Omicidio Vassallo, c’è un altro indagato: ne parla un pentito di camorra, ma lui nega

Di lui, come scoprirete con maggiori dettagli oggi sulla newsletter ‘Giustizia di Fatto’, avrebbe parlato un pentito del clan Loreto-Ridosso di Scafati (Salerno). Ed ora il Fatto quotidiano è in grado di rivelare che esiste un secondo indagato per l’omicidio di Angelo Vassallo. Si chiama Giuseppe Cipriano, è originario di Scafati. Dieci anni fa, nei giorni dell’assassinio del sindaco pescatore di Pollica (Salerno), trucidato da 9 colpi di pistola mentre rincasava in auto, Cipriano gestiva il cinema di Acciaroli che si trova a pochi metri dal ristorante ‘Il rosso e il mare’ amministrato all’epoca da Vassallo e poi dai suoi familiari. L’imprenditore è indagato di concorso in omicidio con l’aggravante camorristica e reati di armi. La Procura di Salerno lo ha interrogato il 2 luglio 2018, gli stessi giorni in cui gli inquirenti provarono a sentire (senza esito) l’unico indagato finora noto, l’ex carabiniere Lazzaro Cioffi, in carcere per altre accuse di collusioni con il clan Fucito di Caivano. Cipriano ha respinto le accuse e negato la ricostruzione dei pm, tuttora coperta da riserbo.

Tredicine arrestati: “Avevano contatti con Lega e M5S”

Un colloquio trasversale con le “forze di governo” ai tempi dei gialloverdi, per bloccare la direttiva europea Bolkestein. I fratelli Dino e Mario Tredicine e il sindacalista Vittorio Baglioni (Fivag Cisl Roma) avrebbero cercato un dialogo con esponenti politici locali e nazionali, per fermare l’obbligo di messa al bando delle concessioni in scadenza di spazi pubblici e beni demaniali. “Una legittima attività di lobby”, la definisce il gip Francesco Patrone, non contestata agli indagati, accusati invece di associazione per delinquere, corruzione, induzione indebita, estorsione, usura. Coinvolto anche il dirigente Alberto Bellucci del Comune di Roma. Sono stati arrestati nell’inchiesta della Procura di Roma e della Guardia di finanza sul racket degli ambulanti nella capitale, un mondo di cui i Tredicine sono da decenni il nome più noto.

Nelle intercettazioni si leggono i tentativi di Baglioni di dialogare con il consigliere leghista Enrico Cavallari (Regione Lazio) e con l’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, che avrebbe “prospettato addirittura la possibilità di arrivare direttamente al ministro Lorenzo Fontana” e a “Barra Caracciolo (Luciano, ndr), il sottosegretario agli Affari europei” dell’allora governo gialloverde. Un’altra strada avrebbe portato al senatore leghista William De Vecchis, con “il quale vanterebbe un credito politico dovuto a un bacino di voti portato alle ultime elezioni”, e al senatore grillino Gianluca Castaldi.

In parallelo, Mario Tredicine racconta di aver “parlato con l’onorevole De Toma (Alessandro)”, pentastellato della commissione Attività produttive e commercio, il quale gli avrebbe “riferito che al 99,9% l’emendamento sarebbe stato approvato”. “Garanzie” che sarebbero state fatte anche al fratello Dino dalle “forze di governo”. Baglioni si sarebbe addirittura preso la paternità dell’emendamento poi passato al Senato, scritto di suo pugno insieme al sindacato.

La Procura chiede di condannare. Cortese e Improta

La sentenza è prevista per il 14 ottobre e ieri il pm di Perugia Massimo Casucci ha concluso la sua requisitoria sul caso Shalabayeva. Ci sono voluti quasi 7 anni per avviarsi alla chiusura del primo grado di giudizio. Nel 2013 Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Muktar Ablyazov, fu rimpatriata (con sua figlia Alua di 6 anni), salvo poi tornare in Italia. Per la procura di Perugia quell’espulsione non fu legale e si trattò invece di un sequestro di persona. A molti degli imputati sono stati contestati anche i reati di falso ideologico, abuso d’ufficio e omissione di atti d’ufficio.

