Valigie e borse piene di biancheria sporca da lavare. Per questo verrà ricordato il premier israeliano Benjamin Netanyahu negli Stati Uniti, almeno dai funzionari addetti ai servizi degli ospiti internazionali della Casa Bianca, uno dei quali, stanco di dover lavare i panni sporchi di Bibi, l’ha denunciato, seppur mantenendo l’anonimato. Lo staff del presidente ha subito smentito: “Sono accuse infondate e assurde che hanno lo scopo di sminuire il monumentale risultato del primo ministro Netanyahu nello storico vertice di pace di martedì mediato dal presidente Trump alla Casa Bianca”, ha detto l’ambasciata d’Israele a Washington in una dichiarazione. Ma in realtà, Netanyahu e signora sono noti alle cronache per le loro stravaganti necessità a casa e in viaggio durante i meeting internazionali, quando agli ospiti viene offerto ogni genere di servizio gratuito. “I Netanyahu sono gli unici che portano vere valigie di biancheria sporca per farci pulire – ha riferito il funzionario americano –, dopo più viaggi, è diventato chiaro che fosse intenzionale”. Ma in patria nessuno potrebbe sconvolgersi di questa abitudine, visto che già nel 2016 il premier citò in giudizio l’ufficio del procuratore generale per impedire che diffondesse i suoi conti della lavanderia, nell’ambito dell’inchiesta sui fondi usati illecitamente da Bibi. Il giudice gli aveva dato ragione e dei conti dei panni sporchi non si è più saputo nulla. Certo non è questa l’accusa più importante per il primo ministro, che nel novembre scorso è stato incriminato per corruzione e anche per aver accettato regali per un valore di quasi 200mila dollari da dirigenti aziendali. Tornando agli Usa, pare che nell’ultimo viaggio per siglare la pace con gli Emirati Arabi, Bibi non abbia portato molti panni sporchi: il processo gli sarà servito da lezione?
Caso Taylor, scontri e feriti mentre Trump mina le elezioni
Nell’America traversata da fremiti violenti di tensioni razziali, Donald Trump attizza rabbia e paura e lascia planare il dubbio d’un passaggio di poteri “non ordinato”, se il 3 novembre dovesse vincere Joe Biden: “Vedremo che cosa succede”, risponde a chi chiede se tutto sarà pacifico dopo il voto. Il magnate aggiunge: “Penso che le elezioni finiranno alla Corte Suprema: è importante che ci siano nove giudici”, ribadendo così l’intenzione d’insediare in tempi brevissimi il successore – una donna – della giudice scomparsa venerdì scorso, Ruth Bader Ginsburg, un’icona progressista. L’impatto delle frasi di Trump è talmente destabilizzante che un suo fedelissimo, Mitch McConnell, capo della maggioranza in Senato, le chiosa: “Ci sarà una transizione ordinata … Il vincitore s’insedierà il 20 gennaio, come è avvenuto ogni quattro anni dal 1792”. L’altra sera, due agenti di polizia sono stati feriti a colpi di arma da fuoco a Louisville, Kentucky: accese proteste sono esplose dopo il verdetto di un gran giurì sull’uccisione di Breonna Taylor, giovane para-medico afro-americana ammazzata durante un’irruzione della polizia nella sua casa e nel suo letto, nel marzo scorso. I due agenti non sono in pericolo di vita. Un uomo sospettato di aver aperto il fuoco è stato fermato. In città, è stato decretato il coprifuoco, ma le proteste sono continuate e hanno contagiato altre città dell’Unione, da New York alla California. Lo sdegno contagia cultura, spettacolo, sport. Il gran giurì non ha incriminato due dei tre agenti che fecero irruzione in casa della Taylor di notte, cercando un sospetto che era già stato preso. Un terzo agente è stato incriminato non per la morte dell’afro-americana ma per condotta negligente. Per l’uccisione della Taylor e altri episodi analoghi altrove nell’Unione, Louisville era già stato teatro di episodi di violenza nelle scorse settimane: c’erano stati spari contro i dimostranti anti-razzisti. Trump elogia il procuratore del Kentucky, Daniel Cameron, e prega per gli agenti feriti. Biden è consapevole che “molta gente è frustrata e ha il diritto di manifestare pacificamente”, ma – sottolinea – “la violenza non è mai accettabile”. I sondaggi segnalano che s’allarga il numero degli Stati in bilico – i distacchi sono minimi in Texas, Georgia e Iowa, oltre che in Arizona e Florida, tutti stati repubblicani nel 2016 –. Trump è stato ieri contestato alla Corte Suprema, in visita la camera ardente della giudice Ginsburg. “Cacciatelo via col voto!” e “Rispetta le sue volontà”, gridavano i manifestanti.
