Giorgia è simpatica, infida e ogni tanto ti fa chiamare l’esorcista

E quindi è finita così: che mentre Matteo Salvini puntava tutto sull’inesperta, arcigna, ambiziosa Susanna Ceccardi dopo aver già puntato sull’inesperta, arcigna, ambiziosa Lucia Borgonzoni forse consigliato dall’amica inesperta, arcigna, ambiziosa Annalisa Chirico, l’esperta e ambiziosa Giorgia Meloni lo sorpassava a destra e si portava a casa le Marche.

Nel frattempo, Matteo Salvini doveva fingere contemporaneamente di congratularsi con Giorgia Meloni per il suo partito che è cresciuto ovunque, per il leader indiscusso Luca Zaia e il successo in Veneto, per Elisa Isoardi e il suo tango a Ballando con le stelle e insomma, per il vice-leader della Lega è stato un discreto lunedì di merda. È stato un lunedì splendente invece per Giorgia Meloni, che col suo Fratelli d’Italia rosicchia voti praticamente ovunque e accresce il consenso personale. E mentre gli altri vincitori festeggiano, al massimo, lo scampato pericolo, la Meloni festeggia un sicuro successo. Che pare inarrestabile, nonostante tutto. Nonostante le gaffe, gli inciampi, frasi e posizioni imperdonabili o forse grazie a tutto questo. I tempi in cui Giorgia doveva ritoccare i suoi manifesti e sembrare Charlize Theron sono finiti. Da un po’ di tempo la allena Fabrizio, il personal trainer di Francesco Totti, ha schiarito i capelli, è dimagrita. Studia da leader, insomma, ma senza il ridicolo trasformismo di Salvini che mette la felpa da truzzo per parlare di immigrati o gli occhialini da statista per parlare di ripresa economica. La Meloni non è una trasformista, non annusa e non si adegua all’umore delle folle populiste, perché lei É la folla e il suo umore. E mentre Salvini si ostina ad andare nelle piazze dove ormai tra “gomito del selfista” e cori poco benevoli, sembra il cantante anni 80 che ha azzeccato una sola canzone e spera che dopo 40 anni qualcuno, in Abruzzo, alla sagra della ventricina, se la ricordi ancora, Giorgia fa altro.

Lei gli show non li fa in piazza. Li fa in Parlamento. Perché lei non si trasforma, si trasfigura. Inizia a parlare e qualcosa di non umano, di mefistofelico si impadronisce di lei. Si narra che il premier Conte, dopo il famoso discorso alla Camera in cui la Meloni lo rimproverò di ridere, quello durante il quale è stata vista chiaramente espettorare l’anima di Belzebù con un colpo di tosse, non abbia mai più dormito a luce spenta. Ora, quando il premier viene avvisato del fatto che in aula forse parlerà la Meloni, nella sua famosa pochette infila sempre un micro-paletto di frassino. E sta anche in questo, il successo della Meloni. Nel fatto che nei suoi discorsi appassionati paia di intravedere più la luce del fervore – anche sgangherato – che quella della convenienza. Non solo. Le dedicano meme, i suoi discorsi diventano jingle, creano fotomontaggi in cui è la gemellina di Shining o la protagonista dell’Esorcista e lei, divertita, li posta sulle sue pagine social. O indossa il costume tricolore, lasciando che si dica di tutto. O va in tv a cantare “Io sono Giorgia”. È pericolosamente simpatica, Giorgia Meloni.

Lo è in maniera infida e strisciante, perché risulta simpatica pure a chi vota altro e deve fare uno sforzo di memoria per mettere in fila quello che ha detto negli anni, le posizioni sugli omosessuali, sulla famiglia, sugli immigrati. Il suo “Ho un rapporto sereno con il fascismo”, che è come se io dicessi “Ho una relazione epistolare con Angelo Izzo”, oppure “Utero in affitto reato universale” o “In una scuola viene eliminato il maiale per fare posto al cous-cous, alimento tipico nordafricano. Ora sono i figli degli italiani a doversi adeguare alle esigenze alimentari di chi dovrebbe integrarsi? Questa è follia”. La sua sceneggiata al direttore del Museo egizio, le posizioni sull’Europa, il suo chiedere un contraddittorio per il monologo di Rula Jebreal, come se dopo il racconto di uno stupro bisognasse bilanciare qualcosa, magari dando voce a uno stupratore, chissà. Bisogna davvero fare un esercizio di memoria, per non farsi fregare da Giorgia Meloni. Tenere un’agendina nella tasca con gli appunti sulle cose peggiori che ha detto in questi anni, con le sue promesse peggiori, con i suoi programmi peggiori e dare una ripassata ogni volta che ci frulla in testa un pensiero maligno. Ogni volta che “Però è simpatica Giorgia Meloni, vedi come è autoironica, vedi come è coerente”.