Non è dato sapere quale sia stato il mandante di un’operazione che, se fosse confermata la tesi accusatoria, ha coinvolto più di un eccellente funzionario pubblico. La procura ha chiesto la condanna di tutti gli imputati. A partire dall’allora capo della squadra mobile di Roma, Renato Cortese, oggi questore a Palermo. Parliamo del poliziotto che catturò il “capo dei capi” Bernardo Provenzano. Per lui il pm ha chiesto la condanna a due anni e 4 mesi. Per l’ex dirigente dell’ufficio immigrazione, Maurizio Improta, oggi a capo della Polfer, l’accusa ha invece chiesto una condanna a due mesi e 15 giorni. Il pm Casucci ha invece chiesto l’assoluzione dal reato di sequestro di persona per Stefania Lavore, il giudice di pace che convalidò il trattenimento della Shalabayeva presso il Centro di identificazione ed espulsione, e di Stefano Leoni, poliziotto in servizio all’Ufficio immigrazione, per i quali ha chiesto la condanna rispettivamente a un anno e 15 giorni e un anno di reclusione. Un anno, due mesi e 15 giorni è la richiesta di condanna per il poliziotto Luca Armeni; un anno, dieci mesi e 15 giorni per il collega della Squadra mobile, Francesco Stampacchia; un anno e cinque mesi per l’agente dell’ufficio immigrazione, Vincenzo Tramma.

Dal Recovery fund più potere ai giovani

Pochi giorni fa, abbiamo avuto nuova conferma numerica di ciò che sapevamo: la crisi Covid-19 colpisce i giovani e le giovani in maniera particolarmente violenta.

Mi riferisco alla caduta dell’8% a distanza di un anno del numero di occupati fra 15 e 34 anni, perché i più precarizzati da politiche del lavoro errate. Ma c’è altro. L’impatto dei mesi di chiusura delle scuole, tanto più negativo quanto più socialmente fragile la famiglia di appartenenza, disagevole l’abitazione o remoto e non digitalizzato il luogo di vita. L’incertezza sistemica e improvvisa nell’età delle scelte. Il chiudersi di opportunità anche all’estero.

Come in ogni altro campo, la pandemia ha aggravato le faglie che già esistevano. E l’Italia è da tempo nella morsa di una vera e propria crisi generazionale. Che parte dall’infanzia, con una grande diffusione sia della povertà economica che educativa. Prosegue con l’abbandono precoce degli studi e l’entrata in un’angosciante “terra di nessuno” senza né lavoro né formazione (quasi il 30% dei giovani fra 20 e 34 anni) o con l’accettazione di lavori sotto-pagati, precari e al di sotto del potenziale accumulato, che evaporano rapidamente. E culmina nel rinvio continuo dell’uscita da casa e della “scelta di avere figli”, e nella conseguente caduta del tasso di fecondità. Così, attraverso una progressiva riduzione del numero di giovani, si affievolisce la loro voce in famiglia, in comunità, nelle strade, nelle piazze e nelle urne. E ciò si trasforma in scelte e provvedimenti particolarmente disattenti proprio ai giovani. Lungo questo circolo vizioso, bimbe, ragazze e giovani donne vedono aggiungersi sulle spalle le distorsioni di un paese dove persistono, più che altrove, i gravami di una cultura patriarcale, che ostacola la loro libertà sostanziale.

Certo che ci sono anche centinaia di migliaia di giovani che “ce la fanno”, realizzando i propri sogni, esprimendo il proprio potenziale. Ci mancherebbe che non fosse così. Ma sono troppo pochi. Il fatto che trovino opportunità all’estero non è un problema, il problema è che trovano chiuse le strade del ritorno. Ed è gravissimo che il successo dipenda in maniera spesso determinante, assai più che nel dopoguerra, dallo status sociale o dalla ricchezza della famiglia di appartenenza. Ecco, nel regresso dei servizi fondamentali e dei meccanismi di redistribuzione, la famiglia diventa determinante o la sola protezione sociale possibile. E ciò crea straordinarie ineguaglianze di opportunità infra-generazionali. E al tempo stesso carica la famiglia di responsabilità eccessive, che spesso non sa reggere. Basta vedere i due casi recenti di esplosione violenta, maschile, che nessuna famiglia avrebbe potuto governare.

E allora? Allora, bisogna agire. Non servono sermoni. E non basta neppure invitare chi governa a spendere nell’interesse delle future generazioni, narrando del debito buono e di quello cattivo. Perché anche all’interno delle future generazioni ci saranno privilegiati e vulnerabili e la priorità è dare opportunità ai secondi. E perché il cambiamento si avrà solo se ai giovani trasferiamo potere. Il Forum Disuguaglianze Diversità suggerisce molteplici modi per trasferire potere ai giovani. Ne segnalo tre. Uno per fascia di età.

