Così l’Italia per ora frena la seconda ondata covid

Niente coronavirus, siamo inglesi. Quindi: prego seconda ondata. Invece, facendo gli scongiuri, non ancora all’ordine del giorno in Italia. Fanno discutere le parole di Boris Johnson alla Camera dei Comuni in risposta alla domanda del deputato laburista Ben Bradshaw: “Perché in altri Paesi, come Italia e Germania, le cose vanno meglio?”. Così il primo ministro di Sua maestà: “C’è un’importante differenza fra il nostro Paese e molti altri nel mondo, poiché il nostro è un Paese che ama da sempre la libertà. Se guardiamo alla storia degli ultimi 300 anni, ogni avanzamento, dalla libertà di parola alla democrazia, è venuto virtualmente da questo Paese. È quindi molto difficile chiedere al popolo britannico di obbedire uniformemente alle direttive oggi necessarie”. Si tratta dello stesso Boris Johnson che lo scorso aprile finì addirittura in terapia intensiva, attaccato all’ossigeno, proprio a causa del SarsCov2. Dall’Italia il viceministro alla Salute Pierpaolo Sileri replica: “Ho amici italiani a Londra che sono stati anche presi in giro in maniera confidenziale perché portavano le mascherine”. E ieri i nuovi contagi registrati Oltremanica sono stati più di 6.000, contro i 1.640 in Italia, 248 in più rispetto a martedì, ma con un incremento di 16.393 tamponi. Il “vantaggio italiano” lo spiega così Andrea Crisanti, artefice del “modello Vo’ Euganeo”, ormai considerato uno dei campioni più validi nella lotta al Covid: “La differenza è nel tracciamento, il nostro è un network testing, significa che se lei viene trovato positivo il test sarà fatto ai suoi familiari, agli amici che ha incontrato e a tutti i suoi colleghi”. Un sistema di cerchi concentrici. “Mentre gli altri Paesi, come il Regno Unito, si limitano a un contact tracing mirato ai singoli contatti”, interrompendo troppo presto la ricerca.

È la soglia dei 5.000 contagi al giorno quella che, nella peggiore delle ipotesi, non andrebbe superata per il virologo Crisanti: “Bisogna mantenere i contagi sotto i 2.000 il più a lungo possibile. Ma se mantenessimo tra tre settimane, con ripresa del mondo produttivo e della scuola ormai avviata, i 5.000 contagi, non di più, vorrebbe dire che abbiamo scongiurato una seconda ondata; invece, se si schizzasse a 10/15 mila significherebbe mandare all’aria il tracciamento, avere problemi di disponibilità dei tamponi e ospedali con terapie intensive di nuovo in grande difficoltà”.

Seconda ondata, quindi, non scongiurata ma di sicuro ancora rinviata rispetto ad altri grandi Paesi europei come Regno Unito, appunto, Francia e Spagna. Per il Financial Times l’Italia, a differenza degli altri, ha imparato “la dura lezione e sa tenere sotto controllo l’epidemia”. I motivi per il giornale inglese sono: “L’Italia è stato il primo Paese in Europa ad affrontare l’emergenza, il sistema sanitario e il governo hanno avuto più tempo per pianificare la fase post-lockdown e l’allentamento delle misure restrittive è stato più graduale, consentendo al governo maggiore agilità nel reintrodurre le restrizioni, laddove necessario”. E hanno inciso anche “l’alta adesione dei cittadini alle regole e severi controlli da parte delle autorità”, oltre a un “efficace sistema di test e monitoraggio”; insomma, scrivono a Londra, “c’è fiducia sul fatto che gli sforzi dell’Italia possano tenere il virus sotto controllo”.

E se lo stesso Crisanti invita a incrementare i tamponi quotidiani, il ministro Roberto Speranza risponde alla Camera: “Nelle prossime settimane li aumenteremo ancora. E i test rapidi saranno effettuati anche fuori dagli aeroporti, a cominciare dalle scuole”.

E così in Italia l’emergenza è valutata tanto sotto controllo che il viceministro Sileri ieri ha annunciato che si potrà presto ritornare “a un terzo della capienza negli stadi, 20/25 mila persone all’Olimpico di Roma”. Nonostante proprio la capitale abbia numeri non del tutto rassicuranti: ieri 135 nuovi casi (195 in tutto il Lazio) con 32 pazienti nelle terapie intensive. Un altro virologo, Fabrizio Pregliasco dell’Università di Milano, avverte: “Quella di Roma è una situazione da monitorare e tenere sotto controllo”.

