La linea vespa, la “pancia” e i pansotti di Toti in tv

Fotofinish della maratona elettorale. A tarda notte da Vespa passa la linea, più volte adombrata nelle dirette pomeridiane, che il No ha vinto nei centri storici perché “nelle zone residenziali è prevalsa la riflessione”; mentre in periferia, regno della pancia e della crapula, il popolaccio, capeggiato dagli agit-prop Onida, Zagrebelsky, Carlassarre, ha votato Sì perché decerebrato.

Un sorridente Rosato, quello che Matteo-ci metto la faccia-Renzi manda avanti per i lavori sporchi, cioè quando perde, cioè sempre invariabilmente da 6 anni (l’unica coerenza che gli si può riconoscere), dice: “Contributo fondamentale di Renzi per la vittoria di Giani. Risultato importante di Italia Viva”. Su La7 l’inviato di Mentana e il ri-presidente Toti trangugiano in piedi dei panzotti su un terrazzo (Paolo Mieli da studio: “Ma perché in piedi?? Non possono sedersi?”, come fosse quello il problema). Salvini si collega con Vespa: ha moltiplicato i rosari le croci le madonne e i Tau al collo, casomai servisse la prova che non funzionano. Presi per i fondelli da mezza Italia (l’altra mezza li ignora), i renziani festeggiano. Nobili: “Decisivi in Toscana per la vittoria di Giani: anche stavolta Salvini lo abbiamo fermato noi”. Iv con +Europa e Calenda ha il 4,5%, Giani ha preso 8 punti in più di Ceccardi. A Firenze, casa di Renzi, Iv fa il 7%, ma Giani è sopra di 30 punti. In Veneto la candidata di Iv prende lo 0,6% e arriva 7^ su 9, dopo il candidato di Rifondazione Comunista e un No-vax. In Puglia Scalfarotto non riesce nemmeno a far perdere Emiliano: è all’1,6%, con lo 0,6% preso dalla lista Scalfarotto, quindi Renzi ha preso l’1%. Avanti così, passo dopo passo. Rimpasto? Governo Renzi-Boschi-Bellanova? Ceccardi sportivamente prende atto della sconfitta parlando del “più grande successo degli ultimi 50 anni”, sulle note di Imagine di John Lennon.

È tutto cinema, oppure è mediaset

Mi piace andare al cinema di pomeriggio: la sera il primo spettacolo è insidiato dalla fame, l’ultimo è assediato dal sonno. Così ho salutato con gioia la messa in onda di Quarta Repubblica in onda fin dalle 15 di lunedì. Sì, perché Quarta Repubblica sembra l’ennesimo talk televisivo, ma è cinema dentro. Il conduttore Nicola Porro devono averlo strappato al Paradiso delle signore, il cast è stellare e polifonico, in ottemperanza alla polifonia dell’informazione Mediaset. Alessandro Sallusti (Il Giornale), Pietro Senaldi (Libero), Michele Brambilla (QN), Claudio Cerasa (Il Foglio), e ancora Mario Giordano, Augusto Minzolini, Maria Giovanna Maglie, Daniele Capezzone…

Strano tipo di polifonia: tutti appartenenti all’area del centrodestra, tutti propugnatori del No al referendum, tutti non delusi ma sdegnati per l’incapacità degli italiani di comprenderne il vero messaggio. Cinema, e di quel genere fanta-filosofico che va per la maggiore. In Tenet, Christopher Nolan inverte il corso del tempo; su Rete4 si va oltre il Cern di Ginevra, si invertono i risultati elettorali a piacimento. Interpretazione quantistica quella di Sallusti sulle Regionali: “La destra ha conquistato le Marche, quindi ha vinto. Però è finita 3-3, quindi ha pareggiato. Però era convinta di fare 6-0, quindi ha perso” (ma il palindromo si può leggere anche al contrario, come Tenet). Dal bosone di Sallusti alla Teoria della Relatività applicata al referendum dall’intero parterre: poiché la vittoria del Sì era scontata, l’unica cosa che conta è la percentuale del No. Molto superiore al previsto – secondo loro – quindi per il No è stato un trionfo. Una “sconfitta vittoriosa” come quella di Waterloo, di cui, come noto, Napoleone era solito vantarsi sull’Isola d’Elba. Nolan, lascia perdere Hollywood, vieni a Cologno e non te ne pentirai.