Come ti spio gli oppositori. Putin e il software israeliano
Gay ed esponenti Lgbt. Poi Aleksey Navalny, le Pussy Riot, fino ai testimoni di Geova. Per investigarli e prenderli tutti in un colpo solo, alle divise della Federazione russa è bastato un software. Costa centinaia di migliaia di euro anche nella sua versione meno avanzata e ha un nome all’apparenza innocuo: Ufed. Sono le iniziali dello Universal Forensic Extractiom Device, uno strumento spia che permette di accedere a ogni computer e telefono che chiunque abbia in mano a ogni latitudine del mondo. Tutto è penetrabile e vulnerabile per Ufed: specialmente i device di dissidenti e critici di Mosca, perseguitati dal Comitato investigativo pubblico della Federazione russa, ufficio creato nel 2007 con a capo Aleksandr Bastrykin, che delle sue indagini risponde solo a un suo vecchio amico di università: Vladimir Putin.
Il software spia è stato usato per almeno 26 mila casi, come ammesso dallo stesso Bastrykin, che lo ha dispiegato per vagliare membri e fan delle Pussy Riot, testimoni di Geova, – torturati con elettroshock nelle carceri russe, come ha confermato più volte l’ong per i diritti umani Agora –, cittadini accusati di “propaganda omosessuale” e l’Rbk, il fondo anti-corruzione creato da Navalny. Mentre l’oppositore si fotografa finalmente in piedi e a occhi aperti dopo il coma da avvelenamento a Berlino, il suo appartamento a Mosca viene perquisito e sequestrato dal Fsb, ex Kgb, per il risarcimento richiesto dallo “chef di Putin”, Evgeny Prigozin, già fondatore dei mercenari Wagner e della compagnia di troll di Pietroburgo. Al fondo anti-corruzione di Navalny il “cuoco del presidente” ha fatto causa per milioni di rubli per un’informazione: quella che ha diffuso il dissidente sulle forniture scadute alle scuole di Mosca, appalto di rifornimento vinto da Prigozin che riempie anche le mense dell’esercito russo.
Ufed è la creazione che l’israeliano Yossi Carmil porta all’occhiello. L’amministratore delegato dell’azienda che lo produce, la Cellebrite, è calvo, paffuto e spesso sorride. Almeno lo faceva in foto quando rilasciava qualche breve dichiarazione ai quotidiani come Ynet, a cui ha detto di poggiare la testa sul cuscino tranquillo la sera: “Dormo bene di notte perché so per chi lavoro, noi siamo dal lato giusto”. Ha aggiunto che “tra i 200 Paesi sul pianeta 160 sono esclusi” dalle liste dei suoi clienti, ma non risponde a chi ora gli chiede perché dei suoi servizi usufruiscono da anni Stati accusati di violare i diritti umani.
Dall’oppositore più famoso di Mosca a quello più celebre a Ryad. Ufed è l’algoritmo che fa stringere mani ad arabi e israeliani: un rappresentante della Cellebrite è stato accolto in Arabia Saudita nel 2019, riporta il quotidiano Haaretz, proprio quando il critico di regime Jamal Khasgoggi veniva ucciso nel consolato di Istanbul. Se sappiamo chi sia Carmil, l’israeliano con una delle tecnologie più potenti e intrusive in circolazione, è grazie al lavoro dell’avvocato Eitay Mack, giornalista di +972, organizzazione e media indipendente fondata da israeliani e palestinesi. Coraggioso autore di diverse inchieste sul software e di una petizione che tenta di frenarne l’esportazione verso l’estero, Mack ha chiesto alle autorità del suo Paese come faccia l’uomo d’affari a scansare embarghi come fanno i gabbiani quando sorvolano le nuvole.
Dopo le piazze in lotta a Hong Kong, Carmil ha raggiunto il Venezuela durante le rivolte e di recente la Bielorussia, facendo un affare dopo l’altro con i governi in crisi per lo scontento della popolazione. Solo qualche giorno fa le accuse di collaborazione con il governo Maduro sono state negate dall’azienda che continua a rifornire clienti da est a ovest, da sud a nord, fino alla polizia di New York. La ditta però non ha fornito informazioni su come Ufed sia finito nella Russia sotto embargo quanto Bastrykin, sottoposto personalmente a sanzioni dal 2017. “Il presidente russo e i suoi sostenitori promuovono una legislazione che incrimina i critici e riduce lo spazio democratico in Russia”. Prima contro gli Stati più potenti del mondo, poi contro l’amministratore delegato della tecnologia spia più temibile e infine contro i giornalisti: Mack ha sottolineato come i reporter israeliani siano stati attenti a condannare la violazione della privacy dei concittadini quando Ufed è stato usato dallo Shin Bet, servizi segreti di Tel Aviv, per tracciare i malati di Covid-19, ma anche come siano rimasti muti quando è stato usato dai regimi per ammazzare i loro colleghi di altri Paesi.
I rivoltosi dell’(ex) buvette: “Basta con il caffè ciofeca”
E va bene che non è più tempo di lusso sfrenato, che la crisi morde e c’è pure l’emergenza coronavirus. Ma a Palazzo c’è chi è pronto a fare le barricate per tornare all’antico con pasti degni di ristoranti stellati e trasporti al top della comodità, altro che risparmi. Ché, per dirla con il vicepresidente della Camera, Ettore Rosato di Italia Viva, ne va “della giusta considerazione per la funzione parlamentare”. E così, come tollerare i disservizi della caffetteria? E che dire del nuovo corso che imporrebbe, quando possibile, di ripiegare su biglietti per aerei e treni meno costosi o comunque a miglior prezzo? Giammai.