E dove tutto sarebbe iniziato, nella sterminata Cina? Come vengono scongiurate nuove ondate? Lo racconta un cittadino italiano, Hong Tang, 40 anni, bloccato da febbraio a Hong Kong, senza poter riabbracciare a Shanghai la moglie Lingling e il figlio Lorenzo di 4 anni: “Lavoro a Hong Kong per una multinazionale con sede centrale in Italia. Eravamo ritornati a Shanghai per il capodanno cinese a inizio febbraio, poi io andai a Francoforte per lavoro e sempre per la mia professione tornai a Hong Kong. Il 26 marzo la Cina ha sigillato tutto e non ho più avuto la possibilità di rientrare dalla mia famiglia, che spero di rivedere almeno per Natale. Sono in un limbo perché a 32 anni vivevo in Italia già da 19 anni e ottenni la cittadinanza. In Cina non è previsto il doppio passaporto, quindi ottenuto quello italiano ho perso quello cinese. Sono residente e lavoro a Hong Kong da anni e non posso entrare in Cina finché non riapriranno a tutti”. Hong Kong è alla fine della terza ondata, con una decina di casi d’importazione al giorno. Shanghai, 20 milioni di abitanti, è Covid free da 5 mesi. Se domani riaprissero cosa dovrebbe fare l’ex cinese Tang per rientrare? “Cinque giorni prima della partenza farei il test a Hong Kong, poi mi verrebbe assegnato un codice identificativo che va mostrato insieme alle dichiarazioni sanitarie all’arrivo in Cina. Quindi mi farebbero un nuovo tampone e, se negativo, verrei mandato per due settimane in quarantena in uno di questi alberghi”, spesso fatiscenti o comunque non proprio confortevoli, “requisiti dallo Stato”. “Se al dodicesimo giorno il tampone è negativo al 14° ti fanno andare a casa”. In caso di positività? “Ricovero immediato, anche senza sintomi, in uno degli ospedali modulari costruiti per il Covid”. Questa è la via cinese contro il coronavirus.

Una riforma con preferenze: c’è il sì di M5S, LeU e Meloni

Eppur si muove. Dopo il Sì al referendum sul taglio dei parlamentari, entro 60 giorni il governo dovrà ridisegnare i collegi applicando il Rosatellum alla nuova forma del Parlamento, ma nel frattempo si apre il grande cantiere della nuova legge elettorale. Il testo base del “Brescellum” – un proporzionale puro con soglia di sbarramento al 5% e con le liste bloccate – è stato approvato in Commissione con i voti di Pd e M5S (LeU e Italia Viva si sono astenuti) e ora la maggioranza giallorosa deve trovare un accordo politico, magari anche con le opposizioni. Vediamo le posizioni dei partiti.

M5S. I 5S spingono per un sistema proporzionale con soglia di sbarramento al 5% e da giorni punta sulle preferenze e sull’abolizione delle pluricandidature. Le liste dell’attuale “Brescellum” sono simili a quelle del “Rosatellum” (corte e bloccate) ma il M5S vuole abolire i nominati.

Pd. Nonostante i padri nobili stiano facendo pressione per non tornare a una legge proporzionale (ieri Romano Prodi all’ Avvenire ha detto che “condannerebbe l’Italia all’instabilità”) i dem sono per un proporzionale con liste corte (da 4 a 8). La soglia deve rimanere al 5% con diritto di tribuna per i piccoli partiti. Al momento i dem non si esprimono sulle preferenze.

LeU. Il piccolo partito si è astenuto perché contrario alla soglia di sbarramento al 5% che li terrebbe fuori dal Parlamento. LeU chiede di abbassarla al 3%, ma il 4% potrebbe essere un buon compromesso con il diritto di tribuna. Sulle preferenze il partito è d’accordo.

Italia Viva. In commissione i renziani si sono astenuti per il dissenso sul diritto di tribuna e poi Matteo Renzi ha rimesso in discussione l’impianto proporzionale. Oggi però ha cambiato idea: “Io sarei per il maggioritario, ma la soglia di sbarramento al 5% va bene”, dice.

Lega. Matteo Salvini, pur pensando che il proporzionale sia “la morte sociale del Paese”, vuole andare a votare il prima possibile. Anche se è favorevole al maggioritario: “La legge più chiara è quella delle Regioni, vince chi prende un voto in più”, dice.

Fratelli d’Italia. Giorgia Meloni invece ha chiuso ogni possibilità che FdI appoggi il proporzionale: “È una legge salva-inciucio – ha detto – Tutte le più grandi democrazie funzionano con il maggioritario”. Sulle preferenze invece FdI ha annunciato una battaglia per sostenerle.

Forza Italia. A parole FI fa la voce grossa contro il proporzionale, ma in realtà gli va benissimo per non essere spazzata via. Non sosterrà il governo, ma nemmeno si opporrà.

“Basta con le liste bloccate, gli eletti scelti dai cittadini”

Di seguito pubblichiamo l’appello di dieci autorevoli costituzionalisti del Sì e del No per chiedere al Parlamento di approvare una legge elettorale che abolisca le liste bloccate.

Visto il risultato del referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari, come professori di Diritto costituzionale, riteniamo che sia indispensabile procedere rapidamente verso la definizione di una nuova legge elettorale.

Tra di noi, alcuni hanno votato Sì e altri No, ma ora riteniamo che debba essere comune il nostro impegno per sollecitare una legge che favorisca la rappresentanza e il pluralismo politico e territoriale, da anni sacrificati.