La barzelletta del Parlamento “delegittimato”

Vista l’altissima densità di cazzate registrate nel dibattito post voto, abbiamo dovuto fare per questa rubrica scelte dolorose. Avremmo voluto parlarvi del fatto che il 30 per cento di No testimonia la rassicurante presenza di “anticorpi alla demagogia populista” nella nostra democrazia, o dell’ineluttabilità della scelta di prendere il Mes dopo la non sconfitta del Pd; poi, pensandoci bene, la teoria del “Parlamento delegittimato”, evocata sia da Giorgia Meloni che da Matteo Salvini, ha stravinto la gara delle idiozie. Dice Meloni che “ora è necessario dare all’Italia le ulteriori coraggiose riforme costituzionali di cui ha bisogno, e solo un Parlamento pienamente legittimato dal voto popolare può farlo. Non certo un Parlamento delegittimato dagli italiani nella sua composizione e anche nella sua numerosità. Per questo diventa necessario ridare al più presto la voce agli italiani affinché ogni forza politica possa presentare le proprie proposte di riforma. Fratelli d’Italia porrà come prioritario il passaggio a una Repubblica presidenziale e a un sistema che garantisca la stabilità di governo”. Ognuno ha le sue priorità, d’accordo, ma giova qui ricordare che per fortuna gli italiani nel 2006 hanno bocciato, sempre con un referendum dall’inequivocabile risultato, l’ipotesi di trasformare la nostra Repubblica parlamentare in una presidenziale. Salvini lunedì ha finalmente chiarito la sua posizione con ardite acrobazie logiche: “Il voto degli italiani ha fatto giustizia di tante ricostruzioni e dietrologie. Ho sempre sostenuto il Sì, ho votato convintamente Sì, con piena legittimità di chi sostenesse il No. Il referendum è il trionfo della democrazia, se è finito 70 a 30 vuol dire che abbiamo fatto bene a votare il taglio dei parlamentari”. E comunque: “Sicuramente la riflessione che alcuni costituzionalisti in queste ore stanno facendo su quanto questo Parlamento rappresenti il voto degli italiani è legittima”. Noi questi costituzionalisti che sostengono l’illegittimità del Parlamento non li abbiamo trovati. E per fortuna, visto e considerato che è stato proprio il Parlamento a votare praticamente all’unanimità la riforma sottoposta a referendum e quindi non si capisce proprio come le Camere possano dirsi “sconfessate” dall’esito referendario.

L’argomento “Parlamento delegittimato” però acquista sfumature più ridicole se torniamo indietro di una legislatura. Correva l’anno 2014 e la Consulta, all’alba di gennaio, formulava una sentenza che Meloni e Salvini devono aver dimenticato: riguardava la legge elettorale già ribattezzata porcata dal leghista Calderoli che ne era il “titolare”, voluta nel 2005 dal centrodestra e poi mantenuta per comodità (o governabilità) dal centrosinistra. La Corte statuiva che, nonostante il Parlamento fosse stato eletto con una legge incostituzionale in più punti, vigeva il principio di continuità dello Stato. Per un breve periodo. Cioè le Camere potevano continuare a lavorare fino a nuove elezioni, i precedenti atti erano validi, ma tutti i riferimenti che i giudici facevano indicavano un tempo limitato, dopo il quale sarebbe stato necessario sanare quel gravissimo vulnus di legittimità. Cosa accadde? Il governo (prima Letta, poi Renzi) e il Parlamento continuarono a lavorare come se nulla fosse accaduto. E anzi: cominciarono con l’arrivo di Renzi a Palazzo Chigi le grandi manovre per scassinare la Costituzione, per mano di un Parlamento gravato da quel peso. La storia non è finita qui: siccome al peggio non c’è limite, quel Parlamento approvò un’altra legge elettorale, l’Italicum, dichiarata incostituzionale dalla Consulta nel gennaio 2017, prima che potesse essere usata. In tema di illegittimità, i Parlamenti figli del Porcellum sono imbattibili: Salvini e Meloni possono stare tranquilli, è un primato difficilissimo da eguagliare.

