“La crisi 5Stelle era inevitabile: basta coi capi, guida condivisa”

Le Regionali hanno lasciato macerie, e lo ammette anche lui. Anche se tiene a precisarlo: “Ho detto subito che il M5S ha perso le elezioni, ma non penso che questa sia la peggiore sconfitta della storia del Movimento, su questo non sono d’accordo con Alessandro Di Battista. Di Amministrative ne abbiamo perse tante”. Ma per il presidente della Camera, Roberto Fico, il punto è un altro: ridare una fisionomia e un’anima al Movimento, portarlo su un “percorso chiaro”, come ripete più volte.

Il M5S è in crisi d’identità, lo ha riconosciuto anche lei. Diciamolo: vi siete accomodati nei Palazzi, vi siete normalizzati. O no?

Il discorso è più complesso. Noi abbiamo creato qualcosa di diverso, e ce n’era bisogno, lo dimostrano le cose che abbiamo realizzato. Ma è chiaro che quando siamo nati eravamo contro il potere, e ora al potere ci siamo noi. Dobbiamo risolvere questa contraddizione. La crisi era inevitabile con la nostra entrata al governo.

Ora che si fa? Ieri nell’assemblea congiunta, il reggente Vito Crimi ha proposto varie opzioni ai parlamentari per arrivare agli Stati Generali, al Congresso. Lei quale sceglierà nella consultazione interna?

Io sono per una via di mezzo tra la terza, che prevede assemblee sui territori e la creazione di un comitato organizzativo entro il 15 ottobre, e la seconda, che prevede la creazione di una segreteria collegiale.

Tradotto in pratica?

Penso che nella fase che porterà agli Stati generali, da qui a medio termine, vada nominata una governance.

Ha detto di essere disposto a entrare nella segreteria.

Ho detto che non ho preclusioni a farlo. Sono disposto a dare un contributo in un momento di difficoltà, come faccio da quando sono nel M5S.

Come la vorrebbe? Con un coordinatore e deleghe precise, e con quanti membri?

Sarà fondamentale garantire la massima partecipazione alle scelte e la più ampia collegialità nelle proposte. La struttura dovrà essere da stimolo nell’applicazione del programma.

Come si può gestire il M5S senza una figura apicale?

L’epoca del capo politico così come l’abbiamo conosciuta è tramontata. Ora sarebbe meglio eleggere un portavoce nazionale e una struttura collegiale, che rappresenti tutte le anime, dagli attivisti ai consiglieri comunali e regionali fino ai parlamentari. E sulle decisioni importanti vanno consultati gli iscritti, online.

Ecco, la piattaforma web Rousseau. Per molti eletti Casaleggio è un nemico, e la piattaforma va gestita dal M5S o trasformata in un fornitore esterno.

Nel M5S non devono esistere nemici. Rousseau rappresenta un modello nuovo e moderno. Se ne deve discutere nel percorso degli Stati Generali.

Va gestita dai 5Stelle?

Tutto ciò che attiene al M5S deve essere all’interno del Movimento.

Un tema decisivo è quello delle alleanze: Luigi Di Maio vorrebbe un tavolo con il Pd per le Comunali del 2021, Di Battista invece vuole un M5S autonomo. Poi c’è lei, che è stato molto importante per la formazione di questo governo…

Dobbiamo leggere il momento in cui ci troviamo. Con l’avvento di Matteo Salvini la polarizzazione è cresciuta, ma l’elettorato è molto mobile. In Campania, la mia regione, nel 2018 hanno votato quasi tutti per noi 5Stelle. Poi è cresciuta la Lega e ora nelle Regionali ha stravinto De Luca.

In Puglia e Toscana buona parte del vostro elettorato ha scelto il voto utile, a sinistra.

Guardi, hanno scelto dei candidati. E viva la democrazia.

In un quadro bipolare non potete che andare con i dem, o no?

Lo decideranno gli Stati Generali. Ma nell’attesa possiamo fare accordi col Pd ove sia possibile, sempre sui temi.