A bimbe, bimbi, ragazze e ragazzi, dai primi anni di vita ai 14 anni, dobbiamo trasferire sapere e saper fare. Come ci spiegano 500 organizzazioni di cittadinanza riunite nella rete educAzioni, dobbiamo combattere la povertà educativa concentrata a macchia di leopardo in tutto il Paese attraverso strategie territoriali che attorno alla scuola mobilitino una comunità educante. I segnali di nuove relazioni fra insegnanti e genitori emersi durante i momenti più duri della crisi indicano la strada. A essa vanno destinate risorse massicce, fra il 15 e il 20% di quelle della Recovery and Resilience Facility, che assicurino assieme funzionalità, sicurezza e bellezza degli edifici e progetti educativi e di vita, territorio per territorio. Alle giovani e ai giovani adolescenti, che attorno ai 14 anni iniziano a pensare al proprio futuro, dobbiamo trasferire potere finanziario, non subito, ma al traguardo dei 18 anni: un’eredità universale di 15mila euro ciascuno, incondizionata e responsabilizzante, fatta oggetto di discussione e confronto, prima di tutto nelle scuole, nei quattro anni precedenti; finanziata (costa fra 8 e 9 miliardi di euro) da una riforma della tassazione sulle eredità e donazioni, che esenti completamente da tasse chi riceve fino a 500mila euro e poi, in piena tradizione liberale, tassi con significativa progressività sopra quella soglia. È una livella delle opportunità che può aprire strade altrimenti irraggiungibili: le abbiamo ascoltate ieri a Roma, nelle parole di tanti giovani durante la potente iniziativa organizzata nel contesto del Festival ASviS dello sviluppo sostenibile.

E poi ci sono le giovani e i giovani più grandi. Che si affacciano al lavoro. Salario minimo subito, ha detto giustamente la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. Assieme al rafforzamento deciso dei sistemi di ispezione del lavoro e all’efficacia generale dei contratti firmati dalle organizzazioni sindacali e datoriali più rappresentative, è la strada per dare più potere al lavoro e tutelare i nuovi entranti. Ma noi del ForumDD ricordiamo a tutti che c’è un’altra cosa da fare, oggi: trasformare il rinnovamento generazionale della PA – mezzo milione di giovani da assumere in due anni – in una strategia. Curare i concorsi dando centralità alle competenze organizzative, accompagnare la loro entrata, promuovere discrezionalità nelle decisioni amministrative, e poi raccontare con forza tutto questo al Paese per quello che è: un grande trasferimento di potere alle nuove generazioni. Abbiamo ascoltato parole nuove dal ministro per la Pubblica amministrazione, Fabiana Dadone. Ma i tempi sono stretti. È questo, infatti, l’intervento strumentale più potente e urgente per accompagnare il Piano di attuazione dei 209 miliardi europei. Attendiamo le forze politiche alla prova della verità. Retorica o potere per i giovani?

 

Suárez, così immagino. L’interrogatorio

Vorrei veramente esservi quando sarà interrogato Suárez, l’attaccante del Barcellona, quello che tentò di mangiarsi Chiellini cominciando dalla spalla, prelibato boccone (solo Tyson preferiva l’orecchio, ma si sa, era un rozzo). Suárez, quello che voleva andare a giocare nella Juventus in cambio di 10 milioni l’anno (chi non vorrebbe?), quello che per riuscirci doveva diventare italiano (questa non l’ho mai capita: ci sono squadre come l’Inter che sono scese in campo con 11 stranieri).

Insomma, Suárez che per diventare italiano, grazie a una legge salviniana, fatta per fregare gli extracomunitari (quelli poveri), doveva dimostrare di saper parlare italiano (e allora Di Maio?).

Per risolvere i problemi di Suárez e della Juventus (società nota per l’attaccamento alla legalità) bisognava che l’Università per stranieri di Perugia documentasse la capacità dell’assaggiatore di Chiellini di masticare anche la lingua di Dante. Pronti! L’Università preparò un esame ad hoc per Suárez ma non contenta, e forse timorosa, lo sottopose a un corso online tutto per lui di ben quattro giorni. Chi non impara una lingua semplice come l’italiano in quattro giorni? E per non correre rischi, gli vennero comunicate prima anche le domande. Non si sa mai. Quando si sta cercando di far passare per Giacomo Leopardi uno che parla con i verbi all’infinito come facevano parlare gli indigeni africani nei film razzisti del secolo scorso (“Io uccidere te”, “Io avere fame”, “Tu essere buono, badrone”) tutto risulta più difficile.

