corrosiva e perenne fuga: Banksy a Roma

Quando nell’ottobre 2018 presso la celebre casa d’aste londinese Sotheby’s, la sua Girl with Balloon – appena battuta dal banditore per ben oltre un milione di sterline – si è per metà autodistrutta sotto lo sguardo attonito di tutti i presenti, tramite un trita documenti elettronico montato alla base della cornice attivato a distanza, Banksy ha non solo proseguito la sua denuncia e la sua lotta al sistema del mercato dell’arte, ma ha contestualmente dato l’avvio a un precedente senza pari: l’opera d’arte che distrugge la materia di cui è fatta ma non il suo valore, anzi… ribattezzata Love is in the Bin (L’amore è nel Bidone) il pezzo adesso vale il doppio. Come sempre, lo street artist di Bristol (la cui identità è avvolta nel mistero) gabba tutti, perché poi dentro alle mostre – quelle da lui autorizzate e volute – ci espone volentieri.

Come questa romana Banksy a Visual Protest nella cinquecentesca cornice del Chiostro del Bramante (aperta fino all’11 aprile 2021), che raccoglie più di cento opere di diverse tipologie: stampe derivanti da stencil su muro riportate su carta o tela; una collezione, poi, di opere uniche realizzate con olio, acrilico o spray su tela; e ancora stencil su metallo o su cemento; e infine alcune sculture di resina polimerica dipinta, o bronzo verniciato. Un’esposizione che si vive (si legge) come un romanzo illustrato, che una pagina via l’altra racconta antieroi malinconici ma poderosi, personaggi che trasformano lo scontento in azione e rivoluzione, e ribaltano gli stereotipi con piglio iconoclasta in salsa punk: un manifestante che durante una sommossa è armato di un mazzo di fiori al posto delle pietre (in Love is in the air, 2003); due nonnine che sferruzzano maglie con la scritta “Punks not dead” (in Grannies, 2008); una Madonna che allatta il Bambino non dal seno ma con un biberon di sostanze velenose per denunciare la manipolazione dei cibi (Toxic Mary, 2004); infine i suoi immancabili topi (simbolo dell’arte: l’anagramma di art è rat), che di recente hanno anche “invaso” la metropolitana di Londra.

Nessuno sfugge alla sua ironia corrosiva, se pensiamo che anche Gesù Cristo, dai cui polsi pendono buste da shopping, viene crocifisso dal consumismo (Christ with shopping bags, 2004), e la morte ci sorride con un’emoticon al posto del volto impugnando la sua fedele falce mentre siede sul suo trionfo (Grin Reaper, 2005). Poco importa, allora, se Banksy sia un collettivo di sei artisti, se sia Robert Del Naja (leader dei Massive Attack) o l’artista britannico Robin Gunningham. L’arte soltanto importa.

Banksy a Visual Protest Chiostro del Bramante (Fino all’11 aprile 2021)

Le parole-camaleonte del poeta Bergonzoni

Se versi come “Aprimi cielo” o “Spaziate nel costretto” fossero stati scritti da Ungaretti o Quasimodo, li avremmo chiamati poesia. E avremmo avuto ragione. Firmati da Alessandro Bergonzoni, però, diventano giochi di parole. Perché?

Leggendo molti dei lampi che illuminano questo sorprendente Aprimi cielo, viene da chiedersi se sia la poesia a rendere poeta il poeta o il poeta a rendere poesia la poesia. Con questo non intendo, naturalmente, sostenere che Bergonzoni sia Ungaretti o Quasimodo. Non è così, ovviamente. Purtroppo, aggiungerei. Per Bergonzoni, innanzitutto. Ma anche per tutti noi. Non c’è mai stato tanto bisogno di poesia come oggi. Intendo, semplicemente, invitare a riflettere sul fatto che certe parole – un po’ come certi figli – sorprendono persino i loro genitori, diventando capaci di meraviglie che non avremmo mai immaginato. Bergonzoni ha il grande merito di saperle trovare. E quello, ancora più grande, di metterle insieme in modi sempre originali e stimolanti, spesso affascinanti, talvolta, addirittura, illuminanti.