 

Analisi del post-voto. Il baciatore di Salami ha visto giorni migliori

Assediato da Zaia a Est e dal neofascismo meloniano al Sud, Matteo Salvini non se la passa bene come dice nelle conferenze stampa. Ora non è più nemmeno sicuro di essere il Gran Capo della destra, e si spera che il primo risultato del nuovo Risiko politico sia la (sempre tardiva) abolizione dei suoi decreti (in)sicurezza. Se ci mettete anche che in Lombardia il suo Attilio Fontana ne ha fatte più di Carlo in Francia, e che ha i commercialisti sotto interrogatorio, be’, diciamo che il baciatore di salami ha visto giorni migliori. Le mancate spallate leghiste hanno un nome e un cognome, il suo, e dopo il noto suicidio del Papeete dovrebbe sapere che le sconfitte si pagano. Per esempio, agire sotto costante pressione di uno che ha il trenta, il quaranta per cento, che vincerà tutto lui, che sarà presto il nuovo padrone del mondo come spesso si è pensato di Salvini nei mesi scorsi, induce una tentennante prudenza di cui davvero non c’è bisogno. Un Salvini fermo alle sue percentuali, il suo 15-20 per cento (in Parlamento ha il 17) fa un po’ meno paura e un po’ meno pressione, e si spera che di questo si accorgano anche i media che ci hanno propinato la salvineide perenne. Di mettere in discussione il Capo ancora non se ne parla, ma sarebbe bello se qualcuno ci pensasse.

La ferita dei 5S è forse numericamente più grave, anche se al momento meno strategica. Con altri due anni al governo, godono di essere una forza parlamentare sovradimensionata rispetto all’effettivo peso nel Paese, insomma volendo hanno tempo per darsi una svegliata da una posizione di vantaggio. Anche lì, nonostante la bella favola delle piattaforme elettroniche, mettere in discussione la leadership – una cosa salutare dopo le sconfitte – non è facile.

Altro caso di rappresentanza parlamentare sovrastimata è Italia parlandone da Viva: anche se gioisce per la Toscana, pare che il progetto sia un po’ in affanno (eufemismo), e anche dove si è provata la Santa Alleanza con Los Calenderos – una gran voglia di riesumare il Pli – è stato un macello. L’1,7 di Scalfarotto in Puglia, con ministri e segretari di partito accorsi a dar manforte la dice tutta. Eppure è il 4,5 in Toscana che dovrebbe allarmare i renzisti. La roccaforte, il fortino… insomma, per chi vagheggiava di “doppia cifra” non dev’essere bello accorgersi che in mezzo c’è una virgola. Anche qui, però, ci si chiede cosa potrebbe cambiare, probabilmente nulla, perché in un partito personale nato nel culto del Capo nessuno metterà in discussione il gruppo dirigente.

Si registra – anche giustamente – il peana corale per Zingaretti e il suo Pd, ma anche qui a cercarla qualche ombra si trova. La strategia dell’opossum (fingersi morto mentre tutti gli altri strillano) ha funzionato, ma ora non è più attuabile. Ora bisogna passare all’attacco e, in un certo senso, all’incasso, e non sarà semplice. Tanto per raffreddare gli entusiasmi, va ricordato il triste caso delle Marche, dove una sinistra pasticciona e inconcludente (si pensi al terremoto) è stata sconfitta da uno che andava alle cene in onore del Duce, e della marcia su Roma (“Giorno memorabile e indelebile”, c’era scritto sul menu insieme ad altre amenità del Ventennio). Ecco, questo per dire, a sinistra, che sarebbe meglio non rilassarsi troppo e cominciare a ripristinare qualcosa di simile a un lavoro culturale sul territorio, come si dice, cioè a difendere alcuni valori non negoziabili. Per non trovarci magari – dopo Salvini – la destra estrema burbanzosa e vincente.

 

Conte unico vincitore. E occhio ai 209 miliardi

Tutti i principali media e i loro commentatori riconoscono, alcuni obtorto collo, che l’unico, vero vincitore di questa doppia tornata elettorale (referendum più Regionali e Comunali) è, per la disperazione della Trimurti (Giornale, Verità, Libero), il disprezzatissimo “Giuseppi”, vale a dire il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e con lui il suo governo giallorosa che, a dispetto di tutti gli aruspici malauguranti, finirà regolarmente la legislatura.

