Gli Stati Generici

“Portavoce, facilitatori, garanti, capi politici uscenti e aspiranti, ex pentumviri, mandati 0, mandati 1, mandati 2, mandati affanculo, scappati di casa, do inizio agli Stati generali 5Stelle: la parola alla Mozione 1”.

“Dobbiamo ridiscutere le alleanze locali e quella di governo, perché siamo più ganzi da soli”.

“Le alleanze nazionali e locali le han votate gli iscritti. Questo governo ha più membri e punti programmatici nostri di quanti ne avranno quelli dei prossimi 30 anni. Ed è guidato da un premier scelto da noi, molto più popolare di decine di predecessori. Quindi i ganzi solitari continuino a fare le loro cosine allo specchio, ma la Mozione 1 è bocciata. La 2?”.

“Dobbiamo spingere la Raggi a ritirarsi perché è perdente, così il Pd prende Roma e ci dà il Lazio”.

“Senti, Roberta, Virginia s’è candidata a sindaco e ha stravinto. Tu ti sei candidata a presidente della Regione Lazio e hai perso. Mozione 2 bocciata. La 3?”.

“La gente non ci vota perché non abbiamo un programma”.

“Veramente la gente stravota partiti senza un programma, ma con un leader. E noi non ne abbiamo uno da quasi un anno. Partiamo di lì, visto che noi un programma ce l’abbiamo, e pure eccellente, da ancor prima di nascere, da quando andavano in giro con i meetup: ambientalismo, acqua pubblica, wi-fi gratis per tutti, tecnologie, lotta alla casta, alle mafie e alla corruzione, reddito universale. Molte cose le abbiamo fatte in due anni, l’ultima il taglio dei parlamentari, e molte restano da fare. Rivediamoci i vecchi show di Beppe, incontriamo i Verdi europei che spopolano e chiediamogli come fanno, invitiamo le migliori teste in circolazione e mettiamo su una scuola di politica per selezionare la futura classe dirigente. Mozione 3 bocciata. La 4?”.

“Ci sarebbe da discutere di Rousseau e delle nuove espulsioni dei dissidenti del No…”.

“Abbiamo problemi più seri. E non si espelle più nessuno. Mozione 4 bocciata. La 5?”.

“Noi vogliamo un capo che scaldi i cuori e riempia le piazze”.

“Noi siamo da sempre contro i capi. Abbiamo un garante, peraltro piuttosto nervosetto per le nostre beghe: ci basta. Il capo politico serviva quando c’era da indicare un premier, ma ora ce l’abbiamo e per puro culo è così bravo che non sembra neanche nostro. E, siccome noi andavamo molto meglio col direttorio, scegliamo tre persone normali tra gli eletti (inclusa Chiara: mica ha rubato, al massimo ha sbagliato una posta di bilancio), poi per due anni non vola una mosca. E tutti gli altri vanno sui territori a riorganizzare il movimento e a selezionare il meglio della società per le prossime elezioni. Mozione 5 bocciata. Adesso ci contiamo, votiamo e poi tutti al lavoro senza tante pippe. Fine degli Stati generali”.

Il Presepe napoletano è anti-metafisico e pagano: c’è più cibo (e taverne) che “Mistero”

Quanno nascette Ninno (Quando nacque il Piccolino), trasposizione ideale dell’Adeste fideles, è la canzone natalizia, in napoletano, di un Santo amabilissimo, Alfonso de’ Liguori. “La lingua vernacolare napoletana che, con quest’opera, per la prima volta viene adoperata nella scrittura di canti religiosi, lo ammetto, è stata il mio cruccio più doloroso. Infatti il napoletano è una lingua e non un dialetto: ha le sue regole, le sue erudizioni, la sua scienza, le sue intemperanze, la sua storia plurisecolare migliore e più nobile delle storie degli altri dialetti che, per il fatto d’essere tali, non gli si confanno essendo lingue abortite. Il napoletano – per la stessa sua natura primaria, per la sua recondita meraviglia immaginifica, per la sua intoccabile nobiltà retorica, per il suo poderoso vocabolario, per la sua dovizia di espressioni e, soprattutto, per la sua inarrivabile carica emotiva e spirituale – è una lingua intraducibile.” Non si potrebbe dir meglio. La citazione viene da un libro di gran valore dedicato al Natale e al Presepe: Abbassato in un antro è ‘l Paradiso, di Alessandro Basso, pubblicato dalla editrice salernitana Operaedizioni. E il libro lo posseggo perché, in occasione di una mia lezione di luglio a “Salerno Letteratura”, ora diretta dal carissimo amico Gennaro Carillo, l’autore mi si presentò donandomelo con una dedica molto lusinghiera.

