Galli: “Meglio aspettare 15 giorni”

“È presto. Sarebbe meglio aspettare due o tre settimane. Anche perché si rischia di dare un segnale sbagliato come quello arrivato a molti con la riapertura estiva delle discoteche”. Sulla riapertura degli stadi Massimo Galli, direttore delle Malattie Infettive dell’ospedale Sacco di Milano, predica estrema prudenza.

Professore, la Conferenza delle Regioni ha dato l’ok con il massimo del 25% della capienza.

Io il calcio lo seguo, allo stadio vado poco, ma mi piace vedere le partite. Non ho l’atteggiamento di quelli che non hanno nessuna attenzione al problema. Pur seguendolo direi che è giusto programmare, ma aspetterei.

Quanto?

Direi di vedere cosa succede nei prossimi 15 giorni per capire quali saranno le conseguenze della riapertura delle scuole, capire quale sarà a quel punto la situazione epidemiologica complessiva e soltanto poi decidere. Le posizioni degli aperturisti a oltranza e dei cauti al momento non hanno pari dignità.

Il calcio è un settore economico importante per il Paese.

Possiamo dividere le attività importanti tra quelle di primissima fascia per cui non possiamo rimandare anche se presentano rischi come l’apertura delle scuole e, a scendere, cose che possono essere almeno per il momento rimandate come il calcio. Dobbiamo tenere conto del contesto in cui ci troviamo.

Nei Paesi vicini i contagi continuano a crescere.

Infatti, come accade in Francia, che ha riaperto le scuole prima di noi. Ma anche Gran Bretagna, Spagna e Israele: ci sono varie situazioni che ci dicono che bisogna stare molto attenti.

Lei aveva definito una “decisione politica” quella sulla quarantena breve perché non basata su basi scientifiche. Anche questa lo è?

Anche questa è una decisione che viene attuata su pressione di una serie di interessi assolutamente rispettabili, ma il punto che anche se limiti gli accessi si creano comunque degli assembramenti. E poi c’è un’altra questione.

Quale?

Si ricorda la riapertura estiva delle discoteche? Quella decisione, arrivata a livello regionale, ha voluto dire per molti un “liberi tutti” che in questo momento non possiamo permetterci”.

I contagi sono in crescita. Qual è il limite giornaliero raggiunto il quale dobbiamo preoccuparci?

Bisogna capire se crescerà la pressione sugli ospedali. I segnali che mi giungono da colleghi di tutta Italia dicono che un po’ ovunque si sta aumentando la disponibilità di letti per i reparti di malattie infettive e terapie intensive.

Per le Regioni non c’è Covid “Gli stadi devono riaprire”

Giovanni Toti, vicepresidente della Conferenza delle Regioni, appena rieletto governatore della Liguria, sta per annunciare urbi et orbi la decisione sugli stadi: riapertura fino al 25 per cento delle capienze. Ma qualcuno si alza e lascia la riunione: è Mauro Alessandri, assessore ai Lavori pubblici del Lazio, delegato per l’occasione dal governatore Nicola Zingaretti. Ed è proprio il segretario del Partito democratico che successivamente, ieri, prende carta e penna per prendere le distanze dalle altre Regioni: “Dopo l’appello dell’Associazione nazionale dei presidi che ha richiamato il senso di responsabilità di studenti e genitori invitandoli ad usare sempre mascherine e distanziamento agli ingressi e alle uscite delle scuole, evitando gli assembramenti di gruppi, ritengo sbagliato, anche solo ipotizzare la riapertura degli stadi fino al 25 per cento della loro capienza creando quindi assembramenti che possono raggiungere il numero di migliaia di persone. Non c’entra niente lo sport o il calcio, ma mantenere un minimo di logica e coerenza nelle scelte che si fanno per garantire la sicurezza degli italiani”.

Michele Emiliano e la Puglia non si sono visti alla Conferenza, “troppo impegnati a gestire la riapertura delle scuole per pensare agli stadi”, fanno sapere da Bari, ma un altro governatore appena rieletto stravincendo, invece, era presente: Vincenzo De Luca. E, contrariamente alle aspettative di molti, proprio nel giorno in cui la Campania obbliga all’uso delle mascherine anche all’aperto (nel Lazio si sta valutando) De Luca “condivide la proposta di un percorso che porti all’apertura degli stadi al pubblico fino al 25% della capienza, con l’obbligo di indossare le mascherine, approvata dalla Conferenza delle Regioni”, riporta ieri l’Ansa. Quindi De Luca ripone il lanciafiamme, forse in omaggio al tweet del presidente del Napoli Aurelio De Laurentiis, che a pochi giorni dalle elezioni scrisse: “Il Napoli sostiene Vincenzo De Luca alle regionali, è l’uomo migliore del momento”.