Essenziale è un sistema elettorale che consenta alle persone di individuare e scegliere chi mandare in Parlamento, instaurandovi un effettivo rapporto rappresentativo e potendo far valere la loro responsabilità politica. In questo modo si potrà dare una migliore qualità alla rappresentanza e favorire anche una maggiore efficienza delle Camere.

Da troppo tempo le nostre leggi elettorali (“Porcellum”, “Italicum” e “Rosatellum”) hanno imposto sistemi di liste bloccate e la proposta oggi in discussione in Commissione Affari costituzionali della Camera non può rischiare di cadere nello stesso errore, né in quello di privare molti elettori di rappresentanza con soglie troppo elevate. La Corte costituzionale (sentenze n.1 del 2014 e n.35 del 2017) è stata chiara: niente lunghe liste bloccate. Partendo da questo punto, riteniamo essenziale favorire un’effettiva scelta da parte degli elettori, valorizzando i principi costituzionali, superando liste bloccate e candidature multiple.

Con questo appello intendiamo rivolgerci a tutte le forze politiche presenti in Parlamento perché si impegnino nell’approvazione di una legge elettorale che restituisca una maggiore, rappresentanza, invitando i colleghi che condividano le nostre posizioni a unirsi alle nostre richieste.

“Non credo più nel Parlamento”

Se in politica i simboli contano, l’invito di David Sassoli a Beppe Grillo per un evento all’Europarlamento è l’ultima benedizione a un percorso giallorosa per cui entrambi si sono spesi.

L’incontro dura poco più di un’ora e riunisce, oltre a Grillo e al presidente del Parlamento Europeo, anche Gunter Pauli, teorico di un modello di sviluppo sostenibile che ha chiamato “blue economy”.

A far più rumore – tanto che Pd, Italia Viva e Forza Italia gridano allo scandalo– non è però l’intervento di Grillo sull’economia, ma quello sulla democrazia rappresentativa. Nonostante il Sì al taglio degli eletti sia una vittoria soprattutto del M5S, Grillo ridimensiona gli entusiasmi: “Il referendum è il massimo dell’espressione democratica. Io però non credo più in questa forma di rappresentanza parlamentare, la democrazia diretta è l’evoluzione della democrazia”. Poi una vecchia suggestione: “Perché non pensare a rappresentanti estratti a sorte? Con gente che si rende disponibile per un anno per portare il proprio contributo in politica”.

Sassoli non appare entusiasta, ricorda di dover “tener conto” della “centralità delle nostre istituzioni” pur riconoscendone “la necessità di adeguarne gli strumenti”. Qualunque cosa significhi, con Grillo c’è molta più sintonia quando si parla del ruolo dello Stato in economia.

Secondo Grillo, è ora di un deciso interventismo nei settori strategici: “Nelle telecomunicazioni, nel’energia, nella scuola, nella mobilità, nella sanità, è obbligatorio che lo Stato intervenga”. Così anche Sassoli: “L’idea di una regia pubblica è importante. Solo le istituzioni politiche possono indicare la strada da seguire in economia”. Senza dimenticare, come rimarca Grillo la centralità del sostegno alle persone attraverso la creazione di un “reddito universale.”

C’è anche tempo per le lodi a Ursula von der Leyen, eletta presidente della Commissione coi voti di Pd e 5 Stelle: “Ha detto cose straordinarie – è la versione del comico – finalmente si parla di energie rinnovabili, di green economy”. Nulla su cui Sassoli possa eccepire, a differenza di quanto Grillo dichiara sul Recovery Fund: “State costruendo una società del debito: ‘datemi debito illimitato e cambio il mondo’. È un’economia su presupposti che non stanno in piedi”.

Addio Dublino: rimpatri a carico di chi non accoglie

“Dublino, Addio! (o quasi)”. Non è il titolo di un’opera postuma di James Joyce: è uno dei pilastri su cui poggia il Patto su migrazione e asilo presentato dalla Commissione europea ai governi dei 27 e al Parlamento europeo. Il piano dell’esecutivo di Bruxelles prevede un ammorbidimento della responsabilità del Paese di primo ingresso sui richiedenti asilo, attualmente sancita in modo rigido dal Regolamento di Dublino, che non viene abolito, ma che acquisisce elementi di flessibilità; e un meccanismo di solidarietà, che sarà vincolante sia in termini di ricollocamenti dei profughi che possono ottenere asilo nell’Ue, sia in termini di rimpatri accelerati e sponsorizzati dei migranti che non hanno titolo per restare nell’Ue.