Scrivere di Presepî napoletani è una delle occupazioni più poetiche esistenti. Or il Basso è un ferventissimo cattolico; ma non altera la storia e i fatti. Onde non si oppone a chi, come me, sa che il Presepe napoletano è quanto di più pagano e antimetafisico esista. È una celebrazione della vita quotidiana: il protagonista è il popolo napoletano. Se si guarda il più bel Presepe del mondo, quello donato dal Cuciniello e oggi allocato presso il museo della Certosa di San Martino a Napoli, ci si accorge che il cibo, le taverne, la banda militare accompagnante i Re Magi, e il loro corteo con nani che tengono a catena molossi e levrieri, hanno assai maggior rilievo che il cosiddetto “Mistero”, ossia la grotta nella quale la Madonna e San Giuseppe, il bue e l’asinello, adorano il Divino Infante. Nel Presepe Cuciniello, peraltro, non v’è più grotta: il simbolo è che la rovina di un tempio romano viene revocata nel nulla dalla nascita del Bambinello: ma, ripeto, è simbolo contraddittorio, sebbene centrale di tutto per la coscienza cattolica, per il prevalervi del culto della vita.

Ricordo che il Cattolicesimo è assai più sincretista del Cristianesimo evangelico. Uno dei più grandi Imperatori, Aureliano, fissò al 26 dicembre (siamo sempre in area solstizio) la festività del Sol invictus, la più grande delle divinità. Già il re egizio Akhenaton aveva rovesciato il tradizionale pantheon, collocando Aton, il Sole, al vertice di esso pantheon. Il Cattolicesimo non si spaventa per nulla di raccogliere un’eredità pagana, essendo esso stesso, a differenza del cristianesimo evangelico e paolino, in gran parte una restaurazione dell’abbattuto paganesimo. Tutte riflessioni, quelle da me esposte, scaturienti dalla lettura delle pagine di Basso, che ringraziamo.

Gatti assassini, peli lunghi e 2 kg di ceneri: che morte

La morte pone molte domande. Solo ai vivi. Ad esempio, “quando muoio, il gatto mi caverà gli occhi”? Questo e altri crucci heideggeriani sono ora raccolti in un irriverente saggio da Caitlin Doughty, “necrofora di Internet” nonché impresaria funebre.

Il mio gatto mi mangerà gli occhi? E altre grandi domande sulla morte debutta oggi in libreria con i tipi del Saggiatore. L’esperta risponde: “No, il gatto non vi mangerà gli occhi. Non subito, perlomeno”. Ci vorrà qualche giorno prima che il micio, affamatissimo e solo, inizi a sbranare le parti più soffici del padrone: faccia, guance, collo… Se il gattino è naturaliter un “assassino opportunista”, anche il cane non scherza. Davanti a un cadavere: “Un caso molto triste riguarda una donna alcolista. Dopo la sua morte, mancavano pezzi di carne dal naso e dalla bocca. Il setter aveva provato più volte a destare la sua umana, con sempre più forza, ma non era riuscito a svegliarla”. Viceversa, gli uomini sembrano più scrupolosi nei confronti dei loro animaletti: “Se li dissotterrate dopo 15 anni troverete ossa, mentre tra uno e tre anni saranno un po’ più integri e puzzolenti”.

Cannibali domestici, ricrescita dei peli e peso specifico delle ceneri, l’autrice ne ha per tutti: “Cosa succede al cadavere di un astronauta? Il mio criceto può essere sepolto con me?” (No). “Che cosa succede se per sbaglio mi seppelliscono mentre sono in coma?” (Facile, non succede). “Che cosa succede quando un cimitero è pieno di corpi e non ce ne stanno altri?” (Banale, se ne fa un altro). “Posso tenere i teschi dei miei genitori quando muoiono? Molto difficile ottenere il permesso legale per esibire lo scheletro di un parente… Forse un giorno le leggi cambieranno”.

La macabra e ironica Caitlin fa a pezzi anche molte leggende, a cominciare dalla presunta crescita di unghie e capelli post mortem: è solo apparenza; non sono loro a crescere, ma la pelle a ritirarsi. Perciò, i direttori di pompe funebri sono così attenti all’estetica cadaverica, trattando il morto con “una maschera idratante al viso e una piccola manicure al letto ungueale. Il trattamento di bellezza che tutti meritiamo”. Come sono colorati e rilassati, i cadaveri: meglio chiuder loro subito gli occhi e la bocca per non farli deturpare a mo’ di zombie, “in questo modo avrete più l’impressione di un corpo addormentato e meno delle pupille ‘annebbiate e senza vita di papà che vi trafiggono l’anima’”.