Ora va detto che Montecitorio è già orfano della buvette, tempio indiscusso della politica della Prima e pure della Seconda Repubblica: il bar adiacente al Transatlantico dove gustare spuntini veloci, frutta prelibatissima, dolci di fine pasticceria e gli intramontabili supplì e che era un must ha chiuso i battenti a causa della riorganizzazione degli spazi imposti dall’epidemia. Ora i deputati devono addirittura scendere al ristorante anche solo per il caffè. Che però, stando alle lamentele di Palazzo, manco quello è come una volta. Anzi, qualcuno, sotto la garanzia dell’anonimato, dice proprio che “è una ciofeca”. Ma la rivolta è ormai affiorata, come è successo qualche settimana fa in Ufficio di presidenza impegnato con l’approvazione del Bilancio interno: nessuna accusa personale, per carità. Ma sulla graticola sono finiti Roberto Fico (“manidiforbice”) e pure il Collegio dei questori accusati implicitamente di voler cedere a una certa demagogia anti-casta. Certo, i tempi in cui il servizio di ristorazione veniva svolto in house con camerieri e cuochi della Camera disposti a tutto per accontentare gli onorevoli inquilini, grazie a una possibilità di spesa in menu da mille e una notte, sono lontani. Ma c’è chi teme che vada sempre peggio: il pesce surgelato anziché la spigola appena pescata come un tempo è il segno tangibile del declino e non è l’unico. La società che ha vinto l’appalto per la ristorazione è stata formalmente diffidata dal proporre prodotti non previsti dal contratto, ossia non italiani o comunque di provenienza non europea: l’incidente diplomatico si è verificato al banco della frutta che in passato riservava solo primizie doc. E quelli che vanno a combinare? Hanno provato a rifilare agli onorevoli commensali arance egiziane “ed erano pure cattive”. Lapidario il commento di un salviniano doc. “Gli attuali standard di qualità non sono soddisfacenti”, ha tuonato Marzio Luini della Lega facendo eco al renzianissimo Rosato. Che proprio non si dà pace che alla Camera, dove è appunto vicepresidente, vengono calpestati così alti principi. “Le politiche di contenimento dei costi dell’Istituzione siano state perseguite nella più ampia condivisione tra le forze politiche, ma non si può cedere alla demagogia”, ha detto il suonando la carica per rivendicare innanzitutto il diritto a condizioni di viaggio confortevoli, “non trattandosi in questo caso di uno spreco, ma della giusta considerazione per la funzione parlamentare”. Per tacere delle disfunzioni negli orari dei servizi di ristorazione e caffetteria “non più collegabili all’emergenza da Covid-19 e dovute a logiche di risparmio che non possono essere condivise”.
Già, il Covid: a causa del morbo, per un po’ i deputati si sono dovuti accontentare del cestino con i panini e poi di pasti preincartati come in aereo e già questo ha scombinato radicalmente le abitudini, anche se nessuno ha fiatato. Ma poi, quando le cucine della Camera si sono rimesse in funzione, qualcuno si è lamentato del menu comunque stringato e pure del servizio non garantito nei giorni di lunedì e venerdì: per placare le rimostranze, si è deciso che il ristorante resta aperto anche in quei giorni in cui però obiettivamente c’è poco afflusso di deputati, mentre garantire i coperti ha un costo. Per starci dentro con le spese, le porte dell’onorevole desco sono state allora spalancate anche ai consiglieri parlamentari che tutti gli altri giorni della settimana devono accontentarsi della mensa per il personale dell’amministrazione.
Covid, la cultura è già un vaccino
Pensato oltre sei mesi fa dalla sen. Michela Montevecchi, questo incontro avrebbe dovuto svolgersi il 9 marzo. La pandemia ha costretto non solo a posticipare la data, ma anche a ripensare le preoccupazioni da cui eravamo partiti, di cui resta vitale il punto centrale, la triangolazione beni culturali/paesaggio/ambiente, già implicita nella stessa intitolazione ArtEclima: tra emergenze e difesa dei nostri Beni Culturali.
Un tema che la pandemia rende ancor più cogente, ancor più pressante. Il Covid-19 contamina i corpi, ma anche le anime. Gli individui, ma anche le comunità. Ciò che le tiene in vita come il sangue e l’aria: la memoria culturale, la creatività, i paesaggi, il patrimonio artistico, le arti figurative, la danza, la musica, il teatro, l’opera, il pensiero filosofico e matematico, la ricerca scientifica, la letteratura, la storia. Sono le nostre coordinate, la terra su cui poggiamo i piedi. Lo diamo per scontato, ma in tempi come questi scontato non è.