Facile? Le parole sono lì, davanti agli occhi di tutti? Vero. Come mai, allora, lui le vede e noi no? Parlo delle meraviglie nascoste nei lemmi polisemici (le parole portatrici di più di un significato), in quelle che potremmo definire “parole camaleonte” (che si mimetizzano perfettamente all’interno di altre parole) o nelle “parole diffuse” (come diciamo di certi alberghi), i cui frammenti vivono separati in case diverse. Bergonzoni individua questi frammenti, li sceglie e li fonde, creando nuove parole e, dunque, nuovi pensieri. Spesso preziosi. Non è solo frutto di un’esperienza, ormai, pluridecennale né semplice “calcolo combinatorio”. C’è acume, curiosità, intelligenza. Genio. L’urgenza di non fermarsi alla superficie, alle convenzioni – sia culturali che sociali – di non rimanere fruitori passivi del linguaggio ma farlo proprio, per vedere se si riesce a provare il brivido di trasformarsi in piccoli creatori di linguaggio.

Ha fatto bene Garzanti a inserire questo felice zibaldone in una collana che si chiama “Saggi”, perché Bergonzoni appartiene senza dubbio a quella categoria. I suoi non sono giochi di parole. Sono fuochi d’artificio, con i quali prova a illuminare per noi la volta sempre più buia di un presente nel quale – dice – dovremmo temere l’umano, non il bestiale: “siamo il pericolo non in pericolo”. “Chi ha avuto un sacco dalla vita non ci ha messo dentro niente”; “la normalità ha un debole per i forti” e confonde “potenza con potere”, che è “solo comando, prevaricazione, surclassamento”; “i buoni vivono in cattività”, “come certe donne che han paura di restare sole (in casa col compagno)”. Un presente nel quale “ero un uomo-donna (e) mi avete additato (invece di darmi una mano), povero e vi siete arricchiti”, “orfano e mi avete mandato al Padre Eterno”, “disoccupato africano mi avete occupato e poi immigrato, ero morto e mi avete soprattutto fotografato”. Ma, soprattutto, un presente nel quale dovremmo smettere di lamentarci del disgusto e “cambiare gusti”. “Ci vuole un bel coraggio? Bene! Lasciamo sia la bellezza a darcelo non la paura a togliercelo”. Sacrosanto.

Aprimi cielo Alessandro Bergonzoni – Pagine: 222 – Prezzo: 16 – Editore: Garzanti

Si ride e si piange: le indagini di Mina esaltano il giallo pop di De Giovanni

Il talento di Maurizio de Giovanni per la narrazione è multiforme e cambia registro da una pagina all’altra, senza interruzioni di ritmo. Si ride e si piange. Andiamo verso la fine, non svelando nulla ovviamente. Dapprima c’è la sbornia di Domenico Gammardella, ginecologo che assomiglia a Kevin Costner e procura innumerevoli spasimi alle sue altrettante innumerevoli pazienti (finanche transessuali). Il dottor simil-Costner è astemio ma decide di navigare nell’oblio con una bottiglia di Aglianico del Taburno, comprata nell’enoteca di “un frizzante esercente gay”. Vomita. “Il Taburno residuo, piccola ma significativa marea collocata nello stomaco e riottosa all’estromissione, organizzò una resistenza alterando il giroscopio cerebrale. (…). A Domenico non rimase che recarsi in camera come un postulante medioevale in penitenza: avanzò sulle ginocchia, simile a un amputato da mina antiuomo”.