Ecco, quando succede, aprire l’agendina e pronunciare voce alta: “Abolire il reato di tortura che impedisce agli agenti di fare il proprio lavoro!”. L’ha detto lei. E nonostante tutto, il suo è l’unico partito che cresce. Un genio lei, e smemorati noi.

“Non è un caso: noi testimoni del 2015”

“È evidente che, con il processo per gli attentati, il posto non è stato scelto a caso”, ha detto Paul Moreira, giornalista, uno dei fondatori di Premières Lignes, l’agenzia di produzione tv che ha sede al primo piano del palazzo della rue Nicolas-Appert dove si trovava anche la redazione di Charlie Hebdo. Il 7 gennaio 2015 i giornalisti di Premières Lignes si erano ritrovati loro malgrado a essere i primi testimoni della strage. Furono loro ad entrare per primi nella redazione del giornale satirico per soccorrere i feriti e loro a filmare da una terrazza i fratelli Kouachi uscire dai locali di Charlie. Ieri da testimoni sono diventati vittime. Sono due loro dipendenti a essere stati aggrediti da un uomo armato di machete, un 18nne nato in Pakistan, fermato poi nella zona di Bastille. “Stavano in pausa sigaretta quando un tipo con un coltello da macellaio gli si è gettato addosso, prima su di lei, poi su di lui”. Lei lavora da una anno a Premières Lignes e gestisce il planning delle sale di montaggio. Lui vi lavora da quattro anni e si occupa della post-produzione dei documentari. “Non so se il bersaglio eravamo noi o il luogo. Non abbiamo mai ricevuto minacce. Ma c’è da chiedersi come mai questa strada-simbolo non sia stata messa in sicurezza da quando è iniziato il processo”, ha aggiunto Luc Hermann, giornalista a Premières Lignes. L’agenzia collabora con la BBC e la piattaforma Netflix. In Francia realizza reportage per il magazine di inchiesta “Cash investigation” di France 2. Nel 2015 ha contribuito a realizzare un doc sugli attentati, dal titolo Tre giorni di terrore. Come ha fatto notare Patrick Pelloux, medico ed ex collaboratore di Charlie Hebdo, l’assalto di ieri è stato perpetrato non solo nello stesso luogo ma quasi alla stessa ora di quello di cinque anni fa. Da allora la redazione di Charlie si è trasferita in un luogo segreto. Moreira ha raccontato ieri che anche loro avevano pensato di trasferirsi, ma che poi ci avevano ripensato: “Non saranno i terroristi a cacciarci”. In serata ha scritto in un tweet: “Abbiamo vissuto una giornata durissima. Grazie a tutti per i messaggi di sostegno”.

Assalto dove c’era Charlie. A Parigi ritorna il terrore

Sono stati scelti un luogo e un momento simbolici. Il luogo, la rue Nicolas-Appert, nel centro di Parigi, XI arrondissement, dove si trovava la redazione di Charlie Hebdo e che, nel 2015, fu teatro della strage jihadista in cui morirono dodici persone. Il momento, il processo che si sta tenendo proprio in questi giorni al tribunale di Parigi su quegli attentati del 7, 8 e 9 gennaio 2015, nella redazione del giornale satirico e al supermercato kosher della porte de Vincennes.

Lo scorso 2 settembre, giorno di apertura del processo, Charlie Hebdo aveva ripubblicato le caricature di Maometto che erano state il motore stesso della strage: “Non ci piegheremo mai, non rinunceremo mai”, avevano scritto nell’editoriale. Ieri mattina, verso le 11.45, un nuovo attacco terroristico si è tenuto proprio davanti al palazzo dove c’è ancora il murales che ricorda i giornalisti e i disegnatori uccisi dai fratelli Kouachi, Cabu, Charb, Wolinski e gli altri.