Eppure quella sugli stadi è una spaccatura non solo tra Lazio da una parte e altre Regioni dall’altra, ma anche nel governo. Perché è stato il viceministro alla Salute Pierpaolo Sileri ventiquattr’ore prima a cominciare il ballo: “Gli stadi si possono portare a un terzo della capienza, all’Olimpico a Roma l’ingresso potrebbe essere consentito anche a 20/25 mila tifosi”. Subito rimbrottato dal suo “principale”, il ministro Roberto Speranza: “La priorità è la scuola, non gli stadi”. E ieri lo ha ribadito a Radio 2: “Anch’io sono un appassionato di calcio e vorrei riportare mio figlio allo stadio dove siamo abbonati, in tribuna Tevere per seguire la Roma, ma voglio prima di tutto che mio figlio vada a scuola, che possa incontrare i suoi compagni e gioire dei momenti di socializzazione che la scuola offre”. La posizione di Speranza e Zingaretti è condivisa dal Comitato tecnico scientifico, mentre sempre nel governo il ministro dello sport Vincenzo Spadafora presentava così la riunione dei governatori: “È ovvio che il mio obiettivo e quello di tutto il governo è quello di riavere i tifosi negli stadi e in generale in tutti gli impianti sportivi e per tutte le discipline, dando regole uniformi per tutti. Abbiamo condiviso la necessità di un protocollo che dovrebbe essere approvato all’unanimità da tutti i presidenti delle Regioni”. Invece è arrivato lo strappo del Lazio.

E per sgombrare il campo da ogni equivoco Zingaretti fa anche di più firmando un’ordinanza che impone per le due partitissime Roma-Juventus del 27 settembre e Lazio-Inter del 4 ottobre l’accesso allo stadio Olimpico ad un massimo di mille persone.

Insomma anche se per l’Ecdc, il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie, “l’Italia è tra i Paesi a basso rischio”, è ancora vietato scherzare con il fuoco del coronavirus. E a rispondere al premier inglese Boris Johnson (“Da noi le cose vanno peggio di Italia e Germania perché amiamo la libertà”) è arrivato un “fuori onda” del presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “Anche noi italiani amiamo la libertà ma abbiamo a cuore anche la serietà”. E, infatti, a ricordare che la serietà va mantenuta è anche la Fondazione Gimbe: “Da otto settimane consecutive i numeri confermano la crescita costante della curva epidemica e delle ospedalizzazioni”. Mentre riaprono le scuole in altre cinque regioni con due milioni di studenti ritornati in classe anche in Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania e Puglia.

Atlantia sfida il governo, Cdp le dà un ultimatum

La trattativa tra Atlantia e Cassa Depositi e Prestiti si è arenata. La prima non vuol vendere Autostrade per l’Italia (Aspi). La seconda non ha intenzione di comprare se non in cambio di certe garanzie. Il risultato è che ieri la Cassa ha dato un ultimatum: o la holding le accetta entro 7 giorni o si sfila dalla partita, evitando uno stallo che potrebbe durare all’infinito. Ad oggi, l’accordo del 14 luglio siglato in notturna per chiudere il disastro del Morandi di Genova, in cui si sanciva l’uscita dei Benetton dalla concessionaria e la presa del controllo da parte di Cdp, è lettera morta. La domanda è: cosa rischiano la famiglia veneta e la holding se non cedono?

Il loro plenipotenziario, Gianni Mion, ritiene che la risposta sia “nulla” e ha deciso di sfidare il governo. Ieri Altantia (di cui i Benetton hanno il 30%) ha riunito il suo cda e avviato un’operazione che all’apparenza non sposta l’ago della bilancia. Una mossa su due binari: mette in vendita l’88% che Atlantia ha di Autostrade a investitori interessati, ma nel frattempo procede a un complicato spin off del concessionario che darebbe vita a una nuova società, con gli stessi soci di Atlantia, che riceverebbe prima il 55% di Aspi e poi il restante 33%; contestualmente la nuova società verrebbe quotata permettendo ai soci di uscire. Nell’accordo di luglio, invece, Cdp sarebbe dovuta entrare con un aumento di capitale riservato e solo in seguito Aspi sarebbe stata quotata.

Atlantia ha cambiato le carte in tavola per alzare il prezzo della controllata, ma i tecnicismi contano poco, perché la strada non sembra percorribile. Ieri il cda ha convocato l’assemblea dei soci per il 30 ottobre per approvare il piano. Solo che questo è subordinato a una serie di “condizioni sospensive”, di cui la più importante è l’ok all’accordo transattivo sul Morandi, all’atto aggiuntivo – che modifica la concessione – e al nuovo Piano economico finanziario. Tutti è tre sono bloccati al ministero delle Infrastrutture. Senza l’ok, non si procede. Perché allora questa mossa? L’impressione è che si tiri la palla in tribuna.

La situazione è grottesca. Cdp, chiamata dal governo a sostituire i Benetton è disposta a pagare il controllo di Autostrade a prezzo di mercato (previa valutazione dello stato delle autostrade), senza quindi “punire” Atlantia. Ha chiesto però di essere sollevata dai contenziosi legali che potranno nascere dal processo per il crollo del Morandi. Una partita che – in caso di condanna di Aspi – può valere miliardi. Atlantia ha detto che non se ne parla e così la trattativa si è arenata. Cdp ieri ha fatto un ultimo tentativo, spedendo alla controparte una lettera con l’ultimatum, altrimenti si sfilerà (un pessimo accordo complicherebbe, peraltro, ad aprile il rinnovo dell’ad Fabrizio Palermo).