Indi, nel paragrafo successivo, uno dei momenti topici della trama. Toccante nella tensione dei dialoghi: tre donne – di cui due legate alla camorra per vincoli di sangue – che ribaltano il destino e decidono per l’uomo che amano una redenzione dal Male. L’ultimo romanzo di de Giovanni s’intitola Troppo freddo per Settembre e gioca con il cognome della sua ultima eroina detective: Mina Settembre, un personaggio prosperoso tra Anna Magnani e Monica Bellucci e comparso per la prima volta nel 2013 in un racconto. Mina lavora come assistente sociale in un consultorio dei famigerati Quartieri Spagnoli di Napoli, dove comandano i clan. È una donna forte ma indefinita. Così come è senza contorno il citato dottor Gammardella. In coppia risolveranno il mistero della strana morte di un anziano professore, in una storia a più livelli e che consacra de Giovanni come una gioiosa macchina da guerra del giallo pop italiano.

Troppo freddo per Settembre Maurizio de Giovanni – Pagine: 255 – Prezzo: 18,50 – Editore: Einaudi

Torna “Primavera dei Teatri”. A ottobre: “Ripartiamo tutti insieme dal coraggio”

Torna a Castrovillari (Cosenza) per la sua ventunesima edizione lo storico festival “Primavera dei teatri”. Ma in autunno, causa Covid: in scena 20 compagnie teatrali, con molte prime assolute. Punto di riferimento al Sud per i nuovi linguaggi della scena contemporanea e della drammaturgia, la rassegna diretta da Scena Verticale presenta un calendario ricco, nonostante la sua dislocazione temporale inedita: non a fine maggio, come al solito, ma in apertura della stagione invernale. Tecnologia, politica e le conseguenze generate dalla pandemia saranno i temi principali di questa edizione.

“Con Madre, ad esempio – spiegano gli organizzatori Saverio La Ruina e Dario De Luca –, il Teatro delle Albe allestirà il 14 ottobre un poemetto scenico, scritto da Marco Martinelli, che tratta della tecnologia e del suo rapporto con l’umano. Ad aprire invece la kermesse l’8 ottobre ci sarà La fine del mondo, il nuovo lavoro di Fabrizio Sinisi, diretto da Claudio Autelli: un inedito che farà riflettere sull’emergenza ambientale e sulle connessioni tra questa e la pandemia”.

Il 13 ottobre i padroni di casa La Ruina e Scena Verticale presenteranno Mario e Saleh: la storia di un cristiano e un musulmano che si ritrovano a convivere e quindi anche del rapporto che lega europei e arabi. “Con questo spettacolo ho voluto provare a indagare quanto sia violento lo sguardo che condanna un miliardo e mezzo di musulmani a uno sparuto gruppo di terroristi”, spiega La Ruina.

La manifestazione è una delle prime in Italia dopo il lockdown imposto dal diffondersi della pandemia. “Abbiamo vissuto con grande scoramento quel periodo – racconta De Luca –. Ci siamo resi conto di quanto possa essere fragile il nostro lavoro”. “È un bel segnale ripartire dalle sale per contrastare la paura, tornare a essere comunità e trovare un coraggio collettivo”, conclude La Ruina.

Primavera dei Teatri 2020; dall’8 al 14 ottobre a Castrovillari (Cosenza)

 

“Tehran”, la guerra si gioca anche in tv

Un’altra serie tv israeliana conquista gli schermi di tutto il mondo. Dopo BeTipul da cui è stata tratta In Treatment, Prisoners of War che ha ispirato Homeland, Shtisel, Fauda e The Spy ecco Tehran: uno spy-thriller ambientato nella Capitale iraniana che affronta il delicatissimo tema dei rapporti (pessimi) fra Israele e Iran. Disponibile da ieri su Apple Tv+ con i primi tre episodi, girata prevalentemente in farsi e in ebraico, Tehran è il primo thriller e la prima serie non in inglese coprodotta dall’azienda di Cupertino.

La protagonista è Tamar, un’hacker che lavora come spia per il Mossad. È cresciuta a Teheran in una famiglia ebrea ed è scappata in Israele con i genitori quando aveva cinque anni. Una biografia più realistica di quanto non si possa pensare: ad oggi in Israele vivono circa 140 mila cittadini di origine iraniana, mentre degli 80 mila ebrei che vivevano in Iran negli anni Quaranta ne rimangono appena 10 mila. Niv Sultan, l’attrice 28enne che interpreta la protagonista, ha studiato il farsi per sei mesi prima di girare Tehran (con risultati, pare, eccellenti).

