Fabergé, l’uomo che ha trovato la fortuna nell’uovo di Pasqua

Qualche anno fa, nello storico negozio d’antiquariato Wartski di Londra, varca la soglia d’ingresso un americano che reca con sé un segreto. All’incredulo conservatore, l’uomo mostra le foto di un tesoro che si pensava smarrito e getta una luce nuova sul sanguinario epilogo degli zar di Russia quando, nel 1917, la dinastia viene deflagrata dalla neonata Unione Sovietica. Si tratta del leggendario terzo uovo imperiale del mastro gioielliere Carl Fabergé (1846-1920), reputato disperso in quel cimitero a cielo aperto che è stato l’excipit della Grande Guerra. Domani che ricorrono i cento anni dalla morte del grande artista (dirlo tale solo in merito all’oreficeria sarebbe poco), è doveroso inquadrare la sua esistenza e la sua carriera come l’ultimo atto di splendore della Grande Russia. La famiglia Fabergé fugge a est dall’originaria Francia per via delle persecuzioni contro gli Ugonotti protestanti volute da re Luigi XIV, così Carl nasce a San Pietroburgo nel maggio 1846. Il padre è orefice e subito intravede nel figlio un talento straordinario. Lo fa viaggiare in Europa per studiare le collezioni d’arte e, tornato in patria, lo fa impiegare come volontario all’Hermitage dove si occupa di restaurare dei monili d’oro ripescati nel Mar Nero. Il risultato è tale che nel 1882 è invitato a partecipare all’esposizione Panrussa di Mosca dove proprio la zarina Marija Fëdorovna acquista da lui un paio di gemelli a forma di cicala per lo zar. Colpire l’attenzione della famiglia imperiale era l’unico modo per diventare qualcuno nella Russia del tempo: il lavoro fatto da Carl sui monili porta alla ribalta la testimonianza di un’arte preistorica russa capace di competere con il resto dell’Occidente. Nel 1885 Carl diviene mastro gioielliere di corte e qui inizia anche la sua fortuna: le uova, the eggs, les œufs, yaytsa.

Il primo uovo fu un regalo fantasioso che lo zar Alessandro III volle fare alla moglie Marija, di origini danesi. Le uova sono un simbolo dell’arte danese, così gli chiese per Pasqua un uovo che contenesse una sorpresa. L’uovo di smalto bianco con all’interno un tuorlo d’oro (e al suo interno una gallinella d’oro con ancora al suo interno un pendente) è un successo. La zarina ne è entusiasta! È deciso: ogni anno Fabergé realizzerà un uovo diverso che contenga una sorpresa e diverta la zarina. Carl è ormai l’artista favorito di corte e le sue uova una delle maggiori attrazioni dell’arte gioielliera russa nel mercato internazionale. Tant’è che, versato per gli affari, Carl si apre all’Occidente: inaugura una filiale a Londra, realizza oggetti, delikatessen d’oro potremmo definirli, per palati raffinati quali i reali inglesi ma anche le famiglie ricchissime come i Rothschild o i Nobel. Intanto, lo zar Alessandro III muore nel 1894 e gli succede il figlio Nicola, che prosegue la tradizione, anzi la raddoppia: ogni Pasqua, un uovo all’imperatrice madre Marija e uno per la moglie, la nuova zarina.

In tutto, si calcola che Fabergé abbia realizzato 52 uova imperiali. Di queste, otto sarebbero andate disperse, forse distrutte, forse trafugate, a seguito della rivoluzione del 1917 (che pretenderà la testa dello zar Nicola II) cui però il vecchio Carl sopravvive: ai bolscevichi che lo vanno a prendere nel suo negozio a San Pietroburgo, chiede un minuto per mettersi il cappotto e il cappello e, nel frattanto, sgattaiola dalla porta sul retro e fugge in Svizzera, a Losanna, portando con sé abiti e casse di vino. Qui morrà tre anni dopo. Ma se le uova di Fabergé (e con esse, Carl) sono entrate nella memoria collettiva è da un lato per il loro numero limitato e la loro irripetibilità (il motto di Warhol non era ancora in voga), dall’altro perché costituiscono una capsula del tempo, capace di disseppellire la Storia di un mondo altrimenti scomparso in una forma piccola e perfetta. Per questo, il ritrovamento del terzo uovo imperiale – un uovo d’oro increspato con un diamante come apertura e dentro un orologio Vacheron Constantin – come centrotavola nella cucina di un americano della middle class è un avvenimento dalle molte letture storiografiche (anche sul mercato sommerso dell’arte, ovvio), che suggerisce quante siano ancora le cose che non sappiamo sul passato e quindi sul futuro di un uomo che ha trovato la fortuna dentro a un uovo di Pasqua.