Il rischio è che il Pd vi svuoti, non crede?

Lo svuotamento lo abbiamo visto quando governavamo con la Lega. E si evita dicendo chiaramente cosa si vuole fare e da che parte si sta. Bisogna ripartire dai programmi e affermare i nostri principi. Perché non si fanno la legge sull’acqua pubblica, quella sul conflitto di interessi e la riforma della Rai? Bisogna insistere con gli alleati di governo, facendo emergere eventuali contrarietà. E poi cercare un punto di caduta.

Il Sì al taglio dei parlamentari è passato. Ma ora bisognerebbe fare una serie di riforme.

La priorità è la riforma del regolamento, visto che si passerà a 4oo deputati. Sto per convocare la giunta sul regolamento.

Il nodo è la legge elettorale: lei le vorrebbe le preferenze?

Sono assolutamente una priorità. Il cittadino deve poter scrivere sulla scheda il nome di chi vuole eleggere.

L’accordo di base è su un testo proporzionale.

Con un Parlamento che passerà a 600 membri è un’impostazione equilibrata.

Scegliamoli noi! Quota 20MILA Firme per la petizione

Altri nove accademici italiani sottoscrivono l’appello del Fatto Quotidiano per eliminare le liste bloccate dalla nuova legge elettorale. Sei sono docenti di Diritto costituzionale: Agatino Cariola, Marilisa D’Amico, Antonio Ruggeri, Ida Nicotra, Federico Sorrentino e Barbara Pezzini, oltre ai docenti universitari Luigi Condorelli, Nicoletta Maraschio e Enzo Varano, hanno deciso di firmare la petizione, già sottoscritta da 20mila cittadini. I dieci costituzionalisti primi firmatari chiedono il superamento delle liste bloccate, ma anche l’eliminazione delle pluricandidature. L’idea è appoggiata da Stefano Fassina (LeU) e parzialmente da Forza Italia. Ieri, con un comunicato ufficiale, i deputati Daniela Ruffino, Simona Vietina, Raffaele Baratto, Alessandro Battilocchio, Dario Bond, Luigi Casciello, Osvaldo Napoli, Guido Pettarin di FI hanno chiesto di tornare al proporzionale con preferenze, “perché l’espressione più schietta del territorio”. Non si segnalano invece prese di posizione favorevoli alle preferenze da Pd e Iv.

 

Liste bloccate: l’Italia come l’Ungheria

Non solo il maggior numero di eletti rispetto agli elettori tra i grandi Paesi europei. L’Italia ha anche un altro record negativo tra i 28 Stati membri: è uno dei pochissimi Paesi che non permettono ai cittadini di scegliersi i propri rappresentanti. Da 15 anni, tutte le leggi elettorali che sono state approvate – Porcellum, Italicum e Rosatellum – prevedono le liste bloccate mentre in tutto il resto d’Europa gli elettori possono scegliere con i collegi uninominali o con le preferenze.

Oltre all’Italia, nell’Ue le liste bloccate sono previste in Spagna, Portogallo, Romania e Ungheria mentre nei restanti paesi vengono utilizzati sistemi proporzionali, maggioritari e misti in cui l’eletto è la diretta emanazione del voto popolare.

A partire da Francia e Gran Bretagna che utilizzano due sistemi con collegi uninominali: i 577 deputati dell’Assemblea Nazionale (nella foto) sono eletti con i collegi a doppio turno con la possibilità del ballottaggio se nessuno ottiene la maggioranza; in Uk invece i 650 componenti della Camera dei Comuni sono scelti con il sistema first past the post (dal gergo ippico “il primo oltre il palo”): tutti i partiti candidano una persona per collegio e quella che prende anche un solo voto in più degli altri ottiene il seggio. In questi due sistemi gli elettori hanno un importante potere di scelta e la responsabilità (accountability) nei confronti degli elettori del proprio collegio è un tema molto sentito.