Che succede se i Benetton non cedono? In teoria sul tavolo resta ancora l’ipotesi della revoca della concessione di Autostrade, ma l’accordo del 14 luglio ha lasciato l’impressione di un’arma scarica visti i rischi finanziari (implosione di Atlantia e di qualcosa come 15 miliardi di debiti, compresi quelli di Aspi). In Cdp ritengono che Atlantia non voglia trattare, ma che dovrà sedersi al tavolo visto che se rimane pendente la revoca la società non potrà più finanziarsi. Nella holding sono convinti di poter andare avanti: ieri è stata cooptata in cda Lucia Morselli, la manager scelta da ArcelorMittal per sfidare il governo su Ilva.

È indubbio che uno stallo permanente aiuti Atlantia. Il colosso ritiene di essere, come si suol dire, too big to fail, troppo grande per fallire e prende tempo. Resta da vedere quale sarà la risposta degli istituti di credito, che prima dell’accordo del 14 luglio avevano chiuso i rubinetti. Se si resta così, Atlantia fallisce dando il via a una gigantesca battaglia legale col governo.

Nel frattempo si è già portata avanti. Nei giorni scorsi ha scritto alla Commissione europea denunciando le pressioni dell’esecutivo italiano. È infatti successo che il Mit ha vincolato il suo via libera ai tre atti che gli competono all’ingresso di Cdp nel concessionario, ma lo ha fatto inserendo il diktat direttamente nell’atto aggiuntivo, cioè nella concessione (articolo 10). Una mossa dirompente dal punto di vista giuridico, non è chiaro quanto condivisa all’interno dell’esecutivo. A due anni dal disastro del ponte Morandi, l’unica certezza è che ci vorrà molto tempo prima di capire se e chi pagherà il conto (finanziario) del disastro.

Tante adesioni in Parlamento e 12mila firme per le preferenze

Grande successo per la petizione lanciata ieri da dieci costituzionalisti per l’abolizione delle liste bloccate e rilanciata dal Fatto Quotidiano. Oltre dodicimila persone hanno già sottoscritto l’appello “Ora i parlamentari vogliamo sceglierli noi!”. Il testo di Lorenza Carlassare, Ugo De Siervo, Enzo Cheli, Roberto Zaccaria, Paolo Caretti, Roberto Romboli, Stefano Merlini, Emanuele Rossi, Giovanni Tarli e Andrea Pertici è stato pubblicato ieri sul nostro giornale dopo la vittoria del Sì al referendum sul taglio dei parlamentari. Tra i dieci nomi ci sono anche esponenti del No e tutti i promotori ritengono necessario riportare nel nostro Paese un sistema elettorale che possa instaurare un effettivo rapporto di rappresentanza tra cittadino ed eletto spingendo il Parlamento ad approvare una riforma che eviti le candidature multiple e le liste bloccate.

Quindi voltare pagina rispetto alle ultime tre leggi elettorali approvate (“Porcellum”, “Italicum” e “Rosatellum”). Ieri altri giuristi e politici di rilievo hanno sottoscritto l’appello: l’ordinario di Diritto Pubblico a Brescia Saverio Regasto, il senatore Gianni Pittella (Pd), le capogruppo M5S in commissione Affari costituzionali di Camera e Senato Vittoria Baldino e Maria Laura Mantovani, e Giuseppe Brescia, primo firmatario della nuova legge, hanno sottoscritto il documento, mentre Federico Fornaro (LeU), pur condividendo l’appello, ha rilanciato i collegi uninominali proporzionali, come quelli per il Senato in vigore fino al ’93, anziché un ritorno alle preferenze. Un’idea condivisa dal costituzionalista Gaetano Azzariti. È possibile sottoscrivere la petizione sul sito del Fatto.

“Basta con i partiti che si aggrappano ai listini bloccati”

Il suo nome è tra i dieci che hanno promosso un appello, pubblicato ieri dal Fatto, per dire basta alle liste bloccate e tornare a un sistema elettorale che ci faccia scegliere i parlamentari. Secondo Enzo Cheli, una vita da professore di Diritto costituzionale, una riforma in questo senso è necessaria anche “per recuperare il rapporto tra le persone e le istituzioni”, ormai in crisi da anni.

Professor Cheli, dopo il taglio degli eletti il Parlamento è obbligato a riscrivere la legge elettorale. Un’occasione per correggere alcune cattive abitudini?

Mi lasci dire che la situazione che si è creata è del tutto nuova nella storia della Repubblica, perché mai era successo di vivere una fase in cui manca del tutto una legge elettorale che sia immediatamente applicabile. Questo accade in violazione di un principio supremo della Costituzione, per la quale in qualsiasi momento il popolo deve avere gli strumenti per esercitare il suo potere. Avendo cambiato forma al Parlamento, in questo momento non abbiamo una legge applicabile, motivo per cui una nuova riforma elettorale deve essere varata senza discutere all’infinito, altrimenti sarà il governo – come stabilito dalla legge 51 del 2019 – ad assumere la delega per aggiustare quantomeno i collegi.

Perché negli ultimi anni nessuno ha rinunciato alle liste bloccate?