Il cinema è ancor più al buio “Tenet” non è bastato

Si fa presto a dire ripartenza. Per quella cinematografica non è bastato un festival, la Mostra di Venezia, né un blockbuster, Tenet di Christopher Nolan: la situazione in sala è grave e, una volta tanto, seria. Anziché andare avanti, si scivola indietro: si perdono spettatori a ogni weekend sospinto. Nel fine settimana dal 3 (giovedì) al 6 (domenica) settembre si erano registrate 452.461 presenze per 3.159.562 euro di incasso; il successivo, dal 10 al 13 settembre, se ne sono perse più di centoventicinquemila (325.025), con una contrazione del box office di ottocentomila euro (2.359.982 euro); nell’ultimo, 17 – 20 settembre, i biglietti staccati si sono pressoché dimezzati (236.685 presenze per 1.549.590 euro). Insomma, al centesimo giorno dalla riapertura delle sale del 15 giugno l’esercizio cinematografico ha le quattro frecce d’emergenza accese: a parte Tenet, che ha superato i cinque milioni e mezzo di incasso e mantenuto la vetta del box office per tre weekend su quattro, e lo strappalacrime After 2, capace di quattro milioni estorti ai ragazzini, non c’è titolo che abbia saputo sconfiggere la ritrosia alla fruizione in sala nel post-lockdown. Come segnalato dal daily cineguru, se l’hardware risponde, con l’80% di cinema attivi rispetto all’analogo periodo del 2019, il software stenta, e non poco. Tante le cause, ma la disaffezione per il prodotto di qualità, l’arthouse o d’essai che dir si voglia, è sensibile, ancor più per i nostri colori, che non hanno beneficiato del lancio veneziano. Notturno di Gianfranco Rosi, per più di qualcuno rimasto colpevolmente a bocca asciutta nel palmares della Mostra, non è tra i primi dieci incassi, e nemmeno gli altri titoli in Mostra se la passano troppo bene: Non odiare, opera prima di Mauro Mancini con Alessandro Gassmann, lunedì 21 settembre ha incassato novemila euro, per complessivi 269.757; Miss Marx di Susanna Nicchiarelli lo precede al sesto posto con 11.269 euro e 126.419 totali; settima piazza per Le sorelle Macaluso di Emma Dante, con un totale di 228.636 euro. Di per sé non sono dati così negativi, mala tempora currunt e ci si deve arrangiare, ma che il francese Il meglio deve ancora venire, diretto da Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte, interpretato da Fabrice Luchini e Patrick Bruel, abbia fatto meglio di tutti e tre, issandosi al terzo posto nel weekend e al quinto lunedì, non può non far riflettere. Che la premiere festivaliera non assicuri nulla al botteghino è ormai assodato, che si potesse sperare, anche al netto della retorica della ripartenza, in un traino migliore altrettanto, eppure, Venezia, ovvero il direttore artistico Alberto Barbera e il presidente di Biennale Roberto Cicutto, la propria scommessa l’ha vinta, esaurendola nel portarsi a termine, altri continuano a perdere. Sono meglio loro, Luchini e Bruel, dei nostri? C’è più voglia di commedia? Nemo propheta in patria, cui farebbe propendere anche la debacle statunitense della coproduzione angloamericana Tenet? Domande non peregrine, cui dovranno rispondere altri italiani transitati dal Lido e in uscita domani: Guida romantica a posti perduti di Giorgia Farina, con Clive Owen e Jasmine Trinca, e soprattutto Padrenostro di Claudio Noce, valso a Pierfrancesco Favino la Coppa Volpi. Certo, l’offerta oramai è frastagliata e non contenibile nel theatrical – il più bello di tutti, Sto pensando di finirla qui di Charlie Kaufman, è su Netflix – ma il Covid-19 ha accelerato e acutizzato tendenze già in essere, per esempio che non si va più al cinema, ma a vedere un determinato film, e dunque che l’offerta, il titolo forte, crei la domanda, altrimenti in sonno. Chi vivrà vedrà, e il prossimo inteso salvatore della patria, il venticinquesimo film di 007, s’è dato le parole giuste: No Time to Die, in arrivo il 12 novembre. Sul versante nazionale, invece, per ora vince Nanni Moretti, che ha dilazionato i suoi Tre piani: rifiutata l’ospitalità veneziana, avrebbe strappato al delegato generale di Cannes Thierry Fremaux la possibilità di uscire già a gennaio nelle nostre sale prima dell’approdo in Concorso al festival francese, dall’11 al 21 maggio 2021. Salvo nuovo lockdown, si capisce.