L’incendio nel campo profughi di Moria sull’isola di Lesbo, in Grecia, dove c’erano 13 mila persone, ha acceso le coscienze dell’Europa. C’è un “cambio di ritmo” delle Istituzioni europee sulla questione immigrazione, dopo che il tema era rimasto sotto traccia per sei mesi, sepolto sotto l’emergenza coronavirus. La Commissione ha dunque anticipato di una settimana la presentazione del pacchetto di proposte cui stava lavorando e vuole – assicura la presidente Ursula von der Leyen – “stringere i tempi della discussione sul Patto”. C’è un po’ di cosmesi, in tutta questa sollecitudine: il piano in sé non avrà nessun impatto positivo, almeno finché le proposte della Commissione non diventeranno decisioni di governi e Parlamento. E ci vorrà del tempo perché ciò accasa. Le dichiarazioni baldanzose della von der Leyen – “ricostruiremo la fiducia” nell’Ue – e del commissario Margaritis Schinas – “missione compiuta” – vanno lette con cautela: l’Ue non ha abolito i migranti, come qualcuno credette di fare a suo tempo con i poveri. Il tempo delle soluzioni ‘caso per caso’ sta però per scadere: per i salvati in mare, ci sarà un qualche meccanismo di redistribuzione automatico; i rimpatri andranno decisi in tre mesi; se ne negozierà con i Paesi terzi; e ci sono piani d’emergenza per fronteggiare crisi acute. Le prime reazioni lasciano presagire posizioni dialettiche. Per l’Italia, il premier Conte twitta: “Il Patto è un importante passo verso una politica migratoria davvero europea. Ora bisogna coniugare solidarietà e responsabilità. Serve certezza su rimpatri e redistribuzione: i Paesi di arrivo non possono gestire da soli i flussi a nome dell’Europa”.

La Francia gioca d’anticipo e fa appello a una maggiore “solidarietà europea” sul trattamento delle richieste d’asilo e sui rimpatri: “Non c’è motivo che solo Italia, Francia e Germania, grossomodo con la Grecia, condividano questa solidarietà”, dice il ministro dell’Interno Gérald Darmanin, sostenendo che “la questione migratoria si risolve solo a livello europeo”. Berlino, Atene, Madrid, Lisbona, il Benelux, le Capitali del Nord ci staranno. Ma i Paesi del Gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Rep. Ceca, Slovacchia) e i Baltici diranno no a qualsiasi obbligo ad accogliere sul loro territorio richiedenti asilo giunti in altri Paesi Ue. Riluttanze ci saranno da parte di Austria e Croazia. Il ministro dell’Interno ceco Jan Hamacek è il primo a uscire allo scoperto: Praga “rifiuta qualsiasi obbligo di ricollocamento di migranti… Siamo contrari…”. La proposta della Commissione non prevede, in realtà, “quote obbligatorie per i ricollocamenti”: ci sono sì le quote, ma si potrà scegliere se partecipare con i ricollocamenti o i rimpatri, sponsorizzati o con un mix di entrambi”, spiega la commissaria agli Affari interni, Ylva Johansson, prospettando margini di negoziato.

“Contratto con il Pd per le Comunali 2021 insieme alla Raggi”

Il telefono in mano, un faldone sul tavolino. “Alcuni fanno i commentatori, ma noi che siamo al governo dobbiamo affrontare i problemi”. Dentro la Camera, la viceministra dell’Economia, la 5Stelle Laura Castelli, dice la sua su parecchi temi.

Nelle Regionali il M5S è andato male: nel Nord siete quasi spariti. Perché?

Nelle Regionali per noi il trend è stato sempre più o meno lo stesso. Su certi territori si poteva fare un lavoro assieme ad altre forze politiche, in linea con il progetto di governo nazionale, ma si è iniziato troppo tardi. Comunque in Campania abbiamo confermato i 7 consiglieri regionali e siamo andati al ballottaggio in Comuni importanti. Proprio quelli in cui abbiamo fatto un’alleanza con il Pd.

Avete perso voti anche rispetto alle urne del 2015, ovunque.

Di certo ha inciso anche il Covid. I cittadini hanno premiato dappertutto i governatori uscenti per la gestione della pandemia.

L’Istituto Cattaneo attesta che in Toscana metà dei vostri elettori hanno votato il candidato dem, mentre in Puglia lo ha fatto il 20 per cento. La vostra base ha scelto il voto utile.

Ripeto, si doveva fare un ragionamento per tempo, partendo dai temi. Poi si parla delle persone.

C’è un tema di selezione della classe dirigente?

In alcuni casi sì. La piattaforma Rousseau non può selezionare i candidati in base a quanti eventi organizzano. Non funziona.

Di Maio ripropone un tavolo con il Pd per le Comunali del 2021. Dovete stabilizzare un’alleanza a sinistra, ma come?

Dobbiamo passare da un’alleanza di necessità a un’alleanza di visione, basata sul futuro del Paese dei prossimi dieci anni. E in quest’ottica sarà fondamentale la gestione delle risorse del Recovery Fund. Il tavolo non si farà per spartire nomi. Nel Movimento c’è chi ha lavorato ai contratti di governo, un esperimento senza precedenti nella politica italiana, e agli accordi territoriali, e sa come si costruisce un determinato modello. Va fatto un contratto sui programmi, con linee generali per tutte le grandi città e punti specifici per ogni centro.