Le liste bloccate sono una conseguenza della dissoluzione del sistema dei partiti tradizionali. Con la caduta delle ideologie e la crisi dell’organizzazione partitica dei decenni precedenti, le classi politiche hanno cercato di condizionare in maniera più stretta le scelte degli elettori. Credo che le liste bloccate siano state, per i partiti, un modo per aggrapparsi a quel che rimaneva del loro potere, esercitando la propria influenza con questo meccanismo.

E i partiti oggi sono pronti a rinunciarci?

Adesso il meccanismo delle liste bloccate va eliminato se si vuole recuperare un rapporto tra il corpo sociale e le istituzioni, se si vuole ridurre l’astensionismo e aumentare la fiducia nei confronti dei governanti. Dopodiché le vie per superarle sono diverse, ma questo ormai è un metodo che l’opinione pubblica contesta con forza ed è considerato assolutamente inaccettabile.

Quali sono le alternative?

Se si sceglie un sistema proporzionale ci sono le preferenze, altrimenti, in un maggioritario, i collegi uninominali. Nella situazione di partiti fluidi che abbiamo oggi probabilmente il collegio uninominale sarebbe il modo migliore per recuperare un rapporto tra la persona e il partito. Questo può avvenire anche con un doppio turno o col Mattarellum, che era un sistema a prevalenza maggioritario.

E le preferenze? Le abbiamo avute per decenni e sappiamo che si prestano a voti clientelari.

Come sempre, si deve scegliere il male minore. In questo caso il rischio c’è, ma oggi la situazione non è certo quella della Prima Repubblica. All’epoca c’erano partiti forti che utilizzavano le preferenze in maniera non democratica per forzare le elezioni. Adesso credo che il corpo sociale sarebbe molto più libero nelle scelte.

Nella campagna referendaria si è citato spesso il problema della rappresentanza. Oltre alle liste bloccate, si deve ragionare anche sulla soglia di sbarramento?

Sì, ma dobbiamo partire dal presupposto che non esiste una soglia di sbarramento ideale. Oltre al problema della rappresentanza c’è infatti il tema della frammentazione del sistema politico. La legge elettorale deve allora valutare quale sia il limite tollerabile della frammentazione in quel contesto e decidere di conseguenza la soglia di sbarramento: il 2, il 3, il 5 per cento. La rappresentanza è di certo una chiave dei sistemi elettorali, ma deve sempre essere combinata con la governabilità in modo da mettere la maggioranza nelle condizioni di lavorare.

I Nominati e le porcate: chi ha vietato di scegliere

Luglio 1993. Mentre i partiti della Prima Repubblica venivano spazzati via dalle inchieste di Mani Pulite (il 30 aprile Bettino Craxi veniva ricoperto di monetine davanti all’hotel Raphael), i due deputati Lucio Magri (ex Pci) e Sergio Mattarella (Dc) si incontrarono in Transatlantico davanti alla sala della Lettura e, dopo un breve conciliabolo, si scambiarono un bigliettino enigmatico: “75-25”. Nacque così la legge elettorale “Minotauro” – poi coniata (con disprezzo) da Giovanni Sartori come “Mattarellum” dal nome del suo relatore – perché per la prima volta nella storia repubblicana si mettevano insieme due sistemi elettorali diversi: tre quarti del Parlamento (il 75%) sarebbe stato eletto con i collegi maggioritari, il restante 25% con il proporzionale. E, per abolire le preferenze che nella Prima Repubblica erano diventate il ricettacolo della mafia e delle correnti Dc, per la prima volta i partiti decisero di inserire le liste bloccate. Da quel momento i cittadini non poterono più scegliere i propri rappresentanti.

Un passo indietro. Per quarant’anni – dal 1948 al 1993, con la breve parentesi della “Legge Truffa” abrogata nel 1953 – i cittadini hanno sempre potuto scegliere i propri parlamentari. Anche troppo. La Camera era eletta con un sistema proporzionale puro, senza soglie di sbarramento, ma soprattutto liste che permettevano all’elettore di esprimere fino a un massimo di 5 preferenze. E allora era un profluvio di santini, ambi, terne, quaterne (specializzati erano i ras della Dc), date (Clemente Mastella invitava i suoi elettori a votare l’anno 1976, dove 1 era De Mita, 9 lui, 7 Bianco e 6 Gargani), fino ai ministri democristiani che per mantenere il proprio pacchetto di voti arrivarono a far costruire intere autostrade per arrivare nella propria città natale: il potente doroteo e sedici volte ministro Remo Gaspari (detto anche il “Duca degli Abruzzi”) spinse per due autostrade per collegare Pescara e l’Aquila a Roma con uno svincolo apposito nella sua Gissi (poco più di 3mila abitanti). Lo stesso fece il sei volte presidente del Consiglio Amintore Fanfani che ideò la “curva Fanfani” per far deviare la A1 nella sua Arezzo. Ad ogni tornata, quindi, gli elettori li premiavano generosamente. Le preferenze multiple ormai non erano più un esercizio di democrazia ma la certezza dell’elezione del micronotabile più clientelare.