In Germania, per eleggere il Bundestag, vige un sistema misto: più di un terzo dei componenti (299) è eletto con collegi maggioritari uninominali e i restanti con un proporzionale con liste bloccate e soglia di sbarramento al 5%. Per questo il “Brescellum” di cui si sta discutendo in Italia – un proporzionale puro con soglia al 5% – non ha molto a che vedere con il sistema tedesco. Nel resto d’Europa gli elettori possono scegliere i propri parlamentari. Il sistema delle preferenze tradizionale c’è in cinque Paesi – Finlandia, Polonia, Grecia, Slovacchia e Bulgaria – che utilizzano sistemi proporzionali con la possibilità di esprimere più preferenze. Negli altri Stati membri, i sistemi sono diversi ma con un punto fermo: dare all’elettore la possibilità di scegliere.

In Svezia, Lettonia, Estonia, Paesi Bassi, Austria, Repubblica Ceca e Belgio vige il sistema della “lista flessibile”: l’elettore può esprimere una preferenza, ma l’ordine degli eletti può essere modificato a determinate condizioni (come una soglia minima tra il 5 e il 10%). In Irlanda e Malta c’è il sistema del singolo voto trasferibile: l’elettore può esprimere più preferenze in base all’ordine di gradimento. Approvare una legge elettorale senza liste bloccate ci farebbe allineare agli altri Paesi Ue.

Preferenze, il Pd tentenna. Legge congelata fino al ’21

“Sarà un lungo lavoro di ricamo…”, sbuffa Giuseppe Brescia, presidente della Commissione Affari costituzionali del M5S diventato il padrino politico della futura legge elettorale. E dietro le sue parole si cela l’amarezza dei tempi che, inevitabilmente, si allungheranno. Il punto è sempre lo stesso: manca l’accordo politico nella maggioranza. Ché dal punto di vista tecnico il testo base della legge proporzionale con soglia di sbarramento al 5% approvato il 10 settembre in Commissione alla Camera sarebbe già potuto arrivare in aula lunedì. E invece no, perché Italia Viva e LeU si sono astenuti in disaccordo su diritto di tribuna e soglia di sbarramento. Nel frattempo, dopo la vittoria alle Regionali, nel Pd sta tornando la voglia del maggioritario che potrebbe rimettere in discussione l’accordo politico raggiunto a fine anno dai giallorosa.

Sicché, i tempi si allungano, col rischio di arrivare addirittura al 2021: fino a metà ottobre la Affari costituzionali è impegnata a discutere i “correttivi Fornaro” – il superamento della base regionale del Senato e il riequilibrio dei delegati per eleggere il presidente della Repubblica – e poi restano due settimane per votare la legge in Aula prima che si apra, a inizio novembre, la sessione di Bilancio che impegnerà i deputati fino a fine anno. Una corsa contro il tempo. Il relatore del Pd Emanuele Fiano però è ottimista: “Entro inizio novembre si può votare”. Ma qui si arriva al secondo problema: l’ accordo politico che non c’è. Sì, perché nella maggioranza i partiti vanno in ordine sparso. In primis, c’è da sbrogliare la matassa della soglia di sbarramento, troppo alta per la sinistra (la soluzione potrebbe essere il 4%) mentre Iv lega l’appoggio del proporzionale all’approvazione di correttivi alla tedesca. E su questo tema il Pd presenterà una proposta sul superamento del bicameralismo perfetto e la sfiducia costruttiva, su cui sono d’accordo anche i 5Stelle. Ma sul superamento del bicameralismo il M5S non ci sta e si resta agli annunci.

Tornando alla legge elettorale, il vero nodo che agita la maggioranza sono le preferenze: il M5S spinge per introdurle (“Permetterebbero di rinsaldare il rapporto tra cittadini ed elettori” dice la capogruppo in Commissione alla Camera, Vittoria Baldino), ma il Pd nicchia. “No comment, stiamo discutendo” fanno sapere dal Nazareno. Sia perché molti temono il ritorno alla Prima Repubblica (corruzione e costi della campagna elettorale), sia perché tra i dem sta crescendo la voglia di maggioritario.