Anche nella sua Torino? In base alle vostre regole la sindaca Chiara Appendino, essendo stata condannata in primo grado, non potrà ricandidarsi.

Nelle città dove governiamo abbiamo risolto problemi pesanti. A Torino abbiamo chiuso campi rom con problemi di sicurezza, riconvertito aree industriali, rimesso in ordine i conti. Si deve proseguire in questa direzione, partendo appunto dai temi.

A Roma Virginia Raggi si è già ricandidata. E il Pd è furente.

Anche Virginia ha fatto un grande lavoro, assieme abbiamo lavorato sul debito di Roma. Si può aprire una fase 2.0 per la città imparando anche dai problemi che non abbiamo risolto. E sempre con lei, Virginia.

La direzione è verso l’intesa con i dem, ma lunedì Alessandro Di Battista ha parlato di crisi identitaria del M5S. E anche Roberto Fico ha sollevato il tema.

Non credo che il Movimento abbia una crisi d’identità, forse ce l’ha qualcuno del Movimento. Più che il problema di identità va affrontato quello relativo all’organizzazione, che in alcuni frangenti non ha funzionato.

Anche Di Maio voleva il M5S ago della bilancia, e ora si sta ricredendo, no?

Non è così. Se sei forza di governo devi per forza trovare soluzioni. Questa esperienza ci staconsentendo di realizzare il decreto dignità, la legge anticorruzione, il superbonus. E comunque Di Maio è stato il primo ad aprire ad accordi nei ballottaggi.

Per Fico il M5S che era post-ideologico deve diventare ideologico.

Non sono d’accordo. La nostra storia al governo e nelle amministrazioni delle città dimostra che quando devi risolvere i problemi non c’è ideologia che tenga. Piuttosto, abbiamo avuto difficoltà a mostrare all’esterno il lavoro che facevamo. Diciamo che non siamo riusciti a trasmettere le informazioni a tutti i livelli su quanto di buono è stato fatto.

Secondo lei non funziona neanche Rousseau, giusto?

Doveva fidelizzare gli iscritti e favorire la comunicazione dei nostri risultati. Così avevo capito. Non mi pare ci sia riuscita fino in fondo.

Come si fanno gli Stati generali?

Serve innanzitutto un momento di ascolto reciproco, in cui l’attivista possa parlare con il ministro.

Come?

Il metodo lo sceglieranno i delegati. Ma va fatto. Una volta emersi i problemi operativi, andranno individuate le modalità per affrontarli, con tempi precisi.

E poi? La segreteria collegiale?

Con tutte le questioni da affrontare, serve un’organizzazione allargata, che risponda di ciò che fa.

Lei ne vorrebbe fare parte?

Ho già un ruolo molto impegnativo.

Il rimpasto di governo: serve?

Non credo che ce ne sia bisogno.

Per Beppe Grillo con il Recovery Fund si costruisce “una società del debito”. Che ne pensa?

Questo è debito buono, è per investimenti. Dobbiamo tornare a far correre il Paese, garantire, sviluppo, innovazione, sostenibilità e una riconversione verde.

Ora la base 5S vuole una “collaborazione” con Emiliano e Giani

Le grandi sconfitte ora tentano il dialogo. In Puglia e in Toscana, dove le candidate del M5S Antonella Laricchia (nella prima foto) e Irene Galletti (nella seconda foto) hanno rifiutato un accordo con il Pd che avrebbe evitato molti patemi d’animo ai governatori Michele Emiliano ed Eugenio Giani, adesso si apre uno spiraglio tra Pd e M5S in vista della prossima legislatura. Quello del M5S sarà un ruolo di opposizione, ma le sorprese non sono escluse. In Puglia, dopo i tentativi andati a vuoto durante la campagna elettorale, Emiliano continua a sedurre i grillini: “Se vogliono inserirsi nel nostro progetto, le braccia sono aperte” va dicendo il governatore. E Antonella Laricchia, che oggi sarebbe potuta essere la vicepresidente, per la prima volta si è mostrata aperturista pubblicando un post su Facebook per chiedere agli elettori il da farsi: “Cosa non va? – ha chiesto ai propri follower – Volete il M5S solo come forza di opposizione? Come pungolo e controllo di chi governa? Ditemi come la pensate così da capire verso quale strada deve andare il M5S e in che modo dobbiamo portare la vostra voce nelle istituzioni regionali”.

Nei commenti i suoi seguaci si spaccano tra chi la sostiene e chi invece le chiede di provare a dialogare con Emiliano “come avviene a Roma”. “Se si vuole incidere sul cambiamento occorre studiare un metodo di alleanze” scrive Oronzo. Gli fa eco Antonio Ladisa secondo cui “in futuro dovremo fare anche noi alleanze – scrive – Senza scandalizzarci perché lo abbiamo fatto a livello nazionale e stiamo governando benissimo”. Poi c’è chi la invita ad accettare l’offerta di Emiliano di entrare in giunta e chi la attacca: “Cara Antonella – va giù duro Nicola Chiarappa – la base si è già espressa: l’indicazione era che se era possibile ci si doveva alleare”.