Il corpo è duro a morire: continua a digerire il cibo nello stomaco ed espellere liquidi, più o meno imbarazzanti, dopo il decesso: “Potreste fare la cacca quando morite… Tutti i muscoli del vostro corpo si distendono; l’irrigidimento subentra circa tre ore dopo… La decomposizione, poi, non è solo opera dei batteri”. Esperienze magnifiche, risparmiate però a chi sceglie di farsi cremare; in questo caso contano i pesi: due chili di ceneri per le donne e tre per gli uomini, in base all’altezza, ovvero alle ossa, non alla ciccia. Farsi bruciare con una cerimonia vichinga (una barca al largo incendiata dai dardi infuocati dei parenti) è tuttavia impossibile: solo a Hollywood sono in grado di celebrare funerali simili; in realtà, la fisica e la chimica impongono che la zattera si incenerisca prima del cadavere, “bruciacchiato e a galleggio per le acque comunali”. Ultimo mito da sfatare è la luce bianca che appare ai morenti poco prima del trapasso. La luce c’è, ed è pure bianca, ma non sono gli angeli del Signore a portarla: è solo frutto di un’ischemia retinica.

Ricomincio da “Tre” a… Renato Zero

Cinquanta milioni di album venduti, precursore dell’immaginario – almeno in Italia – dell’artista ambiguo, delle maschere con le quali ha vestito nel tempo e nella carriera i suoi personaggi. Clown, mimo, cantante di strada, popstar, eccentrico, istrionico; amato incondizionatamente dai suoi fedeli sorcini, moltiplicati nell’arco di tre generazioni come solo Vasco può vantare. Zerosettanta è un progetto di tre album di 40 canzoni inedite, spalmate su tre mesi, in uscita ogni 30 del mese a iniziare da settembre. Sarà anche l’occasione per festeggiare virtualmente i settant’anni dell’artista: “Il mio compleanno lo voglio celebrare così: con la mia penna ancora calda di scrittura e con il microfono acceso. Ci sarà anche il momento di viverlo su un palco, non appena le condizioni lo permetteranno. E il 29 su Canale 5 ci sarà uno speciale dal vivo con un divertente racconto autobiografico”. Musicalmente, il terzo volume – “si parte dall’ultimo per onorare il grido dei fan zerofolli, quando mi chiamano sul palco: tre, due, uno, zero” – è per ammissione stessa dell’artista “improntato su stilemi musicali importati da Londra, con la produzione di Phil Palmer – collaboratore di Elton John, George Michael – e Alan Clark (Mark Knopfler, Turner, Eric Clapton)”. Un disco con intuizioni all’avanguardia e arrangiamenti di spessore, ai livelli qualitativi dell’album di Mina/Fossati. Colpisce nelle foto del disco lo sguardo penetrante, forse il desiderio maggiore dell’era “matura” di Renato: voler arrivare al cuore delle persone e instillare un dubbio, una magia, una disillusione. In particolare l’imperativo categorico è Su la testa! cantato lucidamente in Stai giù. Il fil rouge in tutti i brani è la volontà del cantautore romano di incoraggiare a elevarsi, a vivere di slanci, di avere un sussulto di dignità (Più amore, L’angelo ferito, Come fai). E, soprattutto, di perdonarsi e accettarsi (Chiedi scusa). Alla presentazione del progetto, Renato anticipa i contenuti dei due prossimi album: “Nel secondo il focus sarà sull’amore verso il pubblico: io riesco a guardare fino all’ultima fila e questo mi rallegra perché significa che l’oculista da me non becca ‘na lira”. Nel terzo la priorità è quella di raccontare il sentimento: “Noi lo mettiamo in un letto o lo dedichiamo ai parenti stretti o agli amici, ma va nutrito anche per un capoufficio. Io amo mio padre, non gli voglio bene, lo amo. Non c’è bisogno che ci vada a letto con le persone per amarle. L’amore è gratis, va distribuito, non elargito”. Altro tema del disco è la forza d’animo: “Avevo appena 15 anni e già mi guadagnavo 500 lire cantando per sei ore consecutive al Ciak di Roma con un gruppo di quattro amici dall’onesta passione per la musica. Quanto avrei potuto resistere a quello stress e tutta quella nicotina? Eppure qualcosa mi impediva di distogliere lo sguardo da quel microfono. Un mezzo per urlare a tutti che non avrei mai voluto essere messo all’angolo della vita: la forza produce la resistenza… Non c’è più un esempio in questo Paese, abbiamo bisogno di un altro Mozart, un altro Pasolini, vorrei vedere la luce di qualcuno di nuovo”.