La serie comincia a bordo di un aereo. Il volo da Amman a New Delhi è costretto ad atterrare a Teheran a causa di problemi tecnici. Fa tutto parte del piano dei servizi segreti israeliani. A bordo dell’aereo c’è Tamar, che atterra in Iran con una missione dall’alto grado di difficoltà: deve penetrare nella centrale elettrica della Capitale e hackerarla, in modo da permettere agli aerei israeliani di bombardare indisturbati un reattore nucleare. Le cose però non vanno come il Mossad aveva pianificato, Tamar è costretta a scappare e sulle sue tracce si mette un esperto agente delle Guardie Rivoluzionarie. La ragazza deciderà di tagliare i ponti con i servizi e di fare da sola, prima nascondendosi nella casa della sua famiglia rimasta in Iran e poi entrando in contatto con un gruppo di studenti oppositori al regime.

Nell’estate del Covid, Tehran ha tenuto i telespettatori israeliani attaccati alla tv. Al suo successo ha contribuito anche l’attualità: a inizio luglio, quando una serie di esplosioni ha riguardato la centrale nucleare di Natanz, i sospetti sono caduti subito su Israele. In Iran, ovviamente, Tehran è stata accolta in maniera molto diversa. I media l’hanno definita un “affronto sionista” mentre, sul fronte opposto, alcuni oppositori l’hanno considerata troppo tenera nei confronti del regime. La serie è sicuramente pervasa da un’atmosfera cupa (in una delle prime scene Tamar assiste a un’impiccagione pubblica); d’altra parte si nota una certa tendenza a riproporre alcuni stereotipi, riguardo sia alla vita nei Paesi islamici, sia alla rappresentazione dei giovani dissidenti vestiti all’occidentale.

Tehran è stata girata ad Atene: “Quando sono arrivati sul set gli attori iraniani, per un attimo hanno creduto di essere tornati nella loro città natale” ha spiegato il regista Daniel Syrkin. Fra i creatori c’è Moshe Zonder, già sceneggiatore di Fauda, un altro spy-thriller israeliano che ha avuto grande successo all’estero (in Italia è disponibile su Netflix). Nel cast compaiono anche alcuni volti noti al grande pubblico: come Shaun Toub, attore iraniano naturalizzato statunitense già visto in Homeland, che qui interpreta l’agente Faraz Kamali.

Tehran Serie diretta da Daniel Syrkin su Apple Tv+

I “Comedians” di Salvatores alla conquista della gloria

Gabriele Salvatores dirige a Trieste le riprese di Comedians, una commedia in cui ha adattato l’omonimo testo teatrale dell’inglese Trevor Griffiths da lui già portato in palcoscenico con grande successo negli anni 80. Prodotto da Indiana Production e Rai Cinema con Friuli-Venezia Giulia Film Commission il film vedrà in scena Ale e Franz, Natalino Balasso, Demetra Bellina, Marco Bonadei, Elena Callegari, Aram Kian, Walter Leonardi, Riccardo Maranzana, Giulio Pranno, Vincenzo Zampa e la partecipazione straordinaria di Christian De Sica. Sullo schermo le vicende di 6 aspiranti comici che si iscrivono a una scuola di stand-up comedy diretta da un celebre attore politicamente impegnato con l’obiettivo di prepararsi per un provino che garantirà loro un contratto tv. Ad assegnarlo sarà però un esaminatore/procuratore che rivelerà punti di vista sulla comicità molto differenti da quelli del loro insegnante.