Così si decise di abolire le preferenze. Mariotto Segni e il Movimento dei 31 (da Carlo Bo a Umberto Agnelli fino a Rita Levi Montalcini) promossero un referendum per abolire le preferenze multiple passando a una unica. Il quesito fu approvato con una maggioranza bulgara, nonostante Craxi avesse invitato gli elettori ad “andare al mare”: il 96% disse Sì. Le prime liste bloccate furono inserite per la prima volta con il “Mattarellum”: per il 25% dei collegi assegnati con il sistema proporzionale i candidati a Camera e Senato erano nominati dai partiti. Anche il “Mattarelllum” si portava dietro molte distorsioni come le liste civetta create ad arte per superare il meccanismo dello scorporo dei voti maggioritari per determinare la quota dei seggi nel proporzionale, ma anche altri effetti indesiderati: alle elezioni del 1996 l’Ulivo fece il pieno in Campania con tutti i suoi candidati nei collegi senza far eleggere il primo nel listino proporzionale, Giorgio Napolitano, poi paracadutato al Viminale nel primo governo Prodi.

Il “minotauro” durò nove anni fino al 2005, quando il premier Silvio Berlusconi arrivò a minacciare la crisi di governo se il Parlamento non avesse approvato una legge proporzionale: lo scopo era quello di rendere più difficile la maggioranza assoluta all’Ulivo alle elezioni dell’aprile 2006. E così fu. Il quindicesimo Parlamento fu eletto con una legge che il suo padrino, il leghista Roberto Calderoli, definì apertamente “una porcata”: un sistema proporzionale con lunghe liste bloccate (tutti nominati dai partiti) e un premio di maggioranza del 55% alla coalizione che avesse ottenuto il maggior numero di voti. Quella legge, che a parole non piaceva a nessuno, è stata applicata per le elezioni del 2006, 2008, 2011 e 2013. Tutti i partiti se ne dissociavano ma poi se la tenevano. A fine 2012, a pochi mesi dalle elezioni politiche del febbraio successivo, il redivivo Berlusconi e Bersani affidarono la partita della legge elettorale ai propri sherpa, Denis Verdini e al senatore piacentino Maurizio Migliavacca. Dopo settimane di trattative, si decise di non modificare il “Porcellum” per non toccare le liste bloccate. Fabrizio Cicchitto arrivò a gridare al “pactum sceleris à la Ribbentrop-Molotov”, il celebre patto di non aggressione del 1939 tra la Germania nazista e l’Unione Sovietica. Non proprio un complimento. Ci fu bisogno della Corte Costituzionale per eliminare la “porcata”: incostituzionale sia l’abnorme premio di maggioranza, sia le liste bloccate.

Dopo il Consultellum, un proporzionale puro con preferenze, Matteo Renzi decise che abolire le liste bloccate sarebbe stato troppo anche se da Rottamatore si diceva favorevole “alle preferenze”. Prima arrivò il “Toscanellum” o anche “Verdinellum” (ancora una volta lo zampino era del macellaio di Fivizzano): nel 2014 il consiglio regionale della Toscana approvò un sistema che prevedeva un premio del 57% se uno dei candidati avesse raggiunto la soglia del 40%. Poi il mantra del renzismo fu rispettato anche sulla legge elettorale: dalla Toscana al Paese. L’Italicum approvato nel maggio 2015 era una brutta copia del “Toscanellum”: oltre al premio, i capilista erano tutti bloccati. Ma questa legge, primo caso nella storia repubblicana, non è mai stata applicata: bocciata anch’essa dalla Consulta nel 2017. Alle politiche del 2018 gli italiani sono andati a votare con una nuova legge, il “Rosatellum” dall’idea di Ettore Rosato, in parte maggioritaria e in parte proporzionale. Ma ancora una volta, gli elettori non hanno potuto scegliere: le liste erano più corte, ma tutte bloccate e con le pluricandidature. Dopo il Sì al referendum, chissà se il prossimo Parlamento sarà più snello e soprattutto eletto dai cittadini.

Voto & social: chi spende di più perde di più nell’urna

Social pieni, urne vuote. Si potrebbero riassumere così, parafrasando il socialista Pietro Nenni del 1948, le elezioni regionali appena passate. La regola è quasi matematica: secondo i dati consultabili sulla Libreria Inserzioni di Facebook, i candidati governatori che hanno speso di più per la campagna elettorale sui social sono quelli che hanno perso, mentre chi ha puntato più sulle piazze e sulla comunicazione tradizionale (tv, giornali e manifesti elettorali) ha nettamente vinto. L’unica eccezione è quella di Eugenio Giani in Toscana che ha surclassato la leghista Susanna Ceccardi sia in termini di voti (48-41%) sia sulla spesa tramite inserzioni su Facebook: 32.358 euro€ contro i 25.453 di Ceccardi. Ma in questo caso Giani aveva l’urgenza di farsi conoscere anche ai toscani, molti dei quali ignoravano chi fosse fuori da Firenze. Per il resto delle Regioni, invece, la spesa sui social dei candidati è inversamente proporzionale ai voti nelle urne: al secondo posto tra gli aspiranti Presidenti che hanno speso di più c’è Stefano Caldoro in Campania con oltre 32 mila euro per sponsorizzare post sulla terra dei fuochi, sui trasporti a Napoli e contro il “cialtrone” Vincenzo De Luca. Il governatore uscente – che ha quasi triplicato Caldoro nelle urne – invece ha speso zero in sponsorizzazioni, forte della sua gestione dell’emergenza covid-19.