“Xi è un pagliaccio”: 18 anni di carcere all’ex funzionario

È stato condannato a 18 anni e al pagamento di una multa di 4,2 milioni di yuan (circa 526mila euro) Ren Zhiqiang, professore e blogger molto seguito sui social network cinesi e noto oppositore di Xi Jinping. Secondo quanto reso noto dal Tribunale del popolo di Pechino, che ha emanato la sentenza, l’uomo è stato condannato per corruzione, concussione, appropriazione indebita di fondi pubblici e abuso di potere, dopo essersi dichiarato colpevole durante il processo. Ren è stato fermato in realtà per “diffamazione” nei confronti dell’immagine del Partito comunista cinese. Big Cannon Ren, questo il soprannome con il quale è conosciuto, è stato presidente di Huayuan Property, un’impresa statale di Pechino, ma ai più è noto per i suoi articoli contro il Partito comunista cinese e il presidente Xi Jinping. “In piedi non c’era un imperatore che mostrava i suoi vestiti nuovi ma un clown che si è spogliato e ha insistito di essere un imperatore”. Questa è la frase incriminata, indirizzata da Ren al presidente Xi e scritta qualche mese fa nel suo blog per commentare una videoconferenza tenutasi all’inizio della pandemia in cui il presidente annunciò le misure di contrasto al Covid-19. Il manager dissidente, 69 anni, ha criticato aspramente in questi mesi la gestione dell’epidemia iniziata a dicembre nella città di Wuhan e anche i modi con cui Pechino ha cercato di promuovere i suoi successi e l’espansione del potere di Xi. Da qui l’espulsione dal partito avvenuta nel luglio scorso. Ren, secondo la sentenza, si sarebbe appropriato illegalmente di oltre 49,7 milioni di yuan (9,9 milioni di dollari), avrebbe accettato di 1,25 milioni di yuan (184 mila dollari) di tangenti e anche sottratto oltre 9 milioni di dollari di fondi pubblici tra il 2003 e il 2017. Proprio come il presidente Xi Jinping il manager è un “principino” termine utilizzato per i discendenti dei fondatori del governo comunista. I suoi genitori erano infatti funzionari del partito. Ma questa ormai è storia passata.

Starmer resuscita Blair e archivia il corbynismo

Da quando, il 4 aprile scorso, Sir Keir Starmer è stato eletto leader del Labour con il 56% dei voti degli iscritti, ha quietamente attuato due strategie: riprendersi il controllo del partito sottraendolo ai corbynisti e approfittare degli errori del governo conservatore. Attendismo premiato dai sondaggi, che da settimane ormai danno i laburisti quasi alla pari con i Tories. Ma solo ieri, nel suo discorso al Congresso fantasma del partito, tutto in streaming, ha rivelato il nuovo corso, molto più vicino al blairismo che all’Internazionale Socialista di Corbyn che tanto, dal trionfo interno del 2015 alla disfatta elettorale del dicembre 2019, aveva infiammato chi ha il cuore a sinistra.

Intanto la location del discorso: Doncaster, nello Yorkshire, tradizionale roccaforte laburista che al referendum su Brexit ha votato Leave al 70% e alle ultime politiche ha punito l’ambiguità di Corbyn sull’Europa finendo a un passo dal dare la vittoria ai Tories. Il giorno dopo la sconfitta alle ultime Politiche una delle più combattive leader di Momentum dichiarò al Fatto: “Anche se ho perso, non significa che non avessi ragione”. Starmer invece non gioca per partecipare. “Voglio vincere per il paese che amo e per i valori che mi stanno a cuore. Se vinci esci dall’ombra. Cambi vite. Fai la differenza”.

Insomma, l’idealismo è inutile se non va al potere, e lui per andare al potere deve riconquistare il Red Wall, le regioni rosse che per Brexit hanno tradito la sinistra. Non nomina Corbyn nemmeno una volta, ma Corbyn aleggia, pesante pietra di paragone di cui liberarsi, benché di Jezza Starmer sia stato uno dei più stretti collaboratori. E, da ministro ombra per Brexit, pubblicamente pro-Europa, lo abbia indebolito proprio nel Red Wall. Eppure la colpa di quella sconfitta diventa proprio di Corbyn: “Dobbiamo essere brutalmente onesti con noi stessi. Se perdi le lezioni, in una democrazia, te lo sei meritato. Non ti rivolgi gli elettori e chiedi loro: ‘Ma cosa pensavate?’. Ti guardi allo specchio e ti domandi: ‘Cosa ho fatto?’. E ancora: “Il Partito laburista ha perso 4 elezioni di fila. Abbiamo assicurato ai Tories un decennio al potere. Continuare così è un tradimento di tutto quello in cui crediamo. È il momento di fare sul serio per vincere”.

Sir Keir si presenta come l’opposizione seria, concreta e competente, ed è quindi non solo l’anti-Corbyn ma anche l’anti Boris Johnson, che, attacca Starmer, ha dimostrato di “non essere all’altezza del suo ruolo”.

Perché, ricorda Starmer, quando Boris da giovane annoiato corrispondente del Times a Bruxelles si faceva licenziare per essersi inventato una citazione, Keir era già un brillante avvocato dei diritti umani. Come si vince? Con un cambio radicale e il prevedibile ritorno al centro.

Combattendo il sovranismo con la sua versione rassicurante, il patriottismo. Sostituendo il valore centrale della società con quello, che credevamo saldamente conservatore, della famiglia. E mettendo tutti d’accordo con uno slogan tiepido tiepido: decenza, equità, opportunità, compassione e sicurezza. Vistose assenze: povertà, diritti, immigrazione, lotta alla disuguaglianza. Ma l’opinione pubblica è distratta, il nuovo corso laburista oscurato dall’annuncio della nuove restrizioni anti-Covid. Scattano solo i corbynisti di Momentum: affidano la replica al co-presidente, il vigile del fuoco Andrew Scattergood, che dalle Midlands sibila: “Il discorso di Keir Starmer è una occasione mancata per dimostrare un po’ di sostanza. Se vuole farsi ascoltare dalla classe lavoratrice, il suo appello dovrebbe basarsi sulla solidarietà e sulla difesa dei loro interessi, non solo su slogan e banalità”.