Ma c’è un altro partito, che esiste da decenni in Italia, ma di cui prudentemente si parla poco o preferibilmente nulla, che esce vincitore da queste elezioni ed è il più forte di tutti: il partito degli astenuti. Prendiamo il referendum. Il quesito era semplice e tale da attizzare l’attenzione dei cittadini: mandare a casa, per la prossima legislatura, un bel numero di deputati e senatori. L’affluenza è stata del 53,84%, 12 punti in meno rispetto al referendum del 2016 (65,47%) che pur poneva questioni molto più complesse. L’affluenza alle Regionali di quest’anno (57,19%) è superiore a quella delle Regionali del 2015 (53,15%), ma si avvale del balzo dell’affluenza in Toscana (quasi 3 milioni aventi diritto al voto) dove quest’anno si giocava la partita decisiva per la tenuta del governo del Paese. Nel 2015 quando questo problema non esisteva andò a votare solo il 48,3% mentre questa volta si è arrivati al 62,6%. Interessante è l’alta affluenza, sia pur sempre in termini relativi, alle elezioni comunali dove ci si attesta al 66,19% confermando, con un lieve margine di aumento, il dato del 2015. E si capisce il perché. Il voto nei Comuni e soprattutto nei piccoli Comuni è l’unico autenticamente democratico perché il sindaco è permanentemente sotto il controllo dei concittadini, poiché vive fianco a fianco con loro. Come esce di casa c’è sempre qualcuno che gli può contestare ciò che ha fatto o piuttosto non ha fatto.

Il partito degli astensionisti è contro la politica in generale? Non credo. È contro la democrazia parlamentare? Forse. Sicuramente è contro una democrazia trasformatasi da decenni in partitocrazia, cioè in strapotere del tutto illegittimo di queste lobby di cui la nostra Costituzione si occupa in un solo articolo, il 49 (“Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”) e che invece ha finito per occupare abusivamente gli altri 138, infiltrandosi nel Csm, nella Magistratura ordinaria, nella burocrazia, nelle Forze Armate, nell’industria pubblica e anche privata, negli enti di Stato e di parastato (la Rai-tv è solo l’esempio più noto e clamoroso), nei giornali, negli enti culturali, nei teatri, nei conservatori, nelle mostre, nelle banche, nelle grandi compagnie di assicurazione, nelle università, giù giù fino ai vigili urbani e agli spazzini.

Questa avversione nei confronti dei partiti è confermata anche da chi in questa tornata a votare ci è andato turandosi montanellianamente il naso. Tutti i partiti, dal Pd alla Lega ai Cinque Stelle a Forza Italia, hanno perso, solo il partito di Giorgia Meloni ha guadagnato in consensi. Prendiamo la Toscana: il Pd ha perso 12 punti, è stato salvato dalle cosiddette liste civiche cioè da cittadini che al Pd non credono più affatto, ma non si sentivano di consegnare quella regione e forse il Paese a Matteo Salvini. Non è stato quindi un voto a favore, ma un voto contro.

Mai come in questa occasione si è potuto osservare come la democrazia partitocratica sia fatta di accordi e accordicchi in funzione del proprio potere personale o di lobby senza alcuno sguardo all’interesse nazionale. L’esecutivo Conte, che ha governato bene, si è salvato perché i partiti si sono paralizzati a vicenda. Poi ci sono naturalmente le eccezioni, il governatore del Veneto Zaia è stato riconfermato perché evidentemente ha governato bene soprattutto durante l’emergenza Covid e quello della Liguria Toti per lo stesso motivo e anche perché, coadiuvato dal sindaco di Genova Marco Bucci, ha affrontato con efficacia le conseguenze del crollo del ponte Morandi che noi “stranieri” abbiamo sempre chiamato il “ponte sul Polcevera” e i genovesi “ponte Saragat” perché fu inaugurato dall’allora presidente della Repubblica e che ora si chiamerà ponte San Giorgio. E questo apre uno spiraglio di speranza per il nostro futuro che però dipende molto, almeno nell’immediato, da come verranno utilizzati i 209 miliardi che l’Europa, l’inutile Europa secondo i cretini “sovranisti”, ci ha generosamente concesso: se cioè finiranno nelle fauci dei soliti noti che le hanno già aperte o verranno distribuiti con intelligenza e soprattutto equità sociale.

 

Trump e la Corte Con una nomina non abuserebbe del suo potere

Caro Fatto, mi chiarite l’importanza della Corte Suprema negli Stati Uniti? Cosa sposta? E soprattutto: in questo caso Trump sta abusando del suo potere per condizionare la politica futura, o è normale grammatica?