Non va meglio al pugliese Raffaele Fitto, che spende il doppio del vincitore Michele Emiliano per le sponsorizzazioni sui social network: 29mila euro contro i 13mila del governatore dem. Anche Maurizio Mangialardi nelle Marche spende dieci volte più del suo rivale Francesco Acquaroli (10mila a mille) nonostante nelle urne abbia preso quasi 100mila voti e 12 punti percentuali in meno (49 a 37%). Nessuna spesa nemmeno per Luca Zaia in Veneto e Giovanni Toti in Liguria, i due governatori che avevano già la vittoria in pugno, contro i 4mila di Arturo Lorenzoni e i 6mila del candidato giallorosa Ferruccio Sansa. A conferma del fatto che una giornata al mercato vale più di un post su Facebook.

“Sì, Vincenzo m’è padre a me”: quanti figli di papà per De Luca

“Vincenzo m’è pate a me”. Sono tanti i Peppiniello di Totò, i figli d’arte destinati alla politica. Preferiti ed eletti a furor di popolo. È questo un bell’esempio, per chi dovrà occuparsi della nuova legge elettorale, di capire a fondo ciò che significa il voto di preferenza. Se esso sia il miglior modo di dare valore alla rappresentanza, o piuttosto titolo dinastico, potere delegato e rendita parassitaria. Dalla Campania di De Luca padre (da qui la trasposizione dal teatro del Totò di Miseria e nobiltà alla realtà fattuale del “Vincenzo m’è pate a me”) che giustamente ha preteso per i suoi due figlioli un accesso immediato e riservato all’impegno pubblico, destinando un maschio, Piero, a Montecitorio, e un altro maschio, Roberto, al Comune di Salerno, le ultime elezioni restituiscono il valore assoluto del pater familias.

Cosicché con 11.147 voti la giovanissima Vittoria Lettieri, 21 anni spesi nella spensieratezza del mondo karaoke, si ritrova votatissima e al primo posto degli eletti della sua lista. In un memorabile video avverte che confida nella “speranza”. Conduce questa prova per realizzare un piano di resistenza contro i cattivi, coloro che hanno sgovernato e tolgono speranza. Sarà consigliere regionale. Per un caso provvidenziale Vittoria è figlia di Raffaele, sindaco di Acerra e trascinatore di passioni nell’urna. Solo il papà, per dire, è riuscito a consegnarle nel suo comune 7.152 voti di preferenza conducendo la lista della speranzosa e giovanissima Vittoria (De Luca Presidente) al primo podio assoluto e a stracciare il Pd. Trentasei per cento dei voti totali contro un misero 12 per cento dell’intero apparato di Zingaretti.

Favole? Fantasie? Lettieri, al tempo nell’Udc di Pier Ferdinando Casini, quindi convintamente nel centrodestra, era legatissimo a Stefano Caldoro, al tempo in cui quest’ultimo guidava la Regione, e a un assessore della sua giunta, anzi al vero uomo forte: Pasquale Sommese.

Mutatis mutandis. E così anche Sommese ha cambiato cavallo e anche a Sommese, ora con De Luca, è venuta voglia – visto che improvvisi guai giudiziari gli consigliavano di stare fermo almeno questo giro – di capire quanto valesse il suo giovane erede Giuseppe. Prova magnifica. Il Peppiniello di Sommese ha sbaragliato, in una lista fabbricata ad hoc (Liberaldemocratici-Moderati) i concorrenti ottenendo ben 5.554 voti di preferenza. Eletto e urrà! E Gianpiero Zinzi, figlio di Domenico, ex presidente della Provincia di Caserta, ex assessore regionale, ex eurodeputato, noto esaminatore democristiano di schede elettorali, è ora un cavallo vincente della Lega, salviniano di grande appeal. E Bruna Fiola, figlia di Ciro, presidente della Camera di Commercio? Eletta! E Mario Casillo, figlio di Franco, un potente di ieri e di oggi? Eletto! E Andrea Volpe, figlio di Mimmo, acchiappavoti di Bellizzi, nella cintura salernitana, di cui è sindaco da anni? Eletto!

Non c’è trucco e non c’è inganno. I “figli di” oltre a essere piezz ’e core risultano anche cavalli vincenti. Sorrisi smaglianti e un abbraccio virtuale. “Una campagna bellissima!” dice su facebook Andrea Volpe. “Ma quanto vi voglio bene?”, domanda ai suoi elettori Bruna?

Quanto ci vuole bene, e quanto vuole bene alla realtà, che si dimostra anche generosa, Giovanni Mensorio, diecimila voti nel nome del defunto papà Carmine, deputato di fattura democristiana e poi di grandissima stagionatura mastelliana, caduto nel vortice di Tangentopoli e morto suicida pur di protestare la sua innocenza (si lanciò dal traghetto Patrasso-Ancona il 16 agosto 1996).