Caso Floyd, punite Seattle, Portland e NY: “Stop ai fondi”

L’Amministrazione Trump taglia i fondi alle città i cui sindaci non reprimono le proteste violente anti-razziste: etichetta come “giurisdizioni anarchiche” le città a guida democratica di New York, Seattle (Stato di Washington) e Portland (Oregon), colpevoli di avere tollerato abusi e reati durante le manifestazioni innescate dall’uccisione di George Floyd e di altri neri per mano della polizia. La base giuridica della decisione è un ordine esecutivo del magnate presidente che prevede il blocco dei fondi federali alle amministrazioni locali che non hanno adeguatamente contrastato le violenze. La “guerra alle città” scatenata dal segretario alla Giustizia William Barr, un esecutore degli ordini di Donald Trump, grazia, però, gli agglomerati del Wisconsin e del Minnesota da dove sono partite le proteste. C’è dietro un calcolo politico: Wisconsin e Minnesota sono Stati in bilico, dove Trump non vuole perdere consensi che potrebbero rivelarsi decisivi. La mossa è destinata a innescare contestazioni politiche e giudiziarie. Il sindaco di New York Bill DeBlasio l’ha già definita “incostituzionale”. Nel giorno in cui i decessi per coronavirus supereranno quota 200 mila, Trump dice, parlando nell’Ohio, che il virus “non colpisce virtualmente nessuno” – la gente muore di patologie pregresse, è la sua tesi – e interviene all’Assemblea generale dell’Onu con un brevissimo discorso registrato, in cui accusa la Cina per la pandemia (“ha infettato il Mondo”). Sabato, il presidente annuncerà la sua scelta per il nuovo giudice della Corte Suprema. Il magnate avrebbe una “short list” di quattro/cinque nomi. I due più citati sono Amy Coney Barrett, 48 anni, madre di sette figli, giudice del circuito della corte d’appello di Chicago, nota per le sue posizioni anti-abortiste; e Barbara Lagoa, 52 anni, cubano-americana, giudice del circuito della corte d’appello di Atlanta, primo giudice ispanico della Corte Suprema della Florida – la sua designazione potrebbe spostare un po’ di voti in uno Stato in bilico, dove i “latinos” sono determinanti –. Le possibilità che, nonostante le proteste dei democratici, il Senato avalli la scelta del presidente prima delle elezioni sono aumentate dopo che il senatore dello Utah Mitt Romney, repubblicano anti-Trump, s’è detto pronto a votare “sulla base delle competenze” della persona prescelta. Per bloccare la conferma, almeno quattro senatori repubblicani dovrebbero defezionare (solo due si sono finora esposte).

La guerra fredda dell’acqua asseta sia Trump che Amlo

Due morti e decine di feriti. La guerra dell’acqua ha aperto un altro fronte diplomatico lungo i 3 mila chilometri di frontiera che separano gli Stati Uniti dal Messico, un fronte assetato anche di voti. Da una parte le Presidenziali americane di novembre e la necessità per Trump di tenere insieme i voti del secco Texas; dall’altra parte l’omologo messicano, Andrés Manuel López Obrador, detto Amlo dagli amici, cerchia tra cui, da un annetto annovera appunto il collega gringo, ai cui ordini obbedisce per timore di sanzioni.

Così, dopo la pace sulla pelle degli immigrati e quella sulla guerra al narcotraffico, ora ad Amlo tocca ribattezzare questa pace con l’acqua. Quella che dal 1944 il Messico deve per trattato agli Usa, quella del Rio Bravo, il fiume fino ad allora conteso a est del confine. I messicani sono obbligati a cederne 2.200 milioni di metri cubi ogni cinque anni ai vicini, che, dal lato loro, ne fanno scorrere oltre confine 1.800 milioni di metri cubi dal fiume Colorado, a ovest.

All’appello però, ne mancano quest’anno 319 milioni che non hanno trovato la via del Texas, ma sì le lamentele del governatore locale che si è subito premurato di scriverne all’amico Trump in una lunga e allarmata lettera. Da qui l’ultimatum del Segretario di Stato Mike Pompeo al Messico: o l’acqua o le sanzioni. Entro il 24 ottobre. Peccato che l’acqua, come da tradizione, non ci sia. Neanche una goccia, tranne quella già impegnata nella diga de La Boquilla, nella regione di Chihuahua e da Amlo promessa agli agricoltori locali, coinvolti, a loro volta da anni in una guerra nella guerra: quella per ottenere il contenuto della diga tutto per sé.