Per questo vorrei esserci all’interrogatorio di Suárez. Io gli domanderei: “Tu avere imparato a memoria duddi i verbi irregolari?”, “Tu avere scritto duddi i Promessi sposi sul polsino visto che come avere detto dua prof, ‘Tu non spiaccicare una parola di italiano’?”. Lui mi risponderebbe: “No, buana, io sbiaccicare due barole: dieci milioni”.

La vittoria di Zaia in Veneto è merito del virologo Crisanti

Èil trionfatore delle elezioni regionali. Luca Zaia ha conquistato per la terza volta la poltrona di presidente del Veneto, superando per la prima volta nella storia delle Regioni italiane la soglia del 70 per cento e arrivando fino al 76,8 per cento dei voti. Ma non deve inorgoglirsi troppo, l’ex pr di discoteche diventato grande amministratore e politico di rango. A vincere, anzi a stravincere, è stato il professor Andrea Crisanti. Intendiamoci: Zaia ha una sua buona dote di elettori e la Lega in Veneto ha uno zoccolo durissimo di sostenitori. Ma il virologo dell’Università di Padova e dell’Imperial College di Londra c’entra, con la vittoria del 21 settembre. Ha gestito la pandemia da Covid-19 isolando e controllando il primo focolaio di Vo’ Euganeo, tracciando i contatti, moltiplicando i tamponi e impedendo che succedesse in Veneto il disastro che è successo nella regione vicina, anch’essa governata da un presidente leghista come Zaia, Attilio Fontana, che non è riuscito a impedire che la Lombardia diventasse l’area con più contagiati e morti d’Europa.

Gli elettori veneti lo hanno capito e hanno premiato Zaia, votato trasversalmente da destra e da sinistra, premiato, per come ha saputo controllare l’epidemia, anche da tanti elettori che prima del Covid mai avrebbero messo la croce sul suo nome. Ha ottenuto infatti, come candidato presidente, ben 13 punti in più della somma delle tre liste che lo sostenevano (63,9 per cento). La Lega si è fermata al 16,9 per cento, mentre la sua lista personale, “Zaia presidente”, ha raggiunto il 44,6.

Gli effetti del Coronavirus sulla politica sono ancora tutti da studiare. Certo non si può negare che anche Vincenzo De Luca, in Campania, sia stato favorito dalla pandemia. Il 67 per cento dei voti con cui è stato rieletto, impensabile prima dell’esplosione dei contagi, è merito anche della sua gestione dell’emergenza virus, pittoresca (“Mando i carabinieri con il lanciafiamme!”, ha rilanciato via twitter perfino Naomi Campbell), ma efficace. E di certo pagante dal punto di vista mediatico.

E in Veneto? Zaia non ha fatto una gran campagna elettorale. Non ha alzato i toni, non ha calcato i temi politici. È stato fermo e ha raccolto i frutti (trasversali) di una buona gestione della pandemia. E allora bene ha fatto Crisanti a ricordargli come sono andate le cose. Il 28 febbraio, Zaia parlava di “epidemia mediatica”. Perfettamente in linea con tanti altri amministratori e politici, di destra e di sinistra, che a Milano, a Bergamo, a Roma e in tutta Italia sottovalutavano il pericolo e invitavano ad andare avanti come se niente stesse succedendo. Poi ha avuto la lucidità di dar retta all’epidemiologo tornato da Londra a Padova. “In una situazione disastrosa – racconta Crisanti – il presidente mi ha dato retta seguendo l’evidenza scientifica. Se non fosse stato per me, Zaia avrebbe combinato un disastro”. Poi però, come succede quasi sempre ai politici, si è intestato ogni merito, dimenticando l’apporto fondamentale di tecnici e scienziati. Va sempre così: quando sbagliano è tutta colpa loro, quando ottengono risultati è tutto merito del politico. Zaia ha raffreddato i rapporti con Crisanti fin quasi alla rottura. “Si è preso il merito e allora non ho potuto tacere – dice il professore – L’ho trovata una debolezza umana, ma non mi sono fatto mettere i piedi in testa e ho difeso i meriti miei e dell’Università di Padova”. Ed ecco allora un compito per i maghi dei sondaggi: quanto pesa statisticamente Crisanti nel risultato di Zaia? Quanti non lo avrebbero mai votato senza gli effetti della pandemia?