In Toscana, invece, dove la candidata Galletti ha preso il 6% e una parte degli elettori M5S sono andati su Giani, la partita potrebbe essere più aperta: al momento sembra impossibile un accordo post-voto (anche se a qualcuno nel M5S non dispiacerebbe l’assessorato al sociale), ma i grillini potrebbero avere un ruolo decisivo in consiglio regionale. La maggioranza di centrosinistra conta su tre soli voti di scarto (24 su 21) e così su alcuni temi chiave, come l’ambiente e il sociale, i due consiglieri grillini potrebbero essere decisivi. Galletti spiega che “il M5S incalzerà Giani che si è riscoperto green negli ultimi dieci giorni”. Il neo governatore sembra starci: “Dialoghiamo” ha detto dopo la vittoria. Un primo accordo tra Pd e M5S si potrebbe materializzare a Cascina, feudo di Susanna Ceccardi. Qui Galletti potrebbe dare indicazione agli elettori (il grillino Fabio Poli ha preso l’8%) di votare al ballottaggio il candidato di centrosinistra Michelangelo Betti, in cambio di un posto in regione: se non la vicepresidenza del consiglio, l’ufficio di presidenza. Un ruolo che le permetterebbe di dare un’impronta ai lavori del consiglio.

Crisi M5S: Crimi diserta l’assemblea, la Taverna si sfoga contro Casaleggio

Nel M5S del settembre 2020 c’è un capo reggente, Vito Crimi, che diserterà l’assemblea congiunta sugli Stati generali, il congresso che lui dovrà convocare e plasmare. C’è una veterana, Carla Ruocco, che indica l’abisso: “Il rischio scissione esiste”. E c’è la vicepresidente del Senato, Paola Taverna, che va dritta contro Davide Casaleggio e la sua piattaforma Rousseau: “Hanno mandato un avviso di procedura per le rendicontazioni a me, ma non mi presenterò con questo fardello in assemblea”, scandisce al Fatto. In tre immagini, il clima nel M5S crollato nelle urne delle Regionali e che oggi riunirà senatori e deputati, collegati tra loro via web. Si discuterà su varie opzioni proposte da Crimi: se eleggere subito un capo o una segreteria oppure un comitato organizzativo del congresso, isu tempi e modi del percorso. Ma Crimi nell’assise non ci sarà. “L’hanno convocata i capigruppo, che devono raccogliere le indicazioni da girare poi al reggente, come da Statuto” spiegano. Di certo Crimi è stufo, vuole lasciare quanto prima. E per questo voleva subito una nuova governance. Un malumore evidente, nel giorni in cui Beppe Grillo da Bruxelles difende Rousseau, che da statuto si occupa delle sue cause legali, quelle del Garante: Lì si può fare un referendun alla settimana”. Ma in serata ecco un video della Taverna: “Ad oggi ho restituito 309mila euro, ma da due mesi finisco sui giornali come colei che non versa. Ho cercato un’interlocuzione con il gestore del sito tirendiconto.it ma non ho avuto riscontro”. Non ci sta, la senatrice: “Io restituisco sempre i 300 euro alla piattaforma tecnologica”. Ce l’ha con Casaleggio: “Nessuno è al di sopra delle regole”. E se ne parlerà in assemblea, dove molti chiederanno il coinvolgimento degli iscritti e dei territori. “Servono ruoli e tempi certi” avverte ancora Taverna. Nei palazzi però già si muovono i leader e relative squadre.

 

 

Di Maio il pragmatico a cui (ora) va bene il Pd

A referendum appena vinto, ha rilanciato un tavolo con i dem per le Comunali 2021. Martedì sera era già di nuovo a Pomigliano, il suo Comune, dove Pd e M5S corrono assieme e dove andranno alla ballottaggio. È il “modello Di Maio” come lo già definiscono i suoi. Vuole in fretta una nuova leadership, una segreteria larga dove potrebbe anche non entrare, tenendosi le mani libere da leader di fatto. Ha rotto con Casaleggio, ma vorrebbe un accordo (al patron di Rousseau hanno offerto un contratto di servizio, lui ha rilanciato, ma sostengono sia una controproposta inaccettabile). Ha tra i fidatissimi Laura Castelli e Giancarlo Cancelleri. Ascoltato anche il romano Francesco Silvestri. Con gli storici “dioscuri” Alfonso Bonafede e Riccardo Fraccaro i rapporti sono tornati saldi.