E cosa vogliamo dire di Annarita Patriarca, undicimila voti raccolti nel mare magnum del mondo di mezzo dell’area stabiese, da Gragnano fino a Castellammare, in cui per buoni vent’anni ha regnato suo papà Francesco, prima deputato, poi senatore, devoto di Antonio Gava, il grande possidente dello scudocrociato napoletano? Papà Francesco fu condannato in via definitiva a nove anni di reclusione per concorso esterno in associazione di stampo mafioso. Ma Annarita, senza perdersi d’animo, volle testimoniare il valore e la figliolanza. Si fece eleggere al municipio di Gragnano, il feudo paterno, ne fu sindaco, ufficio che purtroppo dovette abbandonare nel marzo 2012, giacché il ministero dell’Interno stava valutando lo scioglimento del consiglio comunale per infiltrazioni mafiose, e suo marito, Enrico Martinelli, a sua volta sindaco di San Cipriano d’Aversa, fu arrestato nel corso di un’indagine su Antonio Iovine, il boss dei Casalesi.

Oggi Annarita è più forte di prima, più preferita che mai. È l’anima e il vessillo del centrodestra. Stupirsene? Così è se vi pare.

Liste, tutela legale e burocrazia: “Sanno quanto lavora Milano?”

L’erede, che è il nemico di quasi tutti, aspetta i 5Stelle al varco. Ha già mostrato i denti, con la lettera che minacciava di fermare la piattaforma Rousseau se non arriveranno i versamenti dagli eletti. E ha fatto la sua mossa, proponendo al M5S un contratto di servizio da fornitore esterno che ai piani alti hanno giudicato inaccettabile, “la prova che vuole alzare il prezzo” secondo alcuni big.

Ma adesso Davide Casaleggio – giura chi ci ha parlato ultimamente – non ha fretta. “Davide è molto sereno” assicurano. Attende quelli che ora sono soprattutto avversari: pronto per un’intesa come per la guerriglia. Perché Casaleggio in casa ha una palude perfetta per lo scontro: fatta di norme, di pendenze burocratiche, di grane da risolvere. “Quelli che vorrebbero spazzare via Rousseau o ridurla al minimo forse non hanno idea di quante cose si fanno a Milano, e di quante rogne dovrebbero occuparsi se Davide si facesse da parte” sibila una fonte qualificata. Che la butta lì: “Vogliono occuparsene loro, da Roma? Se ci tengono possono accomodarsi”.

E di seguito recita il rosario delle incombenze: dalla verifica delle liste del M5S – “un lavoro ancora più faticoso dopo la legge spazzacorrotti, che in caso di errori porta a conseguenze penali” fanno notare – al lavoro di organizzazione e smistamento degli eventi. Fino al compito che Casaleggio ha ricordato come primo della lista nella lettera agli iscritti di Rousseau, una decina di giorni fa: “Provvediamo alla tutela legale del Movimento, del Garante e del capo politico”. Cioè provvede alle cause innanzitutto di Beppe Grillo, che tre anni fa aveva lasciato la carica di capo politico a Luigi Di Maio anche e soprattutto perché stremato dai processi, per i quali doveva venire periodicamente a Roma per fare il punto con gli avvocati. Non ne poteva più il fondatore e Garante, con cui Casaleggio si è incontrato la settimana scorsa a Marina di Bibbona, nella casa sul mare dell’artista. “È andata bene” riassumono voci da Milano.

Fanno capire che c’entra quell’incontro, nella nuova difesa di Rousseau che Grillo ha pronunciato mercoledì da Bruxelles. “Sulla piattaforma si può fare un referendum a settimana ma anche consigliare, dire ‘avete fatto una stupidaggine”, ha celebrato il fondatore. E poi: “Io sono per la democrazia diretta, non credo più in quella parlamentare”. Ergo, il Garante ritiene ancora centrale la creatura del figlio di Gianroberto. Isolato, certo, dai big: solo Alessandro Di Battista è rimasto dalla sua parte, e infatti il manager lo vorrebbe capo politico. Ma il Casaleggio molto solo vuole vendere cara la pelle e quindi Rousseau. Tratta su un punto di caduta, sulla trasformazione della piattaforma in semplice fornitore di un servizio, un’evidente riduzione del suo peso e ruolo. Ma alla sue condizioni. Conta sul fatto, dicono, che eventuali nuovi fornitori non faranno prezzi da saldi. “E comunque sarebbero esterni, fuori da tutti i nostri meccanismi”. E poi, “chi si occuperebbe della verifica delle liste, la segreteria? E con quali soldi?”. Perché alla fine lì si torna, alla battaglia sulle risorse, con molti parlamentari che non vorrebbero più versare l’obolo di 300 euro mensili alla piattaforma. Ma soldi, è evidente, ne serviranno comunque per tenere in piedi la macchina a 5Stelle. Ed è un’altra freccia nell’arco di Casaleggio. Voglioso di tenere almeno un piede nella cabina di comando del Movimento anche in caso di accordo su un contratto di servizio. Per riuscirci ritiene di avere anche un’altra leva, l’arma da fine del mondo, i tribunali. Perché il manager pensa di avere diritti sul simbolo del M5S. Da Statuto, “ceduto in uso alla nuova associazione 5Stelle” nata nel dicembre 2017 dalla vecchia associazione, quella fondata da Grillo a Genova. E l’associazione romana è figlia di un patto di ferro tra Di Maio e Casaleggio.