Come artista ha forgiato generazioni di epigoni, spesso scindendo le sue caratteristiche in diversi personaggi: da Lucio Corsi – il più dotato tra i nuovi cantautori – per l’eccentricità e la stessa ispirazione glam a Ultimo – il più popolare – per la parte melodica e la capacità di arrivare all’intimità delle persone. L’importante è non associarlo ad Achille Lauro: “Io ho iniziato dove sfollavano piste da ballo e con un nastro Revox cantavo con le mie paillettes. Non giocavo a fare il clown, ma cantavo di pedofilia e problematiche di gente di borgata, questa è la differenza. Achille con poca spesa riesce ad affermarsi mentre io mi facevo un mazzo enorme. La gente non va presa per il culo”. Chiediamo a Renato se ha mai nostalgia delle piume e delle paillettes e se non pensa che canzoni quali Madame e Mi vendo siano – a torto – considerate solo episodi pop mentre, in realtà, hanno strati molto profondi: “Io mi ricordo questa immagine di Charlie Chaplin, mentre si stringe il cerchio e lui scompare andando via dall’immagine. C’è molta tenerezza e la misura di una forza di una trasmissione sentimentale da parte di un comico. Mi vendo sembra una canzone scherzosa ma è un grido di solitudine e di riscatto. Anche in Madame la diversità e le forme, la sostanza di una fisicità che non sempre è appagata non sempre ti rappresenta al meglio. Le paillettes sono state un veicolo per parlare di discriminazione. È anche un motivo di riflessione: siamo abituati a racconti di quello che è sempre bello, sempre magnifico, sempre accettabile e invece tutto è opinabile. È la sostanza delle mie posizioni: non dare mai per scontato che una cosa deve essere bianca o nera”.

Lukashenko s’insedia in gran segreto: proteste in piazza a Minsk

In segreto e in punta di piedi nel Palazzo dell’Indipendenza di Minsk. Si è svolto così ieri l’insediamento alla presidenza più sommesso dell’intera carriera di Aleksandr Lukashenko, al potere dal 1994. Giunto al suo sesto mandato tra accuse di frode elettorale e violazione dei diritti umani, il presidente ha dichiarato ieri “di proteggere la libertà e i diritti dei cittadini”, a cui però ha tenuto nascosto l’evento. In uno spettacolo di tirannia e farsa andato in scena esclusivamente per i media di regime e i vertici del governo che gli rimangono ancora fedeli, dopo la passeggiata tradizionale sul tappeto porpora tra le mura bianche e dorate della sala dove ha sfilato tra gli applausi dei governatori regionali, alte cariche militari e funzionari, con la mano destra sulla Costituzione, Lukashenko ha detto: “Sull’orlo di una crisi globale io non ho diritto di abbandonare i bielorussi”. Per Pavel Latushko, politico d’opposizione, è stato come un clandestino “incontro di ladri: dove erano i corpi diplomatici o i cittadini in giubilo? È chiaro che è solo il presidente degli Omon”, la polizia antisommossa schierata contro i manifestanti rimasti per strada, nonostante gli arresti e le violenze, nelle ultime sei settimane.

Prima di tutti ha reagito Berlino: nonostante il giuramento, la Germania non riconosce Lukashenko come capo di Stato, ha riferito il portavoce del governo Steffen Seibert. “Sono io l’unica leader eletta dal popolo bielorusso” ha detto dal suo esilio europeo Svetlana Tikhanovskaya durante la sua maratona d’appelli digitali ai manifestanti in patria e ai maggiori leader in Europa, a cui ha riferito che ieri “Lukashenko in realtà è andato in pensione” e bisogna tornare subito alle urne. Contro l’illegittimo e contestato caudillo ha promesso “disobbedienza a oltranza” da lontano, mentre i ragazzi di Minsk, riunitisi nei pressi delle tre università della Capitale quando la notizia del giuramento è circolata sui social media, hanno cominciato a invocare il presidente per diminutivo: “Sasha, vieni fuori che ti facciamo le congratulazioni!”.

“Zero pace coi lupi solitari. Kabul, il diktat di Usa & C.

Pur di scongiurare la morte prima della nascita dei negoziati ora in corso a Doha, tra il governo afghano e i talebani, nella speranza di mettere così la parola fine anche alla guerra più lunga combattuta, e persa, dagli americani nella storia contemporanea, Washington ha dovuto digerire la liberazione da parte delle autorità di Kabul di alcuni esponenti delle forze di sicurezza afghane.

Non prigionieri qualunque per la Casa Bianca, bensì uomini che avevano assassinato proprio alcuni soldati americani nel corso degli anni. Dopo aver provocato la caduta del regime dei talebani, l’esercito statunitense è rimasto sul suolo afghano al fianco delle forze di Kabul per impedire agli estremisti islamici di riprendere il potere. La voglia di uscire dal pantano afghano sta inducendo gli americani a mandare giù bocconi più che amari, per usare un eufemismo. Mentre, durante il mese scorso, nella capitale del Qatar, a porte chiuse, gli emissari di Washington chiedevano ai rappresentanti dei talebani di rilasciare alcuni prigionieri delle forze regolari afghane, ancora più dietro le quinte hanno concentrato i loro sforzi per impedire la liberazione di un poliziotto che aveva ucciso alcuni marine. Si tratta di Mohammad Dawood, 31 anni, membro della polizia che lavorava a fianco delle forze americane nella provincia di Helmand, una delle zone più calde dove le imboscate degli “studenti di Allah” (traduzione di talebani) erano una costante. L’uomo però un giorno del 2011 ha puntato la arma in dotazione contro due soldati americani, uccidendoli entrambi. Ora Dawood, a lungo dietro le sbarre, è uscito di prigione.