Il romanzo di Edoardo Albinati La scuola cattolica è stato adattato per il cinema (con Massimo Gaudioso e Luca Infascelli) dal regista Stefano Mordini che ne ha iniziato a girare una trasposizione dirigendo Riccardo Scamarcio, Jasmine Trinca, Valentina Cervi e Benedetta Porcaroli. Ambientato a metà degli anni 70 il film prodotto da Picomedia vedrà in scena l’inquietante affresco di una scuola privata romana in apparenza rispettabile fino a quando alcuni suoi ex alunni non si riveleranno gli autori del famigerato Delitto del Circeo.

Andrea De Sica dirige in Alto Adige Non mi uccidere, un teen drama con tinte horror interpretato da Alice Pagani e Rocco Fasano ispirato all’omonimo romanzo diChiara Palazzolo. Prodotto da Warner Bros. Entertainment Italia e Vivo film, racconta le vicende di Mirta e Robin, due giovani che si amano ma perdono la vita in un incidente, trasformandosi in qualcosa di diverso e inquietante.

La leggenda di “Undine” trova casa a Berlino

Il cinema delle donne in transito. Capace di inquadrarle mentre mutano di pelle e dimensione, passando dal visibile all’invisibile con la naturalezza di un fatto qualunque. Pochi sono gli autori contemporanei dotati di uno sguardo sul rimosso che agisce sul tempo e sullo spazio liberandolo da retoriche e artifici. Uno di questi è il tedesco Christian Petzold, che ha preso l’antica leggenda di Undine e l’ha tuffata nella Berlino contemporanea, tra la Storia e il mito dell’amore che uccide, se viene abbandonato.

All’origine è un doppio crash: un rapporto finisce e un altro comincia dal frangersi di un acquario di vetro. Acqua, pesci e cristalli invadono il terreno, i due s’innamorano mentre galleggiano nell’elemento che li ha fatti incontrare. Christoph (Franz Rogowski) è un subacqueo industriale, Undine (Paula Beer) una storica che ogni giorno spiega l’evolversi dell’urbanistica berlinese, guidando turisti attorno a mappe, plastici e modelli: la città che era, la città che sarà o che vuole diventare benché “il progresso è impossibile” perché nell’identità di una città creazione e distruzione si avvicendano ciclicamente, come nella vita, nella coppia. Non fa eccezione il loro amore improvviso e totale, che dall’acqua si è generato e nell’acqua diventerà memoria.

Un viaggio magico e sentimentale nei misteri di amore e morte, immaginazione e realtà, spazio e tempo, e di Berlino, nel tormento del suo rimosso da cui cerca un disperato perdono (e riscatto) dalla Storia. La Capitale tedesca è percorsa nel triplice livello di location e ambientazione del film così come miniatura plastificata attraverso cui si racconta dalle origini fino ai nostri giorni, divenendo nella scrittura e regia di Petzold materia immersiva ed emblematica del suo uso originalissimo di Spazio/Tempo, luogo di preveggenza per Undine esattamente come l’acquario è metonimia del lago donde la creatura assetata d’amore eterno è nata. Traslandola dall’omonima fiaba bellissima e terribile di Fouqué, il regista tedesco mette ancora una volta al centro l’enigma di una donna calata nella Storia di cui è una specie di sopravvissuta misteriosa, mutante e di passaggio, esattamente come le varie Barbara (La scelta di Barbara, 2012), Nelly (Phoenix – Il segreto del suo volto, 2014) e Marie (Transit – La donna dello scrittore, 2018). Come in Genspenster (Ghosts, 2005) Petzold si rifà a una fiaba popolare per nutrire il suo cinema di fantasmi (in quel caso anche letteralmente), luoghi dell’anima squisitamente cinematografici.

Undine diventa così un fantasma simbolico per eccellenza, emerso dalle acque e sommerso nella città dei plastici sospesa fra passato e futuro. Vincitrice alla 70ª Berlinale dell’Orso d’argento per la miglior attrice Paula Beer, l’opera nona di Christian Petzold è da giovedì nelle sale con il riconoscimento di Film della Critica del SNCCI.