 

 

Fico l’ortodosso che adesso vuole stare in campo

A sorpresa, martedì ha detto di essere pronto a entrare in segreteria: “Se c’è da dare una mano ci sono”. A Roberto Fico ultimamente hanno chiesto in molti di entrare in partita. Lui è disposto, ma vuole Stati generali sui temi, lunghi, “permanenti”. E che il Movimento “in crisi identitaria” riscopra valori fondativi, tra cui la legge sull’acqua pubblica e la riforma della Rai, suoi totem. Con Di Maio si incontra sulla rotta che porta al Pd: nuova per il Pd, naturale per il presidente “rosso”. Lo ha detto chiaro: “Eravamo post-ideologici, dobbiamo diventare ideologici”. Va bene anche così ai dimaiani, pronti a un’intesa per stabilizzare tutto. E isolare Di Battista. Tra i fedelissimi Giuseppe Brescia, il ministro Federico D’Incà, il vicecapogruppo alla Camera Riccardo Ricciardi.

 

 

Di Battista l’eretico anti-alleanze

Quelle parole contro il voto utile o disgiunto dal palco di Bari sono stati un autogol, lo dicono tutti. Ma Di Battista è ancora popolare nella base, e rivendica la sua linea, per un M5S terzo alla vecchia maniera. È ormai in guerra totale contro Di Maio ma nel rimarcare il fallimento in Campania ha punto anche Fico. È lui a urlare più forte sulla crisi d’identità. Vuole un congresso “vero”. Poi, anche lui, una segreteria, in cui entrare da primus inter pares. Non crede alla scissione, ma è l’unico rimasto vicino a Casaleggio. I suoi sodali sono Ignazio Corrao, Max Bugani, Barbara Lezzi.

 

Ce la pagherete

Non capire come voterà il Paese è umano. Ma non capire come ha votato il Paese è diabolico. Eppure ci riescono in tanti. Lasciamo perdere gli opinionisti, che capiscono benissimo ma devono scrivere l’opposto per contratto. Ma i politici sul voto degli elettori dovrebbero costruire il loro futuro. Cos’hanno detto gli elettori? Intanto che i parlamentari sono troppi, in perfetta quanto rara sintonia col Parlamento che aveva approvato – pur obtorto collo, su pressione e per paura dei 5Stelle – quella riforma col 98%. Quindi, se quella riforma era populista, ha stravinto il populismo e tutte le analisi sulla fine o sul calo del populismo sono baggianate. Ora, che chi puntava al No finga di non accorgersene, passi. Ma che non se ne accorga chi puntava al Sì è deprimente. Per questo l’uscita di Di Battista che frigna per “la più grande sconfitta M5S di sempre”, è suicida sia nei tempi sia nei contenuti. Nei tempi, perché il referendum è stato una delle più grandi vittorie M5S di sempre e andava festeggiato almeno per un paio di giorni, anziché fare gné gné a Di Maio e agli altri che, diversamente da Dibba, si sono spesi nella campagna del Sì. Nei contenuti, perché le Regionali i 5Stelle le perdono sempre, da quando sono nati, anche quando vincevano le Politiche nel 2013 e le stravincevano nel ’18 e intanto venivano battuti in Sicilia e Lazio.

Le Regionali, per quanto appaia bizzarro, decidono chi governa le singole Regioni, così come le Comunali i Comuni. Gli elettori votano per i candidati presidenti o sindaci, non per il governo o per i segretari di partito. E sommare i voti di lista nelle Regioni e nei Comuni per stabilire chi ha vinto su scala nazionale è come sommare i fichi e le patate. Si può al massimo stabilire chi ha perso, in base alle dichiarazioni della vigilia. Se Salvini puntava al 7-0, è ovvio che ha perso: è finita 3-4. Se l’altro Matteo mirava a far vincere Giani e far perdere Emiliano e Sansa, è ovvio che ha perso: Giani ha vinto per 8 punti e Iv ha preso il 4,5; Emiliano ha vinto nonostante Iv e Sansa avrebbe perso anche con Iv. Di vincitori nazionali c’è solo la Meloni, che ha strappato le Marche con un fedelissimo e ha aumentato i voti dappertutto. Tutti gli altri hanno perso voti. Anche Zingaretti: ha salvato Toscana, Puglia e segreteria, ma oltre alle Marche ha perso terreno in Liguria, Toscana e Veneto. I veri vincitori sono i cosiddetti “governatori”, trainati dall’effetto Covid e dal populismo trasformista da “cacicchi” che ne fa delle star locali, non nazionali e sganciate dai partiti: Zaia, Toti (anche per il dopo-Morandi), De Luca, Emiliano. Successi personali più che partitici. De Luca aveva 5 liste dei più vari colori.