Centinaia di migliaia di ettari coltivati a erba medica, peperoncino jalapeño, peperone verde, chipotle, avena di grano, cotone, cipolla e noci. “Il 75% della produzione nazionale, in tutto quattro milioni, 955mila tonnellate dei maggiori prodotti agricoli del Paese”, secondo la Confederazione nazionale dei campesinos. I produttori che hanno messo su un sistema di irrigazione automatico, comprano o affittano i diritti dell’acqua da altri piccoli produttori, la stessa acqua che ora vedono scivolare via dalla diga e scrociare verso il Texas. “Esigiamo l’immediata chiusura delle valvole de La Boquilla”, ha intimato a Lopez Obrador poche giorni fa il governatore di destra di Chihuahua, Javier Corral. Risposta: “È tutta propaganda del Pan (Partito di azione nazionale). Siamo obbligati a compiere i termini del Trattato entro ottobre. A novembre ci saranno le elezioni negli Stati Uniti. Se diamo l’impressione di non rispettare i patti, iniziano a esigere una contromossa da Trump e ci chiuderanno le frontiere imponendoci sanzioni”, ha tuonato il presidente messicano inviando anche la Guardia nazionale a vigilare sulla diga.

Ma a nulla è servito il suo avvertimento. Da La Cruz, Delicias e San Francisco de Conchos, più di 500 agricoltori, appoggiati da Corral si sono lanciati in scontri con la polizia fino a che – nottetempo – hanno raggiunto e chiuso le valvole della diga, mettendo a guardia della zona gli abitanti locali. Così sono morti i produttori Jessica Silva e suo marito, Jaime Torres, aggrediti dagli agenti della Guardia Nazionale “forse per rappresaglia”, come testimoniano i compagni. “Faremo chiarezza sulle responsabilità degli scontri e delle morti”, ha promesso Amlo, oramai definitivamente preso tra l’incudine dei contadini e il martello di Trump.

Dall’altra sponda del fiume, infatti, il presidente americano, alla ricerca spasmodica degli ultimi voti necessari alla prossima rielezione del 3 novembre, vuole a tutti costi sommare la guerra dell’acqua a quelle – già vinte – dell’immigrazione e del narcotraffico. Soprattutto in Texas, dove lo sfidante di The Donald, Joe Biden, potrebbe vedersi riversare i voti degli studenti e dei giovani che alle primarie appoggiavano la candidatura a senatore di Beto O’Rourke nel 2018. Uno Stato, il Texas, in cui, stando ai sondaggi, il voto – difficile da espletare per via della quasi impossibile iscrizione alle liste elettorali, soprattutto in tempi di Covid-19 – darà come risultato un testa a testa tra i due candidati presidenti (48% a Trump, 46% a Biden). Una ragione in più per il primo per fare la voce grossa anche sull’acqua. D’altronde, a chi importa dei 45 gradi all’ombra che seminano siccità sulle coltivazioni dei vicini?

Mps, il Tesoro piazzista spacca i giallorosa

Èil dossier economico che più di ogni altro agita il governo, molto più (per ora) del Recovery Fund. S’intende il Monte dei Paschi di Siena, banca malandata al centro di uno scontro in seno alla maggioranza. Passate le elezioni, l’esecutivo giallorosa deve decidere cosa fare.

Il Tesoro, che l’ha salvata nazionalizzandola (8,5 miliardi investiti, detiene il 68% del capitale) sta provando a consegnarla ad altri istituti, al massimo attraverso una fusione. I 5Stelle vogliono invece evitare di svendere la banca, mossa che causerebbe una mega minusvalenza per lo Stato, e valorizzarla, ma non è chiaro come.

L’ultimo nome tirato fuori è Unicredit. Secondo Repubblica, il Tesoro ha provato a “piazzare” Mps alla banca guidata da Jean Pierre Mustier, che per tutta riposta ha chiesto una contropartita in contanti per assorbire lo sbilancio dovuto all’acquisizione, oltre a garanzie sui rischi legali della banca, che ha richieste di risarcimento danni per 10 miliardi dei quali 2,2 considerati “probabili” e 931 milioni “possibili”. In pratica, Mustier vuole replicare l’operazione che ha portato Intesa Sanpaolo a rilevare due anni fa Veneto Banca e Popolare di Vicenza in liquidazione prendendosi solo la parte sana più una dote pubblica di 5 miliardi di euro (e altrettanti di garanzie). Unicredit non commenta, ma in ambienti finanziari le pressioni del Tesoro vengono confermate. Risultato: calo dell’1,8% in Borsa.

Secondo gli analisti di Equita, Mps dovrebbe fare un aumento di capitale da 4 miliardi per venire incontro alle richieste di Mustier (al netto dei rischi legali). Ipotesi che non passerebbe facilmente il vaglio di Bruxelles e che non piace ai 5 Stelle, anche perché lo Stato si accollerebbe i costi senza avere un ruolo post acquisizione.

Ieri il nuovo ad, Guido Bastianini (in quota M5S), sentito dalla commissione parlamentare sulle banche, ha ammesso che le trattative non coinvolgono il management: “Decide il Tesoro”. Unicredit sarebbe il candidato naturale, perché l’unico ad avere una redditività tale da sfruttare, e quindi valorizzare, i 3,6 miliardi di cosiddette “Dta” fuori bilancio di Mps, cioè i crediti fiscali che possono essere scontati dalle tasse sugli utili. La cifra è enorme, ma servono, appunto, utili consistenti per poterli scontare: a Siena non ne vedono da un po’ e oggi sono poche le banche in grado di farli, tra crisi economica e tassi a zero.