Contro Zingaretti, che insiste sul proporzionale, è in atto una manovra a tenaglia: da una parte i padri nobili – Romano Prodi, Walter Veltroni e da ieri anche Enrico Letta (“Sono un tifoso del Mattarellum” ha detto a La Stampa) – che chiedono di non tornare al proporzionale in memoria della “vocazione maggioritaria” del Pd, e dall’altra la minoranza – a partire dagli ex renziani – che ha votato No al referendum. Fiano prova ad allontanare i dissidi senza smentire la voglia di maggioritario: “Il testo è quello che abbiamo approvato in Commissione e su cui c’è accordo politico – dice al Fatto –. Se poi arriveranno proposte di correttivi in senso maggioritario, ben vengano”. Come dire: la partita non è ancora chiusa.

L’Ingegner Golpe

Mentre gli elettori e gli eletti 5Stelle si domandano se il loro movimento abbia ancora un senso, ci ha pensato Carlo De Benedetti, padrone del nuovo giornale senza padroni, a dissipare i loro dubbi. L’ha fatto a Piazzapulita, davanti al conduttore che lo auscultava come l’oracolo di Delfi e a Bersani che lo riduceva in poltiglia. Lì ha intimato a Mattarella di sciogliere subito le Camere perché alle Regionali i partiti hanno avuto risultati diversi da quelli delle Politiche del 2018 e sarebbe assurdo che chi ha perso le Regionali elegga il nuovo presidente della Repubblica. L’idea che le Regionali decidano chi governa le Regioni, le Politiche chi governa il Paese (o meglio, chi ha la maggioranza in Parlamento per governare il Paese) e il Parlamento chi fa il capo dello Stato non sfiora il nostro costituzionalista della mutua. Strano, perché anni fa fondò Libertà e Giustizia per difendere la Costituzione: quell’agile libretto di 139 articoli che separa nettamente l’elezione indiretta del capo dello Stato (per 7 anni) e quelle dirette del Parlamento, dei Consigli regionali e dei Consigli comunali (per 5 anni). La durata sfasata e la maggioranza qualificata del Quirinale sottolineano vieppiù la volontà dei Costituenti di proteggere il capo dello Stato dalle logiche momentanee della politica e dai contingenti rapporti di forza fra governo e opposizione. Infatti neppure un analfabeta costituzionale come il Cazzaro Verde chiede al Quirinale di sciogliere le Camere. E l’unico a congratularsi con CdB è Pietro Senaldi su Libero: sono soddisfazioni.

Chi non conoscesse CdB potrebbe pensare che abbia studiato la Costituzione su Tiramolla. O rinfacciargli l’incoerenza di aver sostenuto in passato presidenti e governi votati da maggioranze parlamentari non indebolite, ma illegittime. Come Napolitano e i governi Letta, Renzi e Gentiloni, figli del premio di maggioranza (anzi di minoranza) del Porcellum dichiarato incostituzionale dalla Consulta. Ma l’Ingegner Golpe, del diritto e della coerenza, se ne infischia. E sa benissimo di aver detto una somarata (una più, una meno). Ma l’ha detta lo stesso, consapevolmente, confessandone pure il movente (a una certa età, si è più portati a confessare): “In Parlamento ci sono più di 300 cinquestelle e saranno decisivi per scegliere il prossimo presidente della Repubblica”. In effetti, avendo preso il 33% dei voti, il M5S ha un terzo dei parlamentari: a pensarci prima si potevano abolire gli elettori, o sterminare quelli intenzionati a disobbedire a CdB, ma ormai è andata così. Purtroppo siamo in democrazia. Lui però è abituato a fare e disfare maggioranze e governi. A dettare liste dei ministri e leggi à la carte.