Abbiamo vissuto l’angoscia del vuoto: il dilatarsi dei tempi, il diradarsi dei volti, gli impegni cancellati dalle agende. Ora sperimentiamo l’ansia di un nuovo inizio che possa avviarsi quando la pandemia sarà finita.E amiamo dire, fiduciosamente, “quando sarà finita” e non un esitante e timoroso “se”. Progettare il futuro è infatti l’unica vera difesa contro la morsa che ci stringe. Oggi possiamo (forse) sapere che cosa vorremmo che accadesse, ma non quando potrà realizzarsi. Eppure fare progetti oggi, e senza aspettare domani, è assolutamente necessario. Si inseguono notizie sulle conseguenze economiche della pandemia: il calo della produttività, la disoccupazione alle stelle, il Pil che precipita e lo spread che sale. Lì e solo lì sembra battere il cuore dell’Europa e del mondo. E la cultura? E l’ambiente? E la tutela dei paesaggi, la cura del patrimonio artistico e archeologico, l’istruzione, la ricerca, l’università? Non possono forse contribuire a una ripresa che tutti vorremmo ma di cui non conosciamo bene i possibili ingredienti?
L’articolo 9 della Costituzione prescrive compiti più che mai attuali: “La Repubblica promuove la cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Formulazione felicissima, che ha due soli precedenti storici, la Costituzione tedesca del 1919 e quella spagnola del 1932. Li supera per sintesi ed efficacia del linguaggio, ma ha con loro qualcosa in comune: la Germania all’indomani della sconfitta nella prima guerra mondiale, la Spagna alla vigilia di una guerra civile, la nostra Repubblica nata sulle macerie della seconda guerra mondiale reagirono agli eventi ponendo cultura, patrimonio, paesaggio, ricerca al centro della propria missione. Si comprese allora che è su questi grandi temi che bisogna far leva per ogni “ripartenza”. Vorremo capirlo anche adesso?
Al Covid si uniscono oggi altri fattori di allarme, come la miopia del potere che in alcune articolazioni di primaria importanza (come le presidenze degli Stati Uniti e del Brasile) tende a negare l’evidenza della pandemia, ma anche la drammatica incombenza dei mutamenti climatici. Nell’orizzonte italiano, è di grande rilievo il buon uso della Costituzione, nella quale la difesa dell’ambiente, in stretta connessione con la tutela del paesaggio e dei beni culturali, ha un ruolo primario, evidenziato da numerose sentenze della Consulta, che hanno creato un’avanzatissima nozione costituzionale di “ambiente”, formatasi ragionando sulla convergenza dell’art. 9 con l’art. 32 della Costituzione (diritto alla salute). Intanto il ddl costituzionale A.S. 83, ora in discussione, propone di integrare l’art. 9 con tre nuovi commi sulla tutela dell’ambiente. Lodevole intento, ma inutile sforzo: le sentenze della Corte già affermano che la tutela dell’ambiente è “valore costituzionale primario e assoluto”, e la estendono alla “difesa del suolo, dell’aria e dell’acqua dall’inquinamento” come “diritto fondamentale della persona e interesse fondamentale della collettività”, includendovi “tutte le risorse naturali e culturali, l’esistenza e la preservazione dei patrimoni genetici terrestri e marini, di tutte le specie animali e vegetali” (vedi quanto ne ho scritto sul Fatto, 1.10.2019). In un momento di crisi come oggi, è ora di dare immediata esecuzione alla Costituzione (interpretata dalla Corte) mediante leggi ordinarie, anziché temporeggiare apportandovi modifiche lente e superflue.
Di tali urgenze vorrei dare un solo esempio, e non può essere che Venezia. Città di prodigiosa bellezza, che costituisce un ecosistema unitario con la sua Laguna, e rende necessarie forme di tutela globali che includano il regime delle acque, le forme di vita animale e vegetale che della Laguna sono proprie, i prodotti dell’ingegno umano dalle chiese ai ponti alle case, e naturalmente gli abitanti della città. Una città che è passata da 170.000 a 50.000 abitanti negli ultimi 50 anni, ed è ora dominata da una monocultura del turismo che esilia i meno abbienti, i giovani, le persone di condizione disagiata. Ma le malattie degli umani e quelle della Laguna si riflettono le une nelle altre, e a ogni acqua alta è sempre più evidente che l’incuria, la corruzione, l’imprevidenza stanno condannando la città a una fine ingloriosa. Eppure la nostra memoria è corta: pur di salvare la rotta in Laguna delle Grandi Navi che ne inquinano e profanano la salute e la bellezza, c’è chi raccomanda di scavare un nuovo canale, simile a quel Canale dei Petroli che fu fra le cause della più devastante acqua alta di tutti i tempi, quella del 1966. I cambiamenti climatici produrranno entro la fine del nostro secolo un innalzamento del livello del mare fino a 30 centimetri. A tutto questo non si è posto rimedio, se non con l’interminabile cantiere del Mose, che ha prodotto finora più corruzione che tutela: ma di fronte a cambiamenti di tale portata il Mose, ammesso che entri mai in funzione, sarebbe impotente.