Questo, ad esempio, complica la strada all’altra indiziata per una potenziale fusione, Banco Bpm. L’istituto nega ci siano stati contatti, anche se più rumors finanziari raccontano che il Tesoro ha sondato la banca milanese guidata da Giuseppe Castagna. Anche questa operazione, però, richiederebbe un aumento di capitale, metà del quale a carico del Tesoro.

Di tempo ce n’è poco. Ieri Bastianini ha rievocato la galleria degli orrori che ha azzoppato Mps a partire dalla disastrosa acquisizione di Antonveneta nel 2008 fino ai quattro aumenti di capitale tra il 2011 e il 2017 (polverizzati, agli attuali valori di Borsa, 18 miliardi). E ora, per liberarsi di 8 miliardi di crediti deteriorati, Mps è obbligata a un aumento di capitale da quasi un miliardo, da realizzare emettendo obbligazioni a tassi stellari che costeranno alla banca oltre 100 milioni l’anno e che andranno ad appesantire il già fragile conto economico.

È in Eni e consiglia Borrell. Il casoTocci imbarazza l’Ue

Consigliere d’amministrazione di Eni e consigliere della Commissione europea. È il caso di Nathalie Tocci, politologa nominata lo scorso 13 maggio membro non esecutivo del cda della multinazionale petrolifera controllata dal governo italiano, con interessi geopolitici in mezzo mondo. Meno di due mesi dopo, l’8 luglio, Tocci ha ricevuto l’altro incarico: consigliere speciale del capo della diplomazia europea, lo spagnolo Josep Borrell.

“Ritenendo i due incarichi incompatibili, abbiamo fatto una richiesta di accesso agli atti presso la Commissione”, spiega al Fatto l’associazione italiana Re:Common, da anni impegnata a seguire le vicende di Eni. La richiesta ha costretto Borrell a fornire qualche spiegazione. Il 10 agosto il suo capo di gabinetto, Pedro Serrano, ha scritto una lettera all’Ong spiegando che, “nonostante la dichiarazione di attività e la dichiarazione giurata presentata (da Tocci, ndr) per assicurare che non esiste conflitto di interessi, un rischio di percezione di conflitto d’interessi” per “le sue attività indipendenti e non esecutive presso Eni potrebbe esserci”. La Commissione garantisce dunque che il conflitto di interessi non c’è, anche se esiste il rischio che qualcuno possa percepirlo come tale. Subito dopo aver detto che è tutto ok, però, Serrano si è sentito in dovere di aggiungere che, “offrendo un contratto a Nathalie Tocci, voglio che sia soggetto a una serie di misure mitigatrici al fine di ridurre il rischio di percezione di conflitto di interesse”. Ed ecco le misure mitigatrici, quelle che dovrebbero limitare le sovrapposizioni di ruoli di Tocci, da una parte membro del cda di una multinazionale con interessi diretti in 66 Paesi del mondo, dall’altra consigliere di chi su questi interessi ha una notevole influenza. “Nel suo ruolo di consigliere speciale”, scrive il capo di gabinetto di Borrell, Tocci “dovrà astenersi dall’avere qualsiasi contatto bilaterale con l’Ener (la direzione generale dell’Energia della Commissione Ue, nda) e dall’intervenire nel campo di attività di Eni. Più in generale, si dovrà astenere da qualsiasi attività di lobby o sostegno con i servizi della Commissione collegati alle attività di Eni”. Insomma, nessuna voce in capitolo su qualsiasi decisione della Commissione che riguardi il Cane a sei zampe. Non sarà facile, visto che gli interessi di Eni sono trasversali: non solo la produzione di energia (di cui è competente la Ener), ma anche l’ambiente, il clima, la politica estera, la fiscalità, la concorrenza. Tutti temi che ricadono sotto diverse direzioni generali, ma alle quali la lettera di Borrell non fa cenno. Alle domande del Fatto su questo punto, un portavoce dell’Ue ha fatto sapere che Tocci “non è un membro del gabinetto di Borrell né delle istituzioni europee: lei è consigliera dell’Alto rappresentante (Borrell, ndr) solo su una questione specifica: la strategia globale dell’Ue, non su altre questioni o politiche specifiche. Pertanto, nell’ambito del suo ruolo di consigliere speciale non istituzionale, non ha contatti con le direzioni generali citate semplicemente perché non ha alcun ruolo o mandato per giustificare tali contatti”. Al Fatto, Tocci replica: “Come già detto pubblicamente il mio ruolo di advisor pro bono esclude qualsiasi tipo di consulenza su temi di Energia quindi il presunto conflitto di interesse non esiste”.