Proprio lì un individuo armato di machete ha colpito a sangue freddo due persone, un uomo e una donna, che stavano parlando e fumando una sigaretta ai piedi del palazzo. Un testimone ha raccontato di aver sentito delle urla, di aver visto la giovane donna con il volto coperto di sangue e l’individuo fuggire con la grossa lama in mano. Si tratta di un nuovo attacco portato espressamente contro la libertà di espressione? Le vittime sono due giornalisti di Premières Lignes, una società di produzione di documentari e reportage per la tv, la cui sede è al primo piano del palazzo dove si trovava la redazione di Charlie Hebdo. Sono state ricoverate in ospedale in urgenza assoluta, ma non sono in pericolo di vita. Arrivata sul posto, la polizia ha stabilito un perimetro di sicurezza. Il palazzo è stato perquisito. Gli artificieri sono intervenuti per effettuare un controllo su un oggetto sospetto trovato nella ex redazione di Charlie Hebdo. Nel frattempo centinaia di bambini delle scuole del quartiere sono rimasti confinati in classe, come cinque anni fa. Non se lo è dimenticato il direttore di una scuola che si trova a duecento metri da lì: “Gli insegnanti sanno che devono restare calmi – ha detto, sentito da France Info – Abbiamo già vissuto l’attentato del 2015 e ci siamo abituati”.

L’aggressore non è andato molto lontano. È stato fermato in place de la Bastille con il corpo coperto di sangue. Nella fuga aveva abbandonato il machete, che è stato ritrovato accanto all’ingresso della metropolitana. Ali H., pachistano di 18 anni, ha confessato e, da fonti della polizia, si sarebbe anche vantato: “Sono fiero di quello che ha fatto”, avrebbe detto. Ha precedenti penali per dei reati comuni e porto d’armi illegale, ma non è schedato per radicalizzazione. Un’inchiesta per “tentato omicidio in relazione con un’azione terroristica” stata aperta dalla procura antiterrorismo. Ieri sera delle perquisizioni erano ancora in corso a indirizzi diversi della regione di Parigi. Il procuratore Jean- François Ricard ha confermato che è lui “l’autore principale dei fatti”.

Ma un secondo uomo, di 34 anni, algerino, è stato fermato, sempre nei pressi della rue Nicolas-Appert, sul boulevard Richard Lenoir. Tra i due potrebbe esistere un legame, poiché compaiono vicini in un video delle telecamere di sorveglianza. Ieri su Twitter, la redazione di Charlie Hebdo ha espresso il suo “sostegno” e la sua “solidarietà” agli “ex vicini e colleghi”. Da quando è iniziato il processo per gli attentati il giornale vive sotto minaccia. Tra le quali anche quelle di al Qaeda, che aveva rivendicato l’attacco dei fratelli Kouachi, arrivate l’11 settembre scorso, anniversario dell’attacco alle Torri Gemelle di New York. Il gruppo terrorista ha lanciato un nuovo appello ad attaccare Charlie Hebdo in ogni modo possibile. La direttrice delle risorse umane del giornale, Marika Bret, ieri si è detta “annientata”: “È un nuovo brutto colpo, in una parola: un orrore”. Appena tre giorni fa Bret è stata costretta a lasciare di corsa la sua casa per aver ricevuto minacce di morte serie.

Live addio: i concerti si faranno in streaming

“Avete, sinceramente, rotto il cazzo!”. Cristina Scabbia ha reagito con veemenza metallara dopo il set “a porte chiuse” dei suoi Lacuna Coil all’Alcatraz di Milano, l’11 settembre. Ce l’aveva con chi questionava sul prezzo (7-10 euro) dello streaming dell’unico concerto della band negli ultimi mesi. Esoso? Cristina ha sottolineato che era stata una vera produzione, con tecnici di palco, suono e luci, le categorie più a rischio dopo il Covid. Il conto da febbraio, calcolato da Assomusica, è da brividi: perdite per 650 milioni di euro e fino a un miliardo e mezzo con l’indotto, 250 mila famiglie rimaste senza entrate. Gli artisti scalpitano, ma il futuro del settore è scritto sull’acqua. Qualcuno azzarda il tour (Elisa), altri riaggiornano l’appuntamento (Ghali e Pinguini Tattici Nucleari), si moltiplicano le cancellazioni (Lynyrd Skynyrd). E gli impresari temono il peggio in vista dei super concerti spostati al 2021: Ultimo, Ferro, Ligabue, Vasco. A quel punto il virus deciderà della sopravvivenza dei live. Già sperimentata la soluzione che può diventare lo scenario unico: lo streaming a pagamento. La piattaforma in auge è A-Live: artista in teatro, fan a casa. Si “interagisce” con la star inviando selfie, partecipando a coreografie o premendo i bottoni “applauso”, “ovazione”, “ballo”, “accendino”. Tanto, le generazioni virtuali non rimpiangeranno la transenna. E gli organizzatori risparmieranno sui costi: perché spostare carovane negli stadi quando puoi cavartela con uno show stanziale? Si può fare: purché resti su piazza qualcuno che sappia montare un palco.