 

 

È osceno che l’università premi fama e ricchezza (di Suárez)

Saranno le indagini e, forse, i processi a dirci se la terrificante vicenda dell’esame di lingua italiana del calciatore Luis Suárez presso l’Università per Stranieri di Perugia sia tecnicamente “corruzione”. Ma, comunque vada a finire, noi professori universitari dobbiamo guardare in faccia la realtà: l’università è corrotta fino al midollo, nel senso di “guasta spiritualmente e moralmente”, per citare il primo dizionario online. Non si tratta di condannare la patologia eventuale (certo, se questa sarà provata le sanzioni accademiche dovranno essere draconiane, cioè anche più severe di quelle della legge), ma di interrogarsi sulla fisiologia che ha reso possibile un simile disastro.

L’università italiana – non sarà mai detto a sufficienza – è strapiena di professori preparatissimi e dediti al loro lavoro: la maggioranza lo è. Ma nessuno (compreso chi scrive) è esente dalla responsabilità di non aver lottato davvero e fino in fondo contro la degenerazione strutturale che emerge nelle conversazioni intercettate dalla Procura di Perugia. Una raffica bipartisan di riforme che trova paragone solo in quelle inflitte (non per caso) alla scuola e ai Beni culturali ha trasformato il tempio del pensiero critico in un mercato di crediti, di iscrizioni e di classifiche giornalistiche. Come ha scritto benissimo Federico Bertoni (in Universitaly. La cultura in scatola, Laterza) “le università non condividono il sapere con i cittadini ma propongono una offerta formativa ai clienti”. Le università pubbliche, per quanto finanziate dallo Stato, sono in concorrenza tra loro, si fanno pubblicità, si piazzano sul mercato. Avere le foto di un calciatore famoso che fa l’esame in Ateneo è il sogno proibito di ogni rettore, e un esame farlocco può apparire un prezzo accettabile, visto il completo smarrimento della missione originaria dell’università. È la stessa logica per cui si conferiscono lauree honoris causa ai più improbabili personaggi famosi, per cui le cattedre si affidano a giornalisti di grido: la stessa logica per cui quella stessa Università per Stranieri di Perugia aveva chiamato come professore ordinario Vittorio Sgarbi (salvo poi recedere) e l’Università di Palermo aveva chiamato Philippe Daverio come ordinario di Sociologia dei Processi Artistici. Conta solo l’immagine (“la competizione, la soddisfazione del cliente, gli indici di produttività”, Bertoni), che infatti gli atenei tutelano con statuti liberticidi che impediscono ai docenti di criticare pubblicamente il proprio ateneo: secondo una logica aziendalistica che dimentica che il primo dovere del pensiero critico è pensare criticamente se stesso.

E, allora, che immagine dà un’università che premia fama e ricchezza, aprendo loro istantaneamente le porte di quella cittadinanza che viene ritardata con ogni mezzo (grazie ai vigenti decreti Sicurezza di Salvini) per i poveri, non importa quanto meritevoli di averla? È terribile l’immagine dello straniero ricco e osannato che diventa trionfalmente italiano mentre gli stranieri che curano i bambini, gli anziani e le case degli italiani non riescono a farlo: e che un’università si presti a tutto questo è semplicemente osceno. Ma, bisogna chiederci, quanto si preoccupano tutte le università italiane del diritto allo studio, della vita fuori sede degli studenti poveri, della carriera dei docenti precari schiavizzati senza ritegno? Che posto ha la giustizia nell’università italiana di oggi?

Dunque, non distogliamo lo sguardo dai fatti di Perugia: perché purtroppo rappresentano con implacabile fedeltà quel che abbiamo permesso che succedesse all’università. Prendiamo la parola contro questo sistema, reimpariamo il dissenso, smettiamola di trattare l’università come un’azienda e gli studenti come clienti: sennò saremo tutti complici, che lo vediamo o no.

 

Ora il Pd deve decidere quale partito essere

Se ancora ve ne fosse bisogno, l’election day ha ci ha fatto vieppiù consapevoli dell’esigenza che i due principali partner di governo, M5S e Pd, devono operare un chiarimento a proposito della portata politica del loro rapporto e che esso, a sua volta, presuppone una riflessione da parte di entrambi circa la propria identità e missione. In questa luce, merita tornare su un episodio solo all’apparenza minore. Alludo all’aspra polemica tra Barca e Bonaccini in tema di reddito di cittadinanza. Barca si è mostrato sdegnato per il riferimento, certo non originale, da parte di Bonaccini, al divano degli scansafatiche, metafora della quale la destra detiene il copyright. Può darsi che la distanza sul merito non sia abissale. In sintesi: difficile negare che sia necessario dotarsi di uno strumento di lotta alla povertà, ma che il reddito di cittadinanza così come congeniato esiga controlli e correttivi. Soprattutto si deve riconoscere che, come era facile prevedere, non abbia dato i frutti sperati nell’accompagnare i beneficiari verso una nuova occupazione. Penso che un po’ tutti convengano sulla formula, francamente generica, del PD quale partito del lavoro. Ma c’è modo e modo di esserlo. Perché, per quanto in forme assai diverse dal passato, il conflitto sociale ancora c’è e chi lo nega o lo rimuove, a dispetto delle apparenze, “prende parte”. Ecco perché le parole e le metafore – il divano – contano, suscitano emozioni, riflettono sensibilità e culture. Specie dentro un partito come il Pd che, palesemente, anch’esso, non solo il M5S, deve venire a capo di contraddizioni irrisolte, deve sciogliere il nodo del proprio profilo identitario, della propria visione circa l’evoluzione del sistema politico e della conseguente politica delle alleanze.