Ludovico Maggi

 

Non credo, gentile lettore, che Donald Trump stia abusando del suo potere. Lui e i Repubblicani stanno usando un potere che costituzionalmente hanno: il presidente designa i giudici e il Senato, dove i Repubblicani sono maggioranza, ne conferma, o meno, la nomina. Questa volta, la questione è politicamente calda perché si sta per sostituire un giudice dichiaratamente liberal con un giudice dichiaratamente conservatore, che Trump avrà certamente cura di scegliere relativamente giovane (il mandato è a vita).

Con sei giudici conservatori e tre progressisti, l’orientamento politico della Corte Suprema sarà così determinato per lungo tempo, prevedibilmente per almeno tutti gli anni Venti.

Perché dunque i Democratici gridano all’abuso? Perché nel 2016, quando a febbraio morì il giudice Antonin Scalia, conservatore, i Repubblicani, che erano in maggioranza al Senato, non misero neppure in discussione, per 11 mesi, la conferma del giudice designato da Barack Obama, che pure aveva proposto un moderato e non un liberal, volendo lasciare la scelta al suo successore. Ora, invece, vogliono procedere in tempi strettissimi, avendo nel frattempo cambiato la procedura, cosicché basta la maggioranza semplice per andare fino in fondo (prima erano invece possibili azioni di ostruzionismo). E perché è così importante l’orientamento politico della Corte Suprema? La legislazione federale negli Stati Uniti è molto più snella di quella italiana e alcuni diritti, anche molto importanti, sono affidati a sentenze della Corte più che alla legge. È il caso dell’aborto, che è legittimo solo in base a una sentenza della Corte, in assenza di una legge: una sentenza della Corte di segno opposto potrebbe renderlo fuorilegge o restituire la materia agli Stati. Ed è il caso della riforma sanitaria, l’Obamacare, che l’Amministrazione Trump non ha avuto la forza politica di smantellare, ma che una sentenza della Corte Suprema potrebbe azzerare.

Giampiero Gramaglia

Mail box

Patti di desistenza necessari per vincere

Mi domando sinceramente dove Zingaretti e Di Maio abbiano visto possibile che un’alleanza più organica avrebbe potuto risultare più vincente in questa tornata elettorale. A me, al contrario, la questione pare molto più spinosa: Sansa, in alleanza, è stato abbandonato a se stesso e perciò ha perso in Liguria; Emiliano, senza alcuna alleanza, ha vinto e solo il cielo sa per quale ragione. Forse mi sbaglierò, ma mi pare che l’unico modo per M5S e Pd di far vincere un candidato insieme sia, con patti di desistenza, a livello comunale e regionale. E sto pensando a Roma, l’anno prossimo, dove i due partiti dovranno convergere su Virginia Raggi e in cambio il M5S dovrà dare qualcosa ai dem, ovvero garantire punti programmatici o assessori. Accettare le proprie differenze, ritengo sia il miglior modo per reggere le prossime tornate elettorali locali, poiché in questo modo entrambe le fazioni potranno dimostrare che il loro obiettivo non è far vincere le persone, ma le idee e il ben amministrare.

G.C.

DIRITTO DI REPLICA

Gentile Direttore, scrivo in relazione all’articolo pubblicato sul Suo giornale il 19 settembre, dal titolo “Siete amici del Cinema America? Addio sponsor”, per esprimere il mio disappunto e meraviglia in merito alle dichiarazioni attribuite alla Presidenza Anec Lazio, che non ha mai pensato di porre “veti”, né assoluti né relativi, nei confronti di chiunque e tantomeno per le ragioni rappresentate nell’articolo, ad una ipotesi di sponsorizzazione né ha mai indugiato in atteggiamenti di “ripicca”. Eventuali infelici espressioni, ove davvero pronunziate da soggetti non riconducibili direttamente alla Presidenza ANEC Lazio, che è l’unica ad avere poteri di rappresentanza dell’Associazione, non potrebbero che essere chiarite o rettificate dal diretto interessato. Per quanto mi consta, nell’articolo a firma di Tommaso Rodano, figurano diversi errori uno per tutti, quando si cita Mario Lorini, che è Presidente Anec nazionale, come se fosse invece Presidente della Sezione del Lazio.

Piera Bernaschi Presidente ANEC Lazio

 

Gentile dott.ssa Bernaschi, faccio fatica a comprendere il senso di questa sua rettifica che non rettifica. L’articolo riporta le parole del segretario di Anec Lazio, Massimo Arcangeli. Che parla di un veto “assoluto e totale” per chi collabora con il Cinema America. Arcangeli sostiene di averne parlato con “la sua presidenza”. Noi citiamo come suo referente il presidente nazionale di Anec, Mario Lorini, non lei. Ci sbagliamo? Non sarebbe il caso, piuttosto, di prendere le distanze dalle parole gravissime di Arcangeli?