Siani, De Mauro e Mattei: quando la memoria, se c’è, è tardiva o va all’asta

Le parole non sono pietre, in Italia, a differenza di quanto pensava Carlo Levi. E la memoria, se non è corta, quando c’è spesso è in ritardo, a volte è svogliata oppure va all’asta. Dunque: intanto l’ Ordine nazionale dei Giornalisti ha impiegato ben trentacinque anni (35!) per conferire il tesserino da giornalista professionista alla memoria Giancarlo Siani, il cronista de Il Mattino , all’epoca solo pubblicista, assassinato dalla camorra il 23 settembre del 1985. Meglio tardi che mai, ovvio, ma trentacinque anni per un riconoscimento del genere, che avrebbe dovuto essere dato semmai subito dopo la morte, sono davvero tanti. Sempre di Siani, poi, è stato detto dai vertici del suddetto Ordine che è “uno straordinario testimonial della passione per la professione giornalistica”. Ora, “testimonial” significa “personaggio celebre che in una campagna pubblicitaria attesta le caratteristiche positive di un prodotto”. Forse si poteva scegliere un’altra definizione, più corretta, più rispettosa. O no?

Poi: Raidue, la scorsa settimana, ha voluto ricordare i cinquant’anni (50! ) dalla scomparsa (e dall’uccisione) del giornalista Mauro De Mauro, peraltro passata pressoché sotto silenzio sui media nazionali, come non si è mai infranto il silenzio sui responsabili del sequestro e dell’assassinio. Tutto bene, pertanto, salvo che per rammentarlo è stato scelto un Tg2 Dossier retrò (ottimo, comunque, e a firma di Francesco Vitale), andato già in onda nel 2013. Non sarebbe stata più opportuna una nuova inchiesta sul caso De Mauro?

Infine: Bolaffi informa che andrà all’asta, tra gli “orologi da collezione”, il Patek Philippe “appartenuto al fondatore dell’Eni Enrico Mattei”, che sarà “in vendita il 30 settembre Milano in occasione dell’asta autunnale di Orologi firmata Aste Bolaffi”. A Mattei, ucciso in un attentato al suo aereo il 27 ottobre del 1962, “fu regalato”, prosegue la nota della Bolaffi, “nel 1954 dai ‘dirigenti e laureati Agip Mineraria’, come recita la dedica incisa nel fondello.” Sarà all’incanto “da una base d’asta di 25.000 euro.” E quella base d’asta è la sola cosa che si sa adesso (nel 2020) con certezza in memoria di Mattei. Oltre a sapere da tempo – come il giornalista Tommaso Besozzi scrisse per il bandito Salvatore Giuliano – che l’unica vera certezza per Mattei, purtroppo, è la sua morte.

Mail Box

 

Condivido le parole di Barca sui giovani

Caro Direttore, ho appena terminato l’articolo del Dr. Barca che ho trovato estremamente interessante e soprattutto molto concreto nelle sue proposte. Se fossi il presidente del Consiglio Conte aprirei immediatamente un confronto con il Forum e con il Dr. Barca per esaminarne la fattibilità nell’interesse dei Paese e dei nostri ragazzi. Auspico che l’articolo odierno si trasformi in una collaborazione costante tra il Fatto e Fabrizio Barca, uomo mai banale e che, cosa rara, ha la capacità di avere quello che una volta chiamavamo idee/forza destinate a durare nel tempo e ad avere una visione del Paese che non si limita all’oggi. È una delle tante campagne che il nostro giornale potrebbe portare avanti. Un caro saluto.

Andrea Cavola

 

Caro Andrea, lo speriamo anche noi!