Una riflessione sul nesso fra queste tematiche e i nostri orizzonti culturali s’impone, se vogliamo parlare di “ripresa” non come esercizio retorico, ma come progetto concreto. Fra i grandi problemi che il Paese rimanda senza risolverli, citiamone due: si contrabbandano le grandi opere come fattori di occupazione e di sviluppo, senza capire che la prima Grande Opera di cui l’Italia ha bisogno è la messa in sicurezza del territorio, il più fragile d’Europa. Secondo esempio: continuiamo a vantarci della speciale ricchezza del nostro patrimonio culturale, ma intanto vengono rimandate le migliaia di assunzioni necessarie per mantenere la funzionalità delle Soprintendenze come organi di presidio dei territorio. Dobbiamo dunque rilanciare, Costituzione alla mano, la centralità della difesa dell’ambiente, del paesaggio e dei beni culturali, in sintonia con la centralità della cultura e delle istituzioni culturali, mettendo a fuoco la loro funzione per la vita civile, per l’economia, per la salute della comunità. Far leva sulla creatività (che vuol dire scuola che educhi alla libertà di pensiero) come rimedio alla stagnazione e alla crisi. Puntare non solo sulla “prosperità” dei cittadini (far bene un mestiere per ottenere migliori salari), ma sulla loro “fioritura”, incrementando le occasioni di coltivare l’immaginazione ed esercitare la curiosità intellettuale. Questa la strada per assicurare la pari dignità sociale di tutti i cittadini come vuole la Costituzione (art. 3) riducendo il peso delle diseguaglianze che ci affliggono. Sapremo perseguirla con la necessaria determinazione?
Chiambretti adesso è in fase moviolone
Piero Chiambretti debutta alla conduzione di Tiki Taka nel giorno in cui esplode il caso Suárez. Questo è culo, avrebbe pensato chi del Chiambretti televisivo ha antica memoria. Pierino fa (bianco)neri i professori.
Tra gli ospiti c’era Giampiero Mughini, lo juventino perfetto, sempre più simile a un santone indiano e sempre più pronto a sbroccare in diretta. Cosa si vuole di più dalla vita? Francesca Brienza? Francesca Barra? C’erano pure loro. No, Chiambretti non avrebbe potuto chiedere di più. Dalla vita, e soprattutto dalla tv.
Ma purtroppo da qualche lustro Chiambretti non è più Chiambretti. Non è grave, capita a tanti di diventare un altro, forse a tutti. Certo, bisogna vedere chi si diventa. Il Pierino di un tempo, talento versatile, guarda in più direzioni.
Per un po’ ha studiato da pippobaudo, poi ha seguito un master in boncompagnismo allestendo diversi ginecei, ora si cimenta con la Filosofia dello sguub fondata da Aldo Biscardi, materia più complessa di quel che sembra.
Il calcio è ancora uno sport o un genere televisivo? Il Covid ha spogliato tanti re: se lo stadio è diventato un set senza nemmeno il disturbo del pubblico a presentare Tiki Taka può ben andare un conduttore, e d’altronde Ivan Zazzaroni è apprezzato giudice di Ballando con le stelle.
Di suo, Chiambretti ci ha messo un effetto album di figurine, sua vecchia passione, da Alberto Malesani a Nicola Berti, l’insana attrazione per il trash ha avuto la meglio solo con Massimo Ferrero – questa è la nostra classe dirigente.
L’arrivo di Alvaro Morata a Torino è stato seguito in palpitante diretta come nemmeno il viaggio di Papa Francesco a Cuba. Silenzio di tomba, invece, su Luis Suárez, e qui il re dello sguub si rivolta nel moviolone. I professori di Perugia avrebbero promosso anche Biscardi all’esame di italiano, ma lui li avrebbe denunciati lo stesso.
Pubblico allo stadio, ma vale davvero la pena rischiare?
Non bisogna essere degli esperti in pandemie per capire che un Paese in cui i contagi da coronavirus superano ormai abbondantemente i 1.500 al giorno non può riaprire, nemmeno parzialmente, gli stadi. Eppure il surreale dibattito prosegue da mesi e ora dalle parole si rischia di passare ai fatti. Il ministro dello Sport, Vincenzo Spadafora, è possibilista, il viceministro della Salute, Pierpaolo Sileri, non dice apertamente di no e parla anzi di 25mila spettatori all’Olimpico di Roma, la Conferenza delle Regioni è addirittura convinta. Per i cosiddetti governatori, con eccezione di Nicola Zingaretti, riaprire si può e si deve. Perché, spiega il ligure d’adozione Giovanni Toti, in Italia siamo in grado di garantire la sicurezza “puntando su una presenza limitata di pubblico e la massima prevenzione”. Ovvero le mascherine; la temperatura misurata all’ingresso e lo stadio diviso in settori da mille persone, sedute distanziate tra loro, che entrano attraverso ingressi separati fino ad arrivare al 25 per cento della capienza totale.
Bene, bravo, bis, verrebbe da dire se fossimo al teatro dell’Opera. Ma visto che siamo attorno a un campo di calcio, a questa rubrica vengono in mente più che altro delle imprecazioni irripetibili. Verosimilmente analoghe a quelle passate per la testa del ministro della Salute, Roberto Speranza, contrario alle riaperture.