Tommaso Rodano

 

Su indicazione del Sottosegretario di Stato onorevole Alessio Villarosa, vi chiediamo di replicare all’articolo “Banche, i truffati aspettano 18 mesi di annunci e misteri” del 14 settembre 2020, a firma di Alessio Mannino. In risposta all’interrogazione “Erogazioni del Fondo Indennizzo Risparmiatori”, resa lo scorso 10 settembre nella Commissione VI della Camera dei Deputati, il Sottosegretario di Stato ha precisato quanto segue: “Al 9 settembre 2020 le domande FIR istruite da parte di Consap al 2° livello sono n. 38.288 con esito di proposta di accoglimento per la Commissione tecnica del FIR, per un totale di indennizzi pari a circa 486 milioni di euro. Le domande convalidate dalla Commissione Tecnica sono pari a 780. Si ricorda che la norma istitutiva del FIR predispone una dotazione del Fondo di 525 milioni di euro per ciascuno degli anni 2019, 2020 e 2021. Rientriamo perfettamente nell’arco temporale di riferimento e non sussistono ritardi. Si ricorda, altresì, che i termini per la presentazione della domanda, inizialmente fissati al 18 febbraio 2020 e successivamente estesi al 18 aprile, sono stati ulteriormente prorogati dal decreto-legge del 17 marzo 2020 n. 18, al 18 giugno 2020, su istanza delle stesse associazioni di risparmiatori ed a causa dell’emergenza Covid-19. Nel pomeriggio della data odierna è stata convocata una riunione con i membri della Commissione Tecnica. In tale sede il Governo chiederà:

a) di avviare, nei successivi giorni, la procedura di bonifico delle domande convalidate dalla Commissione Tecnica;

b) di indennizzare l’importo del 100 per cento.

Infine, in merito allo stanziamento di 1,5 miliardi di euro a cui fa riferimento l’articolo in oggetto, si precisa che: “In applicazione dell’articolo 1, commi 493 e seguenti, della legge 30 dicembre 2018, n. 145, lo stanziamento di bilancio per ciascuno degli anni 2019, 2020 e 2021 del capitolo n. 7604 “Fondo indennizzo risparmiatori”, è pari a 523,8 milioni di euro, sia in termini di competenza che di cassa. Le risorse dell’anno 2019, oggetto di conservazione in conto residui, sono state trasferite al funzionario delegato di Consap spa utilizzando interamente lo stanziamento di cassa dell’annualità 2020 e sono quindi disponibili. Le risorse in conto competenza autorizzate normativamente per gli anni 2020 e 2021 sono iscritte in bilancio.” Siamo disponibili per ulteriori ed eventuali delucidazioni. Un cordiale saluto.

Segreteria sottosegretariato di Stato del MEf

 

Più di 38mila domande accolte per un valore di 486 milioni di euro d’indennizzi è esattamente quanto è stato scritto nell’articolo, riportando una dichiarazione del sottosegretario Villarosa. Quanto ai 523,8 milioni che non risultavano alla relazione del servizio Bilancio del Senato a marzo, ora sappiamo che sono a disposizione di Consap. Quel che a tutt’oggi non si sa è quando saranno erogati i rimborsi ai risparmiatori truffati.

A. M.

De Gasperi creò Andreotti proprio nei sotterranei del museo egizio di Torino

Qui al Fatto hanno un recapito mail (lettere@ilfattoquotidiano.it). E siccome ci sono fan fedeli e disturbati che continuano a scrivermi come se avessi a disposizione, corta com’è la vita, una quantità enorme di tempo da perdere, ho pensato che tanto valeva farmi pagare per rispondere. Enjoy!

Caro Daniele, è vero che Andreotti venne creato da Alcide De Gasperi nei sotterranei del museo egizio di Torino durante un temporale elettrico negli anni 30 usando pezzi di ferrotranvieri uccisi dalla lupara bianca? È solo per chiedere. (Gianni Brogi, Siena)

È uno dei segreti meglio custoditi della Repubblica. In pochi ne erano al corrente: Enrico Mattei, Mauro De Mauro, Ettore Maiorana (che mise a punto le apparecchiature), Mino Pecorelli, Salvo Lima, Aldo Moro. Non so dove hai preso questa informazione, ma da oggi, fossi in te, mi guarderei costantemente le spalle. Inoltre cambierei Paese al più presto, come ho fatto io, su consiglio di Giannuli. In bocca al lupo.