A creare partiti e leader o pseudotali in laboratorio (ultimi capolavori: l’Innominabile e Pisapia). A pagare mazzette per rifilare telescriventi obsolete alle Poste. A farsi anticipare i decreti per specularci e guadagnarci in Borsa. Dunque non può tollerare l’esistenza di un movimento che non prende ordini da lui, anzi non se lo fila proprio. Né tantomeno di un premier che non fa insider trading e, se gli mandi degli emissari per avvicinarlo, te li rispedisce al mittente. Infatti vuole B. al governo “pur di cacciare Conte”. E votare subito per far vincere Salvini&C. e far scegliere da loro, anziché dagli odiati “grillini”, il nuovo capo dello Stato. Da Tessera Numero Uno del Pd a leader della Sinistra per Salvini. Tanto, con la destra come con la sinistra, lui s’è sempre messo d’accordo. Franza o Spagna purché se magna. L’importante è levarsi dai piedi i 5Stelle perché “hanno truffato gli elettori e non han fatto niente”. Ma, se fosse vero, lui li appoggerebbe e forse li voterebbe pure. Il guaio è che hanno mantenuto un bel po’ di promesse (non con lui, però): hanno smontato un bel pezzo di Jobs Act (“A Renzi il Jobs Act l’ho suggerito io, lui mi è stato sempre molto grato”) col dl Dignità, dato un sacco di soldi ai poveri anziché a lui col Reddito di cittadinanza, varato la legge anticorruzione e antiprescrizione (lui per le sue tangenti fu per metà prescritto), imposto le manette agli evasori (e lui di indagini per elusione, evasione e falsi in bilancio se ne intende) e ora minacciano una legge contro i conflitti d’interessi fra imprese e giornali (un po’ come parlare di corda in casa dell’impiccato).
Non solo: non vogliono il Mes, il prestito europeo ipercondizionato per la sanità che l’accordo Ue sui 209 miliardi di Recovery Fund ha reso ancor più inutile di quanto già non fosse (infatti in Europa non l’ha preso nessuno, perché il primo che si alza confessa di essere in default). Tantopiù che il governo ha già stanziato 10 miliardi in un anno per la sanità, altri ne stanzierà col Recovery e per ora non ha problemi di cassa. Eppure CdB vuole a tutti i costi il Mes, non riesce a farne a meno, ne parla come il Papa del Paradiso. Qualche maligno potrebbe ricordare che la sua famiglia è padrona del gruppo Kos, titolare di 55 fra cliniche private e Rsa (alcune indagate per i contagi da Covid): vedi mai che qualche miliarduccio piova anche da quelle parti. Ma sarebbe un’ingiusta cattiveria. L’impressione che dava l’altra sera l’attempato prenditore, mentre smetteva di colpo la mutria malmostosa di chi sente dei cattivi odori per magnificare estasiato i balsamici effetti del Mes, era quella di un increscioso equivoco dovuto all’anagrafe. Che, cioè, avesse scambiato il Mes per un nuovo tipo di Viagra.

Il Coronavirus ha infettato pure le vendite: -25% a fine anno

Il Covid ha cambiato le nostre abitudini, e forse neanche ce ne siamo accorti. Abbiamo messo in discussione stili di vita e modelli precostituiti, modellando le necessità in base alle possibilità. E in molti casi non è stato piacevole. Poteva l’auto non finire nel calderone dei ripensamenti? Domanda retorica, perché in effetti da più parti arrivano attacchi alla supremazia di quello che fino a poco tempo fa era il campione della mobilità. E tutto sommato lo è ancora, visto che è l’unico mezzo che garantisce il distanziamento sociale. Bordate che arrivano proprio quando è più debole, perché colpito dagli effetti della pandemia, e più vulnerabile alla demonizzazione, quel brutto vizio di chi tende ad addossargli tutta la responsabilità di un’aria sempre più irrespirabile.