Rifletteteci un attimo. Immaginate il derby Milan-Inter o Lazio-Roma. C’è davvero qualcuno in grado di credere che a ogni gol gli spettatori resteranno compostamente seduti ad applaudire? O che in caso di straordinaria rimonta di una delle squadre i tifosi della curva eviteranno di abbracciarsi? E se tutto questo non vi basta, pensate allora a un impianto sportivo standard con una quindicina di tornelli d’ingresso (che nella maggior parte dei casi non sono automatici). Lo avete fatto? Bene. Ora pensate anche alle mani che si appoggiano sui tornelli a ogni passaggio, una dopo l’altra, a volte sporche, a volte sudate. Davvero si può ritenere che non rappresentino un rischio?
C’è chi dice: bisogna aver fiducia nel senso di responsabilità dei cittadini. Vero. Ma se si tiene conto che per entrare in uno stadio bisognerà fare la coda mantenendo la distanza di un metro tra un tifoso e l’altro, ecco come pure il senso di responsabilità va inevitabilmente a farsi benedire. Perché mille persone in fila per ciascun ingresso creano un serpentone lungo un chilometro. Arrivano al tornello stanche dopo una lunga attesa ed è inevitabile che tra di loro ci sia chi sgarri. Per questo sappiamo che anche con la riapertura parziale gli assembramenti ci saranno. E che ci saranno soprattutto in uscita, quando chi sedeva nei settori fatti sgomberare per ultimi sarà ansioso di riguadagnare la libertà. I fatti, e non le opinioni, raccontano come le partite di calcio e i successivi festeggiamenti (vedi la promozione dello Spezia e il match Valencia-Atalanta) abbiano fin qui dato origine a importanti focolai. Negarlo non si può. E per quanto lo sport sia economicamente e socialmente importante, ci si deve porre solo una domanda: vale la pena rischiare? Aver tenuto le scuole chiuse più degli altri, aver rispettato regole rigide fa sì che l’Italia per il momento resista meglio di Francia, Spagna e Regno Unito alla seconda ondata. Convivere col virus significa valutare i pro e i contro di ogni scelta. I rischi e i benefici. Per questo, quando ancora non conosciamo le conseguenze della riapertura (assolutamente necessaria) degli istituti scolastici, discutere di stadi è folle. Sbagliato. Pericoloso.
Non solo tagli: il referendum ha rafforzato la democrazia
La maggioranza del popolo italiano, che malgrado la pandemia, è andata a votare, ha conseguito alcuni risultati per la democrazia, non soltanto nostra. Vediamo quali.
1. In un momento cruciale, il sistema elettorale, che sta scricchiolando in alcune culle della democrazia (Stati Uniti e Regno Unito), ancora una volta ha funzionato in maniera esemplare nel nostro Paese. Non solo l’alta percentuale dei votanti che hanno capito l’entità della posta in gioco – per il contenuto del referendum, l’importanza di alcune elezioni regionali (Puglia e Toscana), la solidità di un governo che ha bene operato – ma il corretto funzionamento, senza contestazioni di rilievo, di oltre 61.000 sezioni a cui aggiungerne 3.000 ospedaliere, in piena pandemia.
2. Finalmente i reiterati tentativi di ridurre il numero prolifico dei nostri parlamentari hanno sortito un risultato concreto che apre la strada alla modifica di una scandalosa legge elettorale, opera di governi multicolori precedenti; che, tra premi di maggioranza e listini, sortisce centinaia di parlamentari nominati che non rispondono se non a centri di potere partitici che li distribuiscono a piacere, senza radicamento territoriale. Una prova ulteriore di serietà, in controcanto rispetto agli stereotipi negativi nei nostri confronti, tuttora circolanti in Europa. Ma attenzione ai Germanicum e ai Brescianum in agguato!
3. Sono stati sonoramente sconfitti i potentati economici, esemplarmente rappresentati dai giornali posseduti dalla famiglia Elkann, a null’altro interessati se non a continuare a puppare soldi pubblici italiani ed europei, magari con l’aiuto di qualche cambiamento di governo o, quantomeno, rimpasto compiacente. È ripreso un balletto osceno di dichiarazioni da parte di presunti vincitori, ingrandito e stimolato da giornali i cui editori sfruttano il bisogno di visibilità dei politici per ottenerne dei vantaggi con un gioco di bastone e carota.
4. Sono stati egualmente sconfitti Salvini, Renzi e altri protagonisti minori di una pseudosinistra, pariolina e di vocazione aretina, premiando coloro che con coerenza hanno sostenuto il molto di buono conseguito dal governo in carica, la sua politica antipandemica ed europeista. Non soltanto Conte, ma il prudente e sagace Zingaretti che, contrariamente a quanto sostenuto in prima pagina da Repubblica (22.09) e dal G7, ha rifiutato di lasciarsi tentare dai bocconi avvelenati che gli sono stati lanciati in diretta, quali il Mes e richieste ultimative, in grado di minare la necessaria alleanza tra Pd e un M5S, in evidente difficoltà, in cui con fatica ha prevalso una gestione responsabile.