Emiliano addirittura 15, dall’estrema sinistra alla destra. Zaia la sua, che ha svuotato la Lega. In più, quasi dappertutto, è scattato il soccorso grillino per tre fattori: la fiducia in chi ha gestito la pandemia; il voto utile, disgiunto o diretto, al male minore; la corsa sul carro del vincitore. Come si fa a non capire che gli stessi elettori, in un’elezione nazionale col proporzionale, avrebbero votato in modo totalmente diverso dalle Regionali col maggioritario a turno secco e dalle Comunali col doppio turno? Chi fa un altro mestiere non deve studiare le leggi elettorali, ma per chi fa politica è proprio il minimo. Col proporzionale (Politiche), ciascuno va per conto suo e le alleanze si fanno dopo le elezioni. Col maggioritario a doppio turno (Comuni), si corre da soli e le alleanze si fanno tra il primo e il secondo turno (e, se non i partiti, le fanno gli elettori). Col maggioritario a turno secco (Regionali), le alleanze si fanno prima del voto (e, se non i partiti, le fanno gli elettori delle forze sfavorite scegliendo il meno distante dei due favoriti).
Perciò Emiliano e De Luca hanno avuto molti voti grillini, ma anche forzisti e leghisti: tutta gente che alle Politiche tornerà all’ovile. Come i grillini che han votato Giani. E i veneti della lista Zaia, alle Politiche, voteranno quasi tutti Lega. Ecco perché la vittoria dei presidenti Pd non è di Zingaretti, se non per averlo aiutato a sventare la manovra dei poteri forti per rimpiazzarlo con Bonaccini, rovesciare Conte, scaricare il M5S e tentare l’ennesimo inciucio con quel che resta di FI e pezzi di Lega. Emiliano e Giani l’hanno capito: Zinga&C. pare di no. Infatti, consigliati da Repubblica e dai “padri nobili” che non ne azzeccano una, avanzano pretese bizzarre o ideologiche: il Mes (di cui non si parla da nessuna parte in Europa, neppure più a Cipro), lo Ius Soli (non proprio in cima ai pensieri degli italiani, e nemmeno degli stranieri) e i decreti Sicurezza (dove basta qualche ritocco sulla linea Mattarella, senza tanti strepiti). Del resto, se anche il Pd avesse vinto, gli elettori l’avrebbero premiato per il governo giallorosa che, anziché perdersi in quelle fumisterie, s’è occupato di cose più urgenti e vitali: Covid, tre manovre da 100 miliardi, bonus ai più deboli, Recovery Fund. E ora, si spera, una legge elettorale senza più liste bloccate, su cui il Fatto lancia oggi una petizione di costituzionalisti del Sì e del No da firmare sul sito. Qualcuno ha detto che il nostro appello a “turarsi il naso”, in Puglia e Toscana, è servito come quello di Montanelli nel 1976: ne siamo felici. Ma quella volta, subito dopo il voto, il grande Indro inviò un telegramma alla Dc che cantava vittoria: “Vi abbiamo votato, ma ce la pagherete”

Dal dramma di Alfredino all’epopea di Totti: la (pay)tv italiana punta sulla serialità

Di tutto, di più. Non è la Rai, ma Sky, che presenta le serie, o se preferite i progetti scripted targati Sky Original, in cantiere: la cronaca del nostro Paese si intreccia al crime, commedia e genere ingrossano le file di una produzione destinata, da qui al 2024, a raddoppiare l’investimento, con un nuovo titolo (serie o miniserie) disponibile ogni mese. Una storia italiana recita Alfredino, il bambino caduto in un pozzo a Vermicino nel 1981 e rimasto nell’immaginario collettivo: la madre, Franca Rampi, è interpretata da Anna Foglietta, che rivendica “la responsabilità di riscattare questa donna ed esorcizzare insieme quel lutto collettivo” da cui sarebbe nata la Protezione civile. Voltaggio ancor più drammatico per La città dei vivi, che verrà alimentata dall’omonimo romanzo, in uscita il 20 ottobre, di Nicola Lagioia, dedicato al caso Varani, “uno dei più spaventosi di cronaca nera, con divagazioni – sottolinea l’EVP Programming Sky Italia Nicola Maccanico – che finiscono in tragedia”. Primo ciak fra la fine del 2020 e l’inizio del nuovo anno per Il Re, prison drama con Luca Zingaretti, Maccanico punta molto sulla miscela di “religione, periferia e fantasy” di Christian, in cui lo scagnozzo di un boss passa dalle botte alle stimmate: “Un Cristo contemporaneo”, l’apostrofa l’interprete Edoardo Pesce. Grande attesa per l’esordio seriale dei fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, attualmente in fase di scrittura, che sarà la prima in-house production Sky Studios per l’Italia, d’autore è anche Anna, per cui Niccolò Ammaniti torna showrunner dopo Il Miracolo. Sul versante commedia, Ridatemi mia moglie, con Alessandro Genovesi che dirige Fabio De Luigi nel remake di I Want My Wife Back della BBC, e A casa tutti bene, espansione dell’originale cinematografico firmata sempre da Gabriele Muccino, Milano potrà contare su Blocco 181 con Salmo a tutto campo, Roma addirittura su un trittico: Romulus per le origini; Domina con Kasia Smutniak per l’età imperiale, vista al femminile; Francesco Totti, ovvero Pietro Castellitto, per Speravo de morì prima. Che cosa manca? “Il politically correct non sta di casa a Sky: le quote fanno perdere di senso alla creatività”, assicura Maccanico.