A cominciare, appunto, da quella controversa (emergenziale? occasionale? strategica?) con il M5S. La disputa Barca-Bonaccini, pur occasionale, se contestualizzata, acquista rilievo. Essa va situata nella fase che attraversa il Pd. Alla stagione renziana coronatasi con la disfatta delle politiche del 2018 sono seguite primarie per la leadership vinte da Zingaretti sull’onda di una pressante, ma indistinta domanda di discontinuità, senza una elaborazione e un confronto politico adeguati. Quelli che un tempo si affidavano ai congressi. In un partito tuttora guidato da un gruppo dirigente affollato da singoli e gruppi che avevano condiviso e forse ancora condividono la linea renziana. Anche se non hanno seguito l’ex premier nell’avventura di Italia Viva. Il suddetto scambio polemico evoca un problema politico che di gran lunga lo trascende. Come dimenticare la suggestione del partito della nazione, centrale e centrista, il suo profilo governista, lo schiacciamento sull’establishment, sino alla battuta “sto con Marchionne” non con i sindacati? Una linea che ha condotto a fare del Pd il partito delle aree ztl (i centri urbani) e a una rottura sentimentale ed elettorale con il popolo e le periferie sociali, indotte ad affidarsi alle destre populiste. La stessa teoria politicista della vocazione maggioritaria del Pd, propugnata da Veltroni prima e da Renzi poi, sino alla presunzione dell’autosufficienza, oggi suona anacronistica e velleitaria, con un Pd in crescita ma poco sopra il 20%. Una teoria che, per paradosso, condannerebbe il Pd al suo contrario: una condizione minoritaria cronica. Sorprende che taluni, dentro il Pd, diano mostra di non avere appreso la lezione; che essi sembra vogliano ripercorrere la strada che ha condotto a una storica débâcle. Bonaccini gonfia il petto rivendicando la sua vittoria senza l’alleanza con il M5S, esorcizzando due dettagli: l’Italia non è l’Emilia e nella partita nazionale non si potrebbe, come ha fatto lui, nascondere simbolo e dirigenti del Pd.

Dopo il buon esito delle Regionali che lo hanno rafforzato, dovrebbe essere Zingaretti a prendere l’iniziativa di un chiarimento finalmente inequivoco, non ad attendere che siano i suoi avversari interni a pretenderlo. Senza tale urgente chiarimento, l’unità del Pd che egli rivendica a suo merito si risolverebbe in ambiguo e precario unanimismo. Se non ora quando? Magari avvalendosi del contributo di personalità come Fabrizio Barca e del cartello delle associazioni da lui guidato impegnate sul fronte cruciale della lotta alle disuguaglianze e della transizione ecologica. Un fronte politicamente qualificante, idoneo a conferire spessore programmatico e non meramente tattico all’alleanza con il M5S, nonché utile per mettere a punto i progetti mirati all’utilizzo degli ingenti fondi europei con i quali disegnare il volto dell’Italia di domani.

 

Da Milano a Roma e Napoli la vittoria del Sì scatena i party in piazza

Vincono i Sì, l’Italia esplode. Oltre 48 ore col cuore in gola, poi finalmente in tutto il Paese scoppia la gioia liberatrice. Piazze piene fin dal pomeriggio, centinaia di migliaia di persone a seguire lo spoglio davanti ai maxischermi, e poi la festa, con un mare di bandiere tricolori, caroselli e clacson impazziti, fuochi d’artificio: così la maggioranza degli italiani ha celebrato la vittoria del Sì al referendum sul taglio dei parlamentari.