“Appare poco chiaro come Tocci possa astenersi dall’intervenire in tutte queste questioni: tanto più che il suo ruolo sarà quello di elaborare la strategia globale dell’Ue, che comprende questioni come la Libia, il Mediterraneo orientale e l’Iran, contesti dove Eni svolge un ruolo chiave, con interessi commerciali molto rilevanti”, spiega Alessandro Runci di Re:Common. Nell’ottobre del 2019, sulla base dei dati del “Registro per la trasparenza nell’Ue”, un gruppo di Ong ha rivelato che negli ultimi 10 anni le 5 maggiori compagnie petrolifere al mondo (Bp, Chevron, ExxonMobil, Shell, Total) hanno speso 251 milioni per fare azioni di lobby sulle politiche climatiche. “La nomina di un membro del cda dell’Eni come consigliera per gli affari esteri di un Commissario europeo, che peraltro possiede investimenti azionari in aziende fossili, è l’ennesimo esempio di interessi delle compagnie petrolifere che vanno a influenzare i processi democratici”, sostiene Myriam Duo di Friends of the Earth Europe, una delle associazioni parte della campagna Fossil Free Politics, che vuol mettere fine all’azione di lobby da parte dei produttori di energie fossili.

Tweet & like: la bolla-balla del Vince il No è un unicorno

Durante i mesi del lockdown ho deciso che avrei arredato la casa in uno stile che potrei definire Bohémien. Quindi tessuti etnici, lucine appese al soffitto, macramè da parete e cuscini marocchini. I negozi erano ovviamente chiusi e quindi compravo gli arredi online oppure li cercavo su siti e social per poi aspettare la riapertura dei magazzini. Da circa sette mesi, ogni volta che apro Internet, ho la sensazione di vivere nella medina di Tunisi, in una specie di realtà parallela in cui tutti arredano casa come la mia, mi propongono soprammobili perfetti per il comò balinese, quadri col volto di Frida, teste di zebre da usare come ferma-porte, una realtà in cui è bandito il minimal e lo shabby chic è tramontato per sempre. La verità, naturalmente, è che i loft bianchi continuano a esistere, ma gli algoritmi hanno deciso che io con i faretti da incasso non c’azzecco nulla e che quel mondo non deve interagire con me. Ecco, le bolle sui social si creano più o meno così. Tu ti convinci che il tuo mondo somigli al mondo di fuori e che le persone abbiano tutte il letto uzbeko come te e invece no. Tu ti convinci che tutti voteranno No al referendum e invece vince il Sì.

Era divertente, nonché sociologicamente interessante, nei giorni scorsi, leggere il fermento su twitter per il referendum alle porte. Nella bolla più elitaria ed ermetica del web (twitter), a seguito del voto, i parlamentari sembravano destinati perfino ad aumentare. Sembrava che i No sarebbero stati così tanti che il rapporto tra eletti e cittadini sarebbe diventato 1,57 cittadini ogni 100mila parlamentari. Direttori di siti senza lettori e di quotidiani senza sentori, giornalisti col tweet compulsivo, intellettuali da 280 caratteri, deputati-influencer, anti-bandierini e circoletti auto-referenziali hanno twittato per giorni #iovotono, dandosi ragione a vicenda, linkandosi, retwittandosi, cuoricinandosi, laikandosi e allargando la bolla così tanto, da convincere tutti, nel mondo parallelo di twitter, che la croce sul no fosse una mera formalità. Nel frattempo, bastava chiedere la bar sotto casa quale fosse l’orientamento di voto e si sarebbe scoperto che la cameriera e il proprietario erano per il sì e la cassiera ci stava pensando, ma vuoi mettere quanto è eccitante misurare la realtà con i cuoricini su twitter? O, meglio ancora, con i sondaggi su twitter? Emblematico in tal senso quello del direttore del Foglio Claudio Cerasa, che il 18 settembre chiedeva ai twittaroli: “Mini sondaggio da bolla. Referendum: sì o no?”. Il risultato, con 10.568 votanti, dava il No all’86%, il Sì al 14%. Se ne potrebbe dedurre che Cerasa e i suoi seguaci su twitter siano stati risucchiati da un quadro con scene di caccia al fagiano e vivano in una dimensione parallela, in un altro quadrante della galassia e che ogni tanto lui torni di qua, per un’ospitata dalla Merlino, tramite stargate. Pietro Raffa, esperto in strategia digitale, il 19 settembre, sempre su twitter, scriveva: “A grande richiesta ecco i risultati finali del dibattito online sul referendum, sono compresi tutti i social: 623.000 No e 148.000 Sì. In Rete la mobilitazione per il No ha stravinto!”.

E magari quei 623.000 hanno tutti il letto uzbeko come il mio, in camera. Sono gay. Guardano Propaganda Live. Bloccano i bandierini su twitter. Hanno messo il cuore a Liliana Segre che vota No, retwittano Luciano Nobili e vedono i documentari su Netflix. Sono la grande bolla. O la grande balla. Ma c’è chi, di fronte alla sconfitta di Twitter, ha la chiave di lettura giusta: “Per il Sì hanno dato indicazione di voto partiti che rappresentano oltre l’85% dell’elettorato, il No ha preso il 30% dei voti. La “bolla” Internet è forte e sarà determinante!”, twitta uno dei marziani. Uno degli unicorni alati. E voglio dire, si prova perfino tenerezza. Si vorrebbe aprire un varco spaziotemporale e portarlo di qua, quest’uomo, questo unicorno, dove la gente capisce con un po’ di anticipo che i 100.000 seguaci di Scalfarotto su twitter si tradurranno nel 2% alle urne. E che se la docufiction sul salotto letterario del mecenate tedesco Hans Goritz da Treviri è trend topic su twitter, il giorno dopo non avrà battuto Temptation Island negli ascolti. Lo racconta molto bene il documentario del momento, The social dilemma, il quale spiega la bolla in maniera molto semplice: dopo un po’, sui social, non vedi più il mondo per quello che è, ma per come te lo sei costruito intorno. Ecco, finché poi non si va a votare con la matita, anziché con un like.