M. Trav.

 

DIRITTO DI REPLICA

Grazie per lo spazio che avete voluto dedicarmi con l’articolo di giovedì, “Denunce e conflitti, la guerra in Enasarco”, ma mi corre l’obbligo di chiarire alcuni punti. In merito ai rapporti con Raffaele Mincione confermo di conoscerlo, come noto ero nella lista presentata anche da lui per Banca Carige nel 2018, ma di non aver mai intrattenuto con lui rapporti di natura finanziaria né di avere intenzione di farlo nel caso in cui fossi nominato alla presidenza di Enasarco. Il dottor Mincione era presente nella gestione di Enasarco prima del mio ingresso in consiglio nel 2016, ma non lo è stato con me presente in consiglio. Per quanto riguarda il richiamo ai rapporti con Valter Mainetti, durante il consiglio che mi vede presente dal 2016 al 2020, vengo chiamato a gestire le problematiche relative a Sorgente, sorte ed evidenziatesi prima della mia nomina, sotto la Presidenza di Brunetto Boco. Consultando quanto riportato a seguito dei Cda di quel periodo si evince che mi sono sempre espresso contro l’attività di Sorgente con palese voto contrario. Venni poi nominato presidente del Fondo Donatello, comparto Michelangelo Due, dove in primo luogo sterilizzai le quote societarie di Sorgente, per poi trasferire i fondi a un diverso gestore. Con il mio supporto Sorgente esce definitivamente dall’azionariato ricorrendo al Tar del Lazio; il Tar rigetta il ricorso con Sentenza n. 12227/2018, dichiarando inammissibile la richiesta di Sorgente. Quando per politica del gruppo, Sorgente sposta la sede societaria di Nova Re da quella originaria a via del Tritone, il cui affittuario è una società terza legata a Sorgente (Fondo Megas), prestavo la mia opera come membro meramente consultivo e non deliberativo e mi sono comunque espresso contro e a sostegno della Fondazione. Fra l’altro vorrei sottolineare che Nova Re ha sempre regolarmente pagato l’affitto e che fra i due fondi non sussiste il minimo contenzioso. Infine, l’assunzione di Rebecca Mei in Nova Re Siiq, non ha nulla a che fare con il nostro rapporto di parentela; laureata in finanza con 110 e lode con diritto di pubblicazione, lavora in una società dove Enasarco non ha un solo euro di investimento ed è stata assunta a firma del Commissario straordinario dopo uno stage.

Alfonsino Mei

 

 

In merito all’articolo apparso giovedì sul Fatto, circa un mio presunto coinvolgimento nelle dinamiche finanziarie dell’ente Enasarco, sono assolutamente estraneo all’intera vicenda. Pertanto, le notizie relative a presunte pressioni esercitate da qualcuno per affidare al sottoscritto la gestione patrimoniale degli investimenti dell’ente non corrispondono al vero. Ogni attività con Enasarco è terminata nel 2015 e preciso che i rapporti con Enasarco si sono sempre svolti nella massima correttezza e con documentabile soddisfazione da parte di Enasarco. Quanto affermato nell’articolo tende esclusivamente ad adombrare dubbi e perplessità sulla attività del sottoscritto attraverso una narrazione suggestiva e scandalistica. Al contrario, la mia attività imprenditoriale è sempre stata ispirata al rispetto delle leggi e alla correttezza.

Raffaele Mincione, fondatore e principal, Wrm Group

 

 

In merito all’articolo “Denunce e Conflitti, la guerra in Enasarco” pubblicato giovedì sul Fatto, sarei grato delle seguenti precisazioni che riguardano Sorgente Group, a cui fanno capo 94 società, di cui solo Sorgente Sgr è sottoposta a procedura di amministrazione straordinaria da parte della Banca d’Italia. Inoltre, il mancato pagamento dei canoni di affitto della sede di via del Tritone ha come sfondo la controversia sorta sul Palazzo stesso, perché la Fondazione Enasarco ha bloccato la vendita al Gruppo Sorgente, malgrado ci fosse un’opzione di acquisto. Controversia che si aggiunge a una causa civile, che i periti hanno quantificato in 76 milioni di danno patrimoniale, intentata da Sorgente Sgr contro la Fondazione Enasarco e che il Commissario Straordinario ha deciso di proseguire. Infine, riguardo a Nova Re Siiq, mi preme precisare che “non è un’altra società di Mainetti” in quanto non ne detengo il controllo e che comunque la sua sede operativa non è più nel Palazzo di via del Tritone.

Valter Mainetti, Presidente e Ad di Sorgente Group Italia

 

Grazie ad Alfonsino Mei, a Raffaele Mincione e a Valter Mainetti, che aggiungono nuovi particolari alle vicende raccontate dal “Fatto” e offrono utili puntualizzazioni e spiegazioni delle operazioni da loro realizzate, ma in sostanza non smentiscono alcun punto fondamentale del nostro articolo.