Roma. Nella Capitale la festa è cominciata dal pomeriggio, al Circo Massimo, dove si erano radunate oltre 200mila persone per seguire lo spoglio delle schede su tre maxischermi. Alla fine, tutto si è trasformato in un groviglio indistinto di bandiere tricolori avvolte da una coltre di fumogeni gialli e rossi, mentre in alcuni punti della città esplodevano i fuochi d’artificio. Traffico paralizzato, dal centro alla periferia, migliaia di persone nelle piazze e nelle strade. Qualche disordine in centro, in piazza Campo de’ Fiori: la polizia ha messo in atto due cariche di alleggerimento dopo essere stata oggetto di lanci di bottiglie. Un pensionato con Reddito di cittadinanza è stato caricato su un cellulare: indossava una Lacoste. In una viuzza presso Montecitorio, davanti a un negozio di magia, un gruppo in festa ha preso di mira, ribaltandola, l’auto dei carabinieri di vigilanza, coi caramba dentro: il proprietario del negozio, agitando una bacchetta magica, li ha trasformati in un gruppo di coniglietti, che poco dopo sono stati arrestati dai carabinieri confusi. In piazza del Popolo, invece, un poliziotto è rimasto ferito alla testa da un petardo lanciato da quell’imbranato di suo figlio, che ha quasi 15 anni (8 secondo la Questura). Diversi gli interventi dei vigili del fuoco per spegnere cassonetti dati alle fiamme. Danneggiati anche due autobus, uno nel quartiere Centocelle e un altro in centro, in via Sant’Andrea della Valle, che però ha preso fuoco da solo e non c’entra coi festeggiamenti.

Milano. Alla vittoria del Sì, i tram in piazza Cinque Giornate si sono scatenati suonando i loro clacson. Migliaia di cittadini hanno affollato piazza Duomo. Anche qui fumogeni colorati e un mare di bandiere tricolore. In molti hanno optato per una cerimonia pagana con sacrifici animali (un party da McDonald’s). Un gruppetto di esaltati ha deciso di arrampicarsi con le bandiere sul monumento con la statua di Vittorio Emanuele: sono stati prontamente aggrediti a beccate e sguaraus da una torma di piccioni.

Napoli. Fuochi d’artificio come se fosse capodanno nella città di De Magistris. Dopo il voto della vittoria, la città è esplosa, a cominciare dalla batteria che era stata preparata in piazza del Municipio. Nelle mani di molti cittadini sventolano i manifestini listati a lutto per la “dipartita” dei parlamentari. Piazza Vittorio, via Caracciolo e Riviera di Chiaia sono state invase, mentre si fa notare una Panda tagliata, senza il tetto, con 15 persone a bordo, verniciata di bianco, rosso e verde, dalla quale vengono sparati bengala verso il cielo. Immancabile la bara, portata da un autocarro e, nel corteo di auto al seguito, ghirlande con scritto “Ai cari mangiasbafo”.

Bologna. Un carosello di macchine e scooter lungo i viali della circonvallazione, in un frastuono di clacson e di grida gioiose. Un mare di gente anche in piazza Maggiore, dove migliaia di persone hanno assistito allo spoglio davanti a un maxischermo. Strada Maggiore e via Indipendenza bloccate da cittadini in delirio, mentre a pochi metri di distanza, in via Gerusalemme, davanti a una casa presidiata da un ingente numero di carabinieri e poliziotti, una cinquantina di ragazzi spernacchiava Romano Prodi (“Voterò No”) con epiteti salaci. In serata, Prodi ha commentato: “Epiteti salaci? Non ho sentito nulla, stavo facendo una seduta spiritica”.

Mail box

 

 

 

Dopo il referendum gestiamo bene il risultato

Sì Marco, un bel sospiro dunque, dopo queste elezioni che hanno visto Il Fatto ormai ultimo baluardo della vera informazione. Una vittoria che va amministrata bene ora! A Otto e mezzo il tuo volto era raggiante e disteso, finalmente testimoniava il “passaggio” avvenuto della tempesta che, speriamo, abbia spazzato via tanti “equivoci” e aperto la strada a una stagione di riforme, a partire da quella elettorale, da cui escano governi più stabili, snelli e affidabili. Gli italiani lo meritano: è tempo che nasca una Nazione libera da vaneggiamenti di autonomie regionali di Zaia, che ha ripreso a soffiare sui temi logori di una Lega del tempo che fu… Grazie mio e di mia moglie. Oggi in edicola acquisteremo 4 copie del Fatto che regaleremo ad amici e parenti.

Maurizio e Paola

 

La parola “putribondo” esiste sul dizionario?