Il sanguinoso voltafaccia del poliziotto fu il primo esempio di un fenomeno talmente grave da ridefinire in un anno la guerra americana in Afghanistan. Gli assassini con la divisa delle forze di sicurezza del governo di Kabul non erano però stati cooptati dai talebani per uccidere membri dell’esercito “occupante”. Erano lupi solitari. Eppure Dawood è arrivato in cima alla lista dei prigionieri di cui i talebani avevano chiesto la liberazione come precondizione per dare il via ai negoziati. Assieme a lui, i talebani hanno chiesto la liberazione anche di altri cinque uomini arrestati dopo aver ucciso degli occidentali. Il braccio di ferro tra i delegati occidentali e quelli dei talib per evitarne la scarcerazione è andato avanti a lungo. Oltre agli Stati Uniti, anche la Francia e l’Australia (che hanno preso parte come anche l’Italia alle missioni internazionali contro il regime islamico oscurantista che diede rifugio e protezione a Bin Laden) hanno avuto caduti per “fuoco amico” e, di conseguenza, hanno fatto di tutto per convincere i rappresentanti dei guerriglieri islamici a desistere. I talebani hanno invece aumentato la posta rendendo la loro scarcerazione fondamentale per sedersi al tavolo dei negoziati. Washington, Parigi e Canberra hanno quindi sollecitato il governo afghano a resistere e a lasciare in carcere i cinque, pur accettando senza problemi che Kabul liberasse migliaia di altri talebani fatti prigionieri durante il lunghissimo conflitto. Il compromesso è stato trovato all’ultimo per non far saltare i colloqui che è arduo definire “di pace”: tutti e sei sono ora agli arresti domiciliari.

L’assassinio per mano di Dawood del tenente colonnello Benjamin Palmer e del sergente Kevin Balduf nel 2011 è solo una piccola frazione del funesto caos in cui versa l’Afghanistan. “Non siamo contenti del rilascio di alcuni prigionieri e sappiamo che anche i nostri alleati Australia e Francia non lo sono”, ha detto Zalmay Khalilzad, inviato speciale degli Stati Uniti per la pace in Afghanistan. Finora il governo afghano ha liberato 5mila prigionieri, seguendo la lista stilata dai talebani. “Ma comprendiamo che questo passo difficile era al servizio di qualcosa di ancora più importante, che è far finire la guerra in Afghanistan, ed è stato un passo necessario”, ha concluso l’inviato di nazionalità afghana. Nel 2014 ci fu uno scambio tra il sergente americano Bowe Bergdahl, detenuto dai talebani per cinque anni, e cinque alti membri dei talebani detenuti nel campo di prigionia di Guanta namo. Quell’accordo provocò molte critiche all’Amministrazione Obama, poi stigmatizzato da Trump durante la campagna elettorale. Non saranno contenti i marines che al culmine della guerra erano arrivati al punto di costruire avamposti all’interno di altri avamposti per difendersi dalle persone che avrebbero dovuto addestrare. Anche quest’anno 2 dei 4 soldati Usa caduti sono stati uccisi dai colleghi afghani.

Denunce e conflitti, la guerra in Enasarco

“Con riferimento alla vicenda legata al signor Mincione, sono state fatte pressioni per ottenere investimenti che si ponevano al di fuori delle disposizioni regolamentari interne adottate dalla Fondazione e per le quali la Fondazione si è opposta nettamente”. Ad affermarlo è Gianroberto Costa, presidente di Enasarco, il potentissimo e ricchissimo ente nazionale d’assistenza degli agenti e rappresentanti di commercio, che gestisce un patrimonio, in fondi e immobili, di ben 7,3 miliardi.

Di questa denuncia è rimasta traccia nel verbale del consiglio d’amministrazione del 19 settembre 2018, ma solo oggi viene alla luce, perché ora il collegio sindacale della Fondazione Enasarco chiede espressamente ai vertici dell’ente “i nomi di chi ha tentato di esercitare pressioni per indirizzare gli investimenti”, “se sono state fatte denunce in proposito” e se in seguito si sono aggiunte precisazioni o delucidazioni. Il fulmine cade in un momento delicato per Enasarco, perché oggi si apre la procedura elettorale per scegliere i nuovi vertici dell’ente. C’è un tema cruciale che nessuna delle sette liste in gara ha messo in evidenza: a chi affidare la gestione dell’ingente patrimonio della Fondazione? Riaprire la porta a Raffaele Mincione, il finanziere italiano con base a Londra citato nella denuncia di Costa e già coinvolto (e indagato) nella vicenda del palazzo londinese venduto al Vaticano? Uno dei candidati alle elezioni viene indicato come persona in conflitto d’interessi proprio per i rapporti intrattenuti con Mincione e con un altro finanziere, Valter Mainetti: è Alfonsino Mei, già consigliere d’amministrazione di Enasarco, ma anche membro del comitato di gestione del fondo Megas, quando questo era gestito da Sorgente sgr, società di Mainetti. Il finanziere ha la sua sede al numero 132 di via del Tritone, a Roma, in un palazzo di Enasarco, gestito fino al 2018 proprio dal fondo Megas. Oggi tra Enasarco e il Gruppo Sorgente (intanto posto da Bankitalia sotto amministrazione straordinaria) è in atto un contenzioso milionario per il mancato pagamento dei canoni d’affitto. Ha sede in via del Tritone 132 anche un’altra società di Mainetti, la Nova Re Siiq, presso cui è stata assunta Rebecca Mei, nipote di Alfonsino (e figlia di suo fratello Mario Mei, già consigliere regionale Pd in Lazio).