La debolezza è nei fatti, e nei numeri certificati dall’agenzia di rating Standard & Poor’s, che ha ora rivisto al ribasso le stime fatte a marzo sulle vendite di fine anno, dipingendo un quadro a tinte fosche anche per quelli a venire. Si passa dunque da previsioni di -15% a un ben più consistente -20% a livello mondiale, con dei distinguo importanti a livello geografico. Stati Uniti e Cina andranno meglio del previsto, per ragioni opposte: a Pechino hanno saputo domare la pandemia e negli States se ne sono sostanzialmente fregati. Ma in entrambi in casi l’impatto economico sarà minore. Da noi in Europa e nel resto del mondo invece, complice il lockdown prolungato, si potrà arrivare a perdere anche un quarto dei volumi totali. Il dilemma è ancora quello: meglio la salute o il business?

ID.4, l’auto “chiave” per la Volkswagen

“L’ID.4 è un emozionante tuttofare che impressionerà molti clienti con la sua efficiente trazione elettrica, la generosa quantità di spazio, i moderni sistemi di assistenza e il design potente”. Così l’ad del marchio Volkswagen Ralf Brandstätter ha accompagnato l’unveiling della nuova nata a emissioni zero, su cui a Wolfsburg si giocano tutto nella non facile partita della mobilità a elettroni. Sia perché è uno sport utility, ovvero la moda del momento, sia perché, come spiega lo stesso Brandstätter, “Come prima auto elettrica globale della VW, questo modello lancerà in tutto il mondo la nostra piattaforma modulare a zero emissioni”.

Lunga 4,58 metri, sarà inizialmente disponibile nei soli allestimenti ID.4 1st e ID.4 1st Max, con prezzi in Germania a partire da circa 50 mila euro. Il design punta sulla pulizia delle forme, con un pizzico di sportività come si evince dai parafanghi muscolosi, dallo spoiler sul lunotto e dai cerchi di lega da 20’’ o 21’’. Ma il vero asso nella manica della ID.4 è la spaziosità interna e quella riservata ai bagagli: la capacità del vano di carico oscilla da 543 a 1.575 litri, raggiungibili abbattendo gli schienali posteriori. L’abitacolo, reso luminoso dalla presenza del tetto panoramico, è un riuscito mix di minimalismo e digitalizzazione: in plancia spiccano i generosi schermi del sistema infotelematico connesso (con display da 10” o 12”) e quello della strumentazione tachimetrica, coadiuvata dell’head-up display con realtà aumentata, che proietta le informazioni all’altezza del parabrezza, nel campo visivo del guidatore.

Il corredo di sicurezza, naturalmente, comprende tutti gli ultimi ritrovati del momento: dalla frenata automatica di emergenza al cruise control adattivo, passando per il mantenimento automatico della propria corsia di marcia. Inizialmente la vettura sarà commercializzata con la sola configurazione a trazione posteriore e motore da 204 Cv di potenza massima, alimentato con batterie da 77 kWh di capacità.

Con questa meccanica il canonico zero-cento è coperto in 8,5 secondi e tocca una velocità massima di 160 km/h, mentre l’autonomia dichiarata nel ciclo Wltp è di 520 chilometri. Quanto alla ricarica, con le colonnine rapide da 125 kW se ne recuperano circa 320 km in 30 minuti. Successivamente arriverà una più potente versione a quattro ruote motrici, capace di oltre 300 cavalli ed equipaggiata con una batteria ancora più potente.

Tesla con la batteria “democratica” tenta l’assalto al mercato

Può il nome di un evento aziendale sintetizzare dove stia andando l’industria automotive e quali siano le sue sfide? Sì, perlomeno se l’appuntamento in questione si chiama “Battery Day” e lo organizza Tesla. Già, perché il vero problema della mobilità a emissioni zero è il prezzo elevato delle batterie: chi prima riuscirà a renderle economicamente sostenibili avrà in mano le chiavi del mercato.

Lo sa bene Elon Musk, il vulcanico co-fondatore del marchio di Palo Alto. La sua azienda ambisce a dimezzare l’attuale costo per kWh degli accumulatori: cruciali in questo senso saranno le future celle “4680” (compongono la batteria) – hanno diametro di 46 mm e altezza di 80 mm –, che promettono, oltre a maggiore affidabilità e minori problemi di surriscaldamento, autonomia maggiorata del 16% e costi inferiori del 14%. Ciò permetterebbe, su carta, di produrre automobili più convenienti per i consumatori; ma le 4680 non arriveranno prima del 2022.