Sarebbe interessante sapere quale significato Travaglio attribuisce al lemma “putribondo”, parola che non esiste nel lessico italiano almeno stando ai dizionari Treccani, Zingarelli, Devoto-Oli.

Cesare Sartori

 

Caro Sartori, “putribondo” è un aggettivo scherzoso, che associa “putrido” e “nauseabondo”, coniato da Pier Francesco Loche in “Avanzi” e poi diventato di uso comune, spesso associato a “figuro” ed entrato a far parte di molti dizionari.

M. Trav.

 

Grazie per il vostro lavoro: festeggiamo

Grazie per l’informazione. Grazie per non sbattere la cronaca dolorosa in prima pagina. E ora festeggiamo.

S. S.

 

Diritto di replica

Gad Lerner ha letto il mio intervento su Repubblica a proposito del decreto Dignità e ha deciso che la mia proposta – abolire quel provvedimento – sarebbe un “vaccino letale”. La sua è un’opinione rispettabile ma infondata. Evito di rispondere alla cattiveria con cui condisce il suo commento e ne approfitto per spiegare alcune cose: l’organizzazione che ho guidato dal 2014 al 2020, la Fim Cisl, ha sempre detto chiaramente che il decreto Dignità non avrebbe fermato le delocalizzazioni né agevolato le trasformazioni a tempo indeterminato. Il decreto Dignità ha provocato solo la riduzione del periodo per cui si resta a termine e nei dati da me citati si vede che non sono aumentati i contratti a tempo indeterminato, anche nel periodo pre-Covid. In sostanza vi è stato un effetto di sostituzione. Posizione sostenuta anche dal Pd… L’equazione per cui: dare voce ai ragazzi che furono lasciati a casa con l’abolizione dei voucher e le centinaia di migliaia che sono a casa per il decreto Dignità uguale stare con Confindustria non mi intimorisce. Le idee buone e quelle meno buone sono trasversali, per fortuna, in questo pianeta. Il progresso concreto non è mai il risultato di un salto nel vuoto: nasce dalla fatica negoziale, si costruisce mattone dopo mattone. Lerner mi indica come nemico e cerca di screditarmi e delegittimarmi. La storia dovrebbe insegnare a chi indica nemici e non idee da battere che questi atteggiamenti hanno portato sempre a spegnere la luce della dialettica democratica, non sono utili a nessun confronto. C’è quasi un milione di ragazzi/e a casa grazie al Covid e a quel decreto, penso sia più importante. Sono comunque disponibile a un dibattito pubblico con Gad Lerner sul decreto Dignità per entrare nel merito e lasciare da parte lo scontro personale che a me personalmente non interessa.

Marco Bentivogli

 

Accetto volentieri il confronto pubblico che mi propone Marco Bentivogli. In quella sede spero di convincerlo che abolire il decreto Dignità non sarebbe un “vaccino” ma un veleno.

Gad Lerner

 

Quanto attribuito a Mario Lorini, Presidente Anec, nell’articolo pubblicato lo scorso 19 settembre, dal titolo “Il ricatto di Anec. Siete amici del Cinema America? Addio sponsor”, a firma di Tommaso Rodano, è errato e lontano dal vero in quanto Mario Lorini è il Presidente di Anec e non di Anec Lazio e comunque Anec rimane estranea ai fatti ivi riportati, in particolare all’aver asseritamente posto un veto ad una presunta partnership tra Anec Lazio e Radio Rock in quanto quest’ultima avrebbe rapporti commerciali con il Cinema America. In difetto, dovremo procedere a tutelare gli interessi dei nostri assistiti in ogni competente sede, anche al fine del risarcimento dei danni subiti.

Avv. Chiara Dellacasa legale Anec e pres. M.Lorini

 

Prendiamo atto della smentita di Lorini. Non ignoriamo il fatto che Lorini sia presidente di Anec e non di Anec Lazio, ma il suo nome è stato riportato nell’articolo per quanto ci è stato riferito dalle fonti che abbiamo consultato. Resta il fatto che le parole di Arcangeli (segretario di Anec Lazio) sul “veto assoluto” nei confronti di chi sponsorizza il Cinema America non possono essere né smentite e né fraintese. Non sarebbe interesse di Anec, piuttosto, tutelarsi dalle imbarazzanti espressioni di Arcangeli?

To. Ro.

 

I nostri errori

Ieri, ne Il peggio della diretta a pagina 15, si lasciava intendere che Claudio Cerasa, direttore del Foglio, fosse per il No al referendum, quando invece ha votato Sì. Ce ne scusiamo con l’interessato e con i lettori.

Fq