Il patron di quella Rousseau che è citata come perno al terzo comma dell’articolo 1 dello Statuto. Gli strumenti informatici “attraverso i quali l’associazione si propone di organizzare le modalità telematiche di consultazione dei propri iscritti” nonché tutte le altri funzioni “saranno quelle di cui alla cosiddetta piattaforma Rousseau”. Un’altra norma da toccare, se si vorrà scaricare o ridimensionare l’erede. In attesa, con la sua proposta. E le sue munizioni.

 

Crimi va, i ministri no. Ora la scelta via mail sul (lungo) congresso

L’alibi era perfetto: doppio, forse anche triplo. Una riunione fissata dal premier Conte alle 18.30 sul 5G, con convocazione per Luigi Di Maio, Alfonso Bonafede, Riccardo Fraccaro e Stefano Patuanelli. Impegni vari per altri ministri e vice. Una quarantena per la ministra del Lavoro Nunzia Catalfo. Volendo perfino l’articolo 7 dello Statuto, secondo cui il capo politico “deve concertare l’azione politica con capigruppo e ministri”. Sta di fatto che ieri nell’assemblea congiunta del M5S sugli Stati generali i big di governo hanno quasi tutti marcato visita, con l’eccezione delle ministre Lucia Azzolina e Fabiana Dadone, rafforzando visivamente la foto di un Movimento scollato, ripartito in caste. Assente Alessandro Di Battista, che parlamentare non è, idem Roberto Fico, che della Camera dei deputati è presidente. C’è però Vito Crimi, il reggente arcistufo, che alla vigilia aveva detto a tutti che avrebbe disertato. E invece no, ad aprire i lavori della congiunta con deputati e senatori collegati via web da sale separate è stato proprio il capo pro tempore, che ministri e sottosegretari li vedrà lunedì, separatamente (nello stesso giorno incontrerà i rappresentanti regionali).

Nell’attesa, ecco l’assemblea di ieri. Con Crimi che sottopone come previsto varie opzioni agli eletti: se votare subito sul web, decidendo in un primo voto tra un nuovo capo politico oppure una segreteria, e in un secondo turno eleggere la nuova guida politica. Oppure la strada più lunga: tenere entro il 15 ottobre assemblee regionali o provinciali che redigano documenti “con le questioni su cui il Movimento dovrà interrogarsi”. E entro lo stesso termine nominare un comitato organizzativo di 10 membri, eletti di vario ordine e grado e membri di governo “scelti dalla singole realtà, a cui affidare l’organizzazione degli Stati generali”, il congresso. I parlamentari verranno “consultati” via email, oggi o al massimo domani, così da dare un’indicazione – non è chiaro se vincolante – che i capigruppo gireranno poi a Crimi. E stando alle indiscrezioni sceglieranno in massa la terza via, la più lunga. Quella che più coinvolge – almeno sulla carta – chi si sente da troppo tempo escluso. Peccato per Crimi, che ha fretta di lasciare il suo pesante carico a qualcun altro. “Ci sono due livelli – dice in assemblea – e uno è più urgente, la governance. Serve l’avviamento per dare carburante al percorso”. Mentre bisogna “lasciare il confronto sui temi a un approfondimento maggiore e di passaggi successivi”. La nomina del comitato dovrebbe quanto meno alleggerirlo di alcune incombenze. Ma il percorso sarà lungo, “a occhio fino a dicembre” spiegano. Quando si terrà l’assemblea con i delegati, fisicamente presenti. “Ed è su quello che sarà vera battaglia, sul sistema delle deleghe” preconizzano nel Movimento. In diversi propongono percorsi alternativi, come l’europarlamentare Dino Giarrusso, che vorrebbe un Direttorio di 11 membri e la creazione di sedi fisiche territoriali, assieme al mantenimento del vincolo dei due mandati e all’elenco pubblico degli iscritti a Rousseau. Altri sono intervenuti in assemblea per dare voce allo “spaesamento” degli ultimi mesi, lo stesso che ha caratterizzato la “campagna elettorale più triste di sempre”: qui è la deputata campana Conny Giordano a parlare e a ricordare che “non si può arrivare agli Stati generali con decisioni già prese: vanno fatti in fretta, ma non di fretta”. “I contenuti hanno bisogno di mesi”, le fa eco il senatore Primo Di Nicola. Anche perché – la conclusione è di Nicola Morra – “abbiamo accettato un sistema verticistico che ha eliminato il dibattito e in cui i momenti di riflessione sono stati castrati”.

Dunque, prima di capire che forma avrà il M5S del futuro, pare che la strada sia ancora lunga. E già a ostacoli, almeno a sentire il veterano Max Bugani: “Nei 5 Stelle decidono gli iscritti su Rousseau, non i parlamentari su Gmail”. Questione di gestori.