Sesso, nudi e adulti TikTok non è più un social di giovani

È definito sempre più spesso il “social dei teenager”, invece alla velocità della luce, TikTok si è trasformato nel rifugio dei peccati dei grandi. L’abbiamo già raccontato dal punto di vista economico e geopolitico, ora proviamo a dare uno sguardo ai contenuti. Ieri, la piattaforma che accoglie balletti, doppiaggi, sketch e performance varie e che sta terrorizzando Trump, l’America e gli altri competitor come Facebook e Instagram, ha rilasciato il rapporto sulla trasparenza del primo semestre.

Si tratta di una informativa su quanti video e contenuti sono stati rimossi da gennaio a giugno, perché magari troppo violenti, espliciti o pericolosi. Un campo fondamentale su cui i social sembrano gareggiare: le performance delle piattaforme si misurano infatti anche sulla base della velocità con cui i loro algoritmi riescono a identificare un contenuto potenzialmente dannoso e a toglierlo di mezzo, meglio se prima che chiunque altro lo veda. Insomma: TikTok ha annunciato di aver bloccato circa 104,5 milioni di video a livello globale, tantissimi seppur meno dell’1 per cento del totale di quelli caricati. “Di questi video – si legge nel rapporto – il 96,4 per cento lo abbiamo rimosso prima che un utente lo segnalasse e il 90,3 per cento prima che ricevesse alcuna visione”. Il 9,4 per cento dei video è stato rimosso negli Stati Uniti (9.822.996).

Ma il dato più interessante riguarda i motivi. Per circa il 50 per cento dei casi, le ragioni vanno dalle piccole percentuali dell’incitamento all’odio (il parametro più difficile da dimostrare perché soggetto a libera interpretazione) all’8,7 per cento di “contenuti violenti”, passando per il 13,4 per cento di “suicidi e autolesionismo”, il 19,6 per cento di “merci illegali e regolamentate”. Poi c’è il 22,6 per cento di “sicurezza dei minori” e, dulcis in fundo, un 31 per cento di rimozioni per “nudità e attività sessuali di adulti”. Dunque la domanda: ma non dovevano essere solo ragazzini? A quanto pare, non più.

Basta scorrere i video del social per qualche minuto per accorgersi che TikTok è l’ennesima copia di mille social già visti, con in più un fastidioso scimmiottamento di modelli comunicativi infantili e molto basilari. Gli utenti “maturi” che stanno transitando su questa piattaforma non lo sta facendo nel migliore dei modi. Nutrizionisti che con balletti e ammiccamenti cercano di spiegare perché sia importante mangiare carboidrati, osteopati che fanno “scrocchiare” la schiena delle persone in video, chirurghi plastici delle star che propongono il “prima e il dopo” di bocca, seni, sederi e zigomi tutti uguali, influencer che vanno a rimpolparsi le labbra sostenendo che “non è definitivo” quindi “non mi sono rifatta”. Gli adulti di TikTok, insomma, sono fuori controllo e se è vero che la colpa non può essere della piattaforma, è anche vero che ci sono degli elementi che la rendono “critica”. Questo social ha infatti algoritmi così raffinati da far sì che ognuno veda solo quanto gli è più affine. Questo significa che se da un lato ogni utente potrebbe non accedere mai a tutta una serie di contenuti che invece sono presentissimi agli occhi di un altro utente, dall’altro implica che una volta registrato l’interesse, anche rapido e superficiale, nei confronti di una determinata tematica, il social la riproponga continuamente in ogni salsa. Un bombardamento che non applica distinzioni per età né per scelta, aggravato dal fatto che la funzione prevalente fa sì che ad ogni tap sullo schermo non si sappia cosa potrebbe apparire dopo. Non si sceglie cosa seguire, TikTok lo sceglie per te.

Fa sorridere dunque che la minaccia maggiore per l’opinione pubblica e per Donald Trump al momento sia rappresentata dal rischio di spionaggio a cui si presterebbe TikTok, ignorando che in fondo tutti i social “spiino” (se necessario alla sicurezza nazionale o semplicemente ad una causa giudiziaria) anche per governi e privati. A questo proposito, il dato interessante emerso dal rapporto di ieri riguarda le richieste ricevute da parte dei diversi Paesi per accedere ai dati degli utenti: 1.768 richieste da 42 soggetti tra Paesi e mercati, 290 delle quali dalle forze dell’ordine statunitensi. Inoltre, sono state 135 le richieste da parte delle agenzie governative per la rimozione di contenuti, quattro delle quali provenienti dagli Usa.