GB

A scuola. La gestione del rischio di contagio è (ovviamente) rigida

 

Nella classe di mia figlia (prima elementare) si è verificato un caso di positività al Covid-19. Tutta la classe è stata sottoposta a tampone, tutti fortunatamente sono negativi, ma comunque resteranno in quarantena per 14 giorni, quando verranno sottoposti a nuovi tamponi. Il bambino positivo è stato individuato perché era tra i partecipanti a una festa di compleanno in cui si era verificato un altro caso di Coronavirus: tutti gli altri invitati, anche loro negativi, sono tornati a scuola immediatamente dopo il primo test. Capisco la prudenza delle istituzioni, ma non rischiamo in questo modo di trascorrere un anno scolastico pieno di contraddizioni, in cui se si hanno contatti a scuola si passano settimane a casa, mentre se succede “fuori” si torna subito alla vita normale?

Franca Paolini

 

Gentile Franca,in effetti così potrebbe sembrare un modo caotico di fare le cose. Posso ipotizzare che la scuola debba garantire la maggior sicurezza possibile sul fatto che un eventuale contagio non sia avvenuto nelle sue aule e che per assicurarlo torni utile applicare il massimo principio di precauzione, magari anche per tutelare chi eventualmente potrebbe poi essere accusato di esserne corresponsabile (penso ai presidi). Le due procedure immagino abbiano poi origini differenti (scuola e Asl) quindi con linee guida differenti come le condizioni in cui sono avvenuti i contatti. Probabilmente il presidio sanitario che si è occupato della questione – se è lo stesso – dopo aver ascoltato tutti e ricostruito le condizioni in cui sono avvenuti i contatti, avrà anche deciso che mentre la convivenza scolastica aveva le premesse per una maggiore probabilità di contagio (compagni che condividono la stessa aula, al chiuso, per diverse ore al giorno, più giorni alla settimana), lo stesso non valga per le condizioni in cui si è svolta la festa di compleanno: che tipo di interazioni ci sono state? Era all’aperto o al chiuso? Quanto è durata? È lo stesso principio per cui la app Immuni si allerta solo se il contatto è superiore ai 15 minuti (così come la capienza massima sugli scuolabus). Certo, cercare di omologare la gestione del rischio di contagio non sarebbe male, ma se anche fosse, io lo farei in direzione della maggior prudenza. Andare a scuola è un obbligo, fare festa una scelta.

Virginia Della Sala

Riforma della Rai: Fico e i 5 Stelle si giocano la faccia

“Non riuscire in una cosa è fallire in tutte” (da La Libreria di Penelope Fitzgerald – Sellerio, 2018 – pag. 107)

Sarà perché nella scorsa legislatura Roberto Fico è stato presidente della Commissione parlamentare di Vigilanza, e ha maturato quindi una particolare esperienza e sensibilità sul tema del servizio pubblico radiotelevisivo. Ma è comunque apprezzabile e significativo che ora il presidente della Camera rimetta all’ordine del giorno la riforma della Rai, all’indomani della vittoria del Sì nel referendum sul taglio dei parlamentari. Non solo perché Fico oggi è un soggetto istituzionale e ricopre la terza carica dello Stato; quanto per il fatto che indica questa priorità tra gli obiettivi “identitari” del Movimento 5 Stelle, insieme all’acqua pubblica e al salario minimo (proposto nei giorni scorsi anche dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen). Un impegno, insomma, troppo formale per poter essere eluso o disatteso.

Parliamo di Rai, dunque, come bene pubblico, d’interesse generale. Non più al servizio di questo o quel partito, di questo o quel movimento, all’insegna della più vieta lottizzazione. Bensì come servizio al pubblico che, al di là degli schieramenti e delle appartenenze, lo finanzia attraverso il canone d’abbonamento. E quindi, affrancato finalmente dalla doppia subalternità alla politica e alla raccolta pubblicitaria.

Sono questi, storicamente, i due “padroni” che la Rai serve da sempre come Arlecchino. La partitocrazia e gli spot. Una politica che, sotto il governo di Matteo Renzi, ha addirittura sottoposto la radiotelevisione pubblica al controllo diretto del governo: come se già il ministero del Tesoro non fosse il proprietario dell’azienda, mentre sarebbe opportuno piuttosto trasferire il pacchetto azionario a una Fondazione indipendente. Una pubblicità sempre più invasiva, raccolta ormai a colpi di telepromozioni e product placement, con i conduttori-imbonitori che passano disinvoltamente dal set della loro trasmissione a quello dello spot; con le bottiglie di acqua minerale o di prosecco esposte in bella mostra davanti alle telecamere; con qualsiasi merce da piazzare al povero telespettatore, sfruttando magari nottetempo il calo dei freni inibitori. E di conseguenza, con un decadimento generale della qualità, tranne poche e rare eccezioni, in funzione della rincorsa all’audience come una qualsiasi tv commerciale.