Se una ragazza ti fa un pompino, ma tu non lo riprendi col telefonino e non lo metti su TikTok, chi può dire che il pompino sia davvero accaduto? Vorrei parlarne con la prof di filosofia. Non è un a priori, giusto? (Paolo Bavestrello, Rapallo)

No, caro Paolo, non lo è. L’a priori è un giudizio non ricavato dall’esperienza, ma formulato per deduzione. Sarebbe un a priori se tu, dalla posizione della ragazza rispetto a te, e dall’apertura della sua bocca, avessi dedotto un pompino inesistente, ricavandolo dalla tua idea di pompino (pompino trascendentale). Come saprai sicuramente, la pratica del bukkake (sesso di gruppo in cui più uomini in piedi eiaculano a turno o insieme in faccia a una donna inginocchiata, in genere dopo che questa li ha ciucciati) compare per la prima volta nei film porno giapponesi degli anni 80 per aggirare la censura di Stato sui genitali: invece di filmare la causa (il cazzo pulsante), i registi furono costretti a concentrarsi sull’effetto (lo sperma sul volto e sulla bocca delle attrici), secondo la lezione di Kurosawa (i ciliegi in fiore come metonimia della primavera). La conseguenza fu che tutto il mondo maschile risolse d’emblée il dilemma dell’a priori, in cui anche tu sei incappato, e che ti precede: la sborra in faccia è l’elemento probante che dà validità interiore all’affermazione “mi ha fatto un pompino”, trasformandola in un giudizio sintetico a posteriori. In altri termini, non è necessario riprendere il pompino con lo smartphone per avere la certezza che il pompino è davvero accaduto; ma se metti il filmato su TikTok ci fai una barca di soldi, idiota. Una cosa che Kant non aveva previsto. (Kant non aveva previsto tante cose, per esempio il phon: figuriamoci TikTok).

Sto cercando di battere il record mondiale di orgasmi consecutivi maschili, e mi sto masturbando da diciannove ore. Potresti aiutarmi? Ho bisogno di cose sporche cui pensare per non perdere l’erezione. Sono già arrivato alle zebre lesbiche con strap-on. Altre idee? (Riccardo Nisticò, Catanzaro)

La prima cosa che mi viene in mente è due tabaccaie di Fellini bondage, versione hentai futanari (donne con anche i genitali maschili). Scusa un attimo. Eccomi di ritorno: era un’immagine così eccitante che sono venuto in tre secondi. Dicevamo? Ah, sì: il tuo record. Be’, non voglio impedire ai lettori il piacere di contribuirvi con le loro fantasie masturbatorie preferite. Scrivetemele qua, gente: non conosco modo migliore per sfruttare l’intelligenza collettiva della Rete, nuova cura per il cancro a parte.

 

Salvini & C.: che valle di lacrime

“Non rimpiango nulla, rifarei tutto”, dice Matteo Salvini, e come Edith Piaf di non je ne regrette rien

gli scappa da piangere. A chi gli chiede se non si sia per caso slogato una spalla, a furia di spallate al governo andate a vuoto (muy dolorosa

quella toscana) ritrova l’abituale ghigno di traverso ed enumera i tot consiglieri in più conquistati a vattelapesca, come un dc di una sottocorrente dorotea. Stacco.

Ecco Nicola Zingaretti, che celebra l’aver miracolosamente salvato la pelle annunciando non uno, non due bensì tre “cantieri” in confezione premio. Evocando così qualcosa che si apre ma non si chiude mai, tipo la metro capitolina. Stacco. Intercettata casualmente nella canicola di piazza Montecitorio l’onorevole Laura Ravetto coglie l’occasione per dolersi con chi, nel favoloso partito di Forza Italia, organizza “camini e caminetti, tavoli e tavolini” (e ci siamo capiti), e mai e poi mai che le facessero uno straccio di invito. Stacco. Su Skype il sottosegretario 5stelle Fraccaro compare così misurato, compito, disponibile, affabile, gentile che non si ha il cuore di chiedergli della “peggiore sconfitta nella storia dei 5stelle” (Di Battista). Del resto, transitando casualmente in piazza Montecitorio, l’onorevole Gennaro Migliore di Italia Viva esprime una tale soddisfazione per il “sette per cento conquistato in Campania”, che sarebbe una cattiveria interrompere un’emozione. Stacco. Attenzione attenzione, il presidente Conte comunica che i decreti Sicurezza andranno in Consiglio dei ministri, per poi affrontare l’iter parlamentare (ed essere approvati, se tutto va bene nell’anno del mai). E ora un’occhiata ai giornali. “Il declino dei populisti. Vincono il referendum ma perdono il paese (Domani