Un intreccio di rapporti, conflitti e interessi che si stringono attorno alla torta da 7,3 miliardi di Enasarco. Chi siede in cda, dicono le regole, non deve occuparsi della gestione dei fondi e non deve avere contatti con i finanzieri gestori del patrimonio dell’ente. Nel ricco portafoglio Enasarco c’erano anche quote del fondo Athena di Mincione, impiegato nell’operazione d’acquisto del palazzo londinese del Vaticano. Nel 2015 – dichiara la Fondazione – “i fondi Athena sono stati liquidati, con restituzione (cash) dei capitali senza registrare perdite rilevanti”. Al Fatto risulta che le perdite siano state di circa 7 milioni, evidentemente non ritenuti “rilevanti”. Il presidente di Enasarco, Costa, ha avuto numerosi incontri con Mincione, a Milano e a Roma. Uno di questi, il 12 gennaio 2017, è avvenuto presso la segreteria di Stato vaticana, dove a fare gli onori di casa era il cardinale Giovanni Becciu, allora grande sponsor di Mincione e oggi invece accusato dal promotore di giustizia vaticano di aver fatto perdere un sacco di soldi alla Santa Sede.

Dai colossi alla Bcc di Cuneo Caso Fincen, gli affari italiani

UniCredit, Banco Bpm, Intesa Sanpaolo, Ubi, Bnl e persino una semisconosciuta Bcc del Cuneese. Ci sono banche di grandi dimensioni ma anche istituti locali nei “Fincen Files”, il gigantesco leak di informazioni su operazioni sospette di riciclaggio diffuso nei giorni scorsi da Icij, il Consorzio internazionale di giornalismo investigativo. Dalla piccola parte dei documenti che è stata pubblicata emergono 93 transazioni, il 2% di quelle rese note, che hanno coinvolto istituti italiani o loro controllate estere come punto di partenza o di arrivo di denaro sospetto. Le somme movimentate dalle banche italiane sono poche decine di milioni, quasi nulla rispetto ai 2.099 miliardi di dollari (1.805 miliardi di euro) mappati, ma segnalano le connessioni del sistema nazionale.

La nuova inchiesta si basa su 2.100 rapporti riservati, relativi a oltre 200mila operazioni bancarie sospette di riciclaggio segnalate tra il 2008 e il 2017, e più di 6.900 collegamenti tra istituti di 150 Paesi segnalati come sospetti da banche statunitensi che ne hanno elaborato i pagamenti in dollari. Il database “sfuggito” dagli archivi dal Fincen, l’organismo antiriciclaggio del Dipartimento del Tesoro Usa, è finito nelle mani di BuzzFeed News. La testata americana ha coinvolto Icij, il già protagonista della diffusione dei Panama Papers. L’enorme materiale è stato passato al setaccio per 16 mesi da oltre 400 giornalisti in 88 Paesi. Per ora, i documenti pubblicati comprendono solo 4.507 operazioni sospette effettuate dal 2000 al 2017 e 5.498 correlazioni tra società su transazioni per 30 miliardi di euro. Il consorzio spiega che sono quelle di cui erano disponibili dettagli sufficienti. Emerge un fiume di denaro trasferito per conto di oligarchi russi, uomini vicini a Trump ed Erdogan, dittatori e narcos. Tra gli istituti risaltano Deutsche Bank e Danske Bank, travolta a fine 2018 dallo scandalo dei 200 miliardi riciclati tra il 2007 e il 2015.