Invece, Recovery Fund a tutta birra, come occasione per riformare e rilanciare un’economia più giusta e più sana; sostenere una sanità non più a sostegno di profitti privati, incapaci di gestire la pandemia; eliminare ingenti sprechi di denaro pubblico (cosa fece il prof. Cottarelli, quando presiedeva alla spending review, se non parole?) in modo da legittimare e investire nella scuola e nella ricerca come nella semplificazione delle procedure pubbliche e nel rafforzamento della giustizia civile.
Come ovvio, nulla è scontato. Per uscire, più liberi e forti, da una situazione di grande sofferenza sociale, aggravata dalla crescita mondiale della pandemia e da crescenti minacce alla sopravvivenza del pianeta, la strada è lunga, irta e piena d’insidie. Occorrerà anche il valido contributo di molte persone oneste e intelligenti che si sono lasciate ingannare dalla propaganda avversaria. Ma, come diceva Rhett Butler, domani è un altro giorno.
Noi, magistrati spalatori rompiamo ora il silenzio
Premetto di far parte a buon diritto della vasta categoria dei magistrati spalatori, ossia quei magistrati che dall’inizio della carriera hanno dedicato un esclusivo impegno all’attività giurisdizionale in senso stretto, magari contrastando efficacemente decine di clan camorristici e, conseguentemente, mai ricoprendo cariche associative, mai essendo collocati “fuori ruolo”, mai ricevendo incarichi extragiudiziari, mai svolgendo un incarico semidirettivo o direttivo, sebbene in servizio da oltre vent’anni.
Proprio da magistrato spalatore ho vissuto l’esperienza della candidatura alle elezioni suppletive del Csm, svoltesi ormai quasi un anno fa, il 6-7 ottobre 2019, e seguite ai noti fatti venuti alla luce nel maggio 2019.
Girando quasi tutta l’Italia, distretto per distretto di Corte d’Appello, ho cercato di dare risalto a valori quali l’equilibrio, il pluralismo democratico, il senso del dovere, lo spirito di servizio, il coraggio nell’esercizio delle funzioni, l’indipendenza della funzione giurisdizionale, il rifiuto del collateralismo con la politica, la cultura della prova e, più in generale, della giurisdizione, valori che appartengono alla stragrande maggioranza dei magistrati aderenti alla corrente Unicost, cui sono vicino (pur non essendo iscritto), come alle altre correnti.
Da candidato, ho soprattutto ascoltato e condiviso le istanze e le speranze di cambiamento giunte dal basso, dagli altri magistrati-spalatori, avviliti dal carrierismo dilagante, schiacciati da carichi di lavoro insostenibili, impotenti di fronte alla scopertura e all’inadeguatezza degli organici – al Nord come al Sud – che penalizza soprattutto i colleghi più giovani oltretutto privati di adeguati incentivi (economici e di carriera), umiliati dall’attenzione esasperata al mero dato statistico e segnati dalla conseguente frustrazione per il decadimento della qualità della risposta giudiziaria, preoccupati da una visione formalmente democratica ma sostanzialmente gerarchica dell’Ufficio di Procura.
Ho avvertito, infine, il comune sentire della necessità di interventi di normazione primaria e secondaria sia per regolare i rapporti tra associazionismo giudiziario e candidabilità al Csm, mediante l’introduzione di precise incompatibilità temporanee; sia per modificare l’attuale sistema elettorale del Csm, in modo da garantire l’effettiva rappresentatività del candidato (l’attuale riforma va nella direzione giusta, a mio modesto giudizio); sia per circoscrivere la discrezionalità del Csm nel conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi.
Nonostante ciò, trascorso un anno dal maggio 2019, questi temi non sono divenuti il vero fulcro del dibattito tra i magistrati spalatori, giovani e meno giovani, come era lecito aspettarsi.
Essi sono rimasti in silenzio, paralizzati, annichiliti dinanzi alla messe di nuove intercettazioni pubblicate dai giornali sul cosiddetto caso Palamara, alle recenti dimissioni di un altro consigliere del Csm e all’evidenza che le correnti non sono riuscite a cambiare pelle, continuando solo a impegnarsi in una sterile quanto impercettibile contrapposizione, anzichè ritrovarsi unitariamente sui valori fondamentali e andare incontro a un vero cambiamento.
È sorto, di fatto, solo un dibattito tanto elitario quanto sterile all’interno delle singole correnti, laddove mi sarei aspettato che proprio il sentimento di indignazione avrebbe condotto i magistrati spalatori verso nuovi momenti assembleari e forme di associazione.
Ma non è troppo tardi.
Dobbiamo trovare il tempo e la forza di farci sentire e divenire i veri protagonisti di un dialogo costruttivo con la politica e con l’avvocatura per portare a termine il delicato e complesso processo di riforme.
Meriteremo, in caso contrario, che le indispensabili riforme saranno frutto di decisioni prese troppo alte sulle nostre teste, con la conseguente apertura di una stagione molto difficile per la magistratura e per l’ufficio del pubblico ministero in particolare.
Una stagione di Procuratori “normalizzatori” e di pubblici ministeri senza coraggio e ridotti a meri burocrati.
* Sostituto procuratore, Dda Napoli
Mail box
Condivido la petizione lanciata dal “Fatto” ieri
Caro Direttore, nessun dubbio sulla sottoscrizione della petizione. Cordialmente.