). “Zingaretti e Di Maio vice il nuovo incubo di Conte”. Sì, non si finisce mai di soffrire in questa valle di lacrime. È tutto per oggi. Abbiamo trasmesso il documentario: “Niente di nuovo sul fronte elettorale”.

Il legale Juve: “Vi portiamo anche gli altri”

La frase in sintesi suona così: “In futuro potrebbero venire da voi”. L’Università per stranieri di Perugia ha rischiato di avere tra i suoi futuri studenti più di un calciatore della Juventus. E per l’università umbra, in forte crisi di iscrizioni e di bilancio, poteva essere un’opportunità, anche sotto il profilo dell’immagine, da non lasciarsi sfuggire. A lasciar intravedere questo spiraglio al direttore della facoltà, Simone Olivieri, è l’avvocato Maria Turco durante una telefonata intercettata dalla procura umbra.

Durante le perquisizioni di ieri, gli investigatori della Guardia di Finanza hanno cercato ulteriori prove – oltre quelle ottenute con le intercettazioni – che l’esame di Luis Suarez sia stato “taroccato”. Sono stati analizzati i computer di Stefania Spina, incaricata della preparazione del candidato calciatore, e degli esaminatori, per verificare il passaggio delle tracce d’esame e altre comunicazioni. E secondo le prime indiscrezioni qualche riscontro è già stato trovato.

Ma torniamo alla conversazione tra l’avvocato Maria Turco e Olivieri, avvenuta prima dell’esame di Suarez.

Va sottolineato che gli inquirenti non l’hanno ritenuta una forma di pressione. Non è un caso, infatti, che Turco non sia indagata. Resta il fatto, però, che per l’università perugina si apre lo spiraglio di poter ottenere, in futuro, una serie di iscrizioni che l’avrebbero potuta portare dalla zona retrocessione – pochi iscritti e bilanci in picchiata – alla Champion’s league. Nel vero senso della parola.

Maria Turco è infatti uno storico avvocato torinese: da tempo gestisce molti casi che coinvolgono giocatori (e anche ex) della Juventus. Esperienza ventennale nel campo della giustizia sportiva, assiste la Signora nel processo “Last banner” dove sono imputati i principali capi ultrà bianconeri per una serie di estorsioni e la società è parte lesa.

Non è Maria Turco il primo contatto diretto tra l’università e personaggi legati alla società bianconera. Il primo a parlare con Olivieri è un perugino, una figura istituzionale legata all’ateneo, che non risulta indagato. È questo personaggio pubblico, sul quale per ora c’è riserbo, che spiega a Olivieri di essere stato contattato da un dirigente della Juve, il quale gli ha annunciato che la società bianconera intende acquistare Suarez. Poi avviene il contatto con l’avvocato Turco. E quel dialogo, avvenuto prima dell’esame, che lascia presagire la possibilità di future iscrizioni “eccellenti”. Ma senza metterle in connessione con la futura promozione del calciatore. A quel punto i finanzieri, su mandato dei pm Paolo Abbritti, Gianpaolo Mocetti e del procuratore Raffaele Cantone, allargano il raggio delle intercettazioni e iniziano ad ascoltare i telefoni di Spina e dell’esaminatore Lorenzo Rocca. Scoprono che l’intero corso online per Suarez dura circa 4 giorni e che si accelera per fissare la data dell’esame. A quel punto decidono di installare delle microspie nella sede dell’esame. Che registrano integralmente in ambientale ascoltandolo in diretta. Registrano anche altri esami che dimostrano il confronto tra la prestazione di Suarez e quella degli altri candidati. L’esaminatore gli mostra in sequenza 4 immagini e Suarez spiega cosa vede. E nel suo italiano, in una prova che dura soltanto una dozzina di minuti, declina ogni verbo all’infinito.