Il prossimo grande obiettivo della Tesla? Lanciare sul mercato un’auto a zero emissioni dal prezzo di vendita di circa 25 mila dollari, una vettura compatta ma dotata di avanzate tecnologie di guida assistita, da far esordire sul mercato entro i prossimi tre anni. Nel suo mirino potrebbe finire la Volkswagen ID.3, la prima elettrica di massa del colosso tedesco. Non solo, il costruttore è deciso a ridurre progressivamente il costo di nuovi modelli in arrivo nel prossimo quinquennio. Fanno parte del piano per contenere le spese di produzione le nuove presse, che consentiranno di realizzare componenti di metallo più facilmente e velocemente, nonché le batterie senza cobalto nei catodi e con funzione strutturale: una soluzione tecnica che consentirà di ampliare di un altro 14% l’autonomia, rendendo al contempo il telaio delle vetture a venire più rigido e leggero del 10%, e l’abitacolo più spazioso.

Nel Battery Day non è comunque mancata qualche sparata, come da tradizione: ad esempio, Tesla prevede di essere in grado di costruire fino a 20 milioni di veicoli elettrici all’anno. Un numero enorme se si considera che quest’anno l’intera industria automobilistica prevede di consegnare 80 milioni di auto a livello globale e prevalentemente termiche.

Infine, la ciliegina sulla torta, la nuova Model S Plaid, super berlina con tre motori elettrici e trazione 4×4: dispone di 1.100 cavalli di potenza, può divorare lo 0–100 km/h in due secondi, toccare i 320 km/h di velocità e vanta un’autonomia di 837 km. Numeri che fanno impallidire la Porsche Taycan, per giunta assai più costosa dei 120/133 mila euro richiesti per la Plaid, sul mercato fra un anno.

“Il processo ai Chicago 7”: gli Oscar hanno già il favorito

Ci sarà tempo fino al 28 febbraio per concorrere, giacché causa pandemia la premiazione è stata spostata al 25 aprile 2021, ma a oggi i 93esimi Oscar hanno un favorito: non Nomadland, pur Leone d’Oro a Venezia e premio del pubblico a Toronto, ma Il processo ai Chicago 7, scritto e diretto dal geniaccio Aaron Sorkin, dal 30 settembre in sala e dal 16 ottobre su Netflix. In America la critica è impazzita, e ne ha ben donde: il creatore di West Wing inquadra il processo seguito agli scontri tra attivisti e polizia e Guardia nazionale alla convention democratica del 1968 e centra un capolavoro di scrittura, direzione d’attori e presa sul reale.

Miglior film, sceneggiatura e interpreti, Sacha Baron Cohen per lo yippie Abbie Hoffman e Eddie Redmayne per il più compassato Tom Hayden, la corsa alle statuette è catalizzata dall’attualità politica. Nel Q&A globale organizzato da Netflix, l’indimenticato Borat echeggia nella contrapposizione strategica tra Hoffman e Hayden, che prima di morire nel 2016 ha collaborato allo script, la corrente “divergenza d’opinioni tra progressisti e moderati in seno al Partito Democratico”, mentre Sorkin stigmatizza la “demonizzazione che la destra fa delle proteste in America” e la distanza a sinistra tra chi predica “un cambiamento graduale e chi dice ‘rompiamo le cose’”. A officiare il progetto Steven Spielberg, nel cast strepitosi Jeremy Strong alias Jerry Rubin e Yahya Abdul-Mateen II, la Pantera Nera Bobby Seal che venne schiavizzato in aula, Baron Cohen mette nel mirino i problemi alla Corte Suprema e la possibile dilazione del conteggio dei voti per posta da parte di Trump alle prossime elezioni: “Che faremo per proteggere la democrazia quando ci verrà sottratta, assisteremo pacificamente alla transizione all’autocrazia o scenderemo in strada, do we stand by or stand up?”.