Fra tutte le riforme che la maggioranza giallorossa o giallorosa che dir si voglia può mettere in cantiere, questa è verosimilmente la più impegnativa e qualificante. Non solo perché non si cambia l’Italia se non si cambia la Rai: a cominciare dalla sua governance e dalla sua mission, come promette anche il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Andrea Martella. Quanto per il fatto che la radio-televisione pubblica rappresenta l’ecosistema dell’informazione nazionale, il contesto mediatico in cui circolano le notizie e le opinioni, influenzando in modo determinante l’opinione pubblica e orientando l’aggregazione del consenso.

Lo diciamo, lo ripetiamo e lo scriviamo ormai da troppi anni. Ora basta con le chiacchiere. Non è più tempo di annunci e di promesse. Basta immaginare che cosa potrebbe fare il centrodestra della Rai, sotto l’egida del partito-azienda di Mediaset, nel caso in cui tornasse un giorno al governo. Se i Cinquestelle non riusciranno ad approvare questa riforma “identitaria” entro la fine della legislatura, insieme al Pd e agli altri alleati di governo, rischieranno di perdere oltre ai voti anche la faccia.

 

Pd, la vocazione “accogliente” che ha convinto l’elettorato

Le analisi del voto, a differenza delle analisi del sangue, non inchiodano nessuno all’ineluttabilità di trigliceridi troppo alti, ed è basandosi su tale consapevolezza che ciascuno si permette di esercitarsi in libere interpretazioni senza tema di smentite cardiovascolari.

Quindi, sorvolando su chi ha perso, chi ha vinto, chi ama la zia e chi va a Porta Pia, si può tentare di rimanere ancorati alle più semplici evidenze che emergono dai dati per avanzare delle considerazioni politiche tutto sommato poco opinabili.

Il suddetto esercizio di stile, in questo caso inteso come eleganza, è riuscito particolarmente bene a Goffredo Bettini, eminenza più colorata che grigia del Partito democratico, il quale ha offerto una lettura decisamente meno miope di quel fenomeno che molti hanno catalogato come la sparizione dei Cinque Stelle: “Giani, De Luca ed Emiliano hanno vinto nettamente anche per un voto disgiunto che è stato possibile grazie a un profilo unitario del Pd, non respingente. Abbiamo potuto chiedere e ottenere il voto ‘utile’ perché siamo stati percepiti, al contrario del passato, accoglienti, non boriosi né ostili agli altri. Nel voto al Pd si è espressa la cosiddetta ‘vocazione maggioritaria’ nei processi reali, nella battaglia ideale e politica; non in modo ideologico e prepotente; né come occupazione di tutto il campo di alternativa al sovranismo, in una sorta di illusione bipartitica morta da tempo”.

Da qui bisogna partire se si vuol capire perché, in queste elezioni regionali, il Paese si sia esercitato in un exploit di bipolarismo (inteso non come disturbo maniaco-depressivo, ma come fenomeno politico), a differenza di quanto accaduto negli ultimi anni.

La volontà popolare ha accolto ciò che la classe dirigente non si è sentita di proporre: un’alleanza, o patto, o accordo, o collaborazione che dir si voglia, che rendesse realmente competitivo il campo del centrosinistra con quello del centrodestra. In altre parole, quella che deliberata dall’alto sarebbe potuta apparire come una fusione a freddo, è avvenuta a caldo, nei fatti, per mano di un elettorato che l’ha scelta e non subita. Che imporre le cose spesso non funzioni e che sia molto più efficace indirizzare le persone verso una scelta da compiere autonomamente, è scritto nel primo capitolo di qualsiasi manuale di psicologia. Ciò che è scritto nel capitolo successivo, e che spesso la politica dimentica di leggere, è che in assenza di condizioni ambientali idonee tale percorso psicologico non si compie. È qui che entra in gioco il “partito accogliente, non borioso né ostile agli altri” di cui parla Bettini: condizione non sufficiente, ma indubbiamente necessaria perché l’elettorato pentastellato possa avvicinarsi. Il tripolarismo non è una religione che si appoggia sull’incontestabilità di Sacre Scritture. È un assetto politico che si è creato in risposta ad alcuni atteggiamenti e ad alcune prese di posizione dei due poli che già c’erano: la spocchia e l’arroganza della sinistra sono stati un elemento decisivo di questa deriva dei continenti.