Nella sezione del database analizzata dal Fatto , svetta il ruolo del gruppo UniCredit. Ben 78 delle 93 transazioni realizzate da banche italiane e mappate da Icij hanno convolto la banca milanese o le sue controllate tra l’11 aprile 2008 e il 7 settembre 2016, quando al timone dell’istituto si sono alternati Alessandro Profumo, Federico Ghizzoni e Jean Pierre Mustier. Nelle segnalazioni il ruolo della capogruppo è marginale ma sono invece molte le operazioni sospette transitate dalle sue controllate russe UniCredit Bank Cjsc e Zao UniCredit Bank, da Bank Austria e dalla tedesca UniCredit Bank. Tra gli istituti collegati a queste operazioni spiccano Deutsche Bank Mauritius e la filiale estone di Danske Bank. UniCredit non commenta ma ricorda che “agisce costantemente nel pieno rispetto delle leggi e dei regolamenti vigenti nei Paesi in cui opera”. Nessun commento nemmeno dal gruppo Intesa Sanpaolo, coinvolto in due transazioni sospette. Per le otto operazioni che hanno riguardato la Popolare di Milano e il Banco Popolare, poi confluite in Banco Bpm, l’istituto fa sapere che “le transazioni sono precedenti alla fusione: quelle di Bpm si riferiscono a importi di minima entità e quella del Banco Popolare fu effettuata nella filiale di Londra chiusa nel 2015. Banco Bpm conferma di aver sempre operato nel pieno rispetto delle norme”. Nessuna risposta invece da Bnl né da Ubi, l’istituto appena acquisito da Intesa Sanpaolo la cui chiacchierata filiale lussemburghese Ubi Banca International, in seguito ceduta, tra il 30 giugno 2016 e il 31 gennaio 2017 ha mosso fondi da e per la russa Ural Bank e Raiffeisen Bank International Austria.

Dopo tanti grandi nomi, balza agli occhi la maxitransazione da oltre 5,16 milioni realizzata tra il 4 aprile e l’11 giugno 2011 dalla Bcc di Pianfei e Rocca De’ Baldi (Cuneo) che ha avuto come destinatario la filiale di Abu Dhabi negli Emirati della Hsbc Bank Middle East e che fu segnalata come sospetta alle autorità Usa da Bank of New York. La piccola banca cooperativa, che ha 12 sportelli e 75 dipendenti, opera tra Piemonte e Liguria e non sembra particolarmente proiettata all’estero. Contattata, la Bcc ha risposto che “opera nel pieno e scrupoloso rispetto delle leggi e dei regolamenti vigenti”. Come tutti, del resto.

Buzzi fa lo scrittore, Carminati è libero: ecco come è finita

In principio fu “Mondo di mezzo”, poi “Mafia capitale” e infine di nuovo “Mondo di mezzo”. Sono passati quasi sei anni dal dicembre del 2014 quando ci fu la prima ondata di arresti di quell’indagine della Procura di Roma che aveva l’obiettivo di dimostrare l’esistenza di una mafia “originaria e originale” nella capitale. L’accusa di 416 bis però non ha retto, con alcuni dei protagonisti che, dopo anni di carcerazione preventiva, sono tornati liberi, chi alla vita di sempre, chi reinventandosi. Come Salvatore Buzzi, che si è scoperto scrittore e solo il 13 settembre scorso ha presentato il suo libro, Se questa è mafia, all’Arena Farnesina di Roma.

Vuoi per scadenza termini, vuoi per la decisione della Consulta che ha definito illegittima l’applicazione della legge Spazzacorrotti in modo retroattivo, in cella non è rimasto più nessuno.

E poi ci sono le assoluzioni, che riguardano anche quei filoni scaturiti dalla maxi-indagine. È di due giorni fa la notizia dell’assoluzione in Cassazione di Maurizio Venafro, ex capo di gabinetto nella precedente legislatura di Nicola Zingaretti alla Regione Lazio, accusato inizialmente di turbativa d’asta. Dopo un’assoluzione in primo grado e poi una condanna con pena sospesa in appello a un anno, per Venafro è arrivato l’annullamento senza rinvio della Cassazione “per non aver commesso il fatto”.

“È stato ingiustamente perseguito”, ha detto il suo legale, l’avvocato Maurizio Frasacco, mentre Zingaretti esulta: “Non ho mai avuto dubbi sulla sua correttezza e onestà. La notizia della fine di questo processo è quindi una grandissima gioia”. Ma se per Venafro – mai coinvolto nell’ipotesi d’accusa di associazione a delinquere – la vicenda processuale può dirsi conclusa, vediamo che fine hanno fatto i protagonisti del troncone principale dell’inchiesta romana.

Intanto l’iter processuale. Dopo le retate tra il 2014 e il 2015, nel luglio 2017, è la X sezione del Tribunale di Roma a smontare una prima volta l’impostazione della Procura: i giudici stabiliscono che non vi è alcuna mafia a Roma, bensì due associazioni a delinquere semplici: una costituita dall’ex Nar Massimo Carminati, dedita all’usura e all’estorsione, e quella di Buzzi, operante invece negli appalti pubblici, in cui partecipavano anche alcuni politici. Le pene inflitte in primo grado sono pesanti: 20 anni a Carminati, 19 a Buzzi.