“L’amore è cieco: per me Miles Davis non era nero”

Pubblichiamo uno stralcio di “Io sono fatta così”, l’autobiografia di Juliette Gréco (morta martedì a 93 anni), uscita nel 2012 e riedita in Italia da Baldini + Castoldi nel 2014.

Nella primavera del 1949, Boris Vian, giornalista a tempo perso ed esperto di jazz, scrive del Festival internazionale di jazz per il quotidiano Combat e il mensile Jazz news.

Michèle Vian, appassionata di jazz come il marito, mi propone di accompagnarla alla Salle Pleyel, dove debuttano i concerti del festival.

In programma ci sono i musicisti americani più in voga del dopoguerra come Charlie Parker, Sidney Bechet, il quintetto di Tadd Dameron e Miles Davis.

Poiché non ero riuscita a comprare i biglietti, ho visto Miles per la prima volta dal sipario, di profilo. Assomigliava a una statua egizia intenta a suonare la tromba. Completamente curvo. Come una parentesi che si apre e si chiude. Il suo volto era di una bellezza sorprendente. Scolpita. Mi sentivo affascinata.

Con perfetto accento americano, Michèle Vian ci presenta; lo guardo, mi guarda. Andiamo a cenare tutti insieme in un ristorante greco con altri suoi amici, musicisti jazz.

Il giorno seguente, dopo il concerto, passeggiamo mano nella mano lungo le rive della Senna. Io parlo molto male l’inglese, e lui non sa il francese, ma non ha importanza. Ci amiamo.

Qualche settimana dopo riparte per gli Stati Uniti. A Sartre, che si interessava molto alla nostra storia e gli chiedeva perché non mi sposasse, Miles rispose che non voleva rendermi infelice. Pensava che la nostra relazione non potesse avere un seguito. Che la differenza nel colore della nostra pelle ce l’avrebbe impedito.

La prima volta che l’ho visto non ho notato che fosse nero. So che nessuno vuole credermi, ma è così.

Ho scoperto la sua quotidianità qualche tempo dopo, a New York. Ero andata a cantare al Waldorf Astoria e avevo invitato Miles e i suoi amici musicisti a cena. Con loro ci sono due bambini; chiamo il proprietario dell’albergo, che ogni sera mi serve con gentilezza e sollecitudine. Quando entra nella stanza si irrigidisce. Alla vista dei miei invitati il suo comportamento cambia completamente, diventa gelido. Prende la mia ordinazione ed esce.

Dopo un’ora, le allegre discussioni non riescono comunque a farci passare la fame, né tantomeno quella dei bambini. Telefono al servizio in camera. Mezz’ora più tardi un giovane cameriere entra spingendo un carrello con un fragore di piatti. Miles e i suoi amici sono a disagio. Non capisco quello che sta succedendo. I bambini divorano subito gli hamburger. I musicisti, ormai senza appetito, concludono in fretta la serata.

Miles mi telefona quella notte: “Se non vuoi passare per una puttana che va con i negri e compromettere la tua carriera qui in America, non farti vedere con noi, vieni a trovarci a casa nostra. Qui non è come a Parigi, siamo a New York”.

Ero arrabbiata. Triste. Indignata. Mi vergognavo terribilmente per aver fatto vivere quell’umiliazione ai miei amici.

Ho rivisto Miles periodicamente. Mi lasciava qualche parola nelle città in cui lavoravo.

All’Opera di Stoccolma mi scrisse questo bel messaggio: Sono passato. Ero lì. Ti abbraccio. Ti amo. Miles.

E questo per tutta la vita, e in tutto il mondo. Si dice che l’amore sia cieco: non è vero! Semplicemente, se anche qualche volta è lontano dagli occhi… basta chiuderli perché tutto diventi percepibile. Presente. Vivo.