Se c’è una qualità che va riconosciuta all’attuale segreteria dem Nicola Zingaretti è quella di non essersi fatta condizionare dalle continue accuse di “sottomissione ai grillini”, venute spesso proprio dai fan della “vocazione maggioritaria” più arrogante e respingente, ma di aver lavorato silenziosamente perché quei due continenti potessero riavvicinarsi. Vedremo se un domani, di questo passo, le loro coste torneranno a toccarsi.

 

Sul sorteggio Grillo ha ragioni “europee”

Il sorteggio può essere utile per la democrazia, oppure è roba da alchimisti? Chi fa passare il tema come l’ultima boutade di Beppe Grillo, con reazioni ironiche e paure antisistema, è affetto da grillofobia o da ignoranza. In realtà, le esperienze di democrazia aleatoria si susseguono da oltre venti anni in tutto il mondo, soprattutto in Europa.

Ha fatto bene Enrico Letta ieri a riconoscere le difficoltà della democrazia rappresentativa, auspicando di affiancarle forme nuove di partecipazione e deliberazione basate sulla sorte. Dopo anni passati in solitaria, speriamo di poterne parlare pure in Italia, senza essere presi per pazzi o negazionisti del Parlamento.

La crisi delle democrazie rappresentative è un fenomeno globale. Molti studiosi hanno individuato nelle elezioni il vero punto debole: non rappresentano la popolazione, cancellando i temi scomodi ai partiti e favorendo il prevalere dei gruppi di potere rispetto all’interesse generale. Forse la pensano così anche gli italiani che hanno votato per la riduzione dei parlamentari, non credendo che ciò significasse essere meno rappresentati.

Per questo motivo, anziché difendere l’ortodossia dei modelli in crisi, si è iniziato a sperimentare soluzioni alternative di esercizio della sovranità popolare. Non è pensabile che la democrazia sia l’unica attività umana sottratta all’innovazione!

La forma utilizzata nel mondo sono le Assemblee di cittadini estratti a sorte in modo da rappresentare statisticamente il Paese per età, sesso, istruzione, luogo di residenza, reddito. Ogni Assemblea è chiamata a studiare con l’aiuto di esperti, per poi discutere e deliberare, uno o più temi di interesse pubblico.

Nella sua ultima edizione, The Economist invita i politici a “prendere sul serio le Assemblee di cittadini, perché possono risolvere problemi che i professionisti della politica hanno paura di affrontare”.

È accaduto in Irlanda, dove nel 2013 il governo ha istituito un’Assemblea di cento cittadini (in quel caso con l’aggiunta di politici eletti) per deliberare sulla riforma di otto articoli costituzionali. Sulla base delle linee guida definite dall’Assemblea, gli irlandesi vennero chiamati a votare nel 2015 un referendum sui matrimoni gay e nel 2018 un altro per la legalizzazione dell’aborto (fino ad allora reato), entrambi vinti dal Si con più del 60 per cento dei voti.

Nessuna magia, semplicemente una nuova tecnologia democratica che funziona quando la politica elettorale, schiava del consenso, non decide.

Le Assemblee di cittadini superano la contrapposizione tra maggioranza e opposizione, entrata in crisi in un’epoca di campagna elettorale permanente e di polarizzazione esasperata. Oggi nessuna buona legge presentata dall’opposizione sarà votata dalla maggioranza parlamentare, mentre le cattive leggi della maggioranza saranno votate per “spirito di partito”.

Nelle Assemblee di cittadini, che sono forme di democrazia rappresentativa (con la sorte che sostituisce le elezioni), si realizza al meglio il principio del “conoscere per deliberare”, visto che è più facile informare cento cittadini piuttosto che 60 milioni di elettori. Possiamo considerarle i nuovi “corpi intermedi”, quelli che la politica del secolo scorso rimpiange senza sapere come ritrovarli.

In Francia, scosso dai Gilet gialli, Macron le sta usando sia a livello locale sia nazionale, mentre in Belgio la comunità germanofona ha istituito assemblee permanenti composte da 24 cittadini sorteggiati, in carica per un anno e mezzo, con il compito di stabilire i temi urgenti e prioritari sui quali si dovranno svolgere consultazioni e deliberazioni del Parlamento.