Nel settembre 2018, questa sentenza viene ribaltata in Appello, dove i giudici riconoscono l’accusa di 416-bis: si torna dunque a parlare di associazione mafiosa. Le pene inflitte però sono minori: 14 anni e mezzo per Carminati, 18 anni e 4 mesi per Buzzi. Alla fine l’accusa di mafia cade definitivamente in Cassazione e resta quella di associazione a delinquere semplice: i giudici assolvono anche per alcuni reati i protagonisti e riqualificano per altri, per poi chiedere alla Corte d’appello di determinare le pene per 20 imputati.

L’udienza è fissata per il 3 novembre. Intanto da giugno scorso Massimo Carminati e Salvatore Buzzi sono tornati in libertà per scadenza termini. Hanno già scontato cinque anni di carcerazione preventiva. E da tempo è tornato libero anche l’ex consigliere regionale Pdl, Luca Gramazio, condannato in appello a 8 anni e 8 mesi, pena che anche per lui dovrà essere riqualificata.

Mesi addietro hanno lasciato il carcere pure alcuni dei politici coinvolti inizialmente nell’inchiesta. In questo caso non c’entra la scadenza dei termini. Dopo la sentenza definitiva, erano finiti in carcere per effetto della nuova Spazzacorrotti. Nel febbraio scorso però la decisione della Consulta ha avuto conseguenze immediate su coloro che, condannati in via definitiva per reati contro la Pubblica amministrazione e con un residuo di pena da scontare inferiore a quattro anni, erano finiti in cella perché quella stessa legge è stata applicata in modo retroattivo.

E così sono tornati liberi, tra gli altri, l’ex presidente Pd dell’assemblea capitolina Mirko Coratti come pure l’ex consigliere comunale del Pdl Giordano Tredicine. Non erano accusati di mafia, ma di corruzione. Per loro quindi la vicenda processuale è volta al termine.

Per Buzzi e Carminati invece non è ancora finita: dal riconteggio delle pene in Corte di appello, solo se saranno superiori agli anni trascorsi in carcerazione preventiva, si saprà se e chi tornerà in carcere o ai domiciliari. Il “Mondo di mezzo”, ma non la mafia, non può essere ancora archiviato.

Tocca a Fontana, a Gallera e alla ex di Salvini. Le chat su DiaSorin in mano alla Finanza

Di nuovo chat e messaggi. Di nuovo il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana. Ma non solo lui. Anche il suo capo segreteria Giulia Martinelli, ex compagna di Matteo Salvini e l’assessore regionale al Welfare Giulio Gallera. Sul tavolo sempre l’emergenza Covid-19. Non i camici questa volta, ma i test sierologici acquistati dalla Regione e venduti dalla multinazionale Diasorin, dopo averli sperimentati con l’aiuto del policlinico San Matteo di Pavia: 500mila test per 2 milioni. Affidamento diretto seguito dall’assessorato al Welfare. Affidamento che è valso un’indagine della procura di Pavia coordinata dal procuratore aggiunto Mario Venditti. Per questo ieri la Guardia di finanza è andata a casa del governatore. Scopo: acquisire i dati del suo cellulare. Dopo Fontana è toccato al suo capo segreteria Giulia Martinelli. Anche da lei i militari hanno fatto copia dei contenuti del cellulare. Stessa procedura per Gallera. L’obiettivo della Procura è capire il contenuto dei messaggi tra i vertici politici della Regione e quelli del San Matteo per l’affidamento diretto a Diasorin. Questo anche perché alcune chat sul cellulare del presidente del San Matteo Alessandro Venturi (indagato), secondo la Procura, risulterebbero cancellate. I tre a oggi non sono indagati. Iacopo Pensa, legale di Fontana, ha spiegato: “È grave che la perquisizione sia avvenuta con un decreto non circostanziato e con criticità costituzionali, vista la presenza di conversazioni di carattere istituzionale nel cellulare di Fontana”. La vicenda dei test Diasorin deflagra a luglio con le prime perquisizioni. Tra gli indagati alcuni dirigenti di Diasorin e vertici del San Matteo, tra questi il presidente Alessandro Venturi e il virologo Fausto Baldanti. Accuse: peculato e turbata libertà nella scelta del contraente. Citato, ma non indagato, Andrea Gambini, leghista, ex commissario del partito in provincia di Varese e titolare della Servire srl che da Diasorin, tra il 2019 e il 2020, ha incassato, secondo i pm, 1,5 milioni per altrettanti lavori sulle cui fatture lavora la Procura. Dalle carte erano emersi contatti tra il presidente del San Matteo e Giulia Martinelli. Contatti definiti “rilevanti” dalla Procura. A luglio, invece, nel decreto di perquisizione si leggeva: “La scelta operata dal policlinico San Matteo di procedere a un accordo diretto con Diasorin, tra i tanti operanti sul mercato, è apparsa viziata da un evidente conflitto d’interessi in capo al professor Baldanti, che ricopriva il ruolo di responsabile scientifico del progetto di collaborazione Fondazione San Matteo e Diasorin e la carica di membro del Gruppo di lavoro del Consiglio superiore di sanità presso il ministero della Salute competente per la valutazione del test”.