Saverio Regasto Ordinario di Diritto pubblico comparato all’Università degli Studi di Brescia
Un vostro errore, ma in realtà una verità
Gentile direttore, segnalo un errore, comprensibile… Una vostra fedele lettrice. (Foto sopra, ndr)
Musakira
Ahah, ha ragione cara amica: lapsus molto freudiano!
M. Trav.
Deluso dalle battaglie (perse) dei 5 Stelle
Ciao Marco, spero di non essere in disaccordo di nuovo con te, almeno non completamente. Dall’esame anche dei flussi elettorali, la caporetto del M5S è già evidente nei territori dove il tradimento degli impegni ecopacifisti (Tav Valsusa, Tav Terzo Valico, Tap, Ilva, Pfas, Acqua pubblica, F-35 ecc.) ha direttamente gelato la pelle delle popolazioni, e si estenderà a tutto il territorio nazionale. Il M5S dalla “alleanza con nessuno”, disinvolto e repentino è passato tra il lusco e il brusco alla “alleanza con chiunque”, a prescindere dai temi identitari ossia dall’alleanza con chi l’aveva votato. Non guardando più in faccia l’interlocutore ecopacifista, ha dato di sé una immagine non sincera e non sicura, inaffidabile anzi traditrice. Appunto: tra il lusco e il brusco. Ora la questione grillina sembra diventare “sì o no a una intesa stabile con il Pd?”. Assieme al Pd, resuscitato l’anno scorso dal miracolo di quel genio di Salvini, arroccarsi al governo infatti garantirebbe il più a lungo possibile i posti in parlamento che le prossime elezioni taglieranno per effetto del referendum ma soprattutto del consenso. “La questione grillina” è invece un problema di contenuti, di alleanze, sì, ma di alleanza con quel mondo dei Beni comuni che credette di aver finalmente identificato i propri temi con quelli del movimento di Grillo. Insomma, la sopravvivenza è la questione del recupero di una identità.
Lino
Caro Lino, capisco tutto. Ma forse le è sfuggito che i 5Stelle nell’estate del 2019 hanno votato in Parlamento contro il Tav, ovviamente da soli, anche al costo di far saltare il governo con la Lega. E purtroppo hanno perso.
M. Trav.
Giorno dopo giorno mi avete appassionato
Non amavo i quotidiani, troppo grandi e difficili da “consumare” giorno dopo giorno. Qualche anno fa, mio figlio ha portato a casa il Fatto Quotidiano; l’ho guardato con diffidenza. Ho cominciato a leggerlo di tanto in tanto, poi sempre più spesso, oggi quotidianamente, ma il numero precedente perché quello del giorno lo lascio come primizia a mio figlio. Ho l’abitudine di leggere a letto, lo piego in verticale, in orizzontale, di sghembo… insomma, sono riuscita a “piegarlo a me”. Sono così entrata nel vostro mondo.
Lei e alcuni giornalisti della sua redazione siete diventati amici miei. Apprezzo la sua fermezza, l’esposizione chiara dei fatti, frutto di un’informazione attenta, la memoria d’acciaio che le permette di passare dall’analisi a una sintesi stringente. Ma quello che mi spinge a scriverle è che in famiglia si è verificato un fatto a dir poco straordinario. Mia figlia che non vota da circa vent’anni, ma partecipa alle nostre discussioni. Domenica, accompagnandomi a votare per il referendum, improvvisamente esclama: “Mi fido di Travaglio!”. E alle ore 20.30 si precipita in Comune per richiedere la tessera elettorale e vota Sì! Non vi sembra un miracolo di cui Voi siete responsabili? Su di Lei e la sua redazione riponiamo la nostra fiducia nella certezza che porterete avanti tutte le battaglie in cui credete. Noi vi sosterremo spiritualmente e comprando ogni giorno Il Fatto. Un saluto affettuoso.
Fiorella
Ciao Fiorella, che dire? È bello avere lettrici come te e come tua figlia. Speriamo di essere sempre degni della vostra fiducia.
M. Trav.
In relazione alle notizie sull’inchiesta in corso della magistratura sul racket delle bancarelle nel Comune di Roma (resa nota ieri sul Fatto a pagina 10: “Tredicine arrestati: ‘Avevano contatti con Lega e M5S’”), la Cisl di Roma Capitale e Rieti e la Cisl del Lazio intendono precisare l’assoluta estraneità ai fatti contestati ad alcuni esponenti dell’associazione Fivag, il cui legame associativo con la Cisl è, per quanto ci riguarda, assolutamente inesistente, in quanto trattasi di una struttura locale che non fa parte di alcun organismo della Cisl e per questo totalmente autonoma rispetto alla nostra organizzazione. Nel ribadire il pieno sostegno e fiducia nell’azione della magistratura, la Cisl di Roma Capitale e Rieti e la Cisl del Lazio valuteranno ogni ulteriore iniziativa legale da adottare a tutela della immagine della confederazione e dei nostri iscritti, in ogni sede.
Enrico Coppotelli e Carlo Costantini, Segretari generali della Cisl