Acqua Azzurra: la storia del ciclismo scritta dalle borracce

Afferrare la borraccia, portarla alla bocca, passarla di mano in mano. Approvvigionarsi tumultuosamente a una fontana o al bancone di un bar lungo il percorso al grido di “Paga Torriani!” (storico direttore del Giro, ndr), scandito a gran voce dai gregari per le loro “rapine a sete armata” presso i malcapitati esercizi commerciali, depredati di bottiglie d’acqua e bibite. Il gesto del bere è da sempre un classico dell’iconografia ciclistica.

Come nell’epica, anche nel ciclismo i codici comportamentali definiscono ruoli e gerarchie. Ed è per questo che il famoso passaggio della borraccia tra Bartali e Coppi del 1952 fece scorrere fiumi d’inchiostro. Stabilire chi avesse rifornito l’altro divenne di fondamentale importanza per stabilire una gerarchia. Ma la sete e la sua soddisfazione sono legate a doppio filo alla storia della disciplina. Non a caso si devono proprio a un venditore ambulante di bibite, tale signor Granida, le prime competizioni di inizio 900. Granida non aveva ambizioni, ma molte idee. Resosi conto di come il ciclismo fosse un’ottima calamita per decine e decine di clienti assetati, un giorno chiamò i velocipedastri in assemblea, offrì loro acqua e anice, indisse una corsa di dieci giri con due premi, cinque lire al primo arrivato, tre al secondo. La proposta venne accolta con molto entusiasmo, inaugurando così l’era professionistica del ciclismo su strada. Negli anni eroici delle strade bianche, l’acqua, oltre a ristorare, toglieva via la polvere sul volto e sulla testa dei corridori. Buffa è una fotografia di Ottavio Bottecchia che, alzando sulla fronte gli occhialoni antipolvere, si spruzza in faccia una bottiglia di seltz.

Al Giro del 1940 nella Firenze-Modena, l’esordiente gregario Fausto Coppi fece la prima grande impresa della sua carriera: s’involò sulle rampe dell’Abetone e giunse al traguardo in solitaria, conquistando la maglia rosa. Si erano sorprendentemente rovesciate le parti: partito bene ma rimasto vittima di una caduta, il capitano Gino Bartali, cinque anni più vecchio, per dovere di scuderia avrebbe da lì in poi pedalato per favorire la vittoria del corridore-rivelazione del Giro. Ma nella prima delle due tappe dolomitiche, Coppi andò in crisi. Bartali lo affiancò, lo incoraggiò, gli porse la borraccia. Coppi però pareva proprio non farcela a continuare. Stava ormai per mettere piede a terra quando Bartali accostò, lasciò di colpo la bici e affondò le mani in un cumulo di neve che resisteva all’ombra di un tornante. Quindi tornò da Coppi e gli strofinò energicamente il collo, vituperandolo con appellativi di ogni genere. Non si sa se fecero più effetto gli insulti la neve, ma di fatto la maglia rosa riprese a pedalare e arrivò al traguardo in tempo per conservare il primato.

Se in questo mondo di corridori assetati, di vittoria, ma anche d’acqua, una regola esiste è quella di mantenere sempre un equilibrio tra liquidi assunti e liquidi rilasciati. Lo imparò a sue spese Charly Gaul durante il Giro d’Italia 1957. Nella 18esima tappa lo scalatore lussemburghese fu bersaglio di un proditorio attacco da parte degli avversari, Gastone Nencini e Louison Bobet su tutti, mentre si era fermato a bordo strada per fare pipì. Si scatenò la bagarre e Gaul, al traguardo del Monte Bondone, accusò un fatale ritardo che gli costò la vittoria finale a favore di Nencini. Il trucco è bere moderatamente prima di aver sete, lo sosteneva anche un grande cantore del ciclismo, Gianni Brera: “Noi eravamo fieri di non avere mai sete e spesso bevevamo per evitare il pericolo di averla. Che fastidiosa noia dover bere per sete